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sca Rita Rombolà

SUL TRENO

EDITRICE GDS

sca Rita Rombolà “Sul treno”©EDITRICE GDS

EDITRICE GDS

di Iolanda Massa

Via Pozzo, 34

20069 Vaprio d’Adda (MI)

tel. 02 90970439

e-mail: [email protected]

Illustrazione in copertina da pixabay: railway - station - 619082

Progetto copertina di ©Iolanda Massa

Tutti i diritti riservati.

Il romanzo è frutto della fantasia dell’Autore. Ogni riferimento a fatti, luoghi e/o persone realmente esistenti e/o esistiti è puramente casuale.

Alle Forze dell’Ordine, soprattutto ai Corpi Speciali, che difendono le donne dai soprusi, dai maltrattamenti, dalla violenza e da molte altre (sempre troppe) realtà negative.

NOTA DELL’ AUTRICE

Può una ragazza che si ha seduta di fronte, in treno, suscitare, provocare qualcosa? Può, attraverso o per mezzo del suo profumo, colpire non tanto le narici in senso fisico quanto “insinuarsi” nel cervello o forse in qualche parte della mente che recepisce anche gli odori?

La storia raccontata in questo libro sembra voglia rispondere a queste e ad altre domande. SUL TRENO è forse un romanzo breve o una sorta di racconto lungo, secondo il punto di vista di chi decide di leggerlo dal principio alla fine, andando fino in fondo allo svolgimento delle cose che conducono a un capolinea, proprio come i treni che hanno un ruolo piuttosto importante in tutta la vicenda.

Il protagonista è una persona di sesso maschile, con i suoi molti dubbi, i suoi perché, con la sua ricerca un po’ connaturata al carattere. Le risposte ai suoi dubbi e ai suoi perché spesso non esistono o, se esistono, il più delle volte sono non esaurienti o per niente esaustive; dubbi e perché incentrati sulla donna, sull’essere di sesso opposto così controverso, pieno di contraddizioni, misterioso ed enigmatico a un tempo per l’uomo: da sempre e ancora oggi, forse maggiormente oggi che in altre epoche del mondo o della Storia, tanto che un doloroso rimosso della coscienza maschile si accumula negli angoli più oscuri e meno esplorati del subconscio concentrandosi sempre più e finendo per esplodere anche all’improvviso in sentimenti ambigui e distorti quali l’odio, il disprezzo, la violenza psicologica e fisica senza una ragione precisa e, non in ultimo, anche l’assassinio e l’omicidio rituale.

Due nomi spiccano, si alternano e finiscono per unirsi felicemente: il nome di lui, Daniel, un poliziotto appartenente alle Forze Speciali di polizia; quello di lei, Lidia, una studentessa dell’Accademia di Belle Arti.

SUL TRENO è metafora del viaggio interiore che trova perfetto riscontro in quello esteriore. Un viaggio nell’universo femminile visto un po’ da un’ottica maschile, che si sforza di capire la frattura insanabile fra i sessi, l’opposizione, spesso marcata, fra due realtà e due visioni di genere che dovrebbero, invece, essere unite e vivere in gioiosa armonia.

Si da molto spazio ai paesaggi meravigliosi dove il mare soprattutto è una specie di entità naturale veicolante ricordi, sensazioni, emozioni e portatore di magia, di purezza, di innocenza infantile. Storia d’amore un tantino strana nella quale Daniel rincorre Lidia dietro l’invisibile scia del suo profumo percependola come l’archetipo del femminino (l’eterno femminino) smarrito dai più, dimenticato quasi del tutto dall’uomo moderno. E come ogni storia d’amore, romantica, rapporto genuino, sincero e particolarmente sentito, riserva un finale lieto: un ritrovare e un ritrovarsi della memoria, del fascino, della leggenda, del sogno e della vita, di un innamoramento che coinvolge e attrae, con appena un pizzico di battuta intrigante, spazio di latente incognita lasciato all’immaginazione postuma. Ogni donna sa, e da sempre, quanto sia difficile essere capita e amata dall’uomo, e sa anche, con altrettanta esperienza e accortezza, quanto la sua personalità, la sua libertà e la sua stessa vita siano in pericolo nella vicinanza naturale e nella costante intimità con l’uomo. Ma se l’uomo, ogni uomo, è per natura uno “spietato idealista”, un cavaliere senza macchia forse (anzi di certo) tutto cambierebbe, e nella realtà ogni rapporto fra i due sessi come ogni storia d’amore giungerebbero, senza problemi (lisci come l’olio, sicuri come il vento), a lieto fine.

sca Rita Rombolà

I

Il treno Espresso “Freccia del Sud” si fermò ad una piccola stazione toscana. Vi salirono tre o quattro persone fra i quali un giovane non molto alto, pelato e olivastro, con lineamenti sottili ma aspri.

Mentre il treno ripartiva, il giovane si lasciò quasi scorrere lungo il corridoio alla ricerca di un posto a sedere o, quantomeno, di un angolo dove sostare, non troppo comodamente, per buona parte del viaggio. Ogni carrozza era piena, come sigillata da un’entrata ermetica che indicava silenziosamente, al ante, di andare oltre, o semplicemente aperta e accessibile ma comunque, altrettanto silenziosamente, indicante che lì non c’era alcun posto libero, anche se qualcuno non era seduto o non c’era affatto. Proseguì così fino al margine della carrozza, e si fermò. La porta era chiusa. Vi erano, qui, diversi posti vuoti tranne uno dei due accanto al finestrino, dove una ragazza sembrava sprofondata in una specie di sonno quasi innaturale, tanto che non udì il giovane che metteva, sulla cappelliera in alto, il suo pesante borsone scuro e borchiato di una similpelle dura e un poco cromata e poi si sedeva sull’altro posto accanto al finestrino di fronte a lei.

Il giovane si sistemò comodamente e respirò con sollievo, abbastanza soddisfatto per quella sistemazione proprio fortunata, visto che non aveva fatto in tempo a fare nessuna prenotazione di alcun tipo. E si dispose, così, per guardare tutto quel che si sarebbe presentato allo sguardo al di là del finestrino. Ma non vi riuscì per molto. Dopo un po’ dovette distogliere lo sguardo e rivolgerlo verso la ragazza perché sentiva, o meglio, percepiva un qualcosa di impalpabile e di sconosciuto. Forse un odore, forse un profumo che, stranamente, non stuzzicava o avvolgeva le narici ma sembrava piuttosto come arrampicarsi e farsi strada da solo attraverso i sentieri meno conosciuti e meno battuti del cervello. Eppure non c’era nessun odore , né nelle immediate vicinanze e né nell’ intera carrozza, né sgradevole e né gradevole. Davvero proprio nessun profumo. Odore o profumo. Profumo o odore. Allora da dove proveniva un tale strano e inconsueto profumo? Sì, profumo. Perché si trattava di un profumo. Era, sì, un profumo. Si

guardò attorno, girò lo sguardo dappertutto in una specie di indefinita ricerca vana, si tastò anche le narici con le mani, inspirò ed espirò più volte, respirò un paio di volte intensamente e profondamente e rimase sempre più stupito, preso nella rete della stranezza in sé, della cosa che ora lo teneva quasi avvinghiato costantemente come una coperta o un sacco a pelo tiene stretto stretto un corpo affidatogli per caso.

Era un profumo. Senza ombra di dubbio. Un profumo, sì. Ed era dolce e soave. Ed era nuovo. Era sconosciuto. Ed era indescrivibile a parole, volendo fare dei paragoni con profumi di fiori, essenze di piante o di frutti, di erbe e di foglie che sono presenti in natura. Era sì: dolce e nuovo. Di una dolcezza arcaica e conturbante. La dolcezza dei sogni ad occhi aperti. La dolcezza delle cose piccole e forse insignificanti. La dolcezza di realtà meravigliose perdute troppo presto, svanite in attimi di polvere soffiata via che forse non ritornano più. Era delicato e, allo stesso tempo, forte. Fine e corroborante. Era piacevole.

Sì. Come piacevole era il fascio, sottile e oltremodo nervoso, di sensazioni che promanava e suscitava.

E, ben presto, il giovane si accorse che ci stava bene “in esso” (bene nel respirarlo, nel sentirlo, nel percepirlo)… tanto bene da non volerne più “uscire fuori”.

Osservò la ragazza, perché forse sentì che non poteva farne a meno. Piccolina, minuta ma straordinariamente ben fatta. Aveva fianchi tondi e membra gentili. Una gonna lunga le scendeva fino alle caviglie e un maglioncino leggero di cotone le restava a fior di vita, lasciando scoperto un gingillino di ombelico e buona parte di un ventre bianco e liscio e armoniosamente prominente al pari di quello delle Veneri dei dipinti di artisti famosi del ato o di certe statuette antichissime rinvenute, in copiosi siti archeologici in tutto il Medio Oriente; qualcuna di terracotta o di pietra lavorata, diverse in candido alabastro ancora lucido e splendente e con un rubino o uno zaffiro, in perfetto stato, incastonato

proprio dentro l’ombelico. Esso risaltava ancora di più per la posa di incantevole abbandono in cui era sprofondata la ragazza. Tutto il corpo, in fondo, ne risentiva e ne era, anzi, come trasfigurato e rimodellato dalla posa non di certo consueta. Ciascun dettaglio non lasciava nulla al caso. Le mani, non penzolanti ma rilasciate e grevi. Il collo reclinato appena senza tuttavia appesantirsi o appesantire il viso, pallido ma dolcemente composto e calmo nella sua espressione priva di qualsiasi contorno sfigurante. Ella giaceva su un fianco, in modo quasi impercettibile, su una rotazione baricentrica che doveva essere di neanche un terzo della sua bisettrice normale. Eppure vi era torsione del torace e dei fianchi, delle gambe e del seno.

E la ragazza, pur sedendo senza rigidità e con naturale scioltezza, rimaneva sospesa tra cielo e terra: strappata e tuttavia trattenuta dalla legge di gravità.

Il giovane non capiva tutto questo. Ma lo presentiva senza capire dalle orme, nitide e un poco mosse, che il profumo lasciava sul terreno della sua mente.

Allora, all’improvviso, comprese e se ne accorse! Si accorse che era lei ad emanare quel profumo, o almeno, che lo stimolo, che esso produceva o faceva scaturire, proveniva da lei!

Sentì il bisogno, quasi disperato, di piangere e una specie di tenerezza infinita che gli lacerò il ventre e gli immerse il cuore dentro una pozza di acqua tiepida e sulfurea. Non aveva mai provato nulla di simile in vita sua, però se ne ricordava come di una visione o di un sogno avuti o vissuti chissà quando e chissà dove, forse nemmeno esattamente e proprio da lui.

Desiderava toccare la ragazza, almeno sfiorarla soltanto perché in questo modo avrebbe raggiunto il centro tangibile del profumo o il profumo avrebbe raggiunto il centro vitale del suo cervello… Così gli sembrava.

Toccarla, sì, o sfiorarla, appena. Un tocco leggero. Inavvertibile. Con la punta delle dita. Come si sfiorano i petali di una rosa nel vento o un drappo di seta nell’oscurità.

Lo sguardo si fermò su quel ventre irreale e umano, femmineo e ancestrale. E le narici respirarono intensamente il profumo per la prima volta. Poi il treno rallentò sempre di più e, infine, si fermò per una lunga sosta. Era entrato nella stazione di Roma Termini.

Come tutte le grandi stazioni ferroviarie del mondo, la stazione di Roma Termini era una babele di lingue e di razze, di colori, di rumori, di suoni. Gente che si affrettava, trascinandosi appresso un nugolo di bagagli di ogni formato e colore, per non perdere il treno, e gente che scendeva dal treno, con qualche bagaglio soltanto, calma o con una certa fretta misurata; gente che sostava sul marciapiedi dei binari con accanto montagne di valigie: molti carrelli in posa, una certa disperazione negli occhi e un’aria di delusione o di noia mortale. Rumori e rumori di qualsivoglia natura: forti, leggeri, montanti come un’onda di marea, attenuati da un paraorecchie o da cuffie e auricolari collegati ad uno smartphone o all’i-pod. Confusione e un certo caos: trambusto e movimento regolari, quasi monotoni.

Due giovani inglesi presero posto appena più avanti. Gli ultimi due posti liberi dal lato opposto furono occupati da due slavi: russi o polacchi.

Un se e un tedesco, o forse un austriaco, percorsero, in lungo e in largo, l’intera carrozza per poi ritrovarsi nei due posti avanti di fronte al finestrino.

Il treno si mosse con un lieve, quasi impercettibile, scatto e lasciò la stazione

lentamente come vi era entrato, quindi cominciò ad aumentare la velocità finché non si lanciò in una vera e propria corsa attraverso la campagna, una volta superati gli ultimi agglomerati di edifici di periferia e le costruzioni isolate che tratteggiavano la linea silenziosi e indifferenti.

I due inglesi parlavano molto chiaramente nella loro diffusissima lingua, spesso ridendo, spesso guardando oltre il finestrino qualcosa di indefinito che, ai loro occhi, appariva insolito o curioso. Tutti gli altri se ne stavano in silenzio, apparentemente senza alcun interesse preciso. Ma, ad un tratto, anche gli inglesi tacquero, e nel piccolo spazio si fece silenzio: un silenzio calmo e dilatante che forse attutiva o addirittura copriva perfino il rumore del treno. Le espressioni di tutti quei giovani uomini mutarono di colpo! Un senso remoto di sensualità, come una remora abissale, e di languore spugnoso nelle ossa dimenticati per sempre dalla razza umana; un ludibrio di giardini notturni ed esotici e di brezze morbosamente increspanti si erano insinuati in loro. Nella loro percezione: portati da un profumo che sembrava insieme di fiori conturbanti e di corteccia d’alberi lascivi ed estinti; di foreste, tropicali o nordiche, o di spiagge, di deserti di sabbia rovente o di valli pietrose con risonanze di echi lunari, di rocce o di città, paesi, civiltà sommerse. Lo sentivano… lo percepivano tutti allo stesso modo. Ma lo sentivano strisciare o annaspare, quasi con crescente disperazione, lungo le pareti del cervello.

Si voltarono guardandosi l’un l’altro. Si guardarono intorno… e gli occhi di tutti si posarono sulla ragazza.

Sul suo ventre bianco e liscio e prominente in modo armonioso come quello delle Veneri dei dipinti di artisti famosi del ato o di certe statuette antichissime rinvenute in copiosi siti archeologici in tutto

Il Medio Oriente. Allora il misterioso profumo giunse anche alle loro narici! Vortici di tempesta e di quiete si aprivano e si richiudevano all’istante. Ansiti e sussulti si mischiavano improvvisamente e velocemente.

Sofferenza e piacere si rincorrevano come predatore e preda o come in un semplice gioco, naturale e crudele, di fasi alterne. Si schiudevano orizzonti come fiori notturni cremisi che si nutrono dell’oscurità, a detrimento dei raggi del sole, o come tele di porpora incomprensibilmente insanguinate. Apparivano, sparendo, lampi di luce e tenebre fitte, volute lucenti e intersezioni di spazi chiaroscurali. E, al culmine di tutto ciò, si formarono paradisi impossibili o Eden possibilissimi ancora in mondi o in luoghi sperduti nella memoria: in cavità dell’anima e dello spirito, della mente o del cuore, enormemente più lontani dei primi e mai raggiungibili.

Percepivano tutti, lo si vedeva chiaramente dai loro volti, che sentivano il flusso o il bramito particolare di un sogno endemico. E udirono, distinto e lieve, il suono dell’acqua zampillante da una vasca in un posto ombroso e caldo, e i gemiti, profondi e sottili, di un dolore o di una gioia precipitati a capofitto… gemiti. Singulti. Singhiozzi. Sospiri o voci. Canti o richiami molto umani. Ma umanamente creduti, sentiti e visti soltanto nella follia più elevata e più pura.

Un groppo si formò nella gola di ciascuno, e il pianto premette alle porte degli occhi. Il desiderio, terribile e incomprensibile, di toccare la ragazza o di sfiorarla soltanto li colpì tutti nel medesimo istante: una frusta, radente e affilata, che produce un sibilo acuto e spinge ad evitarla muovendosi senza ragione.

Desideravano. Volevano. Sentivano. Come un bisogno irresistibile. Della psiche o del corpo, o della mente, la sua intimità e l’intimità con lei. Null’altro sarebbe più esistito per loro, tranne questo bisogno. E la ragazza? E la ragazza, intanto, era sempre immersa nel suo strano sopore di abbattimento o di abbandono, ignara di chi c’era o di cosa avveniva intorno a sé. Ignara di essere l’unica donna in mezzo a sette uomini in uno spazio, in fondo, così ristretto. Ignara del profumo che emanava e dell’effetto stranissimo che aveva su questi. Ignara perfino, forse, del luogo dove si trovava!

Non si mosse mai. Non aprì mai gli occhi. Non emise mai un qualche suono o un respiro più profondo.

Mentre il treno correva nell’agro romano superando resti colossali di acquedotto o di archi trionfali, ruderi immoti di glorie ate tramandate da secoli senza più memoria. ò il controllore, e quasi fuggì senza chiedere il biglietto a nessuno, colpito da quella atmosfera di sogno o di abbandono, di languore profondo o di delirio nascosto, o forse dall’espressione trasognata e folle di quei giovani uomini, o forse dalla posa della ragazza… o forse dal misterioso e micidiale profumo. Lo stesso fece il venditore di vivande, che spinse il suo carrello lontano e ò di corsa senza guardare nessuno e senza domandare, come era solito fare, se qualcuno volesse comprare qualche cosa.

E lo stesso fecero anche i veri o falsi mendicanti, che vanno su e giù per i treni chiedendo l’elemosina ai viaggiatori. Lo stesso i molti avventizi che percorrono le carrozze offrendo cianfrusaglie e merce varia ad un prezzo, a sentir loro, il più conveniente che esista.

Il giovane capì che tutti provavano e sentivano quello che lui aveva provato e sentito per primo. E capì anche che forse la loro ansia o il loro desiderio li avrebbe spinti a toccare o a sfiorare soltanto la ragazza.

Forse ciò stava per succedere… ma il treno si fermò. Erano giunti in stazione. I due inglesi si scossero come da un sonno di cento anni o come da un luogo senza tempo né ubicazione. Si alzarono e scesero dal treno.

Alla stazione successiva, che non distava più di dieci minuti dalla precedente, si scossero, dal loro sonno o dal loro luogo senza coordinate reali, i due slavi: russi o polacchi. Infine, fu la volta del tedesco, o austriaco, e poi del se, alle stazioni successive, ancora distanti non più di dieci minuti l’una dall’altra.

Rimase il giovane, solo come all’inizio. E la ragazza, improvvisamente, si mosse e si svegliò. Guardò oltre il vetro del finestrino. Un rosa di pesca vellutata le ritornava sulle guance, e un colore rosso di ciliegie polpose e mature le tingeva le labbra in modo naturale. Poi guardò il giovane, senza meraviglia o altro nello sguardo o sul volto. Il giovane le sorrise e disse: «Stavi male, ma adesso ti sei ripresa.»

«Sì. Sono partita all’improvviso senza curarmi affatto di me. Studio Arte Rinascimentale all’Accademia di Belle Arti di Firenze.»

Rispose la ragazza, restituendole il sorriso quasi apprensivo. Il giovane estrasse un pacchetto di sigarette da una tasca del giubbotto di jeans e offrì una sigaretta alla ragazza chiedendo: «Vuoi fumare?»

Ella assentì. Ma poi disse perplessa: «Ne hai solo tre nel pacchetto, non vorrei che poi rimani senza.»

«Oh non ti preoccupare.»

Fece il giovane agitando noncurante una mano. La ragazza allora prese la sigaretta, ed egli accese quella di lei e la sua.

«Ci ritornerai a Firenze?» Chiese il giovane un po’ timidamente. La ragazza sospirò. I suoi capelli, appena alla base del collo, avevano vaghi riflessi di rubino.

«Ci devo ritornare in giugno, per gli esami.» Rispose, tra una boccata e l’altra della sigaretta. Guardarono, insieme e in silenzio, il paesaggio che sembrava inseguire il treno in corsa.

«Sento già l’aria di casa.» Disse la ragazza piena di buonumore.

«Anch’io» assentì il giovane, e continuò: «io scendo al capolinea: a Reggio Calabria.»

«Io, invece, un po’ prima: a Vibo – Pizzo.» Quasi gli fece eco la ragazza. Guardarono dietro il vetro del finestrino: il mare azzurro che fuggiva in un attimo alla loro vista, le onde orlate di spuma bianca che si infrangevano lente sugli scogli, le spiagge di aggio quasi assolate dove gruppi di ragazzi giocavano al pallone al primo sole caldo di aprile, le case costruite fin sul mare a toccare l’acqua o a lasciarsi toccare dall’acqua salata. File di palmizi e di oleandri fioriti correvano alla stessa velocità del treno. I due giovani sentivano una vaga e incomprensibile nostalgia dei tempi in cui forse giocavano, ancora bambini, su spiagge simili rotolandosi nudi sulla sabbia calda nei giorni caldi e lunghi di luglio e costruendo castelli di sabbia estesi come fortezze e alti come cattedrali gotiche che poi un’onda, più ampia e più forte, buttava giù in pochi minuti, rendendo vana tutta la loro fatica e il loro ingegno di bambini per costruirli.

Il mare allora, in quei giorni lontani, portava ai loro cuori innocenti sempre un qualcosa di bello e di piacevole, insieme al vento caldo che giungeva dalla vastità azzurrina dell’orizzonte. Sì, un qualcosa di bello. Un qualcosa di atteso che trasformava le ore in momenti dilatati all’infinito. Il treno fu prossimo alla stazione di Vibo – Pizzo, e il giovane aiutò la ragazza a prendere dalla cappelliera in alto il suo bagaglio: un trolley medio di un marcato verde lime. L’accompagnò fino all’uscita e, dopo qualche attimo, disse, con un sorriso

spontaneo e casto: «Perché non mi dai il tuo numero di cellulare?... Così, tanto per risentire la tua voce. Solo per questo.»

«Perché? In fondo siamo due sconosciuti.» Rispose la ragazza un tantino sorpresa, alzando le spalle.

«Sì, è vero. Hai ragione.» Fece il giovane con un’ombra di rassegnazione su un viso quasi triste e incredulo.

Il treno si fermò e la ragazza scese. Sostò sul marciapiedi per salutare ancora il giovane, che stava dietro il vetro della porta della carrozza. Si udì il fischio che dava l’assenso alla partenza, e il treno si mosse quasi impercettibile.

Un vento di mare, come una brezza tiepida, agitò la gonna della ragazza e scompigliò i suoi capelli per pochi secondi. Con una voce flebile ma udibile, ella disse un numero di cellulare scandendo ciascuna cifra in modo chiaro e perfettamente comprensibile tanto da potersi ricordare anche e perfino a memoria; e il giovane prendeva immediatamente, da una tasca del giubbotto di jeans, il cellulare, vi scriveva il numero completo e leggibile perfettamente e lo memorizzava subito, scrivendo alla chiamata “nuova voce” il riferimento di appartenenza: SUL TRENO.

II

Quante volte aveva scorso la rubrica del cellulare e si era fermato alla “voce” SUL TRENO, alla quale vi era memorizzato questo numero: 347/5246081? Tante volte. Proprio tante volte, se si includono anche le volte in cui, prima ancora di arrivare al capolinea e di scendere, ancora sul treno seduto al proprio posto, non aveva fatto altro che scorrere la rubrica e fermarsi a quella “voce” e a quel numero. Diverse volte, forse troppe volte, nell’arco di un’ora o poco più. Con la voglia immutata di premere il tasto di collegamento e di sentire il segnale intermittente che indica lo squillare continuo dell’apparecchio… “È , è qualcuno sta per rispondere” oppure “Al momento è irraggiungibile, forse è spento o… inesistente”, no questo no. Questo mai.

Al pensiero che il numero potesse essere inesistente, il cielo sembrava oscurarsi anche in pieno giorno e il mondo precipitare in un’oscurità quasi senza speranza.

Erano ati giorni, e non aveva chiamato quel numero. Giorni normali, banali, anche insignificanti, compresi in una routine consueta come sempre. Erano ate settimane. L’aria si faceva calda e i giorni si allungavano a vista d’occhio. Quella licenza tanto agognata, da trascorrere nella sua città d’origine, se ne andava senza un istante solo di gioia o di una qualche soddisfazione da nulla. I momenti di relax erano pochi e mai del tutto partecipati o vissuti intensamente. E dire che aveva pensato a quel periodo di stacco dal lavoro già dalla fine dell’anno prima e aveva scelto la fine di aprile, con alcune settimane di maggio, proprio per averlo sempre vissuto come un lasso di tempo ideale per riposare un po’ e per non pensare a niente di particolare. La ragazza sul treno non era svanita come un sogno. Ma sembrava tutto così strano, così irreale. Il numero memorizzato nel cellulare la rendeva vera, esistente, in carne e ossa e da qualche parte. In fondo non era molto lontana. Si può dire che fosse a due i, ma… Perché non si era ancora deciso a chiamare quel numero, sempre lì sotto i suoi occhi? Cosa lo aveva trattenuto e cosa lo tratteneva? Era forse tutto così assurdo? Forse. E quando ripensava a quel suo viaggio in treno, alla ragazza, al suo profumo che era il suo odore naturale del quale forse lei era del tutto

inconsapevole, per qualche attimo appena non poteva non ritenere che era stato tutto un sogno, che forse si era addormentato poco dopo essere salito sul treno, dopo essersi seduto, ed aveva dormito per l’intero tragitto svegliandosi solo poco prima di scendere.

Qualche attimo appena… No, non aveva dormito, e il profumo non era stato un’illusione; lo avevano percepito anche gli altri, ne erano rimasti turbati anche loro.

Il cellulare squillò, ed ebbe come un brivido. Era un amico che lo invitava a fare insieme qualche ora di jogging l’indomani mattina presto sul lungomare. E l’indomani mattina, ata l’alba da una mezz’ora circa, si ritrovava in felpa leggera con cappuccio, in pantaloncini corti e in scarpe da ginnastica a correre tenendo un ritmo sempre costante, guardando ogni tanto il mare accanto a sé, alla sua destra, e a tratti socchiudendo gli occhi per un riflesso di luce solare un po’ troppo intenso che gli colpiva le pupille via via che il sole si alzava in un cielo blu senza nuvole.

Rallentò la corsa e si accostò all’amico qualche o più indietro.

«Cosa c’è, Daniel? Cosa succede?»

La voce dell’amico rompeva un silenzio ormai prolungato. Le sue domande risultavano non molto appropriate. O forse sì.

«Niente. Ho solo rallentato perché tu non rimanessi sempre indietro.» Rispose noncurante.

«No, non intendevo questo. Cosa ti succede? In tutti questi giorni, da quando sei arrivato, sei sempre stato come assente, forse preoccupato, o forse meglio, turbato. Non so se turbato sia la parola giusta, ma forse mi sembra la più appropriata per tentare di descriverti in questo momento. Dimmi cosa succede. Dimmi se ti è successo qualcosa. A me puoi dirlo, lo sai. Siamo amici da troppo tempo per non accorgermi del minimo cambiamento in te.»

Le parole dell’amico forse lo colsero un po’ di sorpresa ma, in un certo senso, doveva aspettarsele perché anche lui si era chiesto la stessa cosa. Cosa gli stava succedendo? Non tutti potevano capirlo o intuirlo. Però quell’amico sì: si conoscevano bene entrambi. Come potevano riuscire a nascondersi l’un l’altro un turbamento, un’agitazione o uno sbalzo di umore improvvisi?

Eppure non voleva raccontargli del suo viaggio in treno, della strana e inconsueta situazione e soprattutto della ragazza. Sì, di lei. Era un vero amico, e di lui poteva fidarsi forse più di se stesso (quante volte, in fondo, lo aveva fatto parlandogli di sé e ricevendo da lui dei consigli o almeno delle parole di comprensione e di conforto), ma questa volta non voleva, non voleva dirgli niente. Non si sentiva di parlarne… di parlare di un qualcosa che aveva dell’incredibile forse, che gli era capitato in treno. Ma no! Troppo assurdo, troppo incredibile. Una cosa del genere può capitare nelle fiabe o nei romanzi mica a un poliziotto quale lui era, con i piedi per terra, la testa sul collo… sì, d’accordo con un certo spietato idealismo, una voglia matta di sognare e di cambiare tutto e un senso del dovere e del lavoro molto spiccati, visto che non era poi un poliziotto comune, come tanti altri, ma un agente speciale con compiti talvolta difficili e di enorme responsabilità, e con incarichi delicati e di assoluta segretezza che, di tanto in tanto, gli venivano affidati per tentare di risolvere una questione spinosa o una faccenda complicata. No, non riusciva a raccontargli questo. Non se la sentiva proprio. Ma non poteva neanche mentirgli con la solita frase di circostanza del tipo: “Non è vero, ti sbagli. Non mi è successo niente e non mi succede niente. È tutto a posto. Tutto normale. Tutto come sempre”. Per cui si limitò a sorridere appena e a fare una lieve alzata di spalle. Al ché l’amico, ansante per la corsa, respirando forte forse per riprendere fiato o forse

sospirando in modo celato disse: «Mi sembri innamorato, Daniel. Ne hai tutta l’aria.»

E lui sgranava gli occhi sbalordito perché non poteva essere, perché non aveva nessuna ragazza, nessuna compagna, nessuna relazione con una donna e, in fondo, non conosceva nessuno di sesso femminile. E allora? Cosa rispondere? Usare un’altra frase di circostanza questa volta del tipo: “No, cosa dici? Sei impazzito? Da dove ti salta in mente? Non conosco nessuna donna”. Frase inutile, poiché a quell’amico lì non se la sentiva di mentire e, rispondendo in questo modo, avrebbe solo mentito, e l’amico se ne sarebbe accorto subito. Per cui rispose sicuro di sé: «Non lo so. Può darsi tu abbia ragione. Ma vedi: non conosco nessuna donna.»

E l’amico, stranamente perplesso: «Non ancora, Daniel. O forse la conosci. O magari stai per conoscerla.»

Un numero di telefono, memorizzato dal cellulare. Un numero di telefono cellulare, che forse non voleva dire niente. Che non diceva niente. Che magari era inesistente. Perché poteva darsi che la ragazza sul treno si fosse inventata quel numero. Quelle cifre le erano venute in mente, l’una dietro l’altra, così, sul momento, di colpo. Una ragazza incontrata per caso in treno, della quale non conosceva neppure il nome.

Una ragazza come un’altra oppure… Cosa aveva di speciale quella ragazza? Il profumo, l’odore e, a parte questo, cos’altro? Daniel si ricordò di averle offerto una sigaretta e che lei l’aveva accettata subito. L’aveva presa con disinvoltura e portata alle labbra con un certo charme respirandola piano e decisa, con abitudine misurata e soprattutto gustandola con un certo piacere che forse sapeva di voluttà. Una ragazza libera, emancipata. Una ragazza che sembrò, a Daniel, avesse in sé, più che un certo fascino, una sorta di mistero enigmatico e irraggiungibile come un rompicapo.

Oggi le ragazze sono tutte libere, emancipate. Sanno il fatto loro e vanno sicure per la loro strada. O almeno così è in apparenza. A volte sembra perfino che non abbiano bisogno dell’uomo: delle sue cure, della sua protezione e forse neanche della sua compagnia. Ma forse delle sue carezze sì, di fare l’amore con lui sì e di sbizzarrirsi nei riguardi del sesso… anche questo sì.

La loro libertà, la loro emancipazione dunque non consistono esattamente in ciò: di essere disinibite nel fare l’amore con il maschio, non avere paura del sesso e di viverlo, insieme al maschio, come una cosa del tutto naturale e piacevole… molto piacevole. Chissà? Cosa sapeva Daniel delle donne? Fin dove arrivava e dove si fermava la sua conoscenza nei loro riguardi?

Da bambino aveva avuto un buon rapporto con la madre. Fatto di affetto, di comprensione, a volte di intima complicità. Sorelle non ne aveva. Solo un fratello, più piccolo di lui di cinque anni. L’adolescenza non era stata particolarmente inquieta o turbolenta, ma era trascorsa piuttosto tranquilla senza problemi di sorta, turbamenti, sofferenza interiore o altro. Nei riguardi delle ragazze era stato sempre molto sensibile. Da loro si sentì attratto fin da ragazzino. Con qualcuna ci aveva trascorso dei magnifici sabato sera: in una rustica pizzeria con le pareti in pietra vulcanica e le luci in alto soffuse, oppure in riva al mare in una notte di luna crescente e di lampare tremolanti, che sostavano al largo per illuminare le reti gettate in mare dai pescatori o per spaventare oltremodo i pesci. Con qualcun’altra ci aveva fatto l’amore, dopo una lunga trafila di tentativi di intimità, nemmeno molto accentuata, di lunghi abbracci, di baci sulla bocca un po’ profondi e di carezze sul viso e tra i capelli.

Dapprima era stato come essere investiti in pieno da un uragano tropicale, che travolge senza lasciare scampo. Dopo, l’uragano si era placato da solo, con facilità e con dolcezza, lasciando due corpi acerbi e spossati sulla spiaggia di una laguna dalle acque verdi e trasparenti come iridescenti smeraldi. Il ricordo era rimasto vivo ma le sensazioni, col tempo, si erano attenuate lasciando il posto al lavorio confuso dell’immaginazione. Lui si era sentito come sprofondare giù e

giù e giù negli abissi del mare o della terra, in un luogo di vagiti e di singulti, di calore e di appagamento, di oblio e di non-ritorno. Lei si era, invece, sentita sollevare in alto, verso un cielo di stelle o di sogni, di silenzi notturni o di voci acute che fanno accapponare la pelle di voluttà e di febbre. Però tutto finiva lì.

E anche se fare l’amore era una cosa meravigliosa per entrambi, al termine l’incanto svaniva e si ritrovava con accanto una sconosciuta, che talvolta stringeva ancora tra le braccia e baciava ancora con ione sulle labbra o sui seni. No, non sapeva nulla delle donne. Anche se ci aveva fatto l’amore. Ci aveva convissuto. Era stato fidanzato. Non conosceva ciò che una donna è in realtà: la sua essenza, il suo essere, il suo essere vita ed ebbrezza, la sua sensibilità, le sue emozioni, le sue paure consce ed inconsce; insomma, tutto il suo universo. Sì, la donna è un mistero anche oggi. Il più grande, il più oscuro, il più profondo dei misteri, al di là dei luoghi comuni o di tutto quello che si possa dire o pensare. Per esempio, perché la ragazza sul treno aveva quel profumo? Mai percepito nelle donne con le quali aveva fatto l’amore. Eppure le aveva penetrate, era stato in loro, dentro di loro. Si era fuso con i loro umori e con le loro secrezioni, le aveva strette sempre più fortemente amandole con ione. Perché non c’era mai quel profumo in loro? C’era il loro odore, particolare e diverso in ciascuna, a volte meraviglioso, a volte irresistibile e stupendamente naturale che lo faceva star bene, che lo rendeva felice e soddisfatto. Ma mai quel profumo, quell’essenza, quell’odore… quello della ragazza sul treno.

A cosa poteva paragonarlo? Si sforzò di trovare un paragone. Sforzo inutile. Perché non lo aveva mai sentito prima. Ma forse, a un frutto, un fiore, un’erba, un profumo alla moda creato da uno stilista famoso e costoso più di un litro d’acqua nel deserto.

A un odore che aveva già percepito durante l’infanzia, al gusto di un cibo tipico, di una pietanza elaborata o di una bevanda di pregio. A un sentore nell’aria primaverile o estiva, ad un effluvio invisibile o visibilissimo. No, a niente. Inutile. Niente gli era mai stato e gli era simile. Sì, niente lo era adesso. Si ritrovava solo da alcuni anni. Non pensava a sposarsi. Forse, in fondo, non ci

aveva mai pensato seriamente.

Non si era mai immaginato con una moglie accanto. Non aveva mai pensato di vivere la gioia riflessa di una gravidanza: il ventre di lei che si gonfia sempre più ogni settimana, ogni mese e all’interno vi cresce il seme che lui ha gettato in una notte senza fine o molto breve. In momenti voluti di tenerezza e di intimità coniugali magari sul tavolo della cucina, o sul tappeto del salotto o in piedi contro il muro.

Fino a che quel seme bianco, lucente, appiccicoso e un po’ vischioso non si è trasformato in un bambino, che vuole nascere e sta già premendo per uscire dall’utero materno e scoprire la vita. Il parto, la nascita, la crescita, la responsabilità e l’emozione di essere padre, la preoccupazione di non riuscire ad esserlo o ad esserlo bene. Una famiglia. Sì, tutto quello che comporta una famiglia.

Era il suo lavoro, diventato impegnativo e anche rischioso, ad impedirgli di pensarci, o non ci pensava perché proprio non ci riusciva o non voleva?

Che strano avere tutti questi pensieri in testa. Ritrovarsi a pensare alla donna perché si era seduto accanto ad una ragazza sul treno. Oh sembrerebbe assurdo! Ma nel senso che questa ragazza era una perfetta sconosciuta e che non sapeva neppure il suo nome.

Provò ad immaginarne uno: forse Valeria, forse Graziella o Alessandra. No, nessuno di questi nomi poteva essere il suo. Si sorprese, ad un tratto, a domandarsi se disprezzava o amava la donna. Ci aveva fatto l’amore, certo, ma non era sicuro di averla amata. L’amore poteva essere, in definitiva, qualcosa di più completo e di più complicato del sesso. Non l’aveva mai disprezzata però, o peggio, odiata, o ritenuta un essere inferiore adatto solo alla riproduzione o

allevato e abbigliato per il piacere esclusivo dell’uomo.

Anzi, esattamente l’opposto. Con la sua Squadra Speciale aveva salvato tante di quelle ragazze dalla strada o dalle grinfie di uomini ricchissimi e senza scrupoli per i quali la donna non è altro che un pezzo di carne caldo con curve e fianchi prominenti, da sfruttare il più possibile e da buttare via come si getta un vestito usato o un elettrodomestico non più efficiente. No, lui aveva scelto di salvarla e di proteggerla la donna, dai molti pericoli di una società in rapido cambiamento e senza più punti di riferimento saldi.

Non era mai stato innamorato di una donna. Adesso lo era, o stava per esserlo come gli aveva detto il suo amico? Non lo sapeva. Ah stava vivendo una strana situazione interiore piuttosto complicata.

Forse da filosofo, da intellettuale, da scrittore non da uomo pratico che maneggia la pistola e la mitraglietta come fossero forchette o cucchiai per gli chef ed indossa il giubbotto anti-proiettile e il mefisto nero come se fossero il maglione o la felpa che ci si mette addosso ogni mattina con noncuranza e senza farci caso. Guardò ancora quel numero sul cellulare, ne soppesò quasi le cifre una ad una come se cercasse una risposta o una sorta di incoraggiamento psichico.

Il cuore gli pulsava veloce, i suoi battiti erano ritmati e leggeri: nessuna agitazione, nessuna frenesia; piuttosto una sensazione piacevole di attesa, un’apprensione che non causa dolore, che ingigantisce il flusso della vita, che non fa temere la morte come negli attimi in cui sei pronto a sparare, con il viso coperto dal mefisto nero, le mani guantate, gli anfibi ai piedi, un cuscinetto che preme sul torace e… 347/5246081

SUL TRENO.

Inesistente o occupato?

Premette il tasto, all’improvviso, senza più pensieri per la mente, e sul display apparve la dicitura: “Chiamata in corso”. Ecco che squilla… sì, sta squillando. Allora non è inesistente, e al momento neppure occupato. Uno, due, tre, quattro squilli. Al quinto una voce, di donna, di ragazza. La sua voce!...

La sua voce, la stessa. Nemmeno contraffatta dall’apparecchio o da interferenze nella linea o nel campo, come se la ragazza fosse lì, davanti a lui.

«Sì?...». Rispose una voce nitida, chiara, senza inflessioni. Forse solo un tantino sorpresa perché sul display del suo cellulare le era apparso un numero con la dicitura “Sconosciuto”. Ma aveva tuttavia risposto. Un sorriso lieve illuminò il volto di Daniel nell’istante in cui parlò per dire: «Sei la ragazza che era sul treno? Ricordi di avermi dato il tuo numero di cellulare quando sei scesa alla stazione di Vibo-Pizzo?»

Ed ella rispondeva subito, senza esitazione: «Sì, mi ricordo perfettamente. Ciao, come stai?»

III

«Ciao, sto bene. Mi chiamo Daniel, e tu?»

«Mi chiamo Lidia.»

Lidia. Non avrebbe mai immaginato questo nome per la ragazza sul treno. Comunque gli piacque. Forse un nome di sicuro adatto a lei, che evocava terre lontane e civiltà del ato; almeno così gli sembrò di primo acchito.

Chiuse gli occhi e si inebriò della sua voce che percepiva calda, flebile, forse da bambina o da ragazzina appena pubere.

«Sono i miei ultimi giorni di licenza, poi ripartirò. Perché non ci incontriamo? Ti va?»

E in quel “Ti va?” c’era un’attesa incredibile, la rottura di una situazione con strascichi ancora di assurdo e un certo residuo di stranezza che in fondo non creava più apprensione o turbamento.

«Sì, va bene, Daniel.»

Aveva pronunciato il suo nome per la prima volta(era stata lei a farlo per prima, mentre forse avrebbe preferito che fosse stato lui a dire per primo: Lidia). Fu un

modo carezzevole, una pronuncia inverosimile che parve un tocco increspante sulla pelle.

Daniel. Molte donne lo avevano pronunciato, alcune nei momenti più intimi di un amplesso prolungato, in un ansimare lieve e incontrollato, altre prima o dopo un bacio, un abbraccio, un voltarsi indietro o uno sguardo che non finiva più. Ciò nonostante il sentirlo da loro non era stato carezzevole come un tocco increspante sulla pelle.

Lei era da qualche parte, ma la sentiva lì e la percepiva come un’immagine o una figura che ritorna dal ato senza alcun mutamento, senza nulla di vecchio o di sorato. Lidia Lidia Lidia. C’era una terra o un regno, in Asia Minore, con questo nome. Lo si studia anche a scuola, in Storia.

A lui piaceva la Storia, specialmente quella antica.

«Possiamo incontrarci in riva al mare, su una spiaggia con la sabbia, i ciottoli, gli scogli e le onde che vi si infrangono su…» Continuava a dire con gli occhi chiusi. E lei rispondeva un sì ludico dentro il quale era racchiuso un tacito assenso alla vita e al suo fluire.

«Vieni tu da me o vengo io da te, Lidia?»

Non esitò un attimo, e rispose risoluta: «Vengo io da te, Daniel.»

Il giorno dopo si incontravano su una spiaggia con la sabbia sottile e bianca dove

si ammassavano sparsi, su tutto il litorale, ciottoli di ogni forma, dimensione e colore e onde tranquille e taciturne si infrangevano appena sugli scogli erosi, levigati e posizionati come vaghe e incerte sculture preistoriche. Quando la vide avanzare a piedi, ancora lontana, figuretta dai contorni indefinibili, fasciata quasi nella sua gonna lunga mossa un poco dalla brezza e una casacchina corta e leggera, con uno scollo ampio e rotondo, non ebbe più dubbi: capì di essere innamorato! Innamorato per la prima volta nella vita. Innamorato di lei.

Avanzava verso di lui facendo vela col braccio alzato per salutarlo o per farsi riconoscere. Ma egli la riconobbe subito, anche prima di quel gesto.

Aveva con sé uno zainetto bianco quasi minuscolo di quelli che portano tutte le ragazzine delle superiori, più perché trend e informale anziché per comodità. Le sorrise e la chiamò. Le andò incontro quasi correndo, e quando le fu di fronte non credette quasi ai propri occhi perché la vide cambiata, o almeno tale gli parve, in così poco tempo: era non più bella, ma di sicuro più carina e più attraente in un modo che non sapeva spiegarsi.

Si fermò a qualche o da lei perché sentiva incontenibile la voglia di abbracciarla, di stringerla a sé fino a farle anche male, per non lasciarla, non lasciarla…

«Lidia…» Disse per primo. E lei lo salutò con un sorriso, e gli tese una mano bianca, morbida e piccolina che egli strinse piano e con delicatezza.

Non sentì nessun profumo provenire da lei. Non percepì nessuna emozione nell’aria e nella brezza riconducibile a lei, che penetra nel cervello o nella mente, che mette in agitazione, turba e fa anche star male come sul treno.

Strano, no? Perché mai nessun odore, cattivo o buono, la circondava o la avvolgeva? In fondo non stette a domandarselo con insistenza. Lei era venuta, era lì, accanto a lui. Questo era importante in quegli istanti attesi e forse pregustati.

Era il primo pomeriggio di un giorno di maggio. Il sole splendeva in un cielo limpido senza alcuna nuvola, di un azzurro un po’ marcato e meraviglioso al pari di un mare che sapeva di canto, di fragranze mediterranee e stuzzicanti e di nenie che cullano in un dolce ristoro. eggiarono un po’ in silenzio sulla spiaggia solitaria, guardando l’orizzonte sfumato nell’azzurro, pensando a molte cose e a niente, sentendo la nostalgia di un attimo di tempo che si arresta, di voci mescolate alla risacca, di ore imprecisate prima dell’imbrunire e dopo il sorgere del sole.

«Mi chiamo Daniel Ripetti e faccio parte delle Forze Speciali della polizia di Stato. Sono qui, nella mia città di origine, per una licenza; ormai finita purtroppo.» Disse, senza enfasi o tono, spezzando il silenzio.

Lei lo guardò, negli occhi un riflesso di sole o di acqua cristallina. «Io mi chiamo Lidia Del Corso e… sai già cosa studio.»

«Sì, lo so.»

Il sole picchiava un po’, preludio di un’estate non lontana, e rilasciava in mare aperto scie di contrasti che, dalla riva, apparivano come sentieri senza direzione. Daniel avvertiva una sensazione di benessere interiore che si estendeva al corpo in ciascuna delle sue parti, e gli affiorò alla memoria un ricordo che non credeva di aver conservato intatto e lucido per tutto quel tempo.

Aveva poco meno di cinque anni, il fratello non era ancora nato. Insieme alla madre andava in spiaggia tutte le mattine molto presto(poco dopo l’alba), nei mesi di giugno e di luglio, perché a quell’ora non c’era ancora nessuno e potevano starsene in pace a godersi la spiaggia tutta per loro.

«La spiaggia è tutta nostra: nessuno che ci guarda e niente rumori molesti o schiamazzi.»

Diceva la madre, come se il mondo o le persone potessero ferirli e fargli del male. Il sole saliva lentamente da dietro l’enorme scogliera. La madre entrava in acqua e gli tendeva la mano per rassicurarlo. Appena l’onda lambiva il piede nudo, lui si ritraeva istintivamente perché la sentiva ancora fredda, nonostante i raggi del sole avessero già riscaldato la sabbia. Allora chiudeva gli occhi e respirava profondamente.

La mano di sua madre era sempre lì, rassicurante e forte. Avanzava verso di lei di qualche o, prima con un piede e poi con l’altro, e l’acqua all’improvviso non era più fredda: la sentiva, adesso, tiepida e poi sempre più calda; e intanto camminava e l’acqua saliva: dai piedi alle gambe e dalle gambe al torace. Era entrato in acqua, sicuro, e ora faceva un bel tuffo e con due bracciate raggiungeva la madre.

Nuotava da quando aveva due anni come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non c’era più bisogno che la madre lo sostenesse in qualche modo: in acqua era ormai un piccolo delfino che cavalca le onde e fende la resistenza dell’acqua senza difficoltà.

Insieme nuotavano a lungo e sotto costa, assaporando le carezze delle onde, il tocco caldo del sole e la bellezza del paesaggio. Era in quei momenti senza fine che si voltava verso la madre e le sussurrava nell’ebbrezza infantile:

«Com’è bello, mamma. Com’è bella l’acqua, com’è bello il sole, com’è bello nuotare.»

E la madre rideva e rideva e sollevava spruzzi d’acqua. E lui rideva e rideva e sollevava pure lui spruzzi

d’acqua piccini… Giocavano, solitari e sperduti, in una vastità di cielo e di orizzonte tutta loro, incuranti di tutto tranne che della loro presenza e del loro stare insieme. Nuotavano per un bel po’, poi arrivavano a riva, uscivano dall’acqua e correvano a stendersi sui teli spugna. Non occorreva quasi mai, se non rare volte, che asciugassero i loro corpi bagnati con l’asciugamano o altro: ci pensava il sole a farlo perché era più piacevole, faceva il solletico, ti avviluppava tutto e, in pochissimo tempo, non eri più bagnato.

La madre scioglieva i lunghi capelli neri e li scuoteva; la salsedine li rendeva più lisci e compatti. Un piccolo pettine d’osso sbucava dalla sua borsa: prima ravviava e pettinava quelli corti del figlio e poi i suoi, lunghi, neri e folti. Da quella grande borsa verde spuntava anche del pane fragrante, ancora caldo, imbottito di un salame scuro o di un formaggio molle che sapeva di pan di Spagna e di cioccolato; entrambi saporiti come un gelato o un dolce di Pasqua, e poi delle olive nere o viola, molli e lucide, e dei biscotti ricoperti da una glassa bianca al limone e punteggiati da scorzette di cedro o di bergamotto.

Che dolcezza mangiarli! Che bontà! Che gioia! Aveva sempre molta fame quando usciva dall’acqua e, insieme alla madre, divorava tutto, forse non proprio in un baleno ma quasi. E il sapore di ciascun cibo si fermava sul palato e lasciava in bocca una fragranza senza fine. Quando il sole cominciava ad essere un po’ alto (forse alle 10.00 o alle 11.00) andavano via.

La madre doveva iniziare la sua giornata di lavoro alla macchina per cucire, tra aghi e spillini colorati, cartamodelli di carta velina, spolette di filo di ogni colore e stoffe setose o ruvide. Era infatti sarta, e svolgeva il suo lavoro con pazienza e dedizione, forse mettendoci, talvolta, anche molta ione e un pizzico di creatività tutta personale che in questi casi non guasta mai; sì, ione e dedizione almeno quanto il marito ce la metteva per smontare e rimontare macchine, aggiustare e controllare automobili, moto, fiorini e furgoncini nell’auto-officina dove aveva sempre lavorato fin da ragazzo. Dove era stato finora questo ricordo? Perché non era mai ritornato alla memoria? Né in momenti terribili, né in momenti straordinari? Lo aveva cercato a lungo negli anni, ma non c’era più. Non esisteva. Come fosse sparito nel nulla. Come fosse stato inghiottito da un oblìo latente che divora nella più totale indifferenza e nella presenza più impercettibile. Era ritornato uguale, identico, lo stesso senza alcuna alterazione dovuta al tempo, al modo di sviluppare i pensieri e di connettere gli eventi propri di un adulto. Si era sentito bambino in quegli istanti. Aveva rivissuto, tale e quale, il tempo sognante e difficile dell’infanzia in estati calde e assolate, in albe appena accennate, in mattine scandite dal nuotare fra le onde del mare e il sapore di cibi endemici.

Non gli era mai successo, e capitava: mentre camminava sulla spiaggia di quello stesso mare ma insieme ad una ragazza della quale era innamorato e non sapeva perché.

«Corriamo un po’, dai.» Disse Lidia sorridendo.

Corsero, l’una accanto all’altro, molto vicini tanto che, a tratti, si sfioravano.

La sabbia era morbida e compatta, si riusciva a correre bene. Una corsa lenta, quasi a piccoli i, non l’andatura dello jogging, sempre uguale ma sostenuta, ma una specie di volo leggero con il sole negli occhi, la brezza marina sul collo e sul viso e davanti l’Infinito. Scambiarono qualche battuta del tipo: “Il sole è caldo” oppure”Corriamo ancora un poco” e “Arriviamo laggiù”, e infine si

fermarono. Lidia aveva un po’ di fiato, forse perché non era abituata a correre con una certa frequenza. Era anche un poco sudata, e a Daniel sembrò un cucciolo d’orso o di foca, vaporoso e morbido, che si crogiola al sole senza consapevolezza alcuna, nemmeno di sé.

Si sedettero sulla sabbia e per un po’ non parlarono. Davanti a loro, all’orizzonte, c’era la costa non molto lontana dalla quale partivano a volte lampi improvvisi o luccichii prolungati che sparivano senza lasciare traccia, forse in cielo o forse in mare.

Si vedeva che godevano in pieno di quegli elementi naturali che, in quei momenti, erano donati soltanto a loro. Il silenzio non era pesante o forzato. Quasi un dialogare nuovo e non comune. Lidia affondava le dita delle mani nella sabbia: a tratti la sentiva tiepida come l’acqua che ci si prepara per il bagno dentro una vasca; a tratti, invece, era calda, forse caldissima, e faceva un effetto di doloroso piacere sulla pelle mentre scorreva: grani sottili, tutti insieme, con un movimento svelto che lo sguardo non coglieva nemmeno.

«Dove hai mai visto un mare di questo colore?»

«In nessun posto, davvero in nessun posto del mondo. Neanche ai Caraibi o ai Tropici, perché ci sono stato e lo so.» Rispose Daniel sicuro, con una naturalezza e una spontaneità che avrebbero potuto contagiare il mondo intero.

«Un mare di un azzurro intenso che non sapresti definire. Colpisce subito l’occhio quando lo vedi per la prima volta arrivando da fuori, lo sai? E da allora non lo dimentichi più, anche se non appartieni a questa terra o non sei nato qui. Lo porti sempre dentro, se andrai sulle Alpi, in Tibet o sulle Ande e ci resterai per mesi.» Continuò, e fece un gesto ampio con il braccio come ad indicare qualcosa fra le onde.

«Si. Ma spesso non ti credono pur descrivendoglielo. Finché non l’hanno visto con i propri occhi. Allora cambiano subito parere e smettono di fare gli increduli. Mi è capitato un sacco di volte, anche con amiche che avrebbero dovuto credere senza problemi alle mie descrizioni.»

Daniel sospirò. In fondo era proprio così.

«Ho deciso di stare dalla parte dei buoni e non dei cattivi di questa terra. Forse ho voluto dimostrare, agli altri e a me stesso, che la nostra terra non è abitata, soltanto ed esclusivamente, da gente che opera nell’illegalità, che non rispetta le leggi dello Stato e che vive depredando e uccidendo nell’ombra. C’è anche tanto di buono in essa che va scoperto, capito e tutelato, e anche “qualcuno” che vuole vivere onestamente, vuole conoscere, apprendere ed essere un buon cittadino in uno Stato che garantisce tutti i diritti i quali sono propri ed esclusivi di una società abbastanza civile e forse anche in grado elevato.»

«Io ho deciso di studiare Arte Rinascimentale forse anche per tutto ciò che hai appena detto. I miei non volevano saperne. È scoppiato l’inferno in casa quando ho manifestato solo l’intenzione di andare a studiare a Firenze. Poi ho deciso che dovevo farlo, che ero sicura di me stessa e che dovevo lottare per ottenere il placet dei miei genitori. Sapessi quanto ho lottato, soprattutto contro mio padre, con quanta determinazione mi sono imposta. Mia madre mi ha ostacolata di meno, però non mi ha mai appoggiata nella mia scelta. In fondo credo che abbia sempre sostenuto mio padre. Alla fine ce l’ho fatta: sono andata a Firenze a studiare Arte Rinascimentale perché mi piace, perché voglio essere diversa, perché voglio cambiare, perché mi preme dimostrare a tutti che si può essere diversi, che si può cambiare migliorando se stessi e migliorando ogni cosa.»

Daniel aveva un’espressione gioiosa mentre l’ascoltava. Le si fece più vicino e, nonostante morisse dalla voglia di cingerle le spalle con il braccio, si trattenne;

con grande sforzo, ma seppe trattenersi. Aveva il confuso timore di rovinare tutto. Ma quanto era profondo e ionale il sentimento che provava per lei e che si era proprio rivelato completamente in quei momenti! Stringerla e baciarla non sarebbe bastato. Forse nemmeno fare l’amore e sentirla sua per sempre, liberamente e interamente. Possederla fisicamente non sarebbe stato né essenziale né importante perché ciò avrebbe avuto un limite, mentre non esisteva alcun limite nel suo profondo essere tutto proteso e tutto proiettato verso di lei e in lei: Lidia.

«Ti racconto una leggenda.»

E Lidia si voltò verso di lui e lo guardò. Guardò dentro i suoi occhi scuri. Lo guardò in viso. Ma era incerto il suo sguardo, e la sua espressione racchiudeva sentimenti enigmatici. Impossibile capire se provasse qualcosa per lui: se ne era innamorata, almeno un po’, se lo sarebbe stata fra non molto o in futuro.

Se lo considerasse un amico e basta. Un semplice conoscente o soltanto uno sconosciuto capitato per caso seduto al posto di fronte al suo durante un viaggio in treno. Con quell’inaspettato “Ti racconto una leggenda” forse Lidia voleva fargli capire che, dopotutto, non era un semplice conoscente o soltanto uno sconosciuto… Non si racconta una storia o una leggenda a chiunque o quantomeno a qualcuno di cui non ti curi nemmeno, che nemmeno vedi nonostante lo hai davanti.

Ed iniziò a raccontare una leggenda, mentre un gabbiano ò alto sopra le loro teste e si abbassò a pelo d’onda su quelle acque di un azzurro incantevole che non si dimentica più, e forse vi acchiappò un pesce che tenne stretto nel becco, allontanandosi con una serie di giravolte disegnate dalle sue splendide ali bianche.

«Un tempo lontano sorgeva, in riva al mare, una città potente, fiorente e bella. Le sue torri toccavano il cielo, e i primi raggi del sole, al mattino, e quelli del tramonto, poco prima di sera, le facevano scintillare di riflessi di ogni colore: blu, indaco, viola, azzurro, rosa, acquamarina perché erano di cristallo. Tutta la città era di cristallo, anche le sue porte e le sue piazze, i tetti e le stanze dei palazzi. La città aveva un re e il re aveva un’unica figlia, bellissima ma di facili costumi; dominata dalla lussuria più sfrenata. Infatti, non ava notte che non organizzasse, nelle sale segrete del suo palazzo personale, delle feste sfarzose nelle quali il vino e l’idromele scorrevano a fiumi, la musica era una costante dalle molte varietà sonore e i cibi un godimento senza fine anche per i palati più esigenti e raffinati. Queste feste, però, si trasformavano, a notte fonda, in vere e proprie orge delle quali si raccontava che la principessa si concedeva perfino a dieci uomini, l’uno dopo l’altro, in una stanza segretissima con le pareti e il soffitto neri trapuntati da miriadi di piccolissime stelle d’argento e un grande letto al centro coperto da un drappo di velluto nerissimo, sopra il quale non finiva mai di inventare nuovi giochi erotici che riuscissero a soddisfare le sue voglie d’amore incontenibili e quelle dei suoi amanti. Un santo camminava, da qualche tempo, per le vie della città benedicendo, risanando la gente dai suoi mali, facendo del bene e aiutando chiunque ne avesse bisogno. Il re lo stimava molto e lo teneva in gran considerazione. Egli era stato eremita nei boschi e aveva mortificato i desideri della carne con la disciplina interiore più dura, per cui non tollerava la condotta, lasciva e libertina, della principessa. Prese, così, a rimproverarla aspramente dapprima in privato e dopo, vedendo che ella neanche stava ad ascoltarlo, a deplorarla pubblicamente ovunque ci fosse un solo suddito ad ascoltare. La risposta della principessa fu soltanto una sonora risata.

Nessuno poteva permettersi di rimproverarla per alcunché: era libera di vivere la sua vita come meglio credeva. Ma se questo non sarebbe stato più possibile, allora si sarebbe vendicata in un modo terribile.

E così fece. Aprì le porte segrete della città: quelle che avevano le fondamenta nel mare, e le acque penetrarono all’interno inondando ogni angolo. La città venne sommersa interamente dall’acqua. E la leggenda dice ancora che si inabissò sul fondo del mare intatta, senza che alcun palazzo venisse abbattuto o danneggiato, e che si trova tuttora intatta in fondo al mare pronta a riemergere

quando due innamorati, sinceri e liberi, in riva al mare la evocheranno con il loro pensiero.»

Daniel sorrise e la guardò compiaciuto. Aveva ascoltato attento e apprensivo come un bambino. Forse in quel momento era ritornato davvero bambino. Forse accanto a lei, in quel caldo pomeriggio di maggio, lo era sempre stato, desiderando di restarlo ancora a lungo o magari per sempre Com’era volato il tempo. Che ore si erano fatte? Il tempo si era fermato? Era trascorso troppo in fretta, quasi in un baleno, o non aveva iniziato a scorrere? Era ato quasi l’intero pomeriggio. Il sole stava calando: rosso e rotondo come una sfera sospesa sopra le acque.

«Non conoscevo questa leggenda. Ma le storie o le leggende che menzionano il mare esercitano sempre un certo fascino su di me. Quella che mi hai appena raccontato è davvero unica. Dire che è solo bella è poco… Grazie Lidia. Hai un qualcosa di magico nel raccontare storie.» Disse Daniel incurante dell’ora, del tempo trascorso e del sole calante, di imbarcazioni che si avvicinavano o di voci che giungevano.

Lidia si alzò e lo guardò intensamente.

«È stato un bel pomeriggio. Lo ricorderò a lungo. Adesso devo andare. Il tempo è proprio fuggito via senza che ce ne accorgessimo.»

E lo abbracciò con dolcezza, sfiorandogli una guancia con la punta delle labbra in un bacio accennato appena e già inesistente.

«Aspetta…» Riprese come ricordandosi di un qualche pensiero o idea che aveva

dentro. Si chinò e scelse due ciottoli arrotondati, bianchi e levigati, estrasse un pennarello dallo zainetto, vi scrisse qualcosa su e ne porse uno a Daniel, come se gli porgesse un fiore pregiato o un oggetto d’oro.

«Vi ho scritto su il tuo nome, e sull’altro vi ho scritto il mio. Conservalo, come farò io, in ricordo di questo pomeriggio trascorso insieme su questa spiaggia.» Detto ciò, si voltò per allontanarsi.

«Ti telefonerò ancora Lidia. Ci vedremo ancora, vero?» Chiese Daniel stringendo fra le mani il ciottolo bianco.

«No, Daniel. No.» Fu la risposta laconica quanto risoluta di lei. Talmente risoluta e inaspettata da lasciarlo quasi attonito tanto che non riuscì ad obiettare, a dire qualcosa, anche una sola parola, mentre la guardava allontanarsi dalla spiaggia per raggiungere la strada poco distante dove, probabilmente, aveva parcheggiato la macchina. Nelle mani si ritrovò un ciottolo bianco, che rigirò un paio di volte, prima di decidersi a leggere quel che vi era stato scritto su con un pennarello azzurro scuro resistente all’acqua. “Lidia”.

Questo nome soltanto. Un nome soltanto.

IV

Lidia aveva detto no. Una risposta che non riusciva a capire. Un no, un no e basta. Perché? Perché non voleva che le telefonasse ancora, che si incontrassero ancora? Aveva forse detto o fatto qualcosa, quel pomeriggio, che l’aveva offesa? No, proprio no. Non gli parve. E anche se rimuginò e scavò nella memoria, non riuscì a trovare il benché minimo indizio di un suo comportamento sbagliato o di una sola parola inopportuna o inappropriata.

Erano stati bene insieme. Il tempo era volato. Il paesaggio li aveva quasi viziati. Lidia si vedeva a un miglio di distanza che si sentiva a suo agio e piuttosto disinvolta. E se proprio non scoppiava di felicità, come si suol dire, almeno non era stata triste o malinconica. Perché allora aveva subito risposto no? Detto no senza esitare? È chiaro che di lui non era innamorata. Comprensibilissimo. Non poteva pretendere che si fosse innamorata, al primo colpo, di lui come lui si era innamorato di lei. Per lui era stato tutto così inspiegabile, improvviso e particolare; forse a causa del profumo che aveva percepito in treno, perché mai e poi mai gli era successa una cosa del genere con una donna. Di una donna, in realtà, non ne conosceva per niente il profumo. Nemmeno quando faceva l’amore lo percepiva. E dopo non ricordava niente di una secrezione, di un umidore che le narici avessero catturato. Nessun odore femminile si portava addosso e niente, men che meno, che si trasformasse in profumo e rimanesse a lungo o si dissolvesse nel giro di pochi secondi.

Con Susanna si erano amati sionatamente. Era bella, alta, longilinea. Una donna perfezionista e decisa, granitica e inflessibile come le montagne della sua terra, la Val d’Aosta. Aveva pensato di sposarla perché, in fondo, non c’erano mai stati contrasti o litigi fra loro due. Lei si rifugiava nelle sue braccia calde, forti, solari e si avvolgeva, come un gatto bisognoso di carezze, in quella sua pelle un po’ scura che forse non si era mai esposta veramente a inverni rigidi e a nevicate spettacolari. Mai, nemmeno allora, in momenti di intimità lenta e assaporata, un profumo di donna che fosse la sua propria essenza gli rimaneva sulla pelle, anche impigliato, perché no?

Catturato, trattenuto, di cui poter sentire il peso o la leggerezza, il mescolarsi incerto e corroborante con il suo, maschile ed energico, forte oppure no.

Si erano lasciati dopo poco più di un anno anzi, per l’esattezza, era stata lei a lasciarlo. Ad uscire dalla sua vita senza neppure una spiegazione qualsiasi o un saluto anche formale. Aveva provato a cercarla, a volere un possibile colloquio che potesse spiegare, tutto o solo in parte, la rottura di quel rapporto mai incrinato o noioso, e l’abbandono improvviso di lei.

Ma era stato inutile: Susanna era scomparsa o si era trincerata in un silenzio più monolitico di una dimenticanza senza speranza. L’aveva amata, rispettata, stimata e soprattutto coccolata come una bambina, perciò aveva sofferto, non tanto nell’amor proprio quanto piuttosto nel sentimento tenace e scevro da dubbi perniciosi che provava per lei.

Poi aveva conosciuto Alida, di Udine: occhi neri, capelli neri e lunghi, pelle bianchissima. Lei era rimasta colpita dal modo in cui questo ragazzo del sud, quasi sempre taciturno e molto dolce con le donne, aveva preso molto sul serio la propria professione: non un lavoro che si svolge con dedizione ed etica, nemmeno un’attività portata avanti con ione e di cui si va fieri ma una missione vera e propria nella quale si crede, per la quale si lotta, talvolta si soccombe e talaltra si finisce immancabilmente per morire. Affascinata com’era da questa, Alida non aveva guardato altro all’inizio. Forse pensava profondamente, quale pregiudizio inconscio, che un uomo così per natura dovesse essere rude, spietato, implacabile e di certo violento e, per altrettanto inconscio preconcetto, che fosse rozzo e villano, forse anche incivile di striscio.

Scoprì quasi subito che si sbagliava: poteva anche essere implacabile, spietato, rude ma con gli uomini, con la società e con il mondo intero; con le donne mai e per nessuna ragione. Rozzo e villano? Incivile?

Nemmeno l’ombra in questo ragazzo nato e cresciuto esattamente all’altro capo dell’Italia rispetto alla città di lei. Un fenomeno della natura? Un prodotto dell’ambiente sociale che, inconsapevolmente, lo aveva spinto ad un rifiuto attuato e a una rivoluzione interiore? Probabilmente. Alida era severa e intellettuale, esigente verso se stessa, critica verso gli altri, insofferente ai soprusi e alle ingiustizie, per cui erano andati subito d’accordo.

Ci volle un po’ prima che Daniel l’amasse. Ma quando l’amò, una ione grande e sincera si impadronì del suo cuore. Le propose allora di vivere insieme (Daniel, in quel periodo, era stato trasferito a Udine), e Alida accettò subito senza esitare o prender tempo per una qualche ragione importante, che poi avrebbe dovuto essere una scusa per non rivelarsi troppo arrendevole o precipitosa. Vissero momenti intensi e magici insieme. La convivenza si rivelò serena, tranquilla, piacevolmente increspata come le onde del mare in un mezzodì d’estate. Piccoli inconvenienti, screzi insignificanti, battibecchi accennati e costruttivi, risate allegre e scoperta di abitudini buffe che accrescevano la stima e il rispetto reciproci, la ione e l’amore di entrambi.

arono un intero mese di agosto al mare, nella terra di Daniel. Nei pomeriggi assolati, quando l’afa arroventava l’aria e l’orizzonte era uno sciame di filamenti nuvolosi sottili come foschia, si tuffavano in acqua, nuotavano fino al largo e rimanevano immobili, supini e spossati: si lasciavano così trascinare dalla corrente fino a riva, galleggiando lentamente sulla superficie dell’acqua. Era una cosa meravigliosa, da dare i brividi per le sensazioni molteplici di piacere che suscitava nei loro corpi in quiete sospinti solo dalla forza d’inerzia. Il contatto della sabbia ardente sulla pelle era paragonabile ad una fiamma che brucia senza arrostire. L’afa asciugava quasi subito i loro corpi bagnati e pregni di salsedine fin dentro le ossa.

Al riparo dal sole, sotto l’ombrellone, dormivano un po’ e, al risveglio, si rifugiavano, fino a sera, dietro una barriera di scogli solitaria e mai frequentata da alcuno e facevano l’amore con selvaggio possesso, fusione immediata dei

corpi e con un lasciarsi andare, quasi un abbandono, inconsapevole e indifferente.

Nessun odore o profumo sfiorava le narici di Daniel, che provenisse dalle secrezioni vaginali abbondanti di lei, dal sudore della sua pelle, dalle membrane umide della sua bocca, dal corpo tutto fremente di piacere scosso dall’eros vertiginoso che la trascinava in gorghi dentro altre dimensioni. Nessun odore, nessun profumo: di donna, di una femminilità prorompente e naturale come la terra, vorace come l’erba e i fiori a primavera mai sazi di crescere e di espandersi.

Alida gli giurava fedeltà e amore fino al resto dei loro giorni. Faceva progetti sulla loro casa e sulla loro vita di coppia, e finiva quasi sempre per sciogliersi come burro in un tegame sul fuoco, nell’abbondante dolcezza che lui gli prodigava, nella stretta forte e verace del suo essere intero: corpo e anima, ione sionata e sentimenti privi di contrasto.

Aveva pensato di chiederle di sposarlo e di rinunciare per sempre al sud, tranne che nel mese di agosto, quando entrambi avevano bisogno di un mare di inverosimile azzurro e di un sole caldo come l’inferno e si sarebbero, perciò, spostati all’estremo sud della penisola. Fra un giorno, o al massimo due, le avrebbe chiesto di sposarlo, in chiesa se lei voleva; al nord o al sud, dove avrebbe preferito; con una cerimonia semplice o sfarzosa, a seconda dei suoi gusti; con un pranzo, una cena di nozze o un buffet freddo con tanti invitati o con poche persone: famigliari, pochi colleghi di lavoro, pochi amici, come lei avrebbe deciso; con un abito da sposa bianco e da regina oppure corto da donna dinamica e moderna, rientrante o meno nei suoi sogni da adolescente. Ma Alida non si fece più sentire né vedere, tanto che lui si era preoccupato un poco pensando le fosse successo qualcosa di grave. Gli telefonò di sera dicendogli che lo amava, che con lui aveva vissuto una storia intensa e un rapporto di coppia quasi perfetto; ma avrebbe sposato un ricco imprenditore, figlio di amici di famiglia, che conosceva fin da bambina, perché solo un uomo così avrebbe potuto essere un marito ed, eventualmente, un padre di famiglia.

Con lui poteva esserci complicità erotica, ione sfrenata, amicizia sincera, intesa anticonformista e trasgressiva. Ma non il matrimonio corredato di tutti i crismi, la legalità, le leggi e gli aspetti tipici che lo caratterizzavano. Quindi era meglio per entrambi se non si vedevano più. Era sicura che, col tempo, avrebbero dimenticato, anche se adesso avrebbero sofferto e, specialmente lui, ne avrebbe rimuginato a lungo le motivazioni, la scelta, il perché e il per come trovando o non trovando, comprendendo o meno, credendoci oppure no, ritenendola una cosa assurda o, invece, la più sensata. Scorse velocemente la rubrica del cellulare. Alla voce “SUL TRENO” si fermò e premette il tasto. “Chiamata in corso” e poi una voce sconosciuta e filtrata (sempre la stessa) la quale ripeteva atona che il numero era inesistente o momentaneamente occupato. Ogni volta così. Sempre così. Lidia non rispondeva più. Forse aveva cambiato numero e perfino cellulare.

Sì, poteva avere anche le sue ragioni… tutte le ragioni del mondo a non volerlo sentire e vedere più, ma lui doveva insistere: doveva cercarne il contatto, la voce, la presenza. Era innamorato (per la prima volta? Davvero? Possibile?) e non sapeva nulla di questa ragazza che si era rivelata misteriosa fin da subito e ora lo era diventata a pieno titolo.

Innamorato. Perché non riusciva a stare senza di lei, e questo non era mai capitato con le altre donne. Aveva sofferto molto per il loro abbandono, però non le aveva più cercate: per rispettare la loro decisione forse, e probabilmente perché non sentiva ormai nessun legame. Eppure le aveva amate, come compagne e possibili future mogli. Il filo era stato spezzato, il nodo era stato tagliato; niente legava più niente: due corpi, due anime e due cuori annodati fino a quel momento, a poco prima di quel momento. Più tardi le ricordava solo come delle presenze eggere nella sua vita, che forse avrebbero potuto anche determinare un destino. Ma non lo avevano fatto. Ed era stata una loro scelta libera. Punto e basta.

Innamorato. Di una ragazza della sua terra! Ironia della sorte. E il caso o il

destino che si diverte a giocare a dadi in una partita aperta ancora tutta da stabilire.

Quante volte, in un giorno, premeva quel tasto del cellulare? Moltissime. Insistentemente. Nessun riguardo all’ora. E la solita risposta. Il solito muro invisibile. Finché si decise a lasciar perdere. A non chiamare più. A non continuare ad insistere su questa strada perché era inutile. Doveva cercarla. Lidia. Ora doveva cercarla di persona, come un detective o un segugio (però queste non erano le sue competenze o le sue particolarità, anche se era un poliziotto).

Iniziò a cercarla a Firenze, la città dove ella aveva detto di studiare Arte Rinascimentale all’Accademia di Belle Arti. Si recò proprio all’Accademia di Belle Arti e, in segreteria, chiese della studentessa Lidia Del Corso. Gli confermarono che, effettivamente, una studentessa, a nome Lidia Del Corso, risultava iscritta al terzo anno del corso di Arte Rinascimentale dell’Accademia. Ma altro non seppero dirgli. Qualcosa però era scattato, che lo avvicinava a lei o che, comunque, lo metteva sulle sue tracce, perché appena entrato in quell’edificio, dove si studiava Arte e tutto parlava d’Arte e riconduceva all’Arte, ecco che percepì in modo vago, solo appena, come una scia lontana che si dissolve lentissimamente, il profumo che aveva percepito sul treno: il suo profumo o il suo odore! Il suo profumo perché ormai era consolidato: si trattava di un profumo.

Una percezione che, come allora, partiva dal cervello, si allargava nella mente e la invadeva tutta procurandogli una sensazione speciale ma, ad ogni modo, piacevole per tutto il corpo che forse aveva a che fare poco o nulla con la sensazione olfattiva propria delle narici. Lidia! Si scoprì ad urlare nella mente all’improvviso. Era stata lì. Forse era lì. La sua presenza aleggiava ancora nell’aria e l’atmosfera ne conservava il profumo, lo tratteneva appena ma, appunto, reperibile ancora. Guardò verso un gruppo di ragazze che chiacchieravano poco distanti, si avvicinò e domandò loro se conoscevano Lidia Del Corso.

Risposero di no. Continuò a domandare e soprattutto a guardare. Quando si imbatteva in una o più ragazze le osservava già da lontano e domandava: «Lidia Del Corso?»

La risposta era sempre negativa. Un no pronunciato di sfuggita o in modo distratto. Si ritrovò ad andare avanti e indietro per corridoi e aule; su e giù, in ascensore o su scale, attraverso piani superiori o inferiori.

Una volta si imbatté anche in quello che aveva tutta l’aria di essere un professore: un tipo eccentrico nel vestire, romantico nella palese timidezza, bizzarro nei gesti e nel parlare. Al nome di Lidia Del Corso rimase perplesso, ci pensò su qualche attimo e quindi rispose: «Sì, ha seguito il mio corso. Ma è stato un anno fa. Adesso non saprei dirle che corso stia frequentando.»

La speranza, che per un attimo aveva illuminato gli occhi di Daniel, si spense, così, subito. Ormai aveva girovagato senza risultato per l’intero Istituto chiedendo e osservando. Senza risultato. Ma la sua mente ne “sentiva” il profumo e da esso si lasciava come guidare, anche se poi lei non era presente. Era inutile rimanere ancora lì. Uscì e andò per le vie di Firenze, osservando bene dove c’erano gruppi e gruppetti di ragazze o di donne. Si era in giugno, e Firenze si manteneva ancora meravigliosa nonostante il sole cominciasse a picchiare, specialmente nella tarda mattinata e nel primo pomeriggio. Piena di turisti come sempre, si distendeva pigra e soddisfatta, tutta protesa ad accogliere l’estate ormai imminente. Sprizzante vitalità, brio e arte da tutti i pori.

Gente, confusione, rumori e odori contrastanti ma il profumo di lei non svaniva, non si perdeva; sottile, quasi volatile, poco palpabile era sempre presente nella mente di Daniel e ne stimolava il cervello. Non stette a chiedersi il perché, cioè perché ciò era possibile, da cosa era originato, se era reale o se lo immaginava soltanto lavorandoci dopo di mente.

Perché chiederselo cercando una risposta razionale a tutti i costi? Lo sentiva, accidenti lo sentiva eccome! Perciò non poteva essere che reale, altrettanto quanto il cielo limpido sopra la sua testa, la folla variopinta per le strade, i negozi e i negozietti agli angoli delle piazze o lungo i bordi rialzati dei marciapiedi. Decise, senza un motivo qualsiasi, di entrare agli Uffizi. E, d’istinto, andò nelle sale dove vi erano esposti i tesori d’arte Rinascimentale. Non appuntò lo sguardo sulle sculture, si soffermò, invece, sui dipinti di scuola toscana, veneta, fiamminga. Volti e corpi di donne: di Madonne, di Veneri, di dame e di fanciulle del popolo, di nobildonne, di principesse e di regine; rischiarate da una luce aurorale tutta interiore, da sfondi con luci e ombre accennate appena, da un ludico contrapporsi di particolari, di caratteri, di sfumature del colore, di salti cromatici che toccavano il fondo dell’abisso o si innalzavano a sfiorare un possibile paradiso esistente in un cielo invisibile. La freschezza di uno sguardo, l’espressione di un viso, l’abbondanza delle forme. La luce e l’oscurità. Il profumo di lei, adesso, era intenso.

Lidia Lidia. Lidia studiava questi dipinti: l’arte che vi era in essi, la bravura o il genio dell’artista, il messaggio che aveva voluto fosse palese o nascondere per mezzo di essi, la tecnica di pittura e la concreta realizzazione dell’opera o del capolavoro d’arte.

Da tutte quelle fanciulle, Veneri, Madonne e nobildonne traspariva un viso, un corpo, una postura del corpo che lui aveva osservato e ammirato dal vivo sul treno, seduto di fronte ad una ragazza sconosciuta.

Sì, proprio così. Ed il profumo si fece di un’intensità dolcissima, di un umore primevo segreto di immortalità: il segreto che conserva e preserva dal tempo infondendo, a tutte quelle figure femminili e ai dipinti in sé, il maestoso dispiegarsi dell’eternità. Lidia era in loro e loro erano in Lidia. Si trattava di un concetto un po’ complesso e piuttosto complicato che la psicanalisi definisce con il termine o la parola “Archetipo”, il quale abbraccia tutto: e il profumo e le forme e il volto e lo sguardo e l’anima e il corpo e lo spirito. Non capiva bene la

cosa ma ne aveva sentito parlare. E il suo istinto o la sua sensibilità gli suggerivano che era così, che ciò era, in qualche modo, del tutto vero. Non seppe quanto tempo trascorse. Qualcuno gli si avvicinò, e una voce maschile ruppe l’incanto dicendogli che era ora di chiusura e che i visitatori erano tutti andati via. Era rimasto solo lui.

Cercò Lidia di mattina e di pomeriggio, di sera e anche di notte. Non la trovò, non la vide. Gli parve, qualche volta, di averla intravista. Ma non era lei. Una volta o due immaginò di sentirla: una risata franca e tutta femminile che proveniva da alcune ragazze sedute al tavolo di una gelateria nei pressi della stazione Santa Maria Novella. Si avvicinò, cercò con lo sguardo e ascoltò attentamente. No, ragazze carine, spigliate, ammiccanti, in minigonna fino all’inguine, top sopra l’ombelico e sandali con i tacchi molto alti che snellivano maggiormente un paio di gambe di per sé snelle. Lidia non era fra loro. Anche se le era parso di sì dal modo in cui una di loro rideva.

Primo pomeriggio. Molto caldo. L’ora di pranzo ata da poco. Aveva trovato un po’ di sollievo fermandosi a parco Boboli. La vista che si godeva della città induceva a sentirsi in pace con se stessi e con il resto del mondo. Gli giungeva l’eco di una musica a breve distanza: musica rock, melodica e orecchiabile, forse una canzone d’amore espressa con la durezza di un suono ribelle e libero. I linguaggi che si mescolavano intorno denotavano la provenienza delle persone da ogni parte del mondo. Pensò solamente al nome di lei: Lidia. Era anche il nome di una terra antica, appunto. Vi era stato, un tempo, un regno con questo nome: il regno di Lidia, in Asia Minore, odierna Turchia o parte del Caucaso meridionale. Pare fosse stato molto potente. Lui che a volte, quando ne aveva il tempo e la voglia, leggeva libri di Storia antica per rilassarsi dopo un’operazione importante o difficoltosa andata a segno o prima di un’operazione pericolosa e del tutto top secret si ricordava, in quel luogo, in quell’ora e per la prima volta, di aver letto, a proposito del regno di Lidia, che il re aveva una moglie bellissima che copriva di attenzioni e di regali: oro, pietre preziose, gioielli e stoffe pregiate fra le più belle al mondo, cavalli, schiave e palazzi nei posti più attraenti del regno. Però, in cambio, pretendeva da lei qualcosa che la umiliava molto e la faceva sentire in balìa di un marito e di un uomo, prima che di un re, possessivo, brutale e, oggi si direbbe, maniaco e sessualmente pervertito. Ogni qualvolta il re

voleva eccitarsi a dismisura ed avere un’erezione completa, per consumare poi completamente il suo rapporto carnale con la regina, obbligava quest’ultima a farsi possedere da uno schiavo nell’alcova reale su un letto molto alto e a baldacchino drappeggiato da tende rosse, che dovevano avviluppare gli amanti in un’intimità serrata come un guscio ma, da dietro le quali, egli, da uno spiraglio soltanto, guardava ogni fase dell’amplesso, dalla prima all’ultima, beandosi, estasiandosi e (perché no?) godendo morbosamente.

Guai se la regina avesse osato rifiutarsi: perdere, infatti, il proprio rango o tutti i privilegi che il re le elargiva compresi i costosi regali, pazienza, poteva anche sopportarlo e, in una maniera o nell’altra, riuscire a sopravvivere come semplice donna del popolo o da straniera in un paese lontano, ma che le venisse mozzata la testa da un boia senza pietà o che venisse impalata e, ancora viva e agonizzante, fosse trafitta lentamente dalle frecce di un drappello di arcieri della Guardia Reale per ordine del re e davanti a tutti i sudditi del regno accorsi nella capitale per assistere a un tale spettacolo, questo proprio non se la sentì mai di accettarlo e di sopportarlo.

La vita, in fondo, le fu più cara di ogni altra cosa, perfino più di questa estrema perversione sessuale impostale dal re e marito. Non ricordava il nome né del re, né della regina. Solo del regno: Lidia, il regno di Lidia. Del quale oggi si racconta nei libri di Storia e del quale, come traccia palpabile ai nostri giorni, rimane il nome di donna. Forse non troppo comune, forse nemmeno troppo diffuso però molto evocativo, il quale forse colpisce subito gli uomini quando una donna o una ragazza dice di chiamarsi così, per un motivo che non si sa: per il suono? (sarà per il suono?) Per l’immaginazione che può o riesce a stimolare? Per il fascino e il mistero che suscita? Pensando a terre, a paesi e a regni lontani nel tempo e nello spazio? Forse. Per tutte queste qualità o caratteristiche messe insieme? Chissà? Chissà poi se davvero per questo o per qualcos’altro ancora? O invece per un ché di completamente e totalmente diverso? Lidia Lidia Lidia dove sei? Lidia, la ragazza sul treno. Null’altro che la ragazza sul treno. Il tuo profumo è tangibile. Sconvolge la mente e i sensi, sembra guidare, condurre, indicare per poi lasciare a mani vuote e a cuore gonfio; smarrito e solo, naufrago solitario.

Cammino per il parco, dentro quella scia misteriosa, filamento di seta sottilissimo, fragile conferma, esile pista da seguire senza rimandi. Sciami di sonorità, calmo brusìo. Natura e Arte. Sogno che interagisce con la realtà. Non avrebbe mai immaginato di trovarsi, un giorno, in una situazione simile. Io ti sto cercando, Lidia, sto inseguendo la tua essenza in un profumo che mi sconvolge e mi turba; ma tu sei assente. Sei come fuggita da me. Per ritrosia? Per paura? Per timore? Di me o di cosa? Eppure tu sei qui, qui da qualche parte, nel posto più impensato dove non si potrebbe mai immaginare la tua presenza.

Questa città ti appartiene come tu appartieni a lei.

L’ho capito, sai? Anche il perché hai voluto venire a studiare Arte Rinascimentale proprio qui, e perché hai lottato per poter venire, contro tutto e contro tutti.

Camminava e, di tanto in tanto si fermava, per guardare l’erba, i fiori, gli alberi, i bambini che giocavano, le donne e le ragazze, i colori e il movimento di quel posto stupendo in una giornata gaia di inizio estate.

Non ti troverò qui. Non ti troverò mai. Devo cercarti altrove. Devo cercarti dove ti ho incontrata la prima volta: sul treno. Una consapevolezza che giungeva repentina. Una constatazione improvvisa che si faceva strada e guadagnava terreno.

Sì, devo continuare a cercarti. Non mi fermerò. Non so se questo è amore. Amore? Amore di te e per te.

Ma devo continuare a cercarti, Lidia.

V

“Freccia d’Argento”, “Freccia Bianca”, “Freccia Rossa” eccetera eccetera. I treni superveloci e ultramoderni, a lunga e media percorrenza. I treni ad alta velocità. Hanno questi nomi inequivocabili e che indicano tutto un programma. La “Freccia d’Argento”, ad esempio, percorre, benissimo e tranquillamente, una distanza pari a quella Padova – Roma in tre ore o poco più.

La “Freccia Bianca” (altro esempio) da Trieste a Palermo in neanche dieci ore (forse anche meno di dieci ore).

Per non parlare poi della “Freccia del Sud” (il treno sul quale aveva conosciuto Lidia) che percorre l’intera penisola, da Milano a Reggio Calabria, forse in neanche otto ore. Prodigi della tecnologia d’avanguardia, del ventunesimo secolo che, bene o male (chissà se più male che bene?), si è tirato dietro già dieci anni e a del nuovo millennio e del nuovo secolo, e corre sempre più velocemente verso il secondo decennio.

Possono allora i treni non essere ad alta velocità?

Se Internet ti mette in contatto con l’Australia o il Cile in pochi secondi, bruciando in un rogo inverosimile le enormi distanze planetarie e la durata del tempo nel percorrerle, i trasporti reali è inconcepibile che non riescano a fare altrettanto.

Certo non ti trasportano, mettiamo da Milano a Catania, in dieci minuti o da Napoli a Bologna addirittura in alcuni minuti o in una manciata di secondi; ma

una distanza che, fino a qualche anno fa, un treno percorreva in svariate ore o in un’intera notte adesso la percorre in poche ore o in qualche ora soltanto senza problemi. Bè, forse ben presto (un anno o due, o un po’ di più) non erà molta differenza temporale fra un clic del mouse (indispensabile come un “braccio” o una “mano” nell’uso del computer) o il tocco impalpabile ed etereo dei polpastrelli delle dita sulla superficie , lustra e incantevole, del tablet o dello smartphone e l’entrata di un treno in stazione o la sua corsa stellare, levitante e alta sulle rotaie, in aperta campagna o lungo tratti di linea vasti e desolati.

Che nome poi, più retorico e altisonante di così:”Freccia”. Veloce e sicuro come una freccia che va dritta al bersaglio, dal momento in cui viene scoccata dall’arco e sibila nell’aria ad una velocità impressionante, forse sfiorandoti senza che tu neppure te ne accorga.

Pensava qualcosa di simile Daniel dando un’occhiata, nel suo computer portatile, agli orari dei treni e alle loro destinazioni un po’ su tutto il territorio nazionale. Era ormai sicuro: avrebbe cercato Lidia sul treno, sperando di incontrarla lì come la prima volta, perché si era accorto che il suo “idealismo spietato” gli dava la motivazione necessaria per poter fare una cosa del genere.

“Idealismo spietato”, lo aveva definito proprio così, due giorni prima, il suo superiore quando lo aveva convocato nel suo ufficio.

«Mi chiede un periodo di pausa, agente Ripetti, e sta bene; se lo merita. Spero non si trasformi in un congedo definitivo, perché sarebbe un vero peccato se lei lasciasse i Corpi Speciali.»

Aveva incrociato le dita delle mani e si era appoggiato alla scrivania guardandolo in viso con serietà encomiabile. Dopo qualche attimo lui aveva risposto, ferreo e quasi un tantino severo: «No. Sono entrato nella polizia, e

soprattutto nelle Forze Speciali, per un ideale che non mi ha mai abbandonato fin da piccolo. E ci resterò fin che vivo.»

L’altro aveva fatto una smorfia con le labbra, forse un accenno vago di sorriso malriuscito, e aveva continuato. «Lo so. Il suo è un idealismo spietato. C’è davvero bisogno di persone come lei in ogni campo, in ogni settore. Ma come è possibile per ciascuno, per me, per l’altro, per tutti noi possedere, avere in sé un idealismo spietato come il suo? Impossibile. Fossero tutti come lei, l’intero mondo sarebbe cambiato da un pezzo: oggi vivremmo in un paradiso in terra anziché sprofondare in un inferno dal quale non sembra esserci risalita. Si ricordi che quella proposta di entrare nell’AISI, il Servizio per la Sicurezza Interna, è sempre valida. La proporrò io personalmente ai nostri comuni superiori.»

E lui aveva ribattuto, velatamente seccato: «Io ho bisogno di agire e non di dare ordini da dietro una scrivania o in una “stanza dei bottoni”. Dal mio istruttore, al Centro di addestramento, ho imparato molte cose, se non quasi tutto. Devo sentire in mano una pistola o una mitraglietta. Devo correre, nascondermi, uscire allo scoperto, sparare per ferire o anche, purtroppo, per uccidere. Catturare spietati assassini, serial killer o sadici maniaci. Sento che solo così posso fare qualcosa per migliorare me stesso e la società nella quale viviamo. In questo modo posso fare qualcosa di buono difendendo chi non può o non sa difendersi, chi subisce ivamente tutto il marciume e il male che ci circondano.» Il suo superiore aveva scosso il capo ammirato e quasi sconcertato. Non aveva, però, ancora rinunciato del tutto di andare “all’attacco” quando se ne fosse di nuovo presentata l’occasione.

«Si ricordi che potrebbe fare carriera nell’AISI, e una brillante carriera. Il suo idealismo spietato, ad un certo punto, nella vita potrebbe anche esserle di intralcio e trasformarsi in un ostacolo insormontabile o in un muro difficile da abbattere. La vita è piena di imprevisti fino all’ultimo istante. Proprio così.»

«L’intrigo e il compromesso non fanno parte della mia natura. Non so se è una

scelta libera oppure condizionata da un qualche evento del mio ato lontano. Io la ritengo una scelta libera, e allora tale deve rimanere. Un idealista spietato non cambierà mai.»

«Sì sì, si prenda tutto il tempo che vuole: dei mesi, anche un anno. L’importante è che non ci lasci. E sono sicuro che non lo farà. Quando ritornerà forse sarà diverso. Presagisco in lei un cambiamento importante.»

Si erano lasciati senza aggiungere altro. Perfino una parola in più sarebbe stata superflua.

L’indomani avrebbe fatto lo stesso percorso in treno del giorno in cui aveva conosciuto Lidia. Stesso treno. Stessa destinazione.

E l’indomani partì verso il sud, verso la punta dello stivale. Il profumo, il profumo di Lidia lo precedeva e lo guidava. Ma Lidia non c’era, non c’era da nessuna parte. In nessuna carrozza. Decine di ragazze occupavano un posto a sedere in treno, camminavano lungo il corridoio o se ne stavano in piedi, in fondo alla carrozza, chiacchierando o pensierose in un personale silenzio.

Il profumo si faceva intenso ed era, a tratti, irresistibile nella mente, per ritornare, subito dopo, debole o estraniato in un intrigo di odori umani e non che si spandevano sul treno come effluvi sconosciuti e sottili. Scese al capolinea, a Reggio Calabria, osservando ogni ragazza, credendo di ravvisare in una il taglio e il colore dei capelli, in un’altra i fianchi, le spalle o le braccia di Lidia. Inutilmente. Solo il profumo vi era di lei: nella sua mente, dentro il cervello che sembrava dire, con insistenza, nel linguaggio umano: “Seguimi seguimi, presto o tardi mi troverai. Non arrenderti. Continua a cercarmi. Mi troverai. Mi troverai. Mi troverai”. Rifece il percorso inverso. E sempre il profumo, mai lei.

Allora, in un momento di impeto improvviso quanto celato alla vista, decise che avrebbe percorso l’intero Paese in treno, che si sarebbe fermato a tutte le destinazioni, almeno a quelle principali o più importanti, e che sarebbe ripartito per altre destinazioni fino a che…

Era seduto dietro il finestrino. Guardava le case, gli alberi, i tralicci dell’alta tensione, costruzioni alte come torri che sembravano catturare gli aerei in volo, agglomerati di edifici bassi e tutti uguali, giardini o forse orti; un mondo esterno che il treno in corsa lasciava filtrare in un surreale accavallarsi di paesaggi mutevoli ed estranianti. Il profumo di Lidia era pressante e dolce come un riverbero di riflessi lunari sull’acqua di un lago. L’uomo non aveva mai potuto fare a meno di seguire la donna, o di inseguirla, di starle dietro o di rincorrerla. Di volerla, di desiderarla, di amarla. Ma anche di umiliarla, di colpirla, di farne uso in molti modi, di usarle violenza fisica e psicologica.

Chiuse gli occhi e si assopì per un po’. Cosa significava la donna per l’uomo? Cos’era per l’uomo? Una madre, una compagna, una moglie, una sorella, talvolta un essere di sesso opposto a quello maschile atta solamente alla riproduzione della specie?

Ma no! Ella si portava appresso intatto il suo proprio personale mistero attraverso i secoli e i millenni, la sua propria essenza indecifrabile ed enigmatica, complessa, indescrivibile e indefinibile, la sua sacralità dissacrante, la sua lampante paradossalità e il suo esistere controverso, la sua colpa endemica e gli atavici pregiudizi su di lei, la propria intelligenza e il proprio potere di fascinazione e di intrigo, il proprio amore universale e indiscriminato verso tutti gli esseri, il suo eterno femminino che mai era stato svelato né si rendeva di facile accesso neppure alle grandi menti intellettive.

A torto o a ragione, per tutto ciò e contro tutto ciò, spesso l’uomo si era accollato

il compito, difficile o meno, di proteggerla, di custodirla, di amarla e di adorarla come una divinità ma anche di difenderla e di salvarla. In quella specie di assopimento momentaneo, Daniel si ricordò o rivisse, come in sogno, alcuni episodi al riguardo.

Un uomo si era barricato in casa armato di pistola e minacciava di uccidere la moglie e le due figlie, rispettivamente di dodici e di nove anni. I vicini di casa, appena si erano accorti che c’era qualcosa di strano, avevano chiamato la polizia. Questa era intervenuta tempestivamente e aveva tentato di tutto per dissuadere l’uomo dal suo micidiale proposito.

Niente da fare. Solo le Forze Speciali potevano tentare di fare qualcosa per salvare la donna e le due bambine. Erano arrivati a bordo dei furgoni blindati e avevano circondato la villetta a due piani dentro la quale si trovavano i quattro, disponendosi nei punti che si riteneva fossero strategici per la buona riuscita dell’operazione.

«Ammazzo prima mia moglie, poi le figlie e infine mi sparerò l’ultimo colpo in bocca! Non riuscirete a fare nulla per impedirmelo!»

Aveva gridato l’uomo nel vedere la Squadra di uomini armati, con l’elmetto in testa e il viso coperto, circondare da ogni parte la sua abitazione.

«Proviamo a trattare. Ma credo sia inutile.» Disse il comandante, scettico più di un ateo professo. Sì, provarono a parlare, a trattare. Tutto inutile.

Cosa aveva più da perdere o da guadagnare quell’uomo? Non era né un terrorista né un rapinatore.

Una fuga, imponendo delle condizioni, non gli serviva a nulla. Era determinato e cinico. Forse era pazzo. Comunque molto pericoloso. La situazione era delicata e grave.

«Spariamo i gas all’interno.» Ordinò il comandante.

Il Primo Coordinatore lo smentì subito.

«Non possiamo, comandante. La più piccola delle due bambine soffre di una forma di asma bronchiale molto fastidiosa, per cui i gas potrebbero anche ucciderla.»

«Sì, capisco. Allora facciamo subito irruzione nella casa. Non abbiamo altra scelta. Ci ha messo proprio con le spalle al muro.»

Una decisone e, allo stesso tempo, un ordine. Una decisione presa dal comandante, senza esitazione e con piglio deciso, come sempre in casi simili o quasi.

Fecero irruzione nel soggiorno, ampio e molto luminoso a causa di due portefinestra in due pareti opposte dell’ambiente, proprio nell’attimo fatale in cui si udirono diversi colpi di pistola. Lui, in preda ad una furia quasi selvaggia, entrò per primo e si buttò sulla più piccola delle bambine allontanandola dalla traiettoria dei colpi e facendole da scudo col proprio corpo, mentre il padre di lei premeva ancora una volta (l’ultima) il grilletto e si sparava in bocca l’ultimo colpo rimasto in canna. Per la madre e la bambina più grande non c’era più nulla

da fare: giacevano a terra con gli occhi sbarrati e un’espressione incredula sul volto, forse inconscio mostrare di segni somatici di una disperata quanto muta richiesta di aiuto. Una pozza di sangue si allargava lentamente, a vista d’occhio e in punti diversi, da quei tre corpi senza vita. Un singhiozzare convulso e quasi liberatorio scosse il corpo tutto della piccola, che teneva ancora stretta a sé. Il respiro le si fece affannoso, e si strinse al suo collo premendo forte sul giubbotto anti-proiettile come a cercare un rifugio, un riparo: dalla vita, dal mondo, dagli uomini. Era stato lodato, dal comandante e dai compagni di squadra, per la sua azione istintiva e cronometricamente perfetta; ma non gli era importato granché. Anche se aveva salvato la vita ad una bambina di nove anni, una giovane donna e l’altra sua figlia di dodici anni erano morte per l’improvvisa follìa omicida di un marito e di un padre squilibrato. L’operazione non era andata bene. La Squadra Speciale aveva fallito a metà.

Imperdonabile. Non frequente. Però poteva succedere.

Se non fossero state tutte femmine, quell’uomo avrebbe ucciso? Avrebbe sterminato la propria famiglia?

Se lo era chiesto al momento dell’accaduto. Se lo chiedeva ora, dopo diverso tempo. Non odiava, forse per qualche oscuro motivo, il genere femminile in un modo abnorme disprezzandolo in maniera feroce tanto da versare il sangue del proprio sangue e annientare la sua stessa vita? Se la donna è davvero l’altra metà dell’uomo, come si può essere uomini distruggendone la sua componente materiale, spirituale, immaginifica? Pensieri profondi, neanche stesse dissertando di filosofia, di etica o di religione.

Si scopriva ora pensatore, con sua grande sorpresa?

Macché, certo che no. Queste riflessioni poteva farle chiunque, soprattutto

l’uomo. Per un uomo che si dicesse tale, e lo fosse nel vero senso della parola, era normale farle; si imponevano come un dovere.

L’argomento “donna”, si era accorto da tempo, si accorgeva ogni giorno sempre di più, non era mica facile e men che meno da trascurare; assolutamente sbagliato rimuoverlo dalla coscienza: per un po’ di tempo sarebbe scomparso del tutto, ingoiato dalle sabbie mobili di un subconscio larvale e sempre in ombra, quasi “zona-grigia” da non superare, da non attraversare, da non varcare nemmeno per errore. Ma i guai sarebbero arrivati dopo, negli anni, quando tutto il magma melmoso accumulatosi in strati di ione, gelosia, invidia, odio, rancore, morbosità, depressioni varie, squilibrio mentale eccetera eccetera risaliva alla superficie esplodendo come una bomba a orologeria ed eruttando, come un vulcano che si risveglia da un lungo sonno, tutto il malessere accumulato.

Una ragazza ò vicino trascinando un trolley medio, e con delle movenze che vagamente erano quelle di Lidia… La guardò, senza suscitare reazioni di fastidio negli altri viaggiatori e in lei stessa, quasi di sottecchi. Per un attimo, per una frazione di attimo, gli era sembrato fosse veramente lei! Anche perché il suo profumo era come percepibile o palpabile da chiunque, e magari anche gli altri lo sentivano…

No, non era Lidia. Lidia Lidia Lidia.

Chiuse di nuovo gli occhi e si avvolse nei propri pensieri. Un altro ricordo rese veloce, quanto il treno sul quale stava viaggiando, lo scorrere dei minuti, dei quarti d’ora, delle mezz’ore e forse delle ore. Molto bella, se non addirittura bellissima. Poco più di venti anni. Avrebbe potuto fare la modella o l’attrice. Ogni cosa in lei era perfetta, oltre a un corpo da mozzare il fiato. L’uomo la stava picchiando a sangue sul ciglio di una strada di quartiere. Qualcuno aveva chiamato la polizia, ed egli minacciò di ucciderla sotto gli occhi stravolti di due poliziotti di pattuglia se questi non se ne fossero andati via subito. Se ne

andarono via quasi subito e richiesero l’intervento delle Forze Speciali.

Quando la Squadra arrivò sul posto, si trovò davanti una scena terribile: la ragazza era a terra e si contorceva tra spasimi di dolore atroci.

L’uomo, elegante, dall’aria per bene, ostentante uno status sociale adombrato dalla ricchezza, le dava calci, anche violenti, in ogni parte del corpo, in continuazione senza fermarsi un solo attimo, con una furia cieca, primitiva, spaventosa incurante degli uomini armati di tutto punto e dal volto nascosto che scendevano, a scatti e determinati, dal furgone blindato e gli si piazzavano intorno. Continuò a colpire con calci e pugni e con violenza inaudita. La ragazza urlava e si contorceva. Ben presto si trasformò in una poltiglia sanguinolenta sporca di polvere e di sudore, finché cessò di gridare all’improvviso. E non si mosse più. L’uomo sembrava una bestia ferita, che carica e attacca senza capire più niente. Sembrava non avesse quasi più niente di umano se non la forma esteriore soltanto.

Tre volte gli fu intimato di lasciare la ragazza e di consegnarsi alle Forze dell’Ordine. Ma ogni volta, anziché fermarsi, continuò a colpirla ancora più brutalmente, lanciando improperi e minacce verbali contro gli agenti delle Forze Speciali.

All’ordine secco di sparare, un colpo preciso, sparato da un agente molto vicino al bersaglio, gli spappolò una spalla. Ci vollero tre agenti per immobilizzarlo completamente.

Fu proprio una sorta di desiderio impellente che lo spinse a guardarlo in faccia da vicino: era ritornato un uomo normalissimo! Se mai lo fosse stato veramente.

Sì, un desiderio improvviso quanto urgente per constatare se era un uomo, fisiologicamente e anche intellettivamente o sentimentalmente parlando, uguale a lui e agli altri della Squadra. Perché si vergognò tanto, dopo aver assistito a quelle scene, di essere uomo, di essere maschio, per la prima volta. Una vergogna sporca e lurida, appiccicosa e scura come liquame di fogna, che gli imporporò le guance nascoste dal mefisto nero. L’ambulanza prese su un rottame di donna agonizzante con qualche battito ancora al polso e lenti e lontanissimi, come astri del firmamento, quelli del cuore.

Al Centro di addestramento aveva scaricato, più tardi, una tensione acida stracolma di adrenalina contro una sagoma umana mobile al poligono di tiro, facendo centro ad ogni colpo sparato. arono giorni prima che potesse smaltire la rabbia, il rifiuto, la vergogna, il disgusto, un senso di disagio strano e forte che lo fecero stare male al pari di una febbre alta presa per puro caso senza sapere dove e quando.

VI

Sbatté un paio di volte le palpebre, si scosse appena. Non aveva dormito, solo si era assopito o forse concentrato sui propri pensieri e soprattutto su alcuni ricordi particolari. Il treno correva. La sua velocità era piuttosto sostenuta; forse chissà se, in quei momenti, non stesse levitando davvero come uno strumento o un oggetto ultraterreno o extraterrestre?

Chiuse gli occhi di nuovo, si girò di più verso il finestrino e si sistemò più comodamente e meglio. Scivolò, lentamente e ancora, nei ricordi: in pensieri contraddittori e in riflessioni decisamente profonde. Si ricordò, per filo e per segno, del caso di una ragazzina di tredici anni, che aveva suscitato molto risentimento e orrore nell’opinione pubblica e del quale si era parlato molto a livello nazionale (televisione, giornali, radio, social network avevano battuto a tappeto le proprie reti per mesi). Una ragazzina, tredici anni appena, era uscita di casa un pomeriggio di febbraio per andare a fare i compiti di scuola presso una compagna di classe e non aveva più fatto ritorno. I genitori ne avevano denunciato la scomparsa alla polizia e si aspettavano, da un momento all’altro, la telefonata dei rapitori richiedenti un possibile ed eventuale riscatto più o meno esorbitante(ma di certo molto esorbitante viste le loro ricchezze materiali essendo, il padre della ragazzina, un quotato e stimato imprenditore del nord – est).

I giorni avano, lunghissimi e inesorabili, ma l’ipotetica telefonata di altrettanti ipotetici rapitori non arrivò. I genitori della ragazzina piombarono nella più cupa disperazione, e gli agenti che indagavano sul caso brancolavano nel buio più assoluto rischiarato soltanto, forse, dalle battute quotidiane, alla ricerca anche di una minima traccia o di un qualunque indizio, che facevano nelle campagne, in ogni luogo: impervio, inaccessibile o meno, a partire dal punto esatto dove la ragazzina era misteriosamente scomparsa. Un mercoledì mattina, inaspettatamente, giunse la notizia, alle Forze dell’Ordine (una possibile soffiata di qualcuno, indagini parallele e segrete, o qualcos’altro di più sofisticato e impensabile?) che in un casolare di campagna semi diroccato da

tempo ai margini di un bosco, di notte soprattutto e in certe ore del giorno, vi erano dei movimenti sospetti.

Anche i furgoni blindati della Squadra Speciale ci impiegarono ore a raggiungere il posto (la strada a tratti era sterrata e in salita, stretta, sabbiosa e perciò sdrucciolevole).

Quando, finalmente, furono lì non poterono fare a meno di notare l’atmosfera lugubre da film dell’orrore che caratterizzava l’intera zona. Il comandante aveva posizionato gli uomini della Squadra dietro la prima fila di alberi del bosco nei pressi del casolare e aspettava, tenendo d’occhio l’obiettivo con il binocolo a raggi infrarossi. ò qualche tempo, forse delle ore. Nessun movimento intorno. Nessun movimento all’interno della struttura poco distante. Il tempo risultò prezioso, davvero molto prezioso, tanto che ogni secondo intercorso sul quadrante degli orologi poteva voler dire, significare sicuramente la liberazione e la salvezza o una morte senza possibilità di scampo per la ragazzina prigioniera.

Non pensava a niente in quei secondi terribili. Non poteva permetterselo. Nessun componente della Squadra poteva permetterselo, anche se forse, in via eccezionale, gli era consentito. Ci si doveva solo concentrare sull’obiettivo ed essere pronti a scattare, come un leone sulla preda, non appena e qualora fosse giunto l’ordine del comandante.

A lui personalmente non erano mai sembrati lunghi o interminabili quei secondi del tutto particolari: secondi decisivi e fulminanti, normalissimi nelle operazioni della Squadra Speciale; forse eccessivi sì, i quali riuscivano sempre a procurare un senso di disagio incredibile che dovevi nascondere a te stesso e agli altri.

Stavano dietro gli alberi ormai da parecchio tempo, non potevano continuare a

stare lì (il tempo, per le Squadre Speciali di polizia, è sempre maledettamente prezioso, appunto); non ancora per molto, almeno. In effetti, di lì a poco (qualche minuto, forse cinque) si udì, finalmente, l’ordine del comandante, dopo che questi aveva parlato a lungo con il Primo e il Secondo Coordinatore.

«Facciamo irruzione adesso!»

Avevano fatto irruzione e, guarda caso, avevano trovato ogni ambiente libero; perfino ogni angolo morto: senza sbocco o via di fuga, che non riusciva a fungere nemmeno da sgabuzzino. Cos’era successo? In realtà nulla. In quel casolare non c’era mai stato nessuno, e nessuno vi aveva sostato neanche di aggio.

Dallo stato in cui si trovava sembrava non “vedesse” la presenza umana da anni, se non addirittura da decenni. Informazione falsa? Forse più plausibile la prima ipotesi anziché la seconda. Anche i casi come questo potevano capitare, come quelli di non-riuscita di un’operazione. Non essere frequenti (altrimenti le Squadre Speciali sarebbero state inutili), ma capitare sì.

Tre giorni dopo, un contadino alla guida del suo trattore, in un campo piuttosto lontano da lì, aveva visto tre giovani che cospargevano il suolo con un liquido scuro fuoriuscente da delle taniche aperte tenute in mano. Si insospettì subito, pensando che volessero appiccare un incendio di vaste proporzioni, e avvisò le Forze dell’Ordine. Vi giunsero in tempo, sicuro, pensando soltanto di aver colto in flagrante dei piromani, i quali in realtà stavano solo cospargendo di benzina, per darle fuoco e cancellare così ogni traccia della sua esistenza, una ragazzina di appena tredici anni!

Ma la cosa non finiva lì. All’arrivo delle volanti, i tre giovani se la diedero a gambe e, vedendosi in trappola, si rifugiarono in una fattoria duecento metri più

in là.

Avevano delle armi con loro, esattamente dei coltelli, e le puntarono alla gola di due anziani coniugi che stavano dando da mangiare ai polli in un pollaio.

Fortunatamente la Squadra Speciale non li vide morire e non li trovò morti perché i tre furono bloccati in tempo e catturati. Toccò proprio a lui immobilizzarne uno e serragli i polsi dentro le manette.

Fu l’unica volta, quella, in cui avrebbe voluto uccidere l’arrestato tempestandolo di pugni e di colpi bassi!

Si trattenne perché, sì, in quel tragico momento si sentì un uomo vero (e un uomo vero non fa questo ad un altro uomo, bestia, o essere di altra specie e genere che sia) di fronte a degli esseri spregevoli e inqualificabili con nessuna attenuante, nemmeno quella (come risultò dopo) della giovane età. E se per la ragazzina non c’era stato più niente da fare, ciò non toglie che avrebbero almeno potuto risparmiarle l’ennesima umiliazione e brutalità di bruciarne il corpo.

Venne fuori che erano tutti e tre figli di professionisti affermati nel loro capo (un primario di ortopedia, un brillante avvocato civilista, uno stimato notaio) e, nonostante parecchi indizi e alcune prove fossero nettamente contro di loro, negarono sempre di aver commesso il fatto, cioè di aver rapito la ragazzina, di averla tenuta prigioniera, di averla seviziata e di averne abusato sessualmente (lo aveva provato il referto dell’autopsia), di averla uccisa e di volerne infine dare fuoco al cadavere in un campo di sterpaglie alte. Negarono sempre, sì, sostenuti dalle famiglie, dalla cerchia di amici, di compagni di studi (tutti e tre iscritti chi al primo, chi al secondo anno di università) e di semplici conoscenti, ai quali risultava inconcepibile che questi tre giovani per bene avessero potuto compiere un qualcosa di così efferato e abominevole! Perché lo avevano fatto? Le loro

condizioni economiche erano ottime: tutti e tre, a dir poco, benestanti, per non dire proprio ricchi; il loro ambiente sociale di livello alto (nessun contatto o provenienza da quartieri malfamati o poveri, da ambienti di evidente degrado e di mancanza di strutture, infrastrutture e sovrastrutture); la loro istruzione anche; il loro stile di vita agiato, forse viziato e principesco. Sì, perché avevano fatto una cosa tanto aberrante?

Non una bravata, né una trasgressione, né un gioco innocente o pesante. Che cosa li aveva spinti a compiere un’azione così grave?

Si chiedeva queste cose in palestra durante le sessions di lotta corpo a corpo (arti marziali in genere, con predominanza di karate e judo)nelle quali, dopo questo tragico episodio, si tuffò completamente per alcuni mesi sperando di smaltire tutta la rabbia che aveva dentro. Non fu capace di dare a se stesso una risposta. Ci provò rispondendo: la noia di una vita troppo monotona e borghese? Il benessere economico e materiale che non crea stimoli ma solo inerzia e mancanza di spirito di sacrificio? L’assenza di dolore, di sofferenza e di privazioni? La mancanza di affetto, di amore, di comprensione? Che generano sentimenti di pietà, di fratellanza e dialogo reciproco fra i comuni esseri umani? Tutte risposte possibili.

Ma non esaurienti. E la rabbia rimbalzava e si frantumava, tanto da farsi dire un giorno dal suo istruttore: «Daniel, ti sei accorto che ci stai quasi massacrando tutti?»

Al ché aveva risposto: « No, non posso accorgermene. Come posso? La mia rabbia è troppa, ma il male che c’è nel mondo, e soprattutto dentro l’uomo, è anche maggiore di essa.»

«L’ho capito, Daniel. Per questo ti starò vicino e ti aiuterò a superare questo

momento non buono e non facile per te.»

L’aveva fatto. E quel momento non buono e non facile era ato, senza lasciare “cicatrici” vistose o profonde. Però continuò sempre a riflettere su molte cose e a domandarsi molte cose. Perché un uomo mostra pimpante tutto il suo falso perbenismo quando, in realtà, è solo un verme? Perché nasconde, quasi sempre a se stesso, prima che agli altri, la sua ipocrisia ammantata di irreprensibilità, di moralità, di bonarietà, di immagine idilliaca, di esistenza felice e senza macchia, in ambito lavorativo, di appartenenza e di relazione, come in quello famigliare e intimo mentre, in realtà, è un mostro, un pedofilo, un serial – killer, un pervertito sessuale, un sadico, un avido e corrotto, un insensibile, un cinico e un puttaniere il quale scarica la sua frustrazione e le sue pulsioni più oscure sull’altro sesso, cioè sulla femmina, sulla donna!? Cosa avrebbe dovuto fare la donna(se fosse stata come lui, cioè se avesse avuto la sua identica natura aggressiva, impulsiva, rigida, glaciale)per vendicarsi dell’uomo per aver subito e perché subisce da lui ogni sorta di male grande e piccolo, terribile e disumano? Per vendicarsi, ad esempio, di un Tomas de Torquemada, capo dell’Inquisizione spagnola a cavallo fra il XV e XVI secolo, che ha torturato e bruciato sul rogo forse oltre diecimila vittime, tutte donne, accusate di essere streghe solo per un sospetto il più delle volte inesistente o inventato di tutto punto? (Si tramanda, dalle biografie storiche meno ufficiali, che nutrisse un qualcosa di morbosamente inquietante e di angosciosamente sinistro nei riguardi della donna, e forse lo dimostra il fatto che godesse, silenziosamente e nascostamente, nel vederla spirare tra atroci tormenti… morire tra le fiamme dopo essere stata torturata a dovere con ogni tipo di strumento di tortura inventato all’epoca da una fantasia collettiva crudele quanto il piacere che ogni nuova invenzione, in tal senso, poteva procurare a menti malate, distorte o sottilmente geniali).

Sterminare l’intero genere maschile (il maschio, principalmente munito di fallo) forse sarebbe stato anche troppo poco. Ma, ritornando all’uomo, dove cercare le radici o la fonte di un comportamento simile spesso del tutto inconscio, ossia privo di consapevolezza umana? Forse nell’adolescenza? O piuttosto nell’infanzia, anche primissima? Quasi sempre nella mancanza, spirituale o fisica, di un padre, e nell’amore troppo morboso e possessivo di una madre inconsapevole? Molto spesso in un padre autoritario e severo (un padre-padrone

ecco) e in una madre sottomessa e remissiva? Talvolta in una madre iperprotettiva e in un padre violento? Talaltra in genitori entrambi molto o troppo permissivi che non conoscono nemmeno la parola “educazione” nei riguardi di un figlio?

Forse in tutte queste cose messe insieme e forse in altre ancora, più incomprensibili e più grandi di noi.

Chissà? Da allora in poi si era accorto di una cosa: che gli uomini non amavano e non si sforzavano neanche di capire le donne. Negli ultimi tempi si era come scatenata una nuovissima e di taglio o fattura tutta moderna o post-moderna “caccia alle streghe” del genere femminile. I dati statistici sui delitti, su tutto il territorio nazionale, riportavano che quasi tutte le vittime erano donne, di tutte le età. Donne uccise dai mariti o dagli amanti, i cui corpi venivano fatti sparire senza lasciarne alcuna traccia. Ragazze affogate, impiccate o fatte a pezzi, uccise da fidanzati troppo possessivi o troppo gelosi. Ragazzine rapite, violentate e lasciate a morire di freddo e di stenti ai bordi di strade deserte di squallide periferie cittadine o metropolitane, o in campi poco lontani dai centri abitati.

Ma sì, ammazziamole tutte le donne. Sterminiamole. Distruggiamo, una volta per tutte, le femmine della specie umana: e su tutto il pianeta. Magari partendo proprio dal principio e cioè dalla nascita. Nelle campagne della Cina antica, i contadini uccidevano i neonati poche ore dopo essere venuti al mondo, ma i neonati di sesso femminile eh.

Così si levavano subito il pensiero, senza bisogno alcuno di sprecare tempo a crescerle, allevarle, portarle fino alla pubertà e ucciderle ormai adulte quando sono anche coscienti del mondo, della vita e della morte.

Ne lasciavano in vita solo poche, tanto per assicurare la specie (sono pur sempre

le femmine a mettere al mondo i figli. Il compito del maschio cessa dopo che, “tecnicamente”, lo spermatozoo maschile ha fecondato l’ovulo femminile). Nell’antica penisola arabica, le società preislamiche facevano la stessa cosa con i neonati di sesso femminile; solo forse cambiava il modo di sopprimere le piccole: venivano sotterrate vive, molte addirittura con il cordone ombelicale ancora attaccato addosso! Fu Maometto, il Profeta dei credenti, a porre fine per sempre a questa pratica odiosa quanto disumana. Se si arrivasse allo sterminio completo delle donne, ovunque e dappertutto, in ogni metro o centimetro del pianeta (isole, penisole, continenti, arcipelaghi, catene montuose) e rimanesse soltanto il maschio-uomo incontrastato, potente, altero, rigido ma solo, completamente solo, come si vivrebbe? Che senso avrebbe la vita? Un mondo abitato da soli maschi-uomini, già. Un pianeta dove la parola “donna-femmina” è stata abolita per sempre e la sua esistenza estinta. Sarebbe finalmente soddisfatto l’uomo? Si sentirebbe a suo agio, per la prima volta dopo la sua comparsa sulla terra?(Sono ati milioni di anni dall’apparizione del primo ominide, un po’ meno di quella dell’homo sapiens, l’uomo attuale). Si sentirebbe allora inversamente completo: creatura speculare, dai tempi in cui Dio fece cadere il primo uomo, Adamo, in un sonno profondissimo e creò, da una costola di lui, la prima donna, Eva?

Perché si sentiva solo, molto solo, troppo solo e la vita non aveva nessun senso, nessun significato per lui.

Ed ebbe, così, una compagna, una moglie, una partner, un essere uguale (davvero?) a lui in tutto e per tutto, tranne che per l’apparato genitale e per quella piccola fessura rosea (di un rosa tenue e scuro che va al rosso) fra le gambe. Si sentirebbe appagato? Libero? Libero da cosa? Dai fantasmi di una immagine-concezione della donna errata, deviata, distorta, inventata a proprio piacimento, a proprio uso e consumo secondo le circostanze, le occasioni, l’umore, la pazienza, la perdita delle staffe e il momento? Appagato dal suo sesso solitario e dal suo agire fisiologico in solitudine?

Cosa stava succedendo all’uomo, al maschio? Aveva perso la propria identità?

Era preda sinistra di malvagie pulsazioni inconsce? Voleva un mondo senza donne, senza femmine? Tutto e soltanto per sé? In realtà aveva paura. Una paura matta della donna libera, emancipata, piena di vita, accattivante, intrigante, indipendente, sicura e piena di sé, capace di arrivare fin dove egli non riusciva, capace di dimostrare di essere padrona della propria femminilità, della propria realizzazione, alfine della propria esistenza. Paura, ancora una volta e infine, dell’archetipo femminile, dell’universo-donna e del suo grandioso, spaventoso e affascinante mistero di secoli, di millenni e forse di migliaia e migliaia di anni.

VII

Lidia Lidia Lidia. Daniel aveva ormai percorso in treno quasi l’Italia intera, da nord a sud, da est a ovest, sulla traccia misteriosa di un profumo di femminilità recondita che si dispiegava nella mente, aumentando o diminuendo a seconda dei luoghi, delle circostanze e delle donne che incontrava e osservava. Il treno sul quale si trovava stava entrando nella stazione Santa Lucia di Venezia.

Una ragazza si era seduta da poco accanto a lui. Qualcosa in lei lo colpì. Gli sembrò, forse, in qualche maniera speculare a Lidia. La osservò a fondo senza che la ragazza se ne accorgesse o lo capisse (sapeva come fare essendo un poliziotto), e da lei, in effetti, qualcosa trasparì di molto simile a Lidia. Forse una certa rotondità del corpo in sé, i gesti delle mani, il collo e la postura delle gambe mentre le accavallava o finiva di farlo e si abbandonava un poco sulla spalliera.

Il profumo fluttuava nell’aria e la circondava concentrandosi però, stranamente, ad una certa distanza.

Le offrì una sigaretta, e lei la accettò con evidente piacere. Quindi si alzarono e andarono a fumare nei pressi della toilette dove non era vietato o non davano fastidio agli altri viaggiatori. Sì, una certa grazia e un certo charme nel modo di accostare la sigaretta alle labbra o di tenerla fra il medio e l’indice… erano proprio di Lidia! Eppure non era lei, questo lo sapeva.

Parlarono un po’, di cose varie e di nulla in particolare e, fra una chiacchera e l’altra, le chiese il suo nome.

Con una vocina lieve e cadenzata e un accento del nord, disse di chiamarsi Leda. Questo nome lo colpì in qualche punto del cervello là dove forse si addensava il misterioso profumo archetipico. Un nome molto diverso da quello di Lidia ma di sicuro, in un modo oscuro che non comprendeva, in una quasi magica simbiosi occulta con esso.

Il treno si fermò. Leda scendeva. Scendeva anche lui. Appena scesi, Leda non si era separata subito ma chiacchierava ancora con quel giovane sconosciuto appena incontrato sul treno. Forse Daniel stava per chiederle qualcosa, forse il suo numero di cellulare… qualcuno strattonò la ragazza all’improvviso tentando di strapparle la borsa che portava a tracolla, e vi riuscì anche e, sicuro di sé e forse soddisfatto per il colpo messo a segno, si diede alla fuga in pochi secondi.

Ma non andò lontano: aveva fatto pochi metri quando una mano “di acciaio” lo gettò a terra, faccia in giù, e gli puntò una pistola alla nuca.

«Lascia andare la borsa e chiedi scusa alla ragazza!» Gli intimò Daniel con fredda professionalità. Era poco più di un ragazzo, e sembrò impaurito dal tono di voce di colui che lo aveva bloccato quasi all’istante e adesso lo teneva sotto tiro. Lasciò andare la borsa senza dire nulla.

«Bene. Ma ti ho detto anche di chiedere scusa alla ragazza!» Continuò Daniel con lo stesso tono.

«Chi sei per fare questo e per dare ordini?» Chiese, confuso e sbalordito, il ragazzo con un marcato accento dell’est (forse romeno o ucraino). Intanto si era radunata intorno un po’ di gente . Daniel tirò fuori, da una tasca interna del giubbotto di tessuto leggero e naturale come l’estate che stava per finire, il tesserino di appartenenza alle Forze Speciali di polizia e lo sollevò in alto affinché fosse bene in vista.

«Sono un poliziotto. Chiedi scusa alla ragazza!»

Insisté determinato. L’altro si spaventò e chiese scusa alla ragazza biascicando un poco le parole. Nel frattempo erano giunti alcuni poliziotti, che si portarono via lo scippatore e ringraziarono l’agente speciale Ripetti per aver fatto bene il proprio dovere, anche se non era in servizio. Leda lo guardava con una ammirazione nello sguardo che aumentava ad ogni millesimo di secondo. Una voce alle sue spalle “ruppe” quella specie di incanto. Era Gianmarco, il suo fidanzato.

«Leda, stai bene?» Si affrettò a domandare, abbracciandola e sfiorandole appena la fronte con un bacio veloce.

«Sì. L’agente Ripetti ha bloccato subito l’autore dello scippo.» Rispose ella. E qualcosa si incrinò nella sua voce.

Ringraziarono entrambi un Daniel triste e malinconico, con una remora di irrequietezza mista a rassegnazione nel fondo delle sue pupille scure. Daniel salutò cortesemente e si allontanò.

Leda era esitante, forse voleva dirgli qualcosa. Ma si trattenne. Lo seguì con lo sguardo finché non scomparve alla vista. Non lo avrebbe dimenticato facilmente, anzi: non lo avrebbe mai dimenticato!

Si sentì inutile Daniel, per la prima volta nella vita. Inutile e sconfitto forse dal caso, forse da un destino potente e beffardo che in quel momento rideva di lui.

Tutto era stato inutile. Tutto era inutile. Tutto sarebbe stato inutile. Inutile era anche lui. Inutile a se stesso; inutile, alla ricerca di una ragazza che aveva conosciuto in treno, della quale si era innamorato e che non sarebbe riuscito a dimenticare. Che non poteva dimenticare. Cinque giorni dopo, camminava sulla spiaggia dove aveva dato appuntamento a Lidia alcuni mesi prima, e dove avevano trascorso quell’unico e piacevole pomeriggio insieme.

Era ritornato a Reggio Calabria, ma questa volta in aereo perché forse l’aereo annulla quasi del tutto le distanze, e viaggiare diventa così impersonale che non ti accorgi neanche di essere a bordo che già sta compiendo la manovra di discesa.

Erano quasi le tre del pomeriggio. C’era ancora qualcuno in spiaggia: gli ultimi vacanzieri ritardatari, maniaci del sole ormai settembrino, dopo l’affollamento di un mese di agosto caldissimo e spensierato.

Camminò un poco e poi si fermò nel punto esatto dove si era seduto accanto a Lidia in un altro pomeriggio di sole simile e più o meno alla stessa ora.

Si sedette sulla spiaggia calda e morbida e si sentì solo. Solo sulla faccia della terra. Di una terra sterile e vasta. Crudele e senza più valori o ideali.

Forse insieme a Lidia avrebbe potuto varcare soglie di mondi arcani e proibiti. Lidia lo avrebbe potuto iniziare al sesso, al sesso vero e misterioso, forse misterico, e che in fondo non aveva mai conosciuto con nessuna donna e che non conosceva, e che senza di lei non avrebbe mai conosciuto. Perché è la donna (sì, lo aveva capito da tempo, ma lo riconosceva e lo ammetteva di fronte a se stesso proprio ed esattamente in quel momento) che inizia al sesso l’uomo.

È la donna che gli apre le porte di questa dimensione oscura, inaccessibile eppure incantevole, che addirittura gliele spalanca, facendo sì che egli non abbia paura, paura essenzialmente della vita ma, principalmente e soprattutto, della morte.

Ella lo prende per mano come un bambino e lo guida, lo conduce, gli fa affrontare prove durissime e ostacoli quasi insormontabili e glieli fa superare tutti, lasciandogli soltanto il ricordo sfocato degli attimi più dolorosi e impossibili. Non si racconta forse ciò nell’Epopea di Gilgamesh, il più antico poema dell’umanità? La dea Isthar non si presenta, forse, nelle vesti di una ragazza esperta nelle cose dell’amore, al semi-selvaggio uomo delle foreste Enkidu e lo seduce, lo tempra e lo addolcisce, da essere brutale e primitivo lo “trasforma” in uomo proprio per mezzo del sesso insegnandogli al riguardo cose davvero terribili, sconosciute e meravigliose mitigando, così, la sua natura ferina, animale? Deve essere successo millenni fa quando il mondo… cioè l’uomo aveva appena iniziato l’avventura della vita e della conoscenza, il suo cammino lento e discontinuo verso mete ancora da definire ma di sicuro ambiziose e alte. Ah… ed Enkidu, il terribile Enkidu, l’arciere le cui frecce non mancano mai il bersaglio, si lascia avvicinare, prendere per mano e guidare, docile come un bue, calmo come un pavone, innocente e incontaminato come un bambino… Con Lidia si sarebbe sciolto e liquefatto, e rimodellato di nuovo come argilla viva al tocco del fuoco e di mani esperte che ne sapranno trarre una forma duratura e perfetta. Lidia Lidia Lidia. Un nome, soltanto un nome nella memoria, che forse non apparterrà mai più ad un essere vivo, ad una donna, di carne e di sangue; ad una donna, ad una ragazza che non vedrà forse più… mai più. Una freccia bianca, una freccia rossa, una freccia d’argento per te, Lidia.

I treni dove ho viaggiato per cercarti. Per trovarti. Per ri-trovarti. “Freccia del Sud” il treno… il nostro treno.

Il treno dove ho percepito, per la prima volta, il tuo profumo, vivendolo e portandolo con me, nella mia mente come la sola traccia di te, l’unico “filo di

Arianna” che mi avrebbe potuto condurre a te nel labirinto dei miei deliri e dei miei sogni, della mia rabbia e delle mie frustrazioni, del mio lottare e del mio soccombere, della mia impotenza contro le forze del male e del mio disinganno nei riguardi della gente, delle mie illusioni e delle mie delusioni, delle mie sconfitte e delle mie vittorie. Sì sì si. Quel treno. Quel giorno. Un giorno come un altro. Non avrei mai immaginato che avrebbe cambiato la mia vita, che mi avrebbe fatto riflettere su me stesso e sull’uomo, che mi avrebbe, forse, fatto comprendere un po’ di più me stesso e l’uomo. Lidia, amo il tuo corpo ma ancora di più la tua anima, il tuo essere donna, il tuo modo di esprimere le emozioni, la tua personalità, il tuo modo di ridere o di piangere, il tuo modo di gioire o di soffrire, anche se non li conosco; perché è come se li conoscessi da sempre. Da un tempo immemorabile eppure mai trascorso. Sì, da sempre.

Oh Lidia. È stato quasi come un appuntamento con il Destino: il mio destino. Ti ho cercata dove una freccia scoccata da mano abile avrebbe potuto portarmi, sapendo che lì, lungo la sua traiettoria o il suo tragitto, veloce come il vento o come un sibilo di serpente nell’aria, ti avrei potuta trovare. Ti ho cercata dove la freccia del tuo profumo e quella del mio amore per te mi hanno indicato di cercare, di immaginare, di pensare, simile ad un vettore che fende il cielo, i volti, gli oggetti in una frazione di attimo, in un giorno, in una settimana, in un mese o in un anno oppure per l’Eternità, ritrovandosi poi, in quella stessa frazione di attimo, dopo un giorno, una settimana, un mese un anno, o l’Eternità dritto su un bersaglio vuoto, inerte, dolorosamente inerte e inerme, muto e senza vita.

Lidia, dove sei? Perché sei fuggita da me? Sei fuggita dall’uomo. Dal maschio. Lo so. L’ho capito. Sei fuggita da ciò che io rappresento e da ciò che in me vedi. Allora, sì, è stato giusto fuggire. Un uomo non amerà mai. Non accoglierà mai. Non riscalderà mai. Non vedrà e non udrà mai. Non capirà mai e non comprenderà mai. Ma soprattutto non cambierà mai. Non è vero? Perché stare a perdere tempo con lui? Perché fidarsi di lui? Perché pensare che sia onesto, gentile, buono, leale, dolce, un idealista spietato, un cavaliere senza macchia? Perché? Quando sa solo umiliare, seviziare, violentare, uccidere la donna? Quando il solo rapporto che riesce a stabilire con lei è fatto di sesso senza amore, di amore senza sesso, di uno stare insieme senza né sesso, né amore, né dialogo?

Hai dalla tua parte tutte le ragioni del mondo. Sì. Lo ammetto.

Ma io… ma io. Vedi, io… non sono un maschio, sono prima di tutto un uomo, che ha bisogno della donna per completarsi, che ha bisogno di te come donna, innanzitutto; perché, lo capisco… sì, capisco anche questo proprio adesso. Tu sei parte di me: sei sempre stata parte di me. La parte più sublime, più alta, più vera. Sì, la parte migliore di me!

È stato tutto inutile? Ho sbagliato tutto? Ho solo rubato tempo agli anni galoppanti della mia gioventù?

Ho solo sottratto giorni importanti al mio tempo di realizzazione umana e professionale votato alla difficile e troppo grande missione di salvare vite? Vite di donne, soprattutto?

Lidia, il nome di una terra del ato o di una donna del presente? Non lo so. Non lo so più. Respirò profondamente e rilassò i muscoli. Il mare era una tavola che si increspava appena appena per una brezza calda che soffiava da sud-ovest e gonfiava le molte vele bianche vicine e lontane, le quali si muovevano lungo tutta la linea dell’orizzonte. Nell’aria si sperdevano voci di bambini immersi in giochi sulla spiaggia, in un mondo tutto loro, staccato da quello degli adulti. Un mondo a parte.

Infilò la mano in una tasca del giubbotto di tessuto leggero e naturale,come l’estate che stava per finire, e che forse avrebbe indossato per tutto il mese, e tirò fuori un ciottolo bianco con su scritto un nome, Lidia, con un pennarello azzurro. E fu tentato di scagliarlo alle onde. Di scagliarlo con forza in quel mare liscio come l’olio e di un immutabile colore preternaturale.

Lo stava per fare… quando intravide, alla sua destra, una figuretta esile e armoniosa che veniva verso di lui e gli faceva vela col braccio alzato.

Lidia!!! La riconobbe all’istante. Si alzò di scatto e le andò incontro. Era proprio lei! E la traccia del suo profumo scomparve per sempre dalla mente di Daniel.

«Lidia, sei ritornata… Ti ho cercata sul treno. Su ogni treno.»

«Lo so. Solo un uomo innamorato può fare questo.» Lo interruppe lei. E lo guardò negli occhi.

«Sì, sono innamorato di te, Lidia. Sono innamorato di te fin da quando eri soltanto la ragazza sul treno.

E non mi importa se tu non lo sei di me. Io di te lo sarò sempre.»

Lidia lo abbracciò, e gli sfiorò le labbra con le sue.

«Oh sciocco che sei… ma diverso da tutti gli altri uomini nei riguardi delle donne. Guarda.»

Ed estrasse il suo ciottolo bianco dallo zainetto, con su scritto un nome, Daniel, con un pennarello azzurro come i riflessi di quel mare.

«È per questo che ce li siamo scambiati, per questo che ho voluto che ce li scambiassimo: perché un giorno, dopo che tu avresti compiuto uno strano e periglioso viaggio all’interno di te stesso e dell’archetipo femminile, ci saremmo incontrati di nuovo su questa spiaggia. Ora possiamo scagliarli insieme nel mare profondo, perché ne sei uscito vittorioso. Hai superato la prova. Dai, su.» E lo esortò a compiere il gesto insieme.

Li scagliarono lontano e forse in profondità, mentre Lidia gli sussurrava: “Sono innamorata di te. Ti amo, Daniel”. E, qualche istante dopo, sorgeva dalle acque il miraggio reale di una città di cristallo inabissatasi in un tempo mitico, di leggenda e di sogno.

«Ma è proprio vero?!...» Chiese Daniel sbalordito. Lidia sorrise maliziosamente senza dire nulla.

«Sì, il fenomeno della Fata Morgana ha sempre fatto sorgere cose meravigliose in questo tratto di mare. Le ho viste da bambino quando ci venivo con mia madre.»

Si gettarono le braccia al collo e si baciarono a lungo. Apionatamente. Teneramente. Quando si staccarono un po’ per riprendere fiato, Daniel disse perplesso: «Chissà se anche gli altri stanno guardando lo spettacolo straordinario di questa città sommersa?»

«No. Solo gli innamorati possono “richiamarla” dagli abissi del mare e vederla con i loro occhi. Ricordi la leggenda?» Rispose Lidia sicura.

Daniel fece di sì col capo, e continuarono a baciarsi ancora a lungo, con tenerezza e, allo stesso tempo, con ione, ormai fuse e indistinguibili.

Quando si staccarono di nuovo, accaldati e un po’ sudati, Daniel propose, felice più di un bambino che gioca da solo con la sabbia del mare contandone i granelli uno ad uno: «Ho voglia di fare una bella nuotata, e tu?»

Lidia rispose di sì.

«Lo sai che nuoto bene come un delfino fin da quando avevo due anni?»

E Lidia: «Anch’io nuoto proprio come un delfino, però da quando ne avevo cinque di anni. Ma non abbiamo il costume…»

«Ah se è per questo, c’è un negozio, non lontano da qui, che vende costumi da bagno di ogni tipo e di ogni colore. Sarà ancora aperto anche a fine stagione. Su andiamoci.»

Si presero per mano e andarono a cercare il negozio menzionato da Daniel.

«Sei un po’ civettuola.» Diceva Daniel.

«Come tutte le donne.» Ribatteva Lidia.

«Forse un po’ di più di tutte le altre donne.» Concluse Daniel.

Risero entrambi. E continuarono a camminare sotto un sole ancora molto caldo e molto alto nel cielo.

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