Il Treno dei desideri infranti
Davide Emanuele Iannace
Osservò il Treno svanire senza che il Costruttore dicesse nulla. Da qualche parte, qualcuno aveva ancora bisogno di un aggio. Un aggio per morire o tornare a vivere, un aggio non per il viaggio senza fine, ma per finire il proprio viaggio
PARTE I
Era tutto molto, molto strano per Andrea. In quel preciso momento non c’era nulla di normale nella quasi visione che gli era apparsa dinanzi gli occhi. E non c’era nulla che, da quel momento in poi, lo sarebbe stato. Le foglie cadevano dagli alberi lentamente, ingiallite dall’autunno appena giunto. Un venticello appena freddo soffiava da est, scuotendo le vesti dei pochi eggeri che stavano per imbarcarsi in quella stazione dimenticata dagli uomini. C’era un edificio, giallo, cadente a pezzi in un modo a dir poco incredibile. Le poche volte che lo aveva osservato Andrea si era sempre chiesto se ci fosse qualcuno veramente a custodirlo. Ora lo notava, un vecchietto gobbo che in una logora uniforme provava a fare il lavoro di una squadra. Il ragazzo si accomodò su una panca devastata dalle intemperie. Scostò delle foglie, posando il suo piccolo borsone al suo fianco e stringendo i pugni mentre attendeva il treno. Gli parve di notare della polvere sulle rotaie, come se qualcuno non le avesse utilizzate da molto tempo. Il silenzio attanagliava la stazione sperduta tra le colline. Le banchine erano povere di persone, non notò che pochissimi altri viandanti silenziosi come lui, divisi come atomi liberi in uno spazio vuoto. Un vecchietto leggeva il giornale sgualcito, una ragazza osservata apatica davanti a lei, sullo stesso lato di Andrea, che notò i fili bianchi di cuffie che le cadevano dalle orecchie fino ad una tasca. Un uomo con un mano una valigia premeva tasti su un palmare grande, chiuso nel suo impermeabile. Andrea sentì che ogni tanto tirava su con il naso, forse raffreddato. Non era dì lì. Quattro persone in totale, erano quasi uno spreco di carburante come fermata. Il vento continuava a soffiare placidamente, indaffarato nella sua esistenza, incurante delle anime che vivevano sotto i suoi gelidi flussi. Andrea guardò verso i due lati delle rotaie. Ancora nulla. Non c’era traccia della locomotiva del regionale che in qualche modo lo avrebbe portato fuori da lì. Diede un’occhiata al vetro del suo orologio da polso. I numeri digitali lampeggiavano leggermente, indicando che erano ati dieci minuti dalle nove di mattina di un freddo otto novembre. Sospirò appena, prendendo il cellulare. Fece una smorfia notando la mancanza di campo, come ogni volta. Non c’era mai campo da quelle parti. Cominciò a giocare ad un anonimo prodotto virtuale di un’anonima casa produttrice, attendendo. arono almeno altri venti minuti prima che una vaga
sirena suonasse in lontananza. Si alzò con calma, prendendo il borsone e guardando da dove provenisse il treno. Era un regionale ed Andrea si aspettava ben presto di sentire il motore diesel cominciare a rombare senza sosta tra le poche colonne del vecchio edificio. Ma non fu così. No, perché non c’era di certo spazio per un motore diesel in una carrozza di inizio ‘900, che sbuffava vapore da un comignolo nero come il carbone da cui prendeva energia. Stupefatto osservò il treno avanzare fino a fermarsi nel bel mezzo delle rotaie. Si guardò intorno, ammirando quello che in tutto e per tutto era un perfetto treno a vapore del ‘900. Molte carrozze avevano le tende scostate, aperte, indicando che erano vuote. Quasi tutte lo erano. Andrea osservò il treno, tornando a sedersi deluso. Non era il suo, doveva ancora attendere. Nessun altro dei presenti si mosse, nessuno doveva salire su quei vagoni. Stava per tornare a giocare quando qualcuno scese. Era un uomo, questo lo si capiva dalla postura. Portava una divisa verde ed argento, elegante e sicuramente d’epoca. Aveva con se un piccolo bastone e una borsa da cui straripava carta bagnata d’inchiostro più o meno fresco. L’uomo scese sui binari, guardandosi intorno. Diede una vaga occhiata alla struttura della stazione, prima di voltarsi verso i pendolari. Li scrutò tutti, uno per uno. Aveva due grossi occhi verde smeraldo e molte rughe ad accompagnarli. Si diresse verso Andrea, che gli era vicinissimo « Salve » disse semplicemente. Il giovane si ritrovò quasi spaesato « Salve a lei … posso aiutarla? » chiese di rimando « No, ma sono sicuro che sarò io ad aiutare lei » Andrea fece una smorfia, senza rispondere. Che fosse pazzo quell’uomo? « Lei attendeva il Regionale 15? » « Si » « Lo hanno soppresso, però se vuole può trovare un aggio con noi » il giovane osservò l’uomo, quasi stupefatto « Scusi? » « Le ho detto che hanno soppresso il Regionale 15, e che se vuole possiamo darle un aggio noi visto che siamo di transito » ripeté l’uomo, facendo modo che un sorriso condiscendente si creasse sul viso. « Il Regionale 15 non è stato soppresso, lo avrebbero detto » rispose Andrea, facendo un cenno, scuro in viso. L’uomo capì cosa voleva dire e si allontanò,
riponendo una lettera che aveva appena preso e dirigendosi dalla ragazza. Che avesse o meno replicato il discorso che aveva appena completato con Andrea, il ragazzo stesso non poteva dirlo. Ma poco dopo si mosse verso l’uomo d’affari ed anche verso il vecchio signore. Loro due si mossero quasi subito. Rimasero sulla banchina la ragazza dalle cuffie bianche ed Andrea. Per qualche istante si scambiarono un’occhiata come a capire le intenzioni uno dell’altra ed una dell’altro. Era una situazione ironica il doversi appoggiare ad uno sconosciuto. L’uomo sceso dal treno era di nuovo salito, ma non entrato nella carrozza. Era sugli scalini che lo avrebbero fatto sparire tra il vapore, che lentamente tornava ad occupare i binari, come a preparare una partenza. Andrea si voltò verso la stazione, alzandosi e si guardò intorno. Gli aveva forse mentito l’uomo che adesso lo guardava da lontano attendendo? Non lo seppe mai, perché in quel momento prese una scelta. Dopotutto, ogni treno era buono pur di allontanarsi da lì. Strinse la mano destra intorno la presa del suo borsone e si imbarcò. La ragazza lo seguì dopo due secondi, spinta da un impulso che avrebbe chiarito solo dopo. Il treno partì, rumoroso com’era arrivato, lasciando dietro di se una scia di polvere e di fumo. E dopo dieci minuti, fu sostituito dalla presenza di un Regionale che avrebbe dovuto prendere quattro eggeri. Ma il Regionale non si fermò. Non si fermò perché, nella lista eggeri, nessuno sarebbe dovuto scendere lì e nessuno sarebbe dovuto salire lì. E il perché avessero allungato proprio per quel paese, il capotreno non se lo seppe spiegare.
Seppur qualcuno avesse voluto ripensarci, nessuno sarebbe riuscito a scendere al volo di nuovo dal treno. Lasciandosi dietro una scia di fumo come se fosse in un secolo antecedente il treno aveva ripreso a correre. Andrea non si era ancora accorto di quel che era successo che si ritrovava già in movimento e di certo non verso la sua destinazione. No, aveva interpretato troppo bene sia il viso che le parole di quell’uomo e sapeva perfettamente che aveva mentito. Non sapeva se chi lo aveva seguito e preceduto sul treno avesse capito la realtà, ma a lui non interessava per nulla dove stava andando. Non gli interessava tornare in città, all’università, nel miscuglio di gente di ogni sesso, età e razza che si mischiava come un grovigli di fili in un gomitolo sospinto da un gatto annoiato. Non aveva interessi lì, non più almeno. Guardò alle sue spalle il paesaggio muoversi al ritmo delle motrici del treno, osservando gli alberi farsi seguire da altri alberi, ed ancora, ancora ed ancora, come un ritornello senza fine. Prese il borsone, guardando all’interno di un corridoio perfettamente vuoto. Due porticelle davano su di lui prima dell’uscita dalla carrozza ed erano tutte e due porte aperte. Si
avvicinò alla più vicina a lui, osservando l’interno. Era una piccola camera da letto, composta da un letto apparentemente comodo, da una scrivania, un armadio e forse un bagno. La camera che seguiva era uguale, si differenziava per il colore delle coperte del letto e per un quadro. Si guardò di nuovo intorno. Non c’erano segni di vita in quella carrozza, e capì che avrebbe dovuto esplorare parecchio per trovarne qualcuno. Ma fu la vita a venire da lui. Comparve un cameriere, vestito come l’uomo che era sceso dal treno, ma indubbiamente più giovane. Sorrideva appena, impercettibile quasi, di un sorriso scaltro, furbo « Salve signore … ha già scelto la stanza? Io le consiglio quella … sa, meno rumore » « Devo scegliere una delle camere? » « A meno che non voglia dormire nel corridoio signore » rispose il cameriere trattenendo una mezza risata « Signore, la cena sarà servita alle ore otto nella Carrozza Visconti. Il suo è il tavolo otto » il cameriere si allontanò, avvicinandosi alla porta d’uscita e ando in un’altra carrozza. Senza pensarci due volte Andrea si infilò dove il ragazzo aveva indicato. Si chiuse la porta alle sue spalle, avvicinandosi ad una finestra leggermente aperta. L’aria fresca penetrava tra i legni della carrozza in modo rapido ma quasi fastidioso e quando la chiuse si sentì decisamente più contento. SI diede una rinfrescata, appoggiandosi al vetro poco dopo, fissando il paesaggio in modo quasi malinconico. Non era un comportamento che gli si s'addiceva, non gli si era mai stato dato del romantico. Eppure, in quel momento, non c’era stato d’animo che più gli si poteva avvicinare di quello. Era strano quanto le pene potevano cambiare una persona, in modo positivo o negativo non era importante, contava il fatto che in qualche modo era cambiato. Fissò il paesaggio diventare un enorme lago quasi senza fine, e non aveva neanche importanza il sapere che non c’erano mai stati laghi in quella zona. Ora, in quel momento, contava solo il sublime che nasceva dal fissare un sole morente coricarsi nella sua tomba prima della prossima rinascita donando gli ultimi raggi ad un lago incantato cinto da case isolate e da un monte che beffardo si godeva la sua vista sul paesaggio. Andrea sorrise impercettibilmente, pensando a quanto, in qualche modo, sarebbe stato un paesaggio fantastico, se non fosse stato da solo. Si girò, uscendo nel corridoio mentre l’orologio segnava le sette del pomeriggio. Il treno sobbalzava lentamente scorrendo metro dopo metro le ferrose rotaie. Andrea cambiò carrozza, finendo in una uguale a quella che aveva lasciata,
vuota. Ne attraversò altre tre, in una sola trovò una porta chiusa ma non osò bussare. Finalmente arrivò in un ambiente nuovo. Un piccolo cartello nominava la carrozza “Medici”, di certo non quella della cena. Si guardò intorno, capendo di trovarsi in un salotto del tutto vuoto. Le tendine delle finestre, otto a lato, erano chiuse per evitare che molta luce entrasse. Lampadari irradiavano di una tenue luce verde la carrozza intera mentre delle poltrone quasi del medesimo colore occupavano gran parte dello spazio, insieme a piccoli mobiletti e qualche libreria. Il giovane si avvicinò proprio ad una delle prime, delicatamente sedendosi e guardandosi intorno, ancora solo. Sembrava esserci solo lui a bordo di quel treno e non sapeva se dolersene o meno. Forse un po’ di solitudine lo avrebbe aiutato nel mettere pace alle idee che vorticosamente gli frullavano nella testa. Appoggiò il braccio destro al bracciolo, lasciandolo pendolare lungo il fianco del velluto, sfiorando delicatamente una libreria di mogano scuro riempita di libri di ogni grandezza. Li osservò di sfuggita, le lettere dorate intagliate quasi tutte su morbide superfici di cuoio indurito. Ne prese uno quasi a caso, trovandosi poi per le mani un’edizione rara de “Le Lettere Persiane”. Ne aveva sentito parlare, a liceo, da parte di qualcuno. Montesquieu era l’autore. Non gli era mai interessato più di tanto, ma apparve avere un’importanza quasi spropositata in quell’attimo. Lo prese, aprendolo sull’introduzione dell’autore stesso. Fiumi parole, pensieri sotto forma di lettere e sapere quasi puro cominciarono ad elevarsi dall’inchiostro vecchio ed incrostato per raggiungere Andrea. Finì, quasi per caso, a cullarsi tra i pensieri di Ubsek e Rica nel selvaggio Occidente e delle lotte nel serraglio mentre, secondo dopo secondo, il tempo ava. E quasi invisibile il cameriere si avvicinò, alle otto meno cinque, alla poltrona dove Andrea leggeva « Signore, la cena è pronta. L’accompagno alla carrozza? » Andrea osservò il cameriere, un altro giovanotto nella divisa verde-argento dal fare più cortese di quello che aveva incontrato. Posò il libro, promettendosi di finirlo mentre si alzava. Superò la carrozza “Medici” entrando in “Visconti” subito dopo. Era grande come il salotto, ma addobbata in modo differente per ovvi motivi. Le tende al fianco dei tavoli erano di un bianco angelico, c’era la notte fuori e nessuna luce, se non la poetica fiammella di varie candele sistemate sui tavoli. Ancora una volta non c’era nessuno. I tavoli erano sparpagliati per tutto il vagone. Erano per lo più a due posti, pochi a quattro. C’erano dei camerieri negli angoli pronti a servire gli ospiti, ma se la situazione fosse rimasta la stessa Andrea pensò che anche uno era troppo. Il ragazzo che era venuto a prenderlo lo fece accomodare. Fuori dal vetro poteva osservare il lago di prima continuare a scorrere, quasi finendo, ne era sicuro. In lontananza gli parve di notare un
agglomerato di edifici, forse un villaggio sperduto tra i monti ed i boschi, qualche luce alzarsi da esso. Ma fu per qualche istante, poi un piccolo esercito di alberi gli oscurò la vista e quando furono ati le luci erano sparite. Mise il tovagliolo sulle gambe « Cosa si può cenare? » « Il cuoco ha preparato svariate pietanze … le porto il menù » il ragazzo si diresse verso le cucine mentre Andrea si vedeva avvicinare da un altro cameriere « Il signore desidera da bere? » « Acqua naturale » la situazione era diventata finalmente tranquilla. Quasi per magia i due camerieri gli portarono prima l’acqua, rigorosamente fresca ed a temperatura ambiente ed un menù di carta delicata. Indicò al primo un primo, un secondo, contorni, frutta e dessert ed entrambi sparirono dietro le porte mobili della cucina. Andrea era di nuovo solo. Un orologio a torre segnava le otto e dieci. Forse nessuno aveva accettato l’invito a cena? L’italiano sospirò leggermente, osservando il suo tavolo preparato per uno vicino tanti tavoli preparati per uno. Come se tutti, a bordo, fossero entrati per caso in un momento particolare e fosse prevista la loro divisione. Il primo piatto arrivò poco dopo istanti, portato elegantemente da un terzo cameriere. Cominciò a chiedersi Andrea se non fosse lui l’unico eggero. Aveva scelto degli spaghetti panna e funghi, una cosa semplice, che però lo avrebbe certamente riempito. Non aveva mangiato né a pranzo né a colazione e il suo stomaco reclamava nuove energie. Affondò la forchetta nella pasta, cominciando a gustarsi il piatto. Preso dal mangiare non notò che due persone, poco dopo che la sua portata arrivò, entrarono quasi contemporaneamente ma non insieme. I due presero posto ad altri due tavoli ed Andrea si accorse di loro solo quando sentì delle parole bisbigliate nell’oscurità delle candele. Voltò il capo pulendosi le labbra con il fazzoletto di lino. Una era la ragazza della stazione che lo aveva seguito sul treno. Come lui, non si era cambiata. Era ancora in tenuta da viaggio, come se si aspettasse, anche lei, di arrivare da un momento all’altro ed abbandonare quel treno in qualche modo carico di misteri. L’altro era un ragazzo, esattamente come loro. Giovane ed appena visibile nella penombra. Era vestito come ci si aspettava da qualcuno a bordo di un treno di lusso. L’abito nero e bianco quasi risplendeva nell’oscurità e l’unica cosa che per qualche secondo Andrea intravide del suo fisico furono gli occhi di un nero profondo che quasi specchiarono la fiamma delle candele. I camerieri gli portarono bevande e cibo
senza chiedere, conoscendo forse perfettamente i gusti del terzo ospite della carrozza “Visconti”. Nessuno scambiò parole con nessun altro. Non ci furono altri bisbigli, i camerieri comparivano e sparivano al suono dei rintocchi delle lancette dell’orologio in modo regolare, perfetto. I tre ospiti si guardavano a turno l’un altro, evitando di incrociare gli occhi tra di loro, quasi timidi nel loro silenzio e nel loro isolamento. Andrea si vide interessato non solo alla ragazza dai lineamenti mascherati dall’ombra ma anche dal ragazzo, che a differenza loro pareva esser di casa. Ma lo attirava, impercettibilmente, anche il paesaggio. Scostò silenzioso le tende bianche, osservando la notte fuori dal treno. Qualche filo di vapore era visibile, il lago era sparito ed al suo posto vi erano sterminate campagne dall’apparente freddezza. Case isolate cinte di enormi poderi, una cappella silente e tranquilla coperta da un manto d’edera rampicante, un campanile che rammentava il riposo. Ecco che gli occhi di Andrea si riuscirono a posare su un paesello distante. Luci di festa, forse, lo animavano. Risplendevano come quelle di un grattacielo in una città ed illuminavano il circondario. Sembrava il riparo tranquillo dalle bestie feroci nella notte oscura, quella in cui le fiere escono dai loro nascondigli per depredare affamate. Sarebbe volentieri corso in quel paesello sperduto, sicuramente sarebbe stato meglio che in qualunque altro posto. Sospirò, vedendosi arrivare infine il dessert. Nel muovere gli occhi notò che il ragazzo si era seduto con la ragazza. Scambiavano poche e silenziose parole. Chissà chi aveva fatto la prima mossa, non lo aveva proprio notato. Forse era stata lei a far un segno a lui che, elegantemente, aveva deciso di non far alzare la dama e dirigersi al suo tavolo? O forse impunemente si era alzato lui stesso e con fare galante aveva preso posto. Mangiò il dolce al cacao con fare svelto, liberandosi dal peso di essere il terzo incomodo e ritornando nella carrozza “Medici”, lasciando alle candele l’arduo compito di sostenere il primo incontro tra l’elegante e la silenziosa. Si buttò sulla poltrona da cui, a pancia piena, mal volentieri avrebbe di nuovo tolto il suo peso. Riprese “Le Lettere persiane” e ricominciò a leggere da dove gli parve di aver lasciato, pagina più, pagina meno. Le parole tornarono a scorrere tranquille nella mente del giovane e così anche il silenzio, che mai lo aveva abbandonato. Riusciva a sentire quasi come sottofondo le metalliche ruote girare sotto di lui, ma erano un suono incredibilmente lontano, di certo per l’astuzia degli ingegneri che avevano messo mano al treno. Sfogliò un’altra pagina, distratto solo dai suoi stessi pensieri e dalla luce innaturalmente verde. Era una luce che quasi distraeva, tanto sembrava strana. Minuto dopo minuto Andrea vi faceva sempre meno caso ma sprecava qualche istante ad osservarne la fonte o come contornava gli oggetti ne salotto-biblioteca. Donava loro una
forma che, era sicuro, sotto una luce diversa non avrebbero mai avuto. E mentre le parole del filosofo se continuavano ad arrivargli agli occhi, le domande più basilari continuavano a farsi strada nella sua testa. Cos’era il treno su cui era comodamente seduto? Perché lo avevano invitato a salire e stavano veramente andando verso la stazione a cui, inizialmente, era diretto? Andrea chiuse il libro, riponendolo sopra un tavolino ed incrociando le mani dietro la nuca, appoggiandovi il capo e guardando per bene il salotto. Cosa poteva capire da quella stanza? Qualcuno aveva speso tempo e risorse per ristrutturare un vecchio treno, aggiornarlo forse, renderlo migliore di ciò che era in origine e renderlo confortevole per gli ospiti. Ma perché aveva invitato proprio lui, il vecchio, l’uomo e la ragazza e chissà quanti altri? Non vi erano legami, almeno lui non conosceva nessuno degli altri eggeri che aveva visto sino a quel momento. L’unico loro legame era l’attesa per un regionale che a detta del capotreno non sarebbe arrivato. E tutti e quattro aveva, incoscientemente, accettato l’invito di un perfetto sconosciuto. Avevano tutti fretta di partire? Nessuno poteva sprecare qualche istante a richiamare la biglietteria della stazione o semplicemente a consultare il tabellone? Nessuno lo aveva fatto, e questo era ciò che più di tutto dava a che pensare ad Andrea. Lui sapeva perché aveva accettato al volo, perché non avrebbe sopportato un solo istante di più tra i binari e le case screpolate di quel villaggio morente. Non avrebbe più messo piede lì, lo sapeva e ne era felice. Tornarci, per lui, sarebbe voluto dire morire dentro l’animo, ferito e sanguinante. Si rifiutò categoricamente di voler anche solo pensare a riprovare ciò, che quel suo ultimo viaggio a casa, gli aveva portato. Che fosse così anche per le altre tre persone che erano salite? Che anche loro fossero carichi di rancore, rabbia e dolore in un modo così grande da voler, per forza di cose, fuggire da lì? Come spinge a correre e fuggire l’irrazionale terrore. Una paura senza senso di cose che lo hanno, di ombre che possono diventare solide minacce di psiche non sempre integre. E così era Andrea, in un certo senso, almeno lui si sentiva così. Dalla psiche non tanto integra, danneggiata da anni di abusi di intelligenza, alcool e creatività. Tre cose in qualche modo strettamente connesse. Mentre osservava la carrozza “Medici”, traballante su rotaie vecchie di anni ed oramai arrugginite, si rendeva conto che in qualche modo stava comprendendo, almeno alla lontana, perché era salito su quel treno. Si alzò dalla poltrona, avvicinandosi al capo opposto della stanza, scostando le tende verdastre ed osservando il paesaggio. Rimase deluso, poiché tutto ciò che poteva era nebbia senza fine, che copriva da un palmo di distanza fino al buio infinito che celava chissà cosa. Potevano essere in montagna, sul mare, vicino i laghi. Pareva che il treno non
seguisse affatto la continuità geografica di quei posti che Andrea conosceva. Ed il ragazzo si rese conto che la cosa non lo spaventava affatto. Normalmente avrebbe dovuto cominciare ad avere tremori, terrore, paura. Ma aveva già provato tutto quello, proprio poche ore fa e si rese conto di esserne immune. Non poteva far altro che godersi lo spettacolo e capire in cosa era entrato. Si appoggiò al vetro, tranquillo, respirando inerme ed osservando l’ovatta che pareva aver avvolto il treno. « Curioso … tra tante cose, osservare la nebbia? » « Cosa c’è di così strano? » chiese di rimando Andrea. Osservò di slancio il riflesso nel vetro. Il ragazzo elegante era alle sue spalle, coperto dalla penombra, accomodato vicino a dove prima si era seduto proprio Andrea « Di solito si guarda il paesaggio per noia » « Ho il vanto di non essere mai il “solito” di qualcosa » « Ah ottimo, ma dopotutto … » « Dopotutto? » incitò il ragazzo, senza voltarsi e mettendo le mani in tasca « Non credo ci sia un “solito” o un “normale”, non a bordo di questo treno » il seduto parve armeggiare con un paio di guanti. « Davvero? » « Si, davvero. Ho scambiato due parole con … prima, nella carrozza ristorante. Ed ora che le scambio con te, mi rendo conto che veramente non c’è nulla di normale qui a bordo » « Felice che sia così. La normalità non è mai stata per me » Andrea posò gli occhi di nuovo sul vetro, come a controllare che quel fantasma con forma quasi corporea non si fosse mossa. Era ancora lì, semi-visibile. Impossibile per Andrea dire se non fosse solo uno scherzo della sua mente « Quando sei salito? » « Una fermata fa »
« Ah, da poco a bordo … » « Sarebbe stato difficile non notare un nuovo eggero » sbuffò il giovane « No, per nulla. Ho incontrato ieri persone che erano qui da prima di me e che non avevo mai visto. C’è da dire che la discrezione è la qualità più tenuta in considerazione a bordo, insieme al lusso ed alla gentilezza » il giovane fece una pausa evocativa « E tu sei qui da solo una fermata e già ti ho visto. Ha un che di divertente » « Se lo dici tu » « Beh ognuno ha i suoi standard di divertimento. Chissà quali sono i tuoi … » la figura si alzò, finendo quasi nell’ombra più totale « So che ci rivedremo, buona notte » Andrea rimase di nuovo solo, senza aver capito assolutamente nulla di quello che era successo. Era la norma, se si poteva parlare di norma, affrontare la gente in quel modo, alle spalle, nell’ombra, su quel treno? Non si erano presentati, non avevano che scambiato parole a cui dare un senso solo dopo un’attenta analisi. Chi era quel ragazzo? Andrea restò appoggiato al vetro a chiederselo fino al primo rintocco della mezzanotte. L’orologio della “Medici” suonava ed era ora di andare a riposare. Rimise il libro di Montesquieu nel suo ripiano e tornò nella sua cabina. Si chiuse la porta alle spalle prima di buttarsi sul letto. Socchiuse gli occhi e quando li riaprì c’era il sole. Era un sole non molto alto, era forse l’alba. Aveva dormito così poco, solo sei ore? O forse era ato un intero giorno? Il ragazzo si alzò, prendendo il suo smartphone dalla tasca dei pantaloni. No, aveva solo dormito sei ore. Tirò un sospiro di sollievo ma il suo umore calò rapidamente quando notò che non aveva ricevuto chiamate. Era mai possibile? Il campo c’era, eppure non aveva ricevuto nessuna telefonata, non dai suoi genitori, non dai suoi amici che lo attendeva all’università. Nessuno lo aveva cercato. Ebbe uno scatto d’ira e lanciò il cellulare contro il cuscino, prima di buttarsi nel bagno e darsi una rinfrescata. Riuscì appena ad asciugarsi il viso che qualcuno bussò alla porta. Aprì con un gesto secco, trovandosi dinanzi un cameriere, lo stesso che gli aveva portato l’acqua il giorno prima « Signore, la Direzione le porge il benvenuto a bordo. Mi hanno detto di lasciarle questo » indicò un borsone « Cosa c’è dentro? » « Le cose che servono per un viaggio signore » il cameriere fece un leggero
inchino. I capelli neri si mossero appena sopra il viso tranquillo, poi lo stesso si allontanò. Andrea portò nella camera il borsone e lo aprì. Era pieno di abiti, ordinati, stirati e sistemati, tutti per lui. Si stupì non poco. Erano tutti, in qualche modo, della sua taglia. Tutti gli andavano e lo capì senza neanche aver bisogno di provarli. Qualcuno gli aveva appena suggerito che la sua presenza si sarebbe prolungata per un po’ di tempo. Notò con la coda dell’occhio una cassetta che dava sull’esterno, per la lavanderia. Si cambiò, mettendosi addosso jeans e maglietta prima di uscire prendendo una felpa scura. Il corridoio era come sempre vuoto. Si diresse autonomamente alla carrozza “Visconti”, sentiva un leggero languorino, nonostante la cena fosse stata abbastanza saziante. Si accomodò al tavolino della sera precedente, accennando ad un saluto ai due camerieri presenti. Ordinò ed attese che gli venne portato. La luce del primo sole illuminava un paesaggio che non ricordava o almeno non collegava proprio alla sua area. Le montagne avevano le punte bagnate di bianca neve, con pendi dolci e per nulla ripidi, ricoperti da fulgidi boschi di sempreverdi e gli parve anche di campi di fiori che risplendevano di mille colori in quella giornata d’autunno, se era ancora autunno. Un’enorme valle verde si distendeva tra due monti che sembravano gareggiare in altezza, uno più magnifico dell’altro ed esattamente tra loro si trovava un fortino abbandonato, cinto da case in legno e muratura, ne era sicuro ad intuito. Fattorie e pascoli occupavano lo spazio tra la ferrovia e quel piccolo pezzo di civiltà contadina che intrepida continuava la sua vita distante dai rumori e dalle difficoltà che il mondo moderno, irrimediabilmente, portava con se. La semplicità di quello che poteva essere quel paese sembrò un richiamo per Andrea, che distolse lo sguardo per concentrarsi sul croissant e sul cappuccino che gli vennero elegantemente fatti comparire davanti il busto. Un etereo “buon appetito” diede inizio alla sua colazione. Era un giorno che si preannunciava bello come pochi. Almeno sperava Andrea. E il suo sguardo si posò nuovamente sul villaggio. E questa volta non riuscì a distogliere gli occhi. No, le sue pupille si concentrarono intensamente sul campanile che da lontano svettava tranquillo. Una piazza con una fontana ed un albero verde e rigoglioso, case agitate da bambini sempre in festa e mamme sempre impegnate. Come un flash, l’immagine si fece spazio nella mente di Andrea e gli parve più che banale fantasia, per un momento ebbe l’impressione, per nulla vaga, che fosse un ricorso ben formato nella sua memoria. Scosse appena le spalle, come a svegliare del tutto gli indolenziti muscoli e tornò sulla sua colazione. Quando si alzò non c’era ancora nessuno nella carrozza ristorante e l’orologio si era mosso solo di pochi minuti da quando era entrato. Sospirò, optando per tornare nel salotto-biblioteca ad attendere qualsiasi cosa. Si stava
sistemando sulla sua poltrona e stava tendendo di già la mano per catturare il volume che con tanta curiosità stava mangiando quando sentì il treno rallentare. Era un movimento costante di frenata, sentì lo stridere dei freni metallici, il motorista decelerare sempre più lentamente. Piano piano percepì che si stavano per fermare del tutto. Si avvicinò alle finestre, scostandole leggermente. SI immaginò, prima di muovere il morbido tessuto verde, di ritrovarsi dinanzi gli occhi la città in cui doveva arrivare. Fu un lampo, qualcosa che sparì subito dopo. A malapena c’era la stazione, di altre costruzioni neanche una traccia. Guardò stupefatto la quasi tetra fermata ferroviaria del giorno. Un edificio di mattoni rossi e di legno quasi marcio, il pavimento della banchina coperta da binari e l’edificio rovinato in più punti. Fece una smorfia, facendo per sedersi definitivamente, quando il capotreno entrò nella carrozza biblioteca « Signore, volevamo comunicarle che siamo arrivati … se vuole potrà scendere. C’è un paesino a meno di due chilometri dentro » sorrise leggermente « Per quanto tempo resteremo qui? » « Beh, fin a quando sarà necessario » rispose semplicemente il capotreno. Fece un leggero inchino, rimettendosi sul capo calvo il berretto che si era levato entrando. Andrea lo guardò uscire dalla parte opposta, diretto forse dagli altri ospiti ed ebbe la tentazione di seguirlo per scoprire chi condivideva con lui l’emozione di quel viaggio che, minuto dopo minuto, si faceva via via più strano. Guardò di nuovo fuori la finestra e decise che, forse, era ora di far pur due i. Scese dal treno mettendosi addosso la felpa nera che aveva preso in alloggio e guardandosi intorno con sguardo quasi pensoso. Respirò profondamente l’aria fredda che lo circondava, rabbrividendo al soffio di un vento gelido proveniente da est. Si mosse verso la stazione, con le mani in tasca, guardandosi intorno il tempo per capire che, oltre a lui, nessuno pareva in quel momento aver accolto la proposta del capotreno. La stazione era anonima, ma il paesaggio dietro di lei scosse non poco il ragazzo. Alberi che grondavano verde si muovevano al soffio di quel vento freddo che gli aveva sfiorato la pelle pochi istanti prima e sembravano in fiore, nel pieno di una primavera fredda. Eppure non era possibile. Osservò i fiori quasi sbocciare in prima mattina, la brina naturale cominciare a sparire per lasciar respirare i fili d’erba verde fulgido. Si avvicinò ad una piantina, scendendo con la mano, accarezzando le foglie come a sentirne la consistenza. Erano reali, di certo non un’efficace illusione ottica. Com’era possibile? Intorno a lui sembrava cominciare una primavera per cui, lo sapeva,
dovevano mancare almeno quattro mesi, specie in zone così fredde. Invece lì alberi e fiori si preparavano al caldo, se era possibile, che l’estate avrebbe portato. Chiuse la felpa dirigendosi a piedi lungo l’unica via che c’era in tutta l’area. Non c’erano altri aggi per andarsene dalla stazione, a meno di inoltrarsi tra i fitti rami e tronchi marrone scuro. Rimpianse in quel momento di aver lasciato cellulare e cuffie sul letto nel treno, come non era suo solito. Almeno la musica avrebbe accompagnato il suo cammino verso l’inevitabile paesino, unica destinazione possibile. Lasciava dietro di se una scia di impronte delebili sul soffice terreno di fango appena accennato che copriva sassi male disposti per fare una via. arono venti minuti di i uno dietro l’altro quando finalmente il giovane Andrea incontrò il primo edificio. Lo osservò attentamente, quasi godendosi quella vista che sapeva di antico. Un edificio in pietra biancastra e grossi tronchi di legno, con un tetto a spiovente rosso quasi fuoco sorgeva all’entrata del villaggio. Copriva proprio la viuzza che Andrea percorreva, cingendola nell’abbraccio di un resistente arco sopra cui sfoggiava un bel balcone con tavolini e sedie di legno. Le finestre erano già spalancate, ma dietro di loro fitte tende impedivano al ragazzo, dove poteva, di sbirciare al loro interno. ò sotto l’arco, entrando infine nel villaggio. L’aria di prima mattina lo permeava. C’era un locale aperto, forse l’unico nell’arco di trenta e più chilometri. La porta scostata suggeriva che qualcuno era già al lavoro. Le case, costruite tutte come la struttura all’ingresso ma nelle forme più svariate, davano i primi vaghi segni di vita. Andrea optò per il locale. Entrò, respirando un’aria ben più calda e quasi tranquilla. Dietro un bancone di legno di quercia c’erano sfilze di boccali dai più svariati segni, accompagnati da bottiglie senza segno alcuno. Ma oltre alle quantità industriali di alcool che erano presenti si sentiva anche il profumo di uova strapazzate con bacon arrostito e la cosa stuzzicò non poco il ragazzo, seppur avesse già abbondantemente mangiato. Incredibilmente aveva di nuovo fame. Un uomo stava rassettando i tavoli sparsi per uno stanzone accogliente fischiettando un motivetto sconosciuto alle orecchie dell’italiano mentre un camino bruciava gli ultimi pezzi di legno con deboli fiamme. Andrea non dovette far nessun segno perché il barman si voltasse ed osservasse il ragazzo, come studiandolo « ‘Giorno » disse pulendosi le mani grosse con un panno bianco incredibilmente lindo. Lo squadrò prima di dire « Dalla stazione? » Andrea annuì e l’uomo di mezza età che aveva davanti gli indicò un tavolo appena pulito. Il ragazzo eseguì e si sedette, tippettando con le mani sulla tovaglia di lino profumata mentre il proprietario continuava le pulizie. Pochi minuti e gli portò una generosa
porzione di quelle stesse uova di cui poco prima aveva sentito l’odore ed una bella tazza di tè fumante. Il sapore che ebbe tra le labbra sorseggiando la bevanda e mangiando le uova era diverso da quello provato nel treno, tutto più buono. Lo mangiò voracemente, come se non potesse far altro in tutta la sua vita. L’uomo che puliva gli rivolse giusto qualche altra occhiata mentre lavorava tavolo per tavolo. I minuti arono lentamente, scanditi da un orologio vicino file di bicchieri lucenti. Andrea finì la sua seconda colazione sentendosi pieno come una delle uova deliziose che aveva ingurgitato. Si guardò intorno adagiando le mani sul tavolo. L’uomo era di nuovo dietro il bancone e qualcuno aveva preso posto nel locale. Erano uomini pronti per andare al lavoro. Qualcuno accese una radiolina perché si cominciò a sentire una musichetta tra i legni della locanda. Una cameriera si aggiunse al barman che Andrea aveva visto di prima mattina e il locale, lentamente, cominciò a riempirsi. Il ragazzo si alzò, dirigendosi alla cassa ma il barman lo fermò con la voce prima che ci arrivasse « Che ti serve? » « Dovrei pagare il conto » « Prima fermata eh? Tutto offerto … non devi pagare nulla » « Tutto offerto da chi? » il barman fece un vago movimento del capo ed andò a servire un altro uomo di mezz’età che saluto calorosamente. Andrea fece una vaga smorfia. Era in debito di due colazioni con qualcuno e voleva proprio sapere chi. Uscì dal locale, respirando l’aria fresca del paese. La vita si stava diffondendo nel villaggio e la cosa fece sorridere il ragazzo. Avrebbe volentieri scattato una foto alla vista che gli si presentò una volta fuori dalla porta della locanda, se avesse avuto una macchinetta fotografica tramite cui farla. Mise le mani in tasca e cominciò a camminare dirigendosi dalla parte opposta da cui era venuto. Cominciò a salire una via che si snodava attraverso delle case, una sempre più in alto dell’altra. Erano quasi tutte uguali nel materiale ma diverse nelle forme. Fiori di colori diverse adornavano i loro balconi, donando una tonalità arcobaleno a quello strano agglomerato di strutture. Camminava a o tranquillo, osservando i visi dei pochi altri umani che ogni tanto facevano la loro comparsa. Sorò un fioraio ed un mobilificio molto piccolo, entrambi chiusi, dirigendosi verso la cima del paese. Vi arrivò dopo cinque minuti ed una scala di pietra intarsiata nella strada stessa. Era una piazza, la cima, una piazza con un belvedere che dava su tutta la valle che separava la montagna dove Andrea era insieme al villaggio ed un'altra. Sotto di lui si stendevano le poche case del paese
e poco più lontano c’era la stazione con il treno discretamente parcheggiato ed immobile. Andrea sospirò avvicinandosi alla balaustra di metallo che dava sul belvedere e poggiandovi entrambi i gomiti. Ebbe per un secondo un brivido di freddo a contatto con il metallo, poco dopo anche quel brivido sparì ed Andrea diventò una sorta di statua. Immobile, fissava un paesaggio che ogni minuto che ava gli era più estraneo, composto da alberi che lentamente davano segni di una vita che non dovevano normalmente avere. Soffi di un vento freddo scuotevano ritmicamente le fronde degli alberi, sfiorando foglie di un verde che sincronicamente si muovevano. Andrea restò per un tempo indefinito ad osservare quel continuo movimento, fermo, paziente. Una strana forza spinse Andrea a non muoversi da lì, a restare immobile ad osservare il paesaggio, ad attendere qualcosa che non conosceva. Attendere senza neanche sapere se mai qualcosa sarebbe potuta succedere. Intorno a lui, oltre a panchine vecchie e rotte c’erano i resti di una fortezza medioevale e una chiesetta con la porta chiusa. Di pietra, c’era una statua di un anonimo santo vicina, un campanile senza campana ed il silenzio ad accompagnare il tutto. Sarebbe stato quasi perfetto, come tutto, se ci fosse stata lei. Andrea non poteva non pensarci, anche se aveva provato di tutto per dimenticarsi della sua esistenza. Persino in quel posto la sua ombra riusciva a raggiungerlo come un incubo ricorrente che non vuole assolutamente lasciare il dormiente in pace. Ed Andrea era proprio quel dormiente, in quel momento. E non riusciva a capacitarsi di come, nonostante tutto, quell’incubo non voleva assolutamente lasciarlo. La vide eggiare intorno a lui, saltellando come una bambina in un parco, sfiorando con le ballerine le foglie cadute sulla pietra sconnessa. La osservò guardarsi intorno con due occhi da cerbiatto, curiosa di un mondo nuovo, il vestito estivo che svolazzava, il viso che si piegava ora su una panchina ora su un paesaggio. Andrea non sentì, preso dai ricordi, i i di un’altra persona. Era una persona che conosceva, almeno di vista. Si accorse di averlo già visto nella stazione. Il vecchietto era arrivato in cima al belvedere. Prese un gran respiro, non affaticato da quella lenta camminata e soddisfatto. Si guardò intorno, osservando brevemente l’Andrea immobile e perso nei suoi ricordi. Fu in quel momento, quando gli occhi del nuovo venuto sfiorarono la schiena del ragazzo che quest’ultimo si accorse dell’uomo. Gli fece un vago, ma rispettoso, cenno di saluto, tornando ad ammirare il paesaggio. « Bella vista eh? » « Già » rispose Andrea alla domanda dell’anziano uomo. Erano distanti una
cinquantina di metri, l’uno seduto e l’altro in piedi « Osservi qualcosa in particolare? » « No, mi piace godermi tutto il paesaggio, tutti i tasselli del puzzle » « E’ bello qui sopra. Ammetto che è parecchio che non ci venivo » « Era già stato qui? » chiese Andrea, voltandosi del tutto verso l’anziano, curioso « Si, ma molti anni fa. Non pensavo che questo posso potesse ancora essere qui. Intero, intatto … immobile » « Fortuna o sfortuna? » « Dipende a chi chiedere » « Per lei? » gli occhi del ragazzo si posarono per qualche istante sulla chiesa. Il vecchio seguì la sua vista con fare discreto « Vedo che ti piace questa piccola cappella. Era dedicata a San Giovanni, prima che l’ultimo prete morisse e non rimasse nessuno a custodirla, se non una vecchia donna che non aveva di meglio da fare » « Non hanno mandato nessuno a sostituire il prete morto? » il vecchio reagì facendo spallucce « No, forse nessuno voleva venire fin qui. C’è un altro paesino, poco lontano. Avranno unito le parrocchie » « Interessante … lei sa molto di questo posto? » « Quello che è necessario sapere, tutto sommato » « Dove siamo precisamente? » « Oh, non è importante. E’ importante capire perché siamo qui, lo vorrei proprio sapere » « Beh, non è difficile saperlo. Il treno c’è ato e si è fermato. Anzi, è anche troppo che siamo fermi » il vecchio sorrise
« No, è fin troppo difficile saperlo. Non siamo dove dovremmo essere … » « Dove dovremmo essere? » « Innanzitutto? In autunno. La vita stava sfuggendo al rigido freddo, qui sta tornando a casa » « Davvero eh? » il ragazzo si staccò dalla balaustra, accomodandosi al fianco dell’uomo « Si, davvero. E poi, non è vero che questo paese è dove dovremmo essere. Questo paese non aveva neanche la ferrovia e fidati, nessuno si sarebbe sprecato a costruirla » « Eravamo su un treno però e siamo arrivati qui. Quindi ora c’è » rispose tranquillamente Andrea. Scostò gli occhi dall’abito giallo del vicino per posarlo sulle pietre consacrate della vecchia chiesa. Un soffio di vento aveva scostato un paio di foglie e scoperto una croce intagliata sul muro della costruzione. Era un’incisione vecchia ed anche il vecchio si soffermò a guardarla per qualche istante di troppo « E pensare che aveva promesso di cancellarla … » « Chi aveva promesso? » chiese di nuovo Andrea « Tanti anni fa questo posto era esattamente così. C’è stato un giorno particolare, in cui la gente era esattamente dove è ora, a fare le cose che sta facendo ora. E’ tutto uguale a quel giorno » « Quale giorno? » « Il giorno in cui me ne sono andato di qui » « Quanti anni fa? » « Quasi cinquant’anni fa. Era un giorno di primavera e mi ricordo esattamente di come il vecchio Tommaso fosse esattamente vicino il suo carretto per andare al suo orto giù al fiume. Di come Donna Carmela e Donna Maria fossero vicine la fontana con i bambini delle figlie, pronte a portarli alla scuola. Era tutto uguale ad oggi, tranne locanda e stazione ovviamente »
« Ovviamente? In questo posto non c’era un bar? » chiese Andrea, incuriosito. Il freddo scemava man mano che il sole continuava il suo dominio sul cielo ed anche il vento sembrava via via più debole. Meno soffi e molto meno forti di quelli del primo mattino che Andrea aveva sfidato per entrare nel paesello montuoso « No. Ovvero, c’era. Ma il proprietario era scappato con una ragazza di vent’anni più giovane di lui ed era incustodito. Non ho mai saputo chi lo avesse preso dopo di lui. Quando io me n’andai, era chiuso comunque. Neanche un ultimo caffè prima del bus » « Perché se n’è andato da qui? » « Perché … perché alla fine ce ne se va sempre, ragazzo » rispose il vecchio tamburellando con le dita sulla panchina « Perché arriva un giorno in cui ti fai dei calcoli, ti chiedi quali siano le tue priorità e vedi cosa fare della tua vita. Io non mi pento di quello che ho fatto » « Davvero? » « Si, davvero. Perché dovrei farlo? » « Ne parla come una scelta sofferta. Le scelte sofferte ci lasciano sempre con un pentimento dentro il cuore » « Davvero? » chiese questa volta il vecchio « Tu dici? » « Si, dico » Andrea si alzò con calma « Vuol dire che abbiamo veramente sofferto. Quel pentimento è la nostra mente che si chiede cosa abbiamo perso e valuta cosa abbiamo guadagnato. Ed ogni volta il bilancio è negativo » « Alcune volte potrebbe non esserlo » « No, lo è sempre, se è vero pentimento. Perché l’immaginazione supera sempre la realtà, sempre » Andrea prese la via della discesa mentre in lontananza il treno fischiava, pronto per la partenza. Mise le mani in tasca, turbato ora. Non sapeva perché, ma era turbato. Due chiacchiere con il vecchietto si era fatto e sentiva dentro di se una strana sensazione. ò davanti le case con le finestre aperte, donne e uomini che cominciavano, o continuavano, il loro giorno. Eppure c’era qualcosa di strano in quel che facevano, qualcosa che ad Andrea non andava
bene. Accelerò il o, quasi volando nella piazza centrale. La locanda era lì, perfettamente integrata in quel paesello sperduto. Perfetta, anche troppo. Osservò due donne cinte da bambini con i capelli dorati giocare con loro, indicando poi in lontananza una scuola. E poi vide un bus, che riconobbe come vecchio, troppo vecchio. Traballava leggermente, le ruote leggermente rovinate, la carrozzeria sporca ed un paio di vetri rotti. Lo osservò parcheggiarsi lentamente ed un autista scendere, sistemandosi un berretto sul capo e guardando il villaggio con aria quasi stanca. Attese qualche istante, dando tempo ai pochi eggeri di salire. Andrea era quasi all’arco che faceva da entrata, lo sguardo che ancora si posava sul bus, che qualcuno si avvicinò per salire. Era un ragazzo, della medesima età di Andrea. Aveva un soprabito giallo, troppo lungo per la sua età, nuovo, splendido. Cozzava con l’ambiente campestre di quel paesino. Il ragazzo aveva con se una valigia, da lontano una ragazza lo osservava, le mani giunte in grembo, protettive. Andrea si fermò ed improvvisamente un’idea si fece largo nella sua mente. Fece due i indietro, cercando di guardare il viso del ragazzo, ma era già salito sul bus. Dopo pochi istanti il veicolo lasciò il paese e così fece il ragazzo. Cominciò a correre verso il treno mentre il secondo fischio risuonava nel bosco vuoto. I i di Andrea erano più pesanti e lasciavano dietro di se una scia di impronte ben marcate nel terreno ancora fresco. Un paio di fresche ventate gli scompigliarono i capelli mentre accelerava la corsa. La stazione fece la sua comparsa dinanzi a se, ancora cinta da un leggero strato di nebbia. Superò l’entrata, senza osservar per vedere se c’era qualcuno. La stazione era vuota, nessuno dentro, nessuno sulla banchina, se non il capotreno che lo attendeva paziente e lo osservava da lontano. Andrea rallentò, per riprendere fiato, guardandolo attentamente. « Ma dove siamo? » « Dove dovremmo essere » fece un vago cenno, indicando il treno che fischiò per la terza volta. Andrea salì senza ulteriori domande. Si accomodò nel suo alloggio, avvicinandosi al vetro con il fiatone. I suoi respiri si scontravano con il vetro, lasciando un vago alone su lo stesso. Al quarto fischio arrivò anche il vecchio. Fece un saluto al capotreno e salì. Gli parve che piangesse. Poco dopo il treno partì lasciando dietro di se il paese e la primavera.
Il treno cominciò la sua nuova corsa tra sbuffi di fumo e nuvole che si facevano irrimediabilmente via via più vicine. Presto avrebbe piovuto la ma cosa era priva
di interesse per Andrea. Si buttò sul letto, osservando l’ambiente intorno a lui e cominciando a farsi delle domande a cui, certamente, non poteva subito dar risposta. Il tempo fuori cambiava rapidamente, diventava via via più scuro, come se le ore stessero ando più velocemente del previsto o improvvisamente l’orologio fosse saltato di molte ore più avanti. Una sensazione come di sfasamento lo colpì, si ò una mano sulla tempia e dopo qualche minuto cessò. Fece una smorfia, osservando intorno a lui prima di alzarsi ed uscire dalla carrozza. C’era silenzio, come ogni volta. Si chiese per qualche secondo dove fossero alloggiati gli altri eggeri, prima di dirigersi dal lato opposto della carrozza ristorante, in esplorazione. Il rumore delle ruote ferrate sui binari accompagnava i suoi i, a cui si aggiunse poco dopo il piovere costante di una giornata che sapeva essere autunnale di nuovo. Dopo aver attraversato un paio di vagoni con alloggi ne entrò in uno finalmente diverso. Era sempre scuro, come ogni cosa in quel treno, ma rischiarato da lampade appese al soffitto. Era riempito di oggetti collegati al mondo musicale, e non solo strumenti. Un giradischi degli anni settanta ed una radio del duemila occupavano due tavolo ai poli opposti della stanza, tra di loro interi scaffali di CD, cassette e quarantacinque giri, ognuno nella sua custodia originale. C’erano anche un paio di strumenti, un pianoforte giusto al centro del vagone accompagnato da una chitarra ed un violino. Ma non c’era nessuno e la cosa dispiacque al ragazzo. Era un po’ stanco di quella continua solitudine, intervallata da brevi e sporadiche comparizioni di personaggi che diventavano via via più curiosi. ò vicino il piano, sfiorando due tasti e lasciando che l’eco del suono che ebbe provocato si esaurisse tra le stecche di legno, assorbito dallo sbattere del metallo sotto i suoi piedi. Abbandonò la carrozza, saltando in quella successiva. Quel treno diventava un enigma, per Andrea, che si faceva più interessante ogni minuto che lasciava are. Ogni singolo secondo donava una nuova luce sotto cui guardare le fini tende colorate, le stranezze delle carrozze, l’esemplare equipaggio che, silenzioso, restava negli angoli bui, pronto a servire per ogni cosa gli ospiti. E gli ospiti, quelli erano a loro volta una curiosità che Andrea, ancora, non comprendeva, pur essendo lui stesso membro di essi. Si chiedeva il perché era a bordo. E sapeva che la sua domanda avrebbe avuto un qualche accenno di risposta solo a patto di scoprire cosa, in comune, gli ospiti avevano. Nella carrozza successiva trovò quella che si poteva definire come la più grande collezione di gioielli che si fosse vista. Era piena di gioielli tutta la sala. Mobili, scaffali, casse. Era piena di gioielli, ognuno diverso dall’altro, ognuno di materiale diverso. E chiunque avesse riempito la carrozza, non aveva voluto, o
potuto, mettere un ordine. Collane ed anelli di oro e diamanti si affollavano sopra rubini incastrati in argento finemente raffinato. Composizioni di più e più catenine di platino che si intersecavano ad anelli di smeraldo, diamanti fini e grossi come pugni umani. Ogni tipo di gioiello pensabile, desiderabile, era dentro quella carrozza. Andrea strinse le dita intorno ad uno che colpì non poco il suo occhio. Lo osservò, sempre più da vicino, fino a scorgere le più fini crepe nell’oro che componevano l’anello che aveva in mano. Era uguale ad un altro unico anello che lui aveva visto alla mano della ragazza che tormentava la sua memoria, i suoi sogni ed i suoi sensi. Buttò l’anello nella cesta da cui l’aveva preso, facendo due i indietro. Lo osservò, aspettandosi che sparisse in una nuvola di fumo dorato, com’era giusto che fosse. Non poteva stare lì e non doveva stare lì. Senza guardarsi indietro corse via dalla carrozza, tornando sui suoi i, sfiorando il piano nel centro del vagone precedente e dirigendosi alla “Medici” senza fermarsi. Non incontrò nessuno, per sua fortuna, e quando si buttò sul solito divanetto nell’ombra improvvisamente si sentì molto meglio. Assaporò quel momento, prima che la sua mente tornasse ad essere tormentata da quel singolo anello. Era un oggetto così piccolo, ma dal peso morale così grande che quasi non riusciva a concepire qualcosa di peggiore. Era ironico che fosse lui stesso causa di quel suo male. Dopotutto, se quell’anello esisteva, era solo a causa sua. E proprio per questo gli risultava fin troppo strano che ora l’anello fosse su quel treno, con lui. Stava cominciando a non capire più assolutamente nulla di quel che stava succedendo. Se prima poteva anche solo sperare che quello fosse un normale treno su cui era capitato per errore, quella miserabile certezza andava via via sparendo man mano che il treno macinava chilometri su chilometri, o almeno quelli che dovevano essere dei chilometri. Il battere costante delle ruote ferrate era diventato per le orecchie di Andrea una sorta di piacevole sottofondo. Eppure neanche il cercare di concentrarsi solo ed esclusivamente su quel rumore gli consentiva di, per qualche istante, smettere di pensare e riflettere su quell’intera situazione. Cosa doveva cominciare a pensare di quel treno? Era una domanda quasi asfissiante per il giovane. Dopotutto, era anche l’unica che gli era veramente concessa? Il treno sembrava prendersi cura di ognuno dei suoi eggeri ma, effettivamente, qual era il reale scopo di quel viaggio? Questo non riusciva a capire. Il funzionamento di quel fantastico veicolo ed il senso di ogni singola azione che aveva compiuto lì a bordo si sarebbe chiarito in un modo a dir poco banale se lo scopo di esistenza, se il perché base di quel mezzo si fosse svelato. Ma, nel suo cuore, Andrea sapeva che non era cosa che forse gli sarebbe mai stata detta. Aveva incontrato camerieri ed un capotreno,
intravisto qualche ospite, parlato con uno solo di loro. Parlato. Avrebbe desiderato scambiare altre due chiacchiere con chiunque. Sospirò pesantemente, sfiorandosi la tempia con la mano destra. Ebbe un improvvisa sensazione di déjà-vu. Era un movimento suo abituale, il massaggiarsi la tempia, ma lo aveva appreso, come un figlio dal genitore, ma non da un suo parente, ma da lei. Lei gli massaggiava la tempia, lo rilassava e lei lo sapeva. Tolse la mano di scatto, mentre una smorfia gli si disegnava sul viso. Non voleva di certo tornare ora a ricordare, era sufficiente quell’anello che non doveva essere in quel posto. Il giovane avvicinò il viso alle tende, scostandole leggermente e notando come ora fosse notte. Il cielo era limpido, sereno e la luna grande e ben visibile, più vicina del normale. Si notavano ad occhio i grandi crateri sul suo lato chiaro che risplendevano nelle tenebre notturne. Era strabiliante come il clima era di nuovo cambiato e le nuvole prima minacciose fossero già un lontano ricordo. Se il treno le avesse superate prima, ando sotto una tempesta o meno, Andrea non seppe dirlo, non aveva sentito o forse non aveva voluto sentire nessun rumore del tipico battere di gocce sul metallo del tetto del treno. Ora però c’era un paesaggio del tutto diverso, piacevole e fantastico. Non erano più in una valle tra due monti, ma al cospetto di un enorme mare che si stendeva infinito da un orizzonte all’altro, cinto da stelle e da una spiaggia che quasi rifletteva i raggi lunari. Poche luci addobbavano poche case sparpagliate come alberi nella savana sul grande litorale mentre in lontananza un sottofondo soffuso di luci, dietro una scia di colline, sembrava estendersi per qualche miglio. Andrea vi suppose l’esistenza di un centro cittadino abbastanza vasto. Ma per ora tutta la sua attenzione fu rivolta alla spiaggia ed al mare. Qualche barca veleggiava tranquilla sulle calme onde, al chiaro di luna. Alcune parvero aver vita a bordo, altre erano ormeggiate in angoli sicuri, i loro marinai dormienti. Una casa, poco più grande delle altre, a tre piani, che sembrava essere uscita da un quadro del primo rinascimento, era circondata da fiaccole ed Andrea riuscì a scorgere tra due alti linee di siepi delle persone festeggiare quando il treno, a tutta velocità, ò non troppo lontano da loro. Nessuna di quelle persone, apparentemente, calcolò minimamente il veicolo a rotaie che era appena ato. Non ne furono disturbate ed ad Andrea soggiunse un dubbio che fugò con un vago cenno del capo. Si ributtò sul divanetto mentre la notte ed il suo paesaggio scorrevano imperterriti davanti i vetri di quella carrozza piena sola di domande, saggezza e non di risposte. Il silenzio stava diventando via via più opprimente e maledisse, ancora, di non avere a portata di mano il cellulare, gettato con noncuranza nella tasca della giacca che aveva sul letto nella sua stanza. Sospirò e si alzò, osservando tutta la
stanza alla ricerca di un qualcosa che potesse emettere suoni. Non aveva affatto voglia né di tornare nella sua cabina né tanto meno di arrivare fino alla carrozza della musica. Intorno a lui vi erano cataste di libri, in ordine o meno, grandi e piccoli, colorati, scuri, senza copertina, rilegati con pelle delicata, di ogni tipo, fattura e lingua. Ma non c’era nulla che potesse emettere un suono. Aprì uno ad uno tutti i mobili che c’erano nella stanza. Trovò quasi per caso una bottiglia di liquore senza etichetta con due lindi bicchieri affianco, un cartellone di una non precisata fiera paesana in un non precisato paese distante. Aprendo l’ennesimo scaffale si ritrovò davanti una serie di cartelline piene di fogli stropicciati scritti con penna e calamaio, come non si faceva da molto tempo. Fece una smorfia, respirando profondamente ed incrociando le dita aprendo l’ultimo scaffale. Ma, come prima, la sua cerca fu a dir poco futile. Solo un cumulo di diari senza etichetta alcuni, legati da lacci usurati dal tempo e dall’uso, dalle coperture sbiadite. Chiuse le due ante finali e ritornò al suo posto, silenzioso come quando si era alzato. Si dovette accontentare del suono del suo respiro e del continuo ruotare delle motrici del treno. Socchiuse gli occhi, preso dal quel mix di oscurità e di silenzio, appoggiandosi delicatamente ma con forza allo schienale morbido della poltrona. Ben presto, si aspettava, il sonno lo avrebbe colto nolente o volente. Pose gli occhi a fissare il soffitto ed un lampadario di cento cristalli tenuti insieme da fili di bronzo ed oro legati ad una catena dall’apparenza non forte. Il lampadario, distante poco dal gemello poco più avanti nella carrozza, si muoveva leggermente quasi a ritmo, ipnotico per gli occhi stanchi e suggestionabili di Andrea. Il ragazzo si ritrovò a fissare gli anelli di metallo che legavano le luci, lenti e costanti nel loro movimento. Sarebbe potuto rimanere lì a lungo ed effettivamente le lancette dell’orologio a parete si mossero di parecchi centimetri durante lo stato di semi-veglia di Andrea. Il ragazzo era caduto in un limbo di riflessioni e di paure che si affollavano davanti gli occhi. Quello che prima era un semplice lampadario divenne, per estensione mentale, il concentrato della sua nera paura, delle sue mancanze. Improvvisamente uno ad uno gli anelli si ruppero e cominciarono a ruotare intorno ad Andrea, sussurrando le parole che non voleva sentire. Uno ad uno gli anelli si ricongiunsero ricordandogli il tradimento, la ione che aveva voluto sfogare, la sua codardia. Gli anelli ronzavano come calabroni, pronti a pungere. La loro stessa esistenza era più forte di ogni veleno esistente, colpivano l’anima, quella che non poteva essere guarita da nessun medico. Andrea restò per un tempo indefinito in balia dei suoi incubi, incapace di ribellarsi. Non lo aveva mai fatto, non avrebbe cominciato quella notte. Quando Andrea riaprì gli occhi era ancora buio. Nella carrozza predominava
quella luce verdastra a sua modo fastidiosa. Si accorse di essere leggermente sudato, sospirò e si alzò e si guardò intorno, quasi sperso in quel luogo a lui non ancora così comune. Non c’era nessuno nella carrozza, il silenzio era imperituro. Troppo anche per Andrea. Si alzò, anche con il solo scopo di far un semplice banale rumore come quello delle scarpe sul pavimento elegante. Si diresse al mobile doveva aveva trovato la bottiglia di liquore, la stappò, odorando l’aroma che lentamente si alzò dal liquido quasi incolore al buio. Non lo seppe riconoscere ma non se ne curò, versandosene un generoso bicchiere ed ingurgitando tutto il liquido in un solo sorso. Ripeté l’operazione un’altra volta, cominciando a sentire poco dopo l’effetto del secondo bicchiere. Annaspò leggermente, chiudendo la bottiglia con ben più difficoltà di quando l’aveva aperta. Si diresse, a o non tanto sicuro, verso la sua poltrona, sospirando rumorosamente nel vuoto del vagone. Scostò una tendina, provando a capire di quanto si era mosso il treno. Il mare era sempre ben visibile, non più quelle ville in festa che ricordava un po’ vagamente. Erano state decisamente sostituite dal brillare costante di una città a ridosso dell’oceano senza fine. Una lunga sfilza di alti palazzi che concorrevano verso il cielo con fare altezzoso. Brillavano di luce propria in quella notte chiara mentre auto e bus percorrevano spaziose vie ad alta velocità. Vide in lontananza un altro treno, dalle linee morbide e moderne che correva quasi parallelo al suo. Ma Andrea ebbe quasi paura nel notare che il treno ad alta velocità era il più lento tra i due. Avvicinò il viso al vetro duro, quasi schiacciando il naso su di esso, per osservare meglio quello che credeva essere un banale effetto ottico. Come poteva un treno a vapore essere più veloce di uno avanti di tecnologia di almeno sessant’anni? Non riusciva a capire quel che aveva visto e non terminò di pensarci neanche quando il treno, lentamente, cominciò a rallentare. Le vie dei due mezzi di separarono perché Andrea perse di vista le moderne carrozze, ritornando a fissare il vuoto. Sentì lo stridio dei freni, gli oggetti che traballavano sulle loro mensole. Il bicchiere di vetro adagiato sul tavolino al suo fianco stette sul punto di cadere, prima che la mano ferma del capotreno lo immobilizzasse « Signore, siamo arrivati in una nuova città. Se vuole posso consigliarle una serie di posti d’interesse » « No grazie, non è necessario » rispose Andrea, aspettando che le ruote fossero del tutto ferme per alzarsi in sicurezza. Non camminava deciso come al solito ma voleva ad ogni costo capire dove si trovava, anche con il rischio di cadere ogni due i. Si diresse leggermente barcollante fuori dalla carrozza libreria,
uscendo da una vicina porta. Ebbe un sussulto e si diede un pizzico sul braccio sinistro osservando una stazione identica a quella che aveva da poco lasciato mostrarsi ai suoi occhi. Era perfettamente uguale, la struttura, le crepe, i mattoni crollati a terra, i buchi nel pavimento. Si voltò verso il treno, perfettamente immobile ed appena appena ronzante ancora dal motore, carrozze che si perdevano quasi a vista d’occhio, senza mostrare ciò che c’era dietro di loro. Se ne stupì non poco, il treno era veramente lungo e la sua coda coperta da un velo di nebbia, come se qualcuno non volesse mostrare ciò che c’era dietro esso. Andrea si diresse all’uscita, schiacciando una ad una le stelle mattonelle premute l’ultima volta che era sceso dal treno. Ma questa volta, superata la porta d’ingresso della stazione, si ritrovò, invece che davanti una via alberata, una grande, cementata, strada di città. Fini alberi uguali ne adornavano i confini, mentre una striscia gialla delimitava due corsie percorse ad intermittenza da veicoli di ogni genere. Semafori lampeggiavano ininterrottamente regolando il flusso di veicoli mentre persone prese dai loro affari percorrevano marciapiedi senza fermarsi, soli e circondati di gente, noncuranti. Andrea mise le mani in tasca, aveva il viso un po’ rosso e cerco di prendere fiato, e coraggio, prima di buttarsi nel bel mezzo di quella mischia mostruosa. Le luci della città gli davano un po’ di fastidio, non le aveva mai amate. E lì ce n’erano molte. Percorse circa quattrocento metri prima di ritrovarsi tra grattacieli altissimi, come quelli che aveva visto in lontananza. Fittamente quelle imponenti strutture occupavano tutto il suo paesaggio ed anche il cielo, le stelle erano diventate invisibili mentre la luna, discreta, cercava di ritagliarsi il suo spazio nel cielo. Camminò, il giovane, camminò tra gli strip club ed i bingo, i locali malfamati e quelli chic, senza mai fermarsi. Nulla poteva interessarlo, nulla che non gli fosse di indicazione. Nomi di strade in bianco e verde adornavano ogni angolo, scritte in una lingua a caratteri latini ma che il ragazzo non riconobbe. C’erano insegne di ogni tipo, nessuna che lo aiutava a capire quale lingua fosse la predominante nella città e sentiva solo mormorii ed urla, non una parola tranquilla, una moderata. Erano sussurri quelle parole tranquille, e tutto il resto era un rumore assordante che più di una volta spinse il ragazzo ad allontanarsi dalle vie principali. Poi, come un miraggio, gli apparve in lontananza una piccola icona. Era sotto un palazzo leggermente più basso degli altri, piccolo di suo, minuscolo se comparato alla grandezza di ciò che lo affiancava. Era fatto di mattoni rossi di città, le finestre erano alte e quasi tutte chiuse, le persiane tirate, le tende ben strette perché nessuno vedesse al di là dei vetri isolanti. La scritta era in inglese, gli parve, ma le due birre facevano ben sperare, per quanto lui stesso si rendesse
conto che bere, in quel frangente, poteva non essere la sua idea migliore. Ma sopì la voce della coscienza che troppo spesso interviene nelle questioni umane e superò la soglia con o non molto sicuro. Appena dentro l’odore di schiuma, birra e patatine gli invase le narici mentre una musica rock anni ’80 si sostituiva al rumore delle auto e dei bus, e la cosa lo soddisfò non poco. Andrea si guardò intorno, osservando il bancone di legno vecchio che occupava un intero lato del bar, tavolini rotondi sparsi, una sedia buttata a terra malamente e vari oggetti appesi alla parete, oggetti su cui le luci gialle si concentravano come ad adorarli. Dietro il bancone un ragazzo ed una ragazza lavoravano con calma, versando da bere ai pochi avventori. Uno di loro provava inutilmente a far cambiare musica al juke box, che evidentemente voleva essere autonomo nella scelta della musica. Andrea prese posto al bancone, ponendo entrambi i gomiti su di esso, sporcandosi di birra. Fece un cenno al ragazzo che si avvicinò, chinandosi leggermente verso di lui « Che ti porto? » « Una pinta, chiara » esordì semplicemente Andrea. L’altro annuì, sistemandosi le maniche della camicia bianca prima di cominciare a riempire un bicchiere con quanto chiesto. Gli occhi verdi del barista si incrociarono più volte con quelli quasi azzurri della ragazza, c’era intesa tra i due. Entrambi, ogni tanto, si portavano ad osservare Andrea. Lo scrutavano, come se conoscessero qualcosa di lui che neanche il ragazzo stesso poteva sapere. Non ne fu scosso, per nulla. A malapena le notò quelle occhiate e le scambiò, al più, come sguardi di persone di città verso qualcuno che non voleva aver nulla a che fare con un posto che avesse più di mille anime. Andrea cominciò a sorseggiare la sua birra, tranquillo, provando a capire. Doveva capire molte cose. E non aveva neanche una risposta per una delle cento domande che gli premevano nel cervello incuranti del dolore che potevano procurare. Perché alcune di quelle domande erano pugnalate nel cuore di Andrea. Una, particolarmente, gli stava perforando tutte le fibre di quell’organo che metaforicamente dava più dolori che gioie. Una, semplice, banale, domanda. Quanti giorni erano ati? E per quanto potesse essere banale, faceva male. Andrea si rendeva conto che ogni minuto che ava in quella strana avventura era un minuto che non poteva dedicare a qualcos’altro, qualcosa che forse richiedeva tutti i suoi pensieri. Sospirò, ancora. Erano giorni di sospiri, non riusciva a far altro. Sospirava ed osservava, senza capire, senza comprendere ciò che gli stava accadendo. E poi si decise. Finì la pinta con un generoso sorso e cercò di attirare l’attenzione del barista. Mentre il ragazzo si avvicinò Andrea si fece molto coraggio, lo fissò diritto negli occhi e gli chiese
« Scusa, dove siamo? » « Dove siamo? A meno quei pazzi della High-Tech Co non ci abbiamo sbalzati fuori dal tempo e dallo spazio, siamo sulla Terra amico » il barista prese il bicchiere con un sorriso divertito « Siamo a Nuova Londra? » Andrea alzò gli occhi, osservando l’ambiente che lo circondava e gli chiese « Nuova? » « Beh, sai com’è, quando una città viene rasa al suolo in un modo così barbarico, c’è poco da fare … la ricostruisci e le cambi nome » ridacchiò mentre la sorella gli gettava alle spalle un’occhiata ben poco amichevole « Non spaventare i clienti » « Sto raccontando una storia, mica lo sto spaventando … vero? » Andrea era terrorizzato ma rispose « No, ovvio … » « Ti sei perso vero? Non mi dire … hai preso la navetta sbagliata? Visto che parli così bene italiano direi che viene dalla Sicilia, no? » « Beh, veramente sarei di … » « Da dove altro potrebbe venire, geniaccio? Ci sono Sicilia e Smantio solo lì » sospirò la ragazza, avvicinandosi e dando un buffo sulla nuca del ragazzo « Scusa mio fratello, certe volte si dimentica che è rimasto ben poco da quelle parti. Comunque io sono Clara, lui è Carl. Seconda generazione qui a Nuova Londra, ma contenti » « Ah ecco il motivo della lingua … come mai in questo bar? » « Eredità dei nostri genitori, ancora non ci decidiamo a venderlo » disse semplicemente il ragazzo che rispondeva al nome di Carl « E per ora frutta ancora qualcosina, tranne quando si suona allo stadio. La città si spopola in quel caso » Carl cominciò a pulire un paio di bicchieri, la musica cambiò con un altro pezzo scelto casualmente dal juke box. Andrea decise di non chiedere anche l’anno, sarebbe certo parso strano, o quantomeno così ubriaco da non meritare risposta. Ritornò il silenzio nella saletta del pub. Nessuno fece più domande ed
Andrea si prese una seconda birra, anche se rammentò dopo qualche secondo di non avere di che pagare. Sospirò, tralasciando il problema e tornando a qualcosa di meno materiale ma ugualmente dannoso per la sua testa. Cos’era Nuova Londra? E perché lui era lì? Tutto ciò che aveva visto fino a quel momento era perfettamente uguale a quanto era possibile vedere in una comune metropoli del mondo, perfettamente uguale. Eppure c’era qualcosa di diverso che non riusciva a comprendere. Andrea si grattò la nuca provando ad attivare qualunque neurone non fosse deceduto a causa dell’alcool, provando a pensare ad uno scenario in cui lui non era impazzito o ubriaco fradicio ed in cui si tornava alla normalità. Eppure non gliene sovveniva nessuno, anzi, man mano che si concentrava si accorgeva di una serie di fattori che rendevano quella città un mistero non meno grave e greve del treno su cui stava viaggiando. Avrebbe dovuto cercare una risposta e cominciò a credere che di sicuro uno dei membri dell’equipaggio del treno l’avrebbe avuta. Ora doveva solo uscire da lì nel modo quanto meno visibile possibile. Si alzò, ma appena lo fece qualcun altro entrò nel locale. Riconobbe il o del capotreno ed il suo modo di fare arcaico e gentile. Aveva indosso l’uniforme con cui girava sempre ed appariva forse il meno stonato con l’ambiente. Si tolse elegantemente il cappello e si avvicinò ad Andrea « Signore, sono venuto a prenderla e riaccompagnarla » « Come ha fatto … » Andrea cercò di focalizzare bene il viso del suo misterioso salvatore ma la birra ed il liquore di prima oramai si andavano sommando. Farfugliò qualcosa e l’uomo si avvicinò alla cassa, prima di prenderlo delicatamente sottobraccio e caricarlo su una berlina nera molto comoda. Andrea si appoggiò al finestrino posteriore, osservando la città che divenne un insieme di luci movimentate. Il capotreno non lo fissava mentre guidava l’auto con una sicurezza esagerata. Era anziano, si notava dal viso, ma non dai modi, non dal tono di voce stranamente giovane. Era come se solo il corpo fosse stato costruito per suggerire un’idea, sulla persona, completamente sbagliata. Andrea cercò di mettersi diritto sul sedile di pelle finemente lavorata di colore nero. Abbassò il finestrino, lasciando che l’aria fresca gli martoriasse il viso in un tocco cruento e per nulla delicata ma stranamente ritemprante per il ragazzo. Voleva restare sveglio e memorizzare ogni singolo dettaglio. Ma, improvvisamente le luci della città divennero le luci di una singola casa, ancorata sulle rive di un lago dimenticato dagli uomini, lontano da occhi indiscreti. Ed Andrea si ritrovò a varcare una soglia che avrebbe voluto non varcare mai, sporca di polvere e di fuliggine. Un miagolare unico gli strusciò tra le gambe con fare astuto mentre sentì il vuoto dell’odore di pancetta e uova di prima mattina. Ebbe una morsa al
cuore capendo cosa stava, improvvisamente, vivendo. Quale incubo era diventato per lui anche il solo respirare e tenere gli occhi aperti! Era cosciente mentre viveva quella visione ispirata certamente dall’alcool e dai suoi ricordi più oscuri. Avrebbe dato qualsiasi cosa per cancellare quelle scene, ma erano parte di lui, lo sapeva. Erano fantasie più reali di quell’auto. Sentiva lo strusciarsi del gatto, lo scricchiolare delle assi di legno sotto i suoi stivali sporchi di fango estivo, il battere della pioggia sul tetto, il cadere dell’acqua sui vetri sporchi, l’odore delle pile di piatti non lavati. Perché lavarli, se tutto era fondamentalmente finito? Si vide, vide se stesso lentamente salire le scale e versare lacrime sporche di sudore e polvere prima di varcare la porta. SI vide all’uscio, ad osservare e piangere ancora. Poteva il nulla uccidere? Era la domanda che più di tutte Andrea aveva ed avrebbe ancora a lungo affrontato. Mentre lentamente la visione spariva nel turbinio di luci gialle ed azzurre, verdi e rosse dei grattacieli sempre più alti, luci che si riflettevano su onde incostanti generate da navi che si muovevano senza sosta sul manto blu del mare, Andrea riuscì a farsi forza ed a riflettere. Ricordò dov’era, cosa stava facendo, ma non cosa stava succedendo. Ovviamente non poteva ricordarlo, non lo sapeva. La berlina si fermò senza scossoni davanti la stazione ed un altro cameriere arrivò ad aprire la porta ad Andrea. Il ragazzo rifiutò la mano che gli veniva offerta per alzarsi, preferendo farlo da solo. Si mise in piedi ed un o alla volta si diresse al treno con la coda coperta da una nebbia che esisteva e persisteva solo in quel punto. Superò le mattonelle rotte ed il soffitto pieno di ragnatele, preferendo non concentrarsi sull’ennesima stranezza di quel viaggio che piano piano si faceva sempre meno reale o immaginabile. Salì i tre scalini che lo separavano dalla carrozza e si pose al suo interno, buttandosi dentro la sua cuccetta quasi disperatamente. Quando infine chiuse gli occhi, per una fortuna sempre più vaga, non ebbe memoria di quello che affrontò nella sua incoscienza. Quando riaprì gli occhi avrebbe voluto, tanto, avere la fastidiosa sensazione di dolore provocata dal furore dei raggi solari sulle pupille ancora socchiuse. Ma non la ebbe. Non una luce gli si proiettava contro nonostante le tende della sua carrozza non fossero tirate. Lentamente aprì gli occhi ora rossi dei ricordi e vide di nuovo le stelle annebbiate dalle luci dei palazzi e una pallida luna per nulla mossa. Non capiva. Si guardò intorno, nulla era cambiato nella sua piccola stanza, nulla era cambiato fuori, neanche lui era cambiato. Si sentiva esattamente in quella fase di un dopo serata dimenticabile, eppure quello che vedeva sembrava suggerire che fossero ati due, e forse meno, minuti. Fisicamente sentiva il peso di ore intere, eppure il mondo voleva suggerirgli qualcos’altro. Si
rialzò lentamente dal letto, facendo pressione sulle braccia. Si sentiva dolere all’altezza delle ginocchia e si sentiva molto debole, anche se non sapeva perché. Una smorfia si dipinse sul suo viso mentre provava ad entrare nel bagno, prendendo di fianco la porta semi-chiusa che separava i due ambienti. Sciacquò il viso più e più volte, provando a togliersi quell’orrida sensazione di stanchezza dalla faccia. Si lavò anche i denti, provando a coprire il sapore di alcool che gli aveva fatto compagnia. Quando ne uscì si sentiva quasi un uomo nuovo, debole e con un mal di testa non da poco, ma pur sempre nuovo. Si sedette sul suo letto, incrociando le mani sotto il mento mentre, lo sguardo, vagamente seguiva un paio di scie luminose nel cielo notturno, forse aerei, forse altro che non poteva spiegarsi. Osservò le fine forme di quei grattacieli moderni, troppo moderni, le bandiere che non riconobbe e le luci che lampeggiavano come per festa. Qualcosa di diverso aveva quella città, a partire dal nome. Ed Andrea sapeva che, scoprendo qualcosa in più su quel posto, avrebbe scoperto qualcosa in più su quel treno. Si fece forza, sollevandosi sulle sue gambe ora più solide e dirigendosi all’uscita della sua cabina. SI voltò a sinistra appena fuori, chiudendo dietro di sé la porta di legno e prendendo la via dei tre scalini che lo separavano dall’aria fresca e dal caos di una città impossibile. Ma quando scese quei tre scalini, trovò qualcuno. C’era la ragazza, colei che era salita con lui su quel treno dai cento misteri. Aveva un lungo cappotto chiaro chiuso sul petto, un capello leggero sui capelli ondulati e lunghi, degli stivali e una gonna non troppo corta. Dava le spalle al treno e non parve accorgersi di Andrea, vestito decisamente meno pesante, sopportante quel placido fresco portato da un vento nuovo. La ragazza era immobile, fissante quella stazione decadente che si mostrava dinanzi a lei. Andrea portò le mani in tasca e fece per dirigersi verso l’entrata nella città chiamata Nuova Londra « Dove vai? » la voce era chiara e limpida « In città ovviamente, ci siamo fermati » « E’ la seconda volta che scendi … perché? » « Non ce ne siamo andati, quindi penso ci sia tempo per un altro giro » non gli piacevano gli interrogatori, per quanto guidati da una fanciulla. Mal sopportava dire ciò che provava, pensava, faceva. Era sempre stato così. Nascose l’insofferenza per le domande con un vago sorriso, il miglior mezzo per fuggire da situazioni così
« Tu perché resti qua? » « Perché temo che ci sia qualcosa di strano in questo. Questa stazione, il treno, noi … » « Noi? Cosa abbiamo di strano noi? » « Non ti pare strano? Non ti sembra assolutamente strano tutto quello che sta accadendo? » « Per questo scendo in città, voglio sapere dove siamo. I segreti di questo treno si mostreranno se riuscirò a capire dove il treno va » « Va … puoi dire che va? A me sembra che non si muove mai » « Certo che si muove » rispose divertito ora Andrea, la ragazza era strana « Dalle valli al mare … certo che ci siamo mossi. O si è mosso il mondo? » lei non rispose, continuando a non far nulla, respirando appena. Andrea riprese a camminare dopo essersi fermato « Posso accompagnarti? » chiese lei. Lui fece spallucce ed un vago cenno di assenso, molto vago. Lei gli si mise al fianco e quella coppia strana come il mezzo su cui erano arrivati superarono le colonne devastate dal tempo, uscendo dalla stazione e rientrando nel corso di vita che Andrea aveva già visto. La ragazza senza nome si guardò intorno stupita, accogliendo nella sua memoria ogni minimo particolare di quel sogno ad occhi aperti che effettivamente Nuova Londra sembrava. Macchine, persone con vestiti mai visti, edifici altissimi, luce abbaglianti. Sembrava un luna-park, un insieme caotico di cose poste lì come divertimento della gente che viveva quella metropoli. Andrea continuava a restare con le mani in tasca, guardandosi intorno e cercando un qualcosa che fosse un punto di inizio per tutta quella strana avventura. La trovò in un muro, dove si diresse, seguito poco dietro dalla fanciulla del treno. Era un muro, normalissimo, su cui erano affissi dei fogli di carta. Colorati di giallo, con parole nere enormi in una lingua che non conosceva. Sbuffò sonoramente « E’ esperanto. Non lo sai leggere? » « No, che senso ha studiare una lingua del genere » « In questo posto pare sia un’ottima cosa invece » la ragazza accennò un sorriso
vago come quello di Andrea, forse ironico, che mostrò una fila di denti bianchi e perfettamente allineati « Dice “Basta alla distruzione del nostro mondo” » « E basta? Beh, lo dicono tutti al giorno d’oggi » rispose Andrea seccato. Perché scrivere tutto in Esperanto, si chiese. Effettivamente non era la lingua più diffusa, di certo non nella Londra che aveva conosciuto. Eppure ecco lì un cartellone in esperanto, e lentamente osservò scritte in quella lingua sparse per la città, mischiate con inglese, cinese, se. Era un po’ dappertutto, diffusa, come se fosse naturalmente intrinseca in quella città. « Perché parlano esperanto? » « E’ la loro lingua madre » « Non c’è paese al mondo con lingua madre Esperanto. E questa stessa città non ha ragione d’esistere. Londra non è distrutta » « Forse da noi no » la ragazza si avvicinò al muro, sfiorando con la mano il cartellone, come a tastarne la sostanza, ad assicurarsi che fosse reale. Fece qualche o indietro « Tutto questo non ti sembra buffo? » « Buffo? No, per nulla. Non mi sembra buffo » « Eppure dovrebbe esserlo. Che mondo è uno in cui si parla l’Esperanto se non un mondo migliore? » « Migliore … Ci sono molte cose che mi preoccupano di questo mondo che tu chiami migliore. Perché Nuova Londra? Cos’è successo alla vecchia? » chiese Andrea con un tono grave. La ragazza lo guardò quasi con pietà, prima di rimettere le mani in tasca ed avvicinarsi a lui « Non è restando qui che lo scoprirai » disse incamminandosi davanti a lui. Il ragazzo sospirò, dando una rapida occhiata ai cartelloni prima di mettersi in coda con la misteriosa eggera del treno, qualche metro dietro di lei. SI inserirono in colonna in un dedalo di persone, vie e caos che a malapena riusciva ad immaginare. Dovevano trovarsi in una sorta di piazza molto importante perché c’era forse migliaia di persone viventi al suo interno, prese dalle loro attività. E mentre lei guardava con occhi stupiti quella caotica folla di gente diversa, Andrea di rimando non lasciava trapelare emozioni positive. Quella città non gli piaceva, sempre più il tempo scorreva, sempre più si convinceva che c’era un
ferreo legame tra lei ed il treno e che in quel legame era di certo nascosto il senso di quella situazione a dir poco stravagante. E di sicuro, pensò una recondita parte della mente dell’italiano, il cercare quel senso gli permetteva di distogliersi da pensieri peggiori, che al sicuro veniva confinati in un angolino della mente di Andrea, pronti a correre fuori e di nuovo tormentarlo senza tregua. Andrea alzò gli occhi verso una grosse torre di vetro e lì il primo pezzo di un puzzle che si stava via via formando sovvenne alla sua vista. Un enorme orologio al neon quasi trasparente segnava l’ora e la data. Il 23 Novembre, un freddo 23 Novembre dell’anno 2099. Il suo respiro si fermò per qualche secondo, prima di riprendere a battere regolare. Osservò intorno a sé, intontito da quella novità. Cosa stava succedendo? Si diede un pizzico sul braccio, ad assicurarsi che non fosse un sogno o solo uno scherzo dell’alcool. Ma il suo atto non servì a far svanire quella che sperò essere una banale illusione. No, in qualche modo Nuova Londra, il suo esperanto, quella gente era reale, e così anche quel balzo temporale che non aveva alcun senso logico ovviamente. Andrea girò su stesso un paio di volte, estraniato da quella situazione così innaturale. La ragazza era ferma anche lei, mentre il flusso di persone li sorava ancora ed ancora, non calcolandoli, come se fossero due ombre in un mondo notturno. Ed era così. Cosa potevano essere Andrea e la misteriosa fanciulla se non ombre di qualcosa che era sparito da tempo oramai immemore per quella società, erano due spettri e tali Andrea si rendeva conto dovevano rimanere. Ora tutto prendeva un nuovo senso sotto un punto di vista prima non considerabile. Ci si spiegava come e perché quel che succedeva stava succedendo. Avevano viaggiato nel tempo ed Andrea suppose anche nello spazio, e non di poco. Era la seconda volta, ovviamente. Dovevano aver balzato in quel paesino sperduto in primis per accompagnare il vecchio signore. Ma perché? Qual era lo scopo di quei balzi casuali tra un tempo ed un altro e soprattutto chi li guidava? Andrea non si sarebbe dato pace, lo sapeva, se non avesse ottenuto quella risposte, almeno per cominciare. Fece qualche altro o nella caotica piazza, cercando di non perdere di vista l’unica persona che conosceva lì in mezzo. Cominciò a sentire il freddo che lentamente si faceva strada sulla sua pelle, sfiorandolo, facendolo rabbrividire. Ma non avrebbe demorso, avrebbe capito, almeno avrebbe cominciato a farlo. Si avvicinò alla ragazza misteriosa, andole di fianco. Lei lo guardò con occhi vaghi, poco interessata o semplicemente troppo presa da quella realtà che la circondava, persa anche lei in pensieri che Andrea non poteva minimamente immaginare. Ed il ragazzo la osservò senza volerlo, gustando con gli occhi quei lineamenti così dolci e poco marcati, eterei. Gli occhi erano velati da sentimenti
contrastanti che non riusciva a riconoscere, il loro colore offuscato da un terrore celato bene. Celato come il suo. Improvvisamente gli occhi di lei si scontrarono con quelli di lui. Si riconobbero nel dolore, nella paura, nel nulla che in qualche modo portavano dentro di loro. E lei sorrise, così, senza un’apparente ragione. E lui non riuscì a rispondere, preso in contropiede da quell’azione improvvisa. « E se semplicemente prendessimo questa città per quel che è? » propose lei « Cioè? » rispose un frastornato Andrea « Per Nuova Londra, ovviamente. Proviamo a viverla … sicuramente capiremo molto di più che brancolando nei vicoli in questa notte senza fine » il ragazzo dovette concordare con un vago cenno del capo. Circondato da un mondo che non riconosceva, la prospettiva di perdersi, anche per qualche ora, al di fuori della sua realtà divenne la cosa più accattivante da fare. E vi si arrese senza opporre resistenza. La seguì mentre si precipitava nel caos della folla, avvicinandosi a bar e locali gremiti di persone. Schermi ondulati che proiettavano immagini di musiche, danze rapide e veloci e persone che si divertivano adornavano la maggior parte delle pareti, dentro e fuori quei locali. Mai Andrea vi si sarebbe diretto, mai in tutta la sua vita. Ma lo fece seguendo quella figura. Un insieme di voci assordanti gli si proiettò contro quando varcò la soglia del primo locale dal nome impronunciabile. Non era mai stato un gran culture di quel tipo di locali e non sarebbe mai, mai voluto diventarlo. Eppure, per una ragione a lui ignota, aveva deciso di seguire la misteriosa ragazza al di dentro di quella strana struttura, evidentemente qualcosa di molto diverso da qualsivoglia tipo di disco-pub, se lo si poteva classificare così, presente al suo tempo. Era strano, tutto coperto da vetri che si coloravano di luci fosforescenti al cambiar del ritmo infernale che sconquassava i timpani e faceva ronzare le pareti. Fece una smorfia difronte a quel caos ma non poté che continuare a camminare, osservando attentamente ciò che lo circondava, come se dentro quel posto si nascondessero, senza volerlo, i segreti più reconditi di Nuova Londra. Gli schermi continuavano a far danzare ragazze semi-svestite con uomini a petto nudo sopra cubi che cambiavano grandezza man mano che il rumore di sottofondo aumentava o meno. Era molto peggio di come se lo aspettava, seppur la compagnia fosse decisamente di suo gusto. Ragazze attiravano i suoi occhi, chiuse in gruppi, ballanti o meno, vicino uomini non meno lascivi, non meno divisi in gruppi, non meno ballanti o meno. Era una fusione che non riusciva a sopportare, di gente e visi che non voleva ricordare. Ebbe una sensazione di disgusto mentre camminava in una sorta di via dentro il locale, mattonelle
diverse, ad indicare il tragitto per il centro dello spazio pubblico, occupato da una colonna sopra cui un uomo ed una donna maneggiavano strumenti che non aveva mai visto ed udito e che ovviamente erano al centro di tutto il caos. La misteriosa ragazza del treno era vicina il bancone osservando qualcosa attentamente. Fece per avvicinarsi anche lui quando i suoi occhi, in eterno vagare, si posarono su una ragazza che ballava, scatenata, poco lontano. Vestita poco, con tacchi vertiginosi, un vestitino corto e scollato sulla schiena, i capelli lunghi e sciolti di un colore nero profondo che sembravano la notte che tanto si attardava su Nuova Londra e gli occhi di un colore che aveva visto poche volte e mai con quella tonalità. Li sfiorò appena ed ebbe paura. In quel momento Andrea ebbe paura, paura di essersi, alla fine, perso. Lei si voltò, nella sua direzione ma non verso di lui, continuando nelle sue danze e l’italiano ebbe modo di ammirarne il viso, uguale, troppo uguale a quello che aveva lasciato alle sue spalle. Tremò inconsapevolmente, poco curante della scena che sarebbe potuta sembrare da fuori. Il classico ragazzo ammaliato dalla bellezza, cadente ai suoi piedi come un povero assetato dinanzi l’oasi nel deserto. Ma non era così, o almeno non del tutto. Lui aveva già toccato con mano quella bellezza, ed ora era molto più lontana di quel che poteva sembrare. Ma non aveva senso la sua presenza in quel posto. Poteva spiegarsi molte cose, ma non quello. E dopotutto, non in quel modo. Andrea ebbe un fremito, la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato n quello che vedeva. Si voltò e quasi corse verso l’uscita, dimenticando la ragazza che danzava, la eggera, la disco. Dimenticò tutto e ricordò solo quando, ad un certo punto, il vento gli scompigliò i capelli con fare violento. Si voltò, osservando la piazza in cui di nuovo era, circondato di persone che lo facevano sentire solo. Mise le mani in tasca, oramai gelide per il clima che andava via via diventando sempre più invernale e sempre meno sopportabile. Ebbe nostalgia della sua casa in montagna ma scosse il capo violentemente, come a scacciarne il ricordo. Si incamminò verso la stazione, ben deciso a dare le spalle a quella discoteca al cui interno i suoi incubi avevano trovato realtà. Continuò la sua marcia forzata verso il treno, incapace di pensare ad un altro posto dove dirigersi. Ammise, con se stesso, che non aveva nessuna voglia di rimettere piede in carrozza, non prima di aver capito qualcosa in più, non prima di cominciare a comprendere perché proprio lì, in quel momento. Sapeva, dentro di se, che non poteva essere casuale. Non un incontro del genere. Eppure arrivò alla stazione comunque, seppur controvoglia. Nessuno, eccetto lui, si diresse verso gli archi d’ingresso, come se nessuno, in tutta la città, si fosse minimamente accorto dell’esistenza di quelle ridicole colonne vecchie, ammuffite, rotte. Andrea si fermò proprio affianco agli eleganti vagoni. Mani in tasca, viso serio, osservò fino al minimo particolare le delicate tende protette da
vetro resistente, le lanterne che sembravano contenere vere fiammelle sempre vive, il legno così perfettamente lucido, così irreale. « Cosa osservi? » Andrea riconobbe la voce, apparteneva all’oscuro ragazzo, o signore, era facilmente confondibile, che aveva visto a bordo qualche giorno, o forse ora, prima. « Il treno, nulla di più. Cos’altro c’è da osservare? » « Tutto ciò che c’è dietro » il misterioso individuo alzò un elegante bastone da eggio, indicando con la punta la foschia che precedeva il veicolo « Non penso risolverei qualcosa andando lì » « No, non risolveresti nulla. Ma prima o poi lo farai, lo fanno tutti » « Tutti? » « Su questo treno siamo meno unici di quel che sembra. O almeno la maggior parte di noi. Sovvengono spesso alle mie orecchie le medesime parole, le medesime domande. E forse è proprio questo quello che tanto fa funzionare ogni singolo ingranaggio del Sistema » « Quale Sistema? » « Il Sistema che ti ha portato su questo treno » la figura sorrise leggermente. Erano all’aria aperta ed Andrea notò come l’altro ne aveva approfittato per potersi coprire. Indossava un elegante soprabito, lungo quasi fino a terra, finemente ricamato e con i bottoni che risplendevano di luce argentea. Il colletto era rigorosamente alzato e gli cingeva del tutto la nuca fino a quasi il mento, un cappello largo e nero gli copriva il capo mentre, infine, una sciarpa terminava di evitare che il viso fosse ben riconoscibile. Solo gli occhi erano chiaramente a portata di vista di Andrea. « Il Sistema … di cosa parliamo? » « Di un Sistema, no? Un complesso insieme di norme e regole che permette ad alcuni di arrivare dove sei tu ed impedisce ad altri di farlo » « Una selezione? »
« Si, almeno penso si possa definire in questo modo » rispose l’altro, quasi cauto « Non sono forse il più esperto per dirti qualcosa a riguardo. Ma sono qui da sufficiente tempo per averne cominciato a sviscerarne i segreti » « Da quanto tempo sei qui? » « Da molte fermate, un tempo penso non quantificabile seguendo l’ordine a cui sei abituato, mi dispiace » « Cosa sai di questo treno? » Andrea fece qualche o in direzione della carrozza, tendendo una mano e sfiorando il legno con il nudo palmo, sentendo il calore che percorreva da lato a lato tutto il veicolo « Oh, è antico, o forse no. E’ comunque esistente da prima di me e di te. In verità sono in dubbio anche su questo. Come ho detto, il tempo del treno è diverso dal tuo, o dal mio. Diciamo che esiste, non è sempre esistito ed un giorno cesserà di esserci. E’ … magico? Direi di si. Raccoglie anime, dove non è dato saperlo, come neanche. Ma le raccoglie, le mette insieme, per uno scopo che solo il Capotreno ed il Fondatore sanno » « Il Capotreno … il Fondatore? » « Lo hai visto il Capotreno, no? » « Si, l’ho visto » Andrea raccolse dinanzi gli occhi l’immagine quasi sfocata di quel vecchio uomo che, con divisa elegante, si dava da fare in ogni fermata. Ma chi era il Fondatore? « Ma non hai visto lui … beh, questo è indubbiamente normale. Non si fa vedere di rado, e come ben hai notato, persino tra di noi le interazioni sono … scarse » il tono parve quasi divertito sul finire della frase, ma Andrea non vi trovò motivo di sorridere « Bene, e chi sarebbe questo Fondatore? » « Ah, non lo so minimamente » il misterioso individuò fisso per qualche istante Andrea, muovendo il capo e portando una mano al cappello come per salutare, voltandosi verso Nuova Londra « Andrò a vedere la città, anche se oramai ne conosco ogni anfratto, dal più oscuro al più chiaro. Divertiti a bordo » battendo regolare con la punta del bastone sulle mattonelle, l’individuò si allontanò.
Andrea poté giurare di averlo anche sentito fischiettare, una canzoncina, non particolarmente intonato gli parve. L’orecchio parve ricordare quelle note, ma Andrea non si sforzò. La sua mente era occupata da una domanda. Chi era il Fondatore?
PARTE II
Quando Andrea fu di nuovo sul treno si accorse che, stranamente, una musichetta pervadeva l’aria. Una musica molto leggera, quasi distante. E per curiosità volle trovarne la fonte. Camminò tra i vagoni vuoti e ridondanti, le luci della città che si estendevano fino al cielo come lance infuocate. Spalancò infine una porta, premendo sulla maniglia quasi delicato, sentiva che il suono non poteva che venire da dietro essa. Era il vagone della musica, lo vide bene quando il legno della porta fu del tutto scostato. E vide gli strumenti tutti ai loro posti, come li aveva già trovati. Le tende erano del tutto tirate, donando ombra a quel carrozza persa tra nebbia e notte. E solo una luce rischiarava ciò che Andrea poteva vedere, una singola luce posta vicino un giradischi da cui veniva la musichetta. Era distante, nonostante non fosse a più di cinque metri di distanza da lui. Era distante anni ed anni, riusciva a sentire l’eco, ma non la vera musica. E vicino a quel giradischi da cui, fisicamente, doveva venire la musica, c’era qualcuno. Una voce femminile carica di sensualità scomparsa continuava a rimbombare tra i vetri ed il legno del pavimento mentre la figura si scaldava vicino la fiammella. Andrea non riusciva a comprendere a cosa stava assistendo e fece per avvicinarsi « Da quanto poco tempo sei a bordo, per essere curioso di me » la figura aveva parlato. E lui aveva sentito chiaramente un’intonazione del tutto uguale a quella della musica. « Io … sono qui da poco si » « Si comprende. Ti muovi senza regolarità su questo treno, guardi con occhio stupefatto quel che ti circonda, eppure è tutto così naturale » « Non per me » rispose Andrea, facendo altri due i. Poi la figura si girò. Era una donna sui trenta, lineamenti del viso dolci e marcati, gli occhi azzurri messi in risalto da un trucco delicato e da un pizzico di fard sulle guance, le labbra di rosso colorate. I capelli erano a caschetto, un caschetto d’oro mentre vestiva un
abito che aveva un sapore retrò. « Allora benvenuto a bordo, qualunque sia il tuo nome » « Grazie, miss qualunque sia il tuo nome » rispose Andrea con un vaghissimo sorriso, com’era solito fare con le sconosciute. Lei lo osservò per qualche istante, evidentemente persa nei suoi pensieri. Eppure la sua voce continuava a risuonare attraverso quell’eco di musica nella piccola carrozza dedicata a quell’arte. Risuonava senza fermarsi mai, carica di un sentimento che Andrea non avrebbe mai più sentito. Un suono di tamburi preannunciò un crescendo, che la voce accompagnò insieme ad una coppia di violini. Era una vecchia registrazione, così gli parve. « Ti piace? » « Si, non l’avevo mai sentita » la ragazza esalò un vago gemito, quasi di dolore « Così normale … » « Cosa? » « Non averla mai sentita. Non l’ho mai sentita neanche io prima d’ora » Andrea la guardò stupito, come incantato da qualcosa che non riusciva a comprendere « Ma la voce … » « Quella voce, sono io si, ma non sono io. Ci sono cose che cambiano, situazioni che variano, e puoi sentire quei mutamenti in ogni singola fibra del tuo corpo. E la voce non ne è esente. La senti? Sentì gli acuti che quella voce era capace di fare, ma io sono spezzata e ciò che potevo prima, di certo non posso ora » « Perché? » « Il mondo ci ferisce, lo sai? Non saresti qui se il mondo non ti avesse ferito. Siamo tutti qui, tutti, nessuno escluso, perché feriti, barche danneggiate da onde troppo forti. Ci hanno offerto un porto sicuro dove ripararci, in attesa di capire quale sarà il nostro esito » Andrea non rispose subito, mise le mani in tasca e continuò a guardare la scena, respirando lentamente, i capelli che gli cadevano sulla fronte scomposti. Si accorse di tremare leggermente, anche se non sapeva perché. Piccoli brividi di freddo lo attraversavano, poi si accorse che era
emozione, per quella musica che con cotanta grazia gli attraversava la pelle e gli arrivava al cuore. Non aveva mai sentito nessuno cantare così e non credette, in quel momento, che avrebbe più sentito qualcosa di simile « Chi sei? » chiese « Io? Nessuna. Io sono nessuna. Sono una reietta, come te, come tutti » « Reietto, tra tante parole non credo mi descriva » « Davvero, perché sei qui allora? » lei si voltò. Gli occhi si incrociarono ed Andrea distolse lo sguardo, andando ad osservare una pila di dischi « Io … sono qui perché ho dimenticato » « Dimenticato? Cosa? » lui non rispose, limitandosi a fissare i dischi con un fare disincantato. Fissava, ma non guardava. I suoi occhi erano molto più lontani di quel che poteva sembrare. No, lui guardava un letto vuoto e un piatto pieno, una finestra aperta e qualcuno che osserva un mare verde a ridosso di colline dimenticate dagli uomini. Guardava un sorriso appoggiato allo stipite di una porta e guardava una realtà che non era più tale. Si riscosse quando sentì le porte della carrozza aprirsi e il Capotreno entrare. « Volevo comunicarvi che il treno sta per partire » richiuse dietro le spalle il legno senza attendere risposta, che comunque non arrivò. Poco dopo, senza salutare, Andrea uscì. Il rumore del treno che riprendeva la via gli fu quasi di conforto. Si stava abituando a quel continuo movimento, gli era quasi familiare, amichevole. Si appoggiò alla parate del vagone, in un corridoio quanto mai buio, mentre la finestrella che dava sul di fuori mostrava la città che veniva attraversata in tutta la sua lunghezza. Monumenti antichi e moderni, cattedrali della tecnologia e templi dello spirito si ergevano illuminati da neon multicolore all’interno di un agglomerato disordinato, caotico, dall’aspetto temporaneo. Bruciavano, quei palazzi, gli occhi di Andrea fissavano le fiamme che ardevano nei cuori dei cittadini. Fiamme non calde, ma fredde. A chilometri di distanza poteva sentirne la freddezza, quella che aveva percepito in quella figura misteriosa che l’aveva messo in fuga così precipitosamente. Era una fiamma per nulla amichevole, una fiamma che scotta e non accarezza la pelle, che non riscalda ma brucia. Una fiamma che pure ardeva in quella città. Se era il futuro, sarebbe tutto diventato così freddo, finto, materiale? Andrea non volle pensarci. Si allontanò da quel buio corridoio e si gettò nella solita biblioteca, che gli era
più cara del suo letto. Era più confortante essere cinti da libri e cultura, anche se alcuni di quei libri non li riusciva a leggere e parte di quella cultura gli era proibita. Sarebbe stata quella la fine? Una ridicola fine per i millenni di ioni e lotte degli uomini, sarebbe stata veramente la più patetica delle fini possibili. Andrea si buttò sul solito divano, adombrato da veli leggeri sconquassati appena dal veloce movimento di quel treno senza ato e futuro. Fissava il soffitto, quel soffitto statico, che pur aveva un che di improvvisamente interessante. Gli sembrava non più tanto statico, stava guadagnando dei moti che Andrea sapeva non poteva possedere. Era diventato una sorta di schermo e se ne accorse quando immagini di cui non aveva memoria gli iniziarono a scorrere davanti al suono di un pianoforte, come in un film. Era immagini di guerra, di violenza, di terrore. Città rase al suolo lambite da fiamme altissime, come giganti in mezzo ad un prato. Si espandevano mentre comparivano soldati, con insegne e visi diversi e le stesse armi in pugno, partivano colpi da lati di piazze enormi e senza fine, mentre nello spazio strabilianti navi volanti sfidavano la sorte combattendo contro rivali. Cosa spingeva quegli uomini? La patria, la vendetta, gli amori, le fortune, le sfortune? Andrea si immaginò storie mentre quello che cominciava a sembrargli un insieme di video di repertorio continuava senza sosta. Immaginò la storia di un capitano che, perso nei meandri dello spazio, rincorreva senza fine il suo nemico, da una stella all’altra, ferito e morente che fosse, figlio di un incubo chiamato vendetta. Immaginò un soldato separato dall’amata da un burrone troppo profondo, provocato da un’arma che pur non aveva lasciato scampo. Un soldato che aveva trovato nel sangue la via per tornare da lei. Erano storie, sicuro. Le certezze, se potevano essere chiamate così, erano quei video. Video di mezzi che ancora non esistevano, una guerra che ancora non poteva essere combattuta. Scena dopo scena intravide qualcuno, in quel campo di battaglia. Ebbe la sensazione, la spinta, ad alzare il braccio destro. Dal nulla, come magia, comparve uno schermo olografico. Non ci volle molto per il ragazzo comprendere che poteva gestire quel flusso di immagini proiettato da una serie di schermi posti proprio sul soffitto con il pannello olografico. Manipolò l’immagine, entrando dentro la battaglia, spostandosi all’interno della virtuale ricostruzione bellica. E si portò sopra un soldato, un ufficiale o sottufficiale o semplice fante, un soldato comune, vivo come tanti e come non tanti altri. Si concentrò sul suo viso e li ebbe un nuovo fremito. Come quando aveva intravisto quella ragazza al locale, come quando aveva avuto tremori di freddo in quel paese, vide il viso e rabbrividì. Cosa ci faceva in un campo di battaglia del futuro lui? Rimase immobile per qualche secondo, il respiro più lento e basso del solito. Era lui, leggermente diverso, ma era lui. Un occhio era attraversato da un paio di cicatrici, il volto era più scavato forse, i capelli più
lunghi, il naso più aquilino, ma era lui. Era comunque lui. Ed Andrea stava osservando se stesso attraverso uno schermo futuristico su un treno impossibile, osservava se stesso dentro una battaglia che non era mai accaduta, o forse non era ancora iniziata, ebbe questo pensiero per qualche istante. Non riusciva a comprendere quello che stava vedendo. Era un documentario, probabilmente, su una battaglia che non era ancora avvenuta, dal sapore decisamente fantascientifico, che stava osservando tramite schermi olografici, comandati da li olografici. E in quella battaglia, se era vera, lui aveva combattuto. E se non lui, qualcuno di molto simile a lui. Continuò ad osservare la battaglia, la telecamera virtuale puntata su quel soldato. Lo seguì, mentre tra i vicoli di una città senza nome combatteva insieme ai suoi compagni. Correva, sparava, scansava grossi mech grigi e pesanti, gli occhi dei loro cannonieri soprattutto. Entrava in una casa, usciva con i suoi compagni da un’altra porta fuggendo ai sassi che cadevano dalla cima di quelle strutture lentamente distrutte dall’imperversare del fuoco e della lotta. Andrea sentì la tensione crescere mentre il soldato finiva insieme a qualche centinaio di persone in una piazza, due schieramenti, i carri, i mech, mezzi aerei senza denominazione possibile, che si lanciavano gli uni contro gli altri per il dominio di quel nodo strategico. Vide i blaster volare ed i soldati cadere, il sangue scorrere ed i mezzi esplodere come fuochi d’artificio. Il suo cuore palpitava sincrono con quello del soldato sconosciuto. Correva sullo schermo, il fucile in entrambe le mani. Sparò, colpendo due nemico che caddero probabilmente con un tonfo, prima di ritrovarsi faccia a faccia con un’altra donna, che lui non riconobbe. Entrambi si puntarono l’arma contro il viso, ma nessuno dei due sparò. Mentre sullo sfondo il caos continuava imperituro e degli aerei dalla forma diabolica facevano la loro comparsa, i due soldati si guardavano diritti negli occhi. Che cosa avrebbero fatto? Andrea non lo seppe, perché quegli aerei spararono sulla piazza senza ritegno di quell’amore che sbocciava e lo schermo si spense. Anzi, lo spense qualcuno che era appena entrato. Andrea voltò il capo, il viso che trasudava tensione e nervosismo per essere stato interrotto. « Cosa guardavi? » « Documentari » rispose acido alla ragazza sconosciuta incontrata a Nuova Londra « Oh, di cosa? » chiese innocente, incurante ed insensibile alla rabbia che in qualche modo trasudava dagli occhi solitamente limpidi di Andrea
« Mi sarebbe piaciuto saperlo ma si sono spenti gli schermi » la ragazza lo fissò, quasi divertita. L’italiano sospirò leggermente, chinandosi leggermente in avanti e notando solo in quel momento che il divano aveva lo schienale del tutto inclinato verso il basso. Lo rimise al suo posto mentre la misteriosa fanciulla si avvicinava ad una libreria con fare tranquillo. Sfiorò con le delicate dita alcuni di quei manoscritti dai nomi misteriosi, assorta da pensieri che Andrea non poteva cogliere. Si scoprì, il ragazzo, ad osservarla con un’attenzione per lui rara verso gli altri esseri umani. Aveva sempre considerato chi lo circondava come un’ombra e la sua vista si posava su pochi, eletti quasi da lui stesso ad un rango apparentemente superiore. Andrea era fatto così, non se ne faceva una colpa e nessuno gliene aveva mai fatta una. In quel momento quella sconosciuta ragazza aveva un che di importante agli occhi di Andrea, forse perché era una delle poche persone che conosceva nel treno, vuoi perché, in qualche modo, si sentiva legato a lei. La osservò attentamente mentre si dilettava con quei libri, prendendone uno ogni tre, sfogliandolo animosamente prima di annoiarsi e cambiarlo ancora. Era incostante, certamente Andrea avrebbe usato questo aggettivo per descriverla. Era incostante, voluttuosa. Come il vento, così la sua volontà di quella misteriosa ragazza cambiava improvvisamente. « Perché te ne sei andato? » chiese improvvisamente, il ragazzo dovette raccogliere per qualche secondo di infinito silenzio le forze per risponderle « Non mi andava di restare lì dentro » « E sei scappato? Fai sempre così quando sei con una ragazza? » Andrea arrossì leggermente, punzecchiato nell’orgoglio « Oh sicuramente … » si limitò a dire di nuovo. Non avrebbe parlato di quella figura che danzava « O c’è altro? » « No, semplicemente mi annoiavo e non mi piaceva il posto. E me ne sono andato » « Non è da cavalieri abbandonare una ragazza in un luogo sconosciuto » si voltò verso di lui, gli occhi che lo sfidarono a fissarla. Aveva un viso certamente delicato nei tratti, ma che nascondeva qualcosa che Andrea ancora non comprendeva. Dopotutto, però, si sarebbe accorto che nulla lì era privo di mistero.
« Forse no, ma non mi pare di aver mai detto di essere un cavaliere » « No, non lo dite mai » lei sorrise appena, portando una mano alla tasca destra della giacchetta di jeans che le copriva le spalle « Non lo dite veramente mai. Pensate di farlo intendere, così da sfruttare questa parola come e quando vi piace » si voltò di nuovo, gli occhi che si poggiarono su dei libri, provando a divagare da quell’insieme di libri che stava diventando stretto. Andrea ebbe un nuovo guizzo di curiosità « Dici? Sembri più esperta di me sui cosiddetti cavalieri allora » la punzecchiò, provando a creare una qualche situazione tramite cui aprire breccia in quello scudo di cui la ragazza senza nome si era fornita « Forse lo sono veramente » lei si diresse all’uscita della carrozza “Medici” « Vorrai farmi il piacere di farmi compagnia a cena, stasera? » chiese dandogli le spalle. Andrea emise un flebile si, che fu sufficiente a lei per uscire da lì, senza dirgli né un’ora né un luogo, anche se facilmente intuibile il secondo. Si gettò di nuovo tra le braccia del divano, scontento. Non riusciva a comprendere quasi nulla di quello che lo circondava e la cosa, in qualche modo, lo infastidiva. Era abbastanza dubbioso sul perché di quel treno ma stava comprendendo che, se fosse riuscito a capire i legami tra quei singolari posti che stava visitando e le persone che erano a bordo, allora forse avrebbe compreso il perché della sua presenza lì ed anche il senso dell’esistenza di quel veicolo. Sospirò, alzandosi da quella comoda poltrona e dirigendosi verso il suo alloggio. Se Andrea si ricordava bene, alle otto servivano la cena lì.
Per quella cena informale a cui era stato invitato Andrea volle presentarsi in modo leggermente migliore. Dal cumulo di vestiti di cui era stato fornito scelse una camicia bianca dal taglio sportivo, degli eleganti jeans ed una camicia di tessuto leggero, ottima per il clima caldo che era ritrovabile in ogni singola carrozza di quel treno. Uscì puntuale dal suo alloggio, chiudendosi la porta alle spalle. Fu nel farlo che si accorse che il suo cellulare era ancora dove lo aveva lasciato, sul letto. Non lo aveva mai tolto da lì, scostato quando vi si era poggiato forse, ma mai tolto, aperto, visto, controllato. Fece una smorfia e chiuse la porta, rammentando a se stesso che avrebbe dovuto controllare se gli fossero arrivate delle chiamate. Camminò fino alla carrozza-ristorante “Visconti”, entrando nell’ambiente semi-oscuro esattamente alle otto di sera, almeno pensò fossero le
otto di sera. C’erano i soliti due camerieri, le tavole imbandite ma solo una aveva, sopra di essa, un piccolo candelabro dorato , con due posti apparecchiati. Si diresse lì come d’impulso ed uno dei camerieri venne ad accoglierlo. Fece un cenno di diniego quando gli chiese la giacca « E’ qui per cenare, signore? » « Si, mi ha invitato ... » Non finì la frase perché il cameriere si limitò a fare un vago cenno di assenso ed un sorriso altrettanto vago « Si, la signorina aveva detto di preparare un tavolo per due. Prego, vuole già accomodarsi o preferisce un aperitivo al bancone? » indicò il bar ed Andrea optò per un cocktail pre-cena. Si diresse dove indicato, facendosi versare in un bicchiere alto di fine vetro un aperitivo alcolico a scelta, senza neanche saperne il nome. Lo accompagnò con qualche tarallo piccolo, attendendo che la ragazza arrivasse. Tra un sorso e l’altro gettò un discreto sguardo fuori i vetri semicoperti dalla tende di colore scuro. C’era il mare sul lato sinistro del treno, un grande e profondo mare che sembrava la diretta continuazione di quello su cui Nuova Londra dava. Questa volta, a differenza del tratto di arrivo, non vi erano delle lussuose ville dove si svolgevano riservati party, né torri né castelli devastati dal tempo e villaggi perduti. Non c’era nulla. Nessuna luce, se non i pochi lampioni al neon che costellavano le strade dissestate dell’area e poche vagabonde auto. Non era una vista allegra, insita in sé un goccio di quella malinconia che poco aveva da spartire con l’apparente gioia di vivere che pervadeva Nuova Londra, ma decisamente più reale. Decisamente più reale era quella malinconia sconfinata che quel aggio notturno poteva donare. Andrea si avvicinò al vetro con il bicchiere in mano, appoggiandosi con il braccio su di esso ed osservando quello sconfinato mare. Nessuna luce, se non le stelle, lo rischiaravano. Era buio, totalmente buio ed il mare era solo. Andrea non riuscì a trattenere un sospiro che aveva le sembianze di un gemito, ma che fu talmente silenzioso da non attirare l’attenzione di quelle due figure che più che camerieri, vista la compostezza e la serietà, sembravano guardie immobili ed eterne. Andrea non si curò di loro, continuando ad osservare quel mare placido e tranquillo, le onde a lui invisibili che si scagliavano a ritmo contro una costa bassa e sabbiosa, cinta da palme e verde ovunque, poi gli sembrò di vedere in lontananza una barca, una lontana piccola barca a malapena illuminata nella vastità dell’oceano. Ma ciò che fosse quel vascello non lo seppe, perché frattanto la misteriosa ragazza era entrata. Si era vestita in modo semplice, un vestito, di un colore chiaro, senza maniche, sobrio, non troppo lungo o corto, le spalle
coperte da uno sciallo con motivi floreali perfettamente intonato, i capelli tenuti sciolti e lo sguardo, capeggiato da due occhi blu oceano, che lo osservavano. Un cameriere le si avvicinò, indicandogli il tavolo ed anche Andrea si mosse verso di esso, lasciando sul bancone l’aperitivo. Fece un cenno all’uomo, che lasciò la fanciulla alle sue mani, le scostò delicatamente la sedia, lasciando che prendesse posto e lo ringraziasse con un vago cenno del capo ed un sorriso. Lui si accomodò e la cena ebbe inizio. « Ho avuto la premura di dire al cameriere di far fare tutto allo chef, così da non avere problemi di menù » Andrea assentì con un cenno di capo « Sarebbe scortese però » disse lui « Continuare a parlare senza conoscere uno il nome dell’altra. Io sono Andrea » « Il mio nome è Veronica » rispose lei con semplicità, osservandolo curioso mentre il cameriere di prima riempiva i loro bicchieri, uno con acqua e l’altro con vino rosso. Rimasero in silenzio per qualche istante, i visi illuminati dalle candele al centro tavolo. Entrambi osservavano l’altro capo del piccolo tavolino rotondo coperto da una tovaglia di fine seta ricamata, colorata di bianco. Si osservavano, mentre il treno procedeva tranquillo nel suo viaggio senza meta finale. Fu Andrea a fare la prima mossa, prendendo il bicchiere di vino e porgendolo leggermente verso di lei. Veronica fece lo stesso, i due bicchieri si sfiorarono appena, un lieve tintinnio di vetri mentre il vino veniva a malapena scosso da quei gesti calmi e misurati. Entrambi bevvero un piccolo sorso, prima che arrivasse l’antipasto. Procedé in silenzio la cena, almeno quella prima parte. Se qualcuno li avesse osservati da fuori, non avrebbe potuto far altro che considerarli come due persone entrate in contatto da poco, timide a parlare o semplicemente troppo prese ad osservare e pensare. Perché Andrea stava osservando, e riflettendo. Riflettendo su come mai si ritrovasse a quel tavolo con quella ragazza e perché lei, in quel momento, era lì con lui. E’ una domanda che si pongono tutte le persone prese da un appuntamento, a dir il vero, ma in quel momento Andrea avrebbe veramente voluto saperlo. Non si trattava di capire che interesse fosse dietro le azioni di Veronica, ma comprendere, o almeno provare a farlo, il quadro generale che aveva spinto entrambi a sedersi lì, a gustarsi salumi ed olive verdi della miglior fattura ed a crogiolarsi nel regolare movimento del treno. I due camerieri, quelli che Andrea aveva visto al suo arrivo, erano ancora lì, fermi ed immobili, ad attendere che i due finissero la loro porzione per are al piatto successivo. Erano molto, molto, precisi ed ordinati. Perfetti quasi. E restavano sullo sfondo silenti, immobili, sorte di fantasmi sullo sfondo
di un incontro irreale. Andrea ritornò con gli occhi su Veronica. I modi di fare della ragazza avevano un che di intrinsecamente elegante. Teneva le spalle ben diritte, il busto perfettamente allineato al tavolo e non lo faceva sforzandosi ma le era naturale. E la cosa attivava la naturale immaginazione dell’italiano. Cosa aveva portato una ragazza così in quel villaggio perso tra i colli italici? Perché lei era salita con lui, non lo aveva dimenticato. Ma perché era lì e cosa ci faceva ora su quel treno? La osservò per qualche secondo, tenendo coltello e forchetta prossimi ad un piccolo arancino che adornava il piatto di porcellana ma senza sfiorare la delicata prelibatezza. Fu quando affondò le posate nel piatto che toccò a lei alzare lo sguardo, come in un gioco. Lo fissò, osservandone le movenze non raffinate ma calme, tranquille. Che però nascondevano un furore nascosto, tenuto incatenato nei recessi del suo animo. E Veronica, dal canto suo, voleva scoprire cosa fosse tenuto così attentamente nascosto. « Perché sei a bordo? » chiese con la sua voce quasi angelica, scuotendo leggermente il suo interlocutore « Perché sono a bordo … non lo so. Tu? » ripiegò Andrea « Non lo so neanche io. Siamo saliti a bordo, mi pare » il ragazzo fece un vago cenno di assenso, pulendosi con il tovagliolo i bordi delle labbra « Perché siamo qui? » « Non lo so » ripeté ancora l’altro, curioso « Ma è una domanda forse comune a tutti i eggeri » « Dici? » « Questo treno è strano, no? Viaggia nel tempo ed attraversa in modo inusuale lo spazio. Decisamente non saremo gli unici ad esserci chiesti cosa sia e quale sia il nostro scopo a bordo » « Dobbiamo per forza avere uno scopo preciso? Forse c’è un motivo e non uno scopo » Andrea la osservò mentre alzava il bicchiere con l’acqua, bevendone un sorso accennato e nascondendo un enigmatico sorriso dietro i vetri lucenti « Non credo. Chiunque abbia costruito questo marchingegno doveva avere uno scopo preciso e noi ne siamo parte » « E se non ci fosse? »
« Io credo ci sia. E vorrei tanto saperlo, come vorrei sapere il motivo della nostra presenza qui » « Sembrano la stessa cosa, motivo e scopo » « No … almeno non credo lo siano. Un motivo può essere esclusivamente nostro, lo scopo potrebbe essere un generico obiettivo che il costruttore si è posto … pare lo chiamino il Fondatore » « Si, me ne ha parlato quell’altro cortese ragazzo … quello sempre vestito di nero » « Ah si … anche a me ne ha parlato lui. E’ informato » « Forse più di tutti. E’ qui da molto tempo » rispose lei, spostando il delicato viso verso la finestra, osservando con i suoi occhi chiari come la Luna il mare notturno « Chissà perché … » « Cosa? » « Chissà perché è a bordo da così tanto » « Forse gli piace il treno » rispose quasi borbottando Andrea. Quel ragazzo non gli era simpatico, a pelle « Non lo so, secondo me gli piace, però non è per questo che è a bordo. Neanche noi siamo a bordo per puro piacere no? » « Siamo a bordo perché stavamo fuggendo, o erro? » gli occhi di lei si fiondarono, sorpresi, su di lui « Scappavamo tutti ed abbiamo accolto a braccia aperte la prima occasione di fuggire, da qualunque parte portasse. Sapevamo tutti che quel treno sbuffante che arrivava dopo il ritardo del solito treno non poteva essere un treno normale. Ma l’abbiamo preso lo stesso » Andrea chiuse il calice di vino nella sua mano destra, muovendolo leggermente, lasciando che il liquido rosso danzasse al suo interno, attirando così i suoi occhi velati da sentimenti che sperava sopiti « Dovevamo per forza fuggire, perché, in fondo, siamo dei codardi » « Perché parli così? Ti credi codardo? Credi io sia codarda? » sembrò piccata nel tono
« Lo sei? Se non lo fossi, non credo saresti qui con me, ed io starei mangiando questo cibo da solo » Andrea sorrise leggermente, quel sorriso che sapeva più di insoddisfazione che d’altro « Siamo qui per la nostra voglia di fuggire da qualcosa. Ognuno ha il suo demone da cui correre » « Alcune volte il demone siamo noi » rispose lei e questa volta fu ancora lei a sorridere, godendo dello sguardo quasi perso che comparve sul viso di Andrea « Il demone siamo noi? » « Provochiamo dolori, noi. Siamo simili … io, te, quel ragazzo … siamo tutti simili. Forse non fuggiamo dalle cose, forse fuggiamo da quello che noi stessi provochiamo » « Non provochiamo tutto » « Ma provochiamo molto » rispose lei. « E dobbiamo per questo assumerci tutte le colpe? » « Essere consapevoli di queste colpe ci rende già del tutto diversi dagli altri » ricominciò lei. Andrea notò nei suoi occhi un che di distante, come fissasse qualcosa che trascendesse il reale e fosse esclusivamente nella sua mente « Diversi … ti senti diversa? » « Siamo diversi da tutti, Andrea. Sarebbe così perfetto se non fosse vero » ed Andrea annuì appena, rendendosi conto di come, effettivamente, Veronica avesse ragione. Il turbinio di pensieri che lo stava sconvolgendo da mesi era responsabilità di quella presunta diversità, di quella profondità che odiava a tratti, ammirava ad altri. Si rendeva conto di essere del tutto consapevole che i suoi guai erano figli di quella stessa consapevolezza e del suo essere così. Ogni cosa è relativa agli esseri umani che la vivono, ma il ragazzo si rendeva conto che, se fosse stato semplicemente più “normale”, molto di quello che andava affrontando si sarebbe risolto in semplici scambi di battute. Se non fosse stato così romantico, così distante dalla sua realtà, non sarebbe neanche mai salito su quel treno, perché non avrebbe mai creato i presupposti per tutta la storia che volendo o meno si portava sulle spalle e gravava sul suo sguardo. Sorrise appena, prendendo il bicchiere di vino e sfiorando il vetro con le labbra assaggiando un altro po’ del peccaminoso liquido. Si rendeva conto che,
effettivamente, il suo essere diverso, il suo essere Andrea lo aveva distrutto, nonché creato. « E normale cos’è? » chiese lui improvvisamente, reggendo lo sguardo colpevole degli occhi azzurri di Veronica « Normale? » « Dici che siamo esseri diversi, io, te, il ragazzo … ma normale, allora, cos’è? » « Tutto ciò che corrisponde alla norma » il tono semplice di lei lasciò stordito per qualche istante il ragazzo « Corrisponde alla banale media. E’ normale ciò che è come tutti … divertente tanto è mediocre » « Normale è quindi mediocre per forza? » Andrea ringraziò con un cenno il cameriere venuto a sostituire i piatti con dei fumanti spaghetti cinti da pomodori e mozzarelle fuse, dall’odore ideale « Ovviamente. Il normale è mediocre perché è come tutti. Come può spiccare qualcosa che è come tutti? Desideri piatti, simili ad altri desideri, non brillano verso il cielo come stelle solitarie. Non sono nessuna Venere in nessun cielo, sono solo puntini vicino altri puntini e noi, che da lontano li osserviamo, li uniamo come un puzzle … ma loro non sono importanti. Il loro disegno finale lo è » « Il normale non è mediocre, è normale » rispose Andrea, lo sguardo attirato da una luce vaga e solitaria vicino le spiagge dell’oceano infinito « E’ semplicemente normale. Non è eccellente né mediocre, brutto o bello. Corrisponde a ciò che è la società, quell’oggettivo insieme di esseri soggettivi che non sono nulla più nulla meno di ciò che la Storia si aspetta siano. Mediocre … aggettivarli così, in un senso così dispregiativo, no, non riesco a dirlo. Sono solo normali e noi siamo diversi. Che noi siamo migliori di loro? Forse si, forse no » Andrea sorrise vago, mentre le parole uscivano dalle sue labbra come un fiume sconnesso, senza pensare a ciò che effettivamente diceva o voleva dire « Un giorno diranno della nostra società che è storica, che i nostri uomini erano speciali, erano diversi … e saremo noi l’esempio per qualcuno dopo di noi, che sarà esempio per qualcuno ancora dopo e così via, fino alla fine del tempo, in un cerchio che finirà con un’estinzione di massa e con la fine del pensiero umano. E nulla di queste società sarà mediocre o eccellente, saranno società … saranno storia »
« Ma io posso giudicarla mediocre, però » rispose Veronica, a tratti affascinata, a tratti divertita. Mentre Andrea parlava l’aveva osservato assorta, preso da quel fiume impetuoso che il ragazzo poteva diventare quando lasciava che il suo cuore parlasse al posto della cieca mente. E l’aveva sentito, parola per parola, ascoltato ed aveva capito, compreso quel punto di vista così stranamente logico « Perché non sono il futuro, né il ato. Sono il presente e posso elevarmi a giudice, almeno nella mia mente. Posso guardare con distaccata superiorità la società e sono libera di farlo … è, o non è, il nostro più grande vanto? Siamo tutti liberi, anche di giudicare e corrompere la libertà. Ed io mi crogiolo di questa libertà, di questo apparente soffio di vento che ci sospinge dove noi, apparentemente, vogliamo andare » Andrea non rispose subito, affondando la forchetta nella pasta che gli era dinanzi, placida, sul punto di raffreddarsi. Sorrise leggermente mentre gustava la delicata prelibatezza e mentre, Veronica, piccata, attendeva la sua risposta. Ma Andrea si prese il suo tempo, dopotutto, non aveva fretta. E quando i due piatti furono quasi del tutto vuoti ed il cameriere, elegante, li fece sparire quasi magicamente, riempendo al contempo i calici con vino ed acqua, fu il ragazzo a riprendere la parola. Il treno continuava la sua marcia lungo la sconfinata costa che dava un oceano quanto mai tranquillo. Le tende leggermente scostate dal movimento delle ruote ferrate lasciavano intravedere il aggio su ambo i lati della carrozza, sia sull’interno del territorio, costituito da alte colline dalle punte tonde, coperte di foreste di conifere e di case isolate senza luci, sia la lunga spiaggia a tratti fermata da grossi ammassi di rocce calcaree che cadevano a strapiombo sulle acque all’apparenza più placide. Andrea immaginò che molti, con le loro barche, ormeggiassero di aggio in quelle insenature naturali, vicino grotte sottomarine, al riparo dalle correnti più forte. Immaginò, per qualche istante, una barca al riparo dalla tempesta e due persone sottocoperta, con una bottiglia di champagne ed un letto sfatto, il dolce rollio del mare ed un odore di vongole e cozze a pervadere la cabina intera. Poi scosse il capo, allontanando quell’immagine illusoria e concentrandosi, seppur con sforzo, su Veronica che aveva ripreso a fissarlo sorseggiando l’acqua. « Siamo liberi di distruggere la libertà … quale più grande danno all’Umanità intera sarebbe possibile? Togliergli la libertà, o l’illusione della libertà, come preferisci » Andrea fece un cenno vago, quasi divertito, ma le sue parole tremavano d’eccitazione « Come distruggere un uomo? Ucciderlo, ferirlo, torturarlo? No, farlo sentire in prigione, e non per pochi istanti, ma per lunghi periodi di tempo. Lo piegherai quando chiuderai la sua anima. Pareti di roccia e sbarre contro il cielo non lo priveranno della Libertà. Noi siamo liberi, Veronica, liberi qui » indicò il suo cuore « E nessuno potrà mai privarci di questa libertà.
Ne facciamo al più il peggior uso, della libertà, ma non per questo non la possediamo. Tu la chiami illusione, ma è reale, più reale di me e te su questo treno, certamente più reale di me e te » Veronica lo fissò, gli occhi che scrutavano l’anima del suo compagno di discussioni. Non rispose subito, non rispose per qualche minuto. Arrivò il secondo piatto, un aroma di carne e patate cotte si diffuse nell’aria, arrivando subito alle narici di Andrea, che gustò con piacere, assaporando nel contempo quella piccola vittoria verbale contro Veronica. Una vittoria solo temporanea, sentiva dentro di sé il ragazzo, ben conscio che la ragazza non si sarebbe arresa così velocemente. Andrea decise di buttarsi sul secondo, con gesti calmi e ben regolati. Tagliava, infilzava e portava alla bocca generosi pezzi di quella gustosa carne, cotta al punto giusto, accompagnandola con le delicate patate accuratamente preparate dal cuoco, quello o quella sconosciuto individuo che li manteneva in vita. Il silenzio cadde nuovamente sulla tavola elegante e sulla tovaglia di fine seta bianca. Il silenzio, espanso da quel vago rumore di rotaie che si schiantavano sul freddo metallo dei binari di una ferrovia fantasma, fuori un cielo sempre più nero che sembrava ancor più oscuro, riflesso su quel mare senza luci, a lui fuso senza poter essere distinto se non per la presenza, seppur vaga, di svariate stelle solitarie, compagne di una luna calante senza luce. « Tu dici? Liberi … sarebbe bello » rispose semplicemente Veronica. Andrea ne fu leggermente deluso, aspettandosi una risposta ben più lunga. Lei appariva ora più distante che mai da quel tavolo, gli occhi persi che scrutavano senza vedere gli oggetti di quella carrozza leggermente traballante « Eppure anche se siamo liberi dentro, non siamo liberi nel mondo. Siamo liberi nell’animo, e spesso questo non basta. Se il corpo è incatenato, l’anima può solo aspirare all’aria della libertà » Andrea poggiò le posate d’argento decorate nel piatto, pulendosi le labbra con il fazzoletto prima di alzare gli occhi verso la ragazza, che solo ora pareva interessarsi al secondo piatto. « Beh, già l’aspirare alla libertà vuol dire essere liberi di poterlo fare » « Ma aspirare non vuol dire essere … è un controsenso, no? Si aspira alla libertà e tu dici perché siamo liberi di farlo, privi dei condizionamenti che ci vietano di poterla anche solo desiderare. Ma essendo aspirazione vuol dire desiderio, desiderio di qualcosa che non si ha » il ragazzo rimase leggermente silente, ponendo gli occhi di nuovo su Veronica, quasi affascinato. Fu colto da un’improvvisa sensazione di leggerezza, qualcosa che gli mise quasi il buon umore, una sensazione che da troppo tempo non provava con mano. Pose gli
occhi sulla pelle non troppo chiara di lei, il simbolo del suo retaggio mediterraneo. « E’ vero » rispose semplicemente l’italiano, giocherellando con la punta della sua forchetta argentata « E’ vero, hai perfettamente ragione. Siamo e non siamo liberi, ci dibattiamo tra catene strette e larghe, che ci sono e non ci sono … ed è forse questo che rende il tutto così affascinante. Il lottare liberi per essere ancora liberi. Siamo liberi? Si, di sognare d’esserlo e di un giorno riuscire a realizzarlo » non parlarono più. Andrea si sentiva leggermente stanco, ma non si alzò. Terminò la cena, come era previsto. Dopo le sue ultime parole lo sguardo di Veronica si era fatto di nuovo freddo e distante, come se pensasse a qualcosa che fosse lontano, molto lontano. Andrea non aprì più bocca, non chiese, non voleva sapere. Non avrebbe mai rotto, lui, quell’incanto che pur pareva sceso su quella tavola così ricca e lussuosa. Dopo il secondo arrivò una macedonia, seguita da un gelato ai frutti di bosco, servito in coppe di cristallo splendente. Mentre mangiavano, nel silenzio, si diffuse una canzone, che il giovane riconobbe, l’aveva già sentita su quel treno, in un vagone poco distante. Si rammentò così di quella signora, o signorina, piena e carica di misteri che si poteva comodamente sommare a tutti gli altri. Quando la cena finì nessuno dei due si alzò. Veronica aveva poggiato i gomiti sul tavolo, osservando nel contempo il paesaggio che oramai sembrava un quadro in perenne ripetizione e per qualche istante, realmente, Andrea si chiese se così non fosse. Un giro circolare di cui non potevano accorgersi. Ad un’occhiata più attenta si sarebbero potuti notare delle foreste e delle case perse tra di esse, come sentinelle solitarie. Quelle case solitarie, dove come per incanto Andrea si trovò. Fissava un mare piatto come e lucido, come porcellana, che risplendeva sotto un sole infuocato che brillava in un cielo azzurro chiaro e vicino a lui distesa lei, con le gambe scoperte su un parquet dal colore di legno caldo, diritto e perfetto, poco lontano un cane che correva su una spiaggia di sabbia e coralli, abbaiando il vento e rincorrendo insetti. Era la scena perfetta, che si infranse sui vetri di un treno che sembrava spingere il cuore sulle vie della più pura gaiezza, prima di spezzare una ad una le illusioni, come la Vita che, come una maga, concede fugaci sogni prima di ridarti una realtà mille volte più dura. La sua mano, adagiata sul tavolo, assunse la posa particolare delle dita strette intorno al volante di un’auto bianca che, quattro ruote, un motore silenzioso come un fruscio, due persone e vetri abbassati, andava non troppo adagio sulle vie che si snodavano tra colline ondeggianti. Tutto verde, eccetto il cielo, calmo e sereno, come non la terra. La musica che si levava dalla radio, e la canzone cantata dalla donna misteriosa che echeggiava nell’abitacolo.
« Ecco dove l’ho sentita » mormorò, pensando al alta voce, non così alta da distrarre Veronica dai suoi ricordi. Come lui, anche la misteriosa ragazza dagli occhi lucidi come perle era persa nella sua memoria. Rammentava la barca, la famiglia, l’altro, il silenzio, le onde, il tuono, la tempesta. Rammentava uno ad uno i pezzi del puzzle che improvvisamente avevano trasformato il Paradiso in un campo di battaglia in cui lei, da sola, si ergeva a difesa come un’inflessibile combattente, senza pace né speranza di ottenerla molto presto. Due lacrime scesero nella carrozza ristorante, una per ogni persona che in quel momento sedeva intorno ad un tavolo dove magicamente, per mano di un cameriere molto attento, comparvero una bottiglia di whisky e due bicchieri già riempiti con ghiaccio ed alcool, ma che nessuno dei due ospiti aveva ancora notato. Comparvero le lacrime che ricordavano ad entrambi che erano su un treno che fuggiva sempre più lontano dal loro Inferno, le cui fiamme però non ne avrebbero mai smesso di lambire la pelle fino a consumarla, ed i cui ricordi non avrebbero mai smesso di rompere in pezzi piccoli come la polvere il cuore. Andrea fu il primo a notare l’alcool e non ci pensò due volte a cingere il bicchiere come il volante di quell’auto bianco ed a portarlo alla bocca, ingoiando tutto d’un sorso il prezioso liquore e godendo della sensazione di bruciato che gli pervase. Quel fuoco fisico poteva aiutare a scacciare il fuoco che si annidava nel suo petto. Mentre Veronica indugiava sul suo bicchiere, Andrea ò al secondo, che velocemente lasciò sparire. Sentì la cena salirgli fino in gola, prima di scendere di nuovo, le guance arrossarsi e gli occhi farsi più ciechi della realtà, se la si poteva considerare così, che lo cingeva « Grazie della chiacchierata … e dell’ottima cena » disse alzandosi, prendendo il fazzoletto che non s’era accorto d’aver ancora sulle gambe ed adagiandolo sul tavolo « Grazie a te » rispose Veronica, il bicchiere al suo posto. Andrea si diresse all’uscita sulle sue gambe, andando verso la sua cabina, a contrastare, ancora una volta, i suoi incubi. Mise mano al pomello e spinse la porta che lo separava dal corridoio. Con la coda dell’occhio scorse Veronica bere il liquore infame e mormorare senza voce « Mi dispiace, Matteo »
Quando Andrea si buttò sul comodo letto stranamente ordinato, penso seriamente di dormire. Ma quella notte qualcosa lo tenne sveglio. Vestito, il primo ed il secondo bottone della camicia che aveva indossato slacciati, la giacca buttata sulla sedia adagiata davanti la scrivania, aveva sperato che la somma di letto ed alcool sarebbero stati sufficienti a condurre la sua mente in una trance priva di sogni che, in qualche modo, lo avrebbe riposato. Invece si ritrovava a fissare il soffitto decorato di un treno che sentiva accelerare, un vago mal di testa che lo colpiva ed un senso di spossatezza nel fisico che lo costringeva a restare disteso, senza dargli neanche la forza di fare altro. Era la perfetta situazione per pensare, ma in quel momento tutto voleva fare, tranne che pensare. Ma più ci si sforza per evitare qualcosa, più irrimediabilmente si è sospinti ad essa, come dalla marea su una spiaggia che dolorosamente vogliamo abbandonare. Così Andrea cominciò a pensare, nuovamente. A pensare quanto tempo reale fosse ato dalla sua entrata in scena su quel treno senza senso e quanto a lungo sarebbe durata la sua permanenza a bordo. Erano domande più che legittime, specie considerando l’ignoranza che attanagliava la mente del giovane riguardo il singolare veicolo che lo ospitava, ignoranza comune a tutti i eggeri meno uno. Il misterioso ragazzo perennemente elegante che girovagava tra un vagone all’altro come un fantasma in un castello scozzese. Forse sarebbe dovuto subito correre a cercarlo, costringerlo a dargli delle risposte, con qualsiasi mezzo. Ma scosse il capo dinanzi la proposta che la sua mente gli faceva. Non avrebbe risolto nulla così. Molto più sensato era però capire quanto tempo fosse trascorso. Non poteva, non doveva, dimenticare perché stava prendendo quel treno regionale. Doveva continuare a ricordare a se stesso che, qualunque cosa avesse scelto a riguardo, sarebbe dovuto ritornare. Stava diventando prioritario scoprire quanto tempo era effettivamente ato. Non capiva perché, ma sentiva una necessità impellente di saperlo. Si alzò con la decisa volontà di uscire dalla cabina e scoprirlo. E quando uscì, comprese che forse la risposta si annidava proprio nel vagone dei libri, la carrozza “Medici”. Vi entrò con fare quasi perentorio, come se si aspettasse qualcuno che, guardandolo, duro in viso e nelle movenze, avrebbe parlato, avrebbe svelato ogni singolo mistero di quel treno. Sul suo viso si disegnò una vaga espressione di sconforto quando notò che era vuota, completamente vuota. C’era una musichetta di sottofondo, e null’altro. Libri ed un orologio che imperturbabile continuava a far ciondolare il suo pendolo, scoccando una ad una le ore della giornata. Andrea sospirò pesantemente « Cos’hai da sospirare? » il ragazzo sobbalzò, voltandosi verso quella che
doveva essere ombra e che invece era una poltrona girata di spalle, che dava su una finestra le cui tende erano state scostate per permettere una più chiara visione del fuori. « Cosa non avrei da sospirare, semmai » rispose « Cosa allora? » riconobbe la voce del giovane, il bastone che fece capolino, indicando una vicina poltrona. Andrea si accomodò, con calma, accavallando la gamba destra sulla sinistra e lasciandosi andare in mezzo alla morbida seta, a differenza dell’altro, che manteneva una posa elegante e fine e stringeva un bicchiere nella mano destra. Nonostante la posa i suoi abiti non erano tenuti in perfetto modo. I primi due bottoni della camicia bianca perla erano slacciati, la giacca di lino era adagiata su un tavolino, affianco una bottiglia aperta. « Tutto … questo treno, questo paesaggio sconosciuto. Tutto mi dà da pensare e sospirare, vorrei comprendere … ma pare che sia stato costruito ad hoc per impedirmelo. E’ così grave provare a capire? » « No, anzi, ti rende perfettamente umano ed allo stesso tempo denota grande responsabilità ed umanità in te. Tu … non sei come gli altri. Ci si annega, qui dentro. Ci si annega tra dolori e piaceri, ci si dimentica chi si è, cosa si fa, cosa si deve fare … tu non l’hai ancora fatto » Andrea si morse il labbro inferiore. Come faceva a sapere, a capire? « Lei ti attende, tu lo sai. E tu, in qualche modo, vuoi comunque raggiungerla. Non conta per dirle cosa, conta il fatto che vuoi farlo … sei diverso » « Diverso da chi? » « Dagli altri eggeri. Li hai incontrati no? » « Qualcuno … il Vecchio signore che si è imbarcato con me, la cantante, una ragazza » « Ed hai visto che ritratti decadenti dell’umanità sono? Sono persi, perduti nei loro ricordi, nei loro amori … sono persi in loro stessi » portò alle fini labbra il bicchiere, svuotandolo tutto d’un fiato, riempendolo ancora mentre il silenzio, scosso dalla musica e dalle rotaie, continuava ad ovattare la carrozza « Tu no. Tu, sei salito a bordo per paura di perderti, non perché lo desideravi. Si reagisce così al dolore, sai? Ci si vuol perdere in qualunque modo. Se noi non sappiamo riconoscerci, come potrebbe il dolore trovaci? E così fan tutti, così si perdono
tutti … così tutti restano qui » « Io … non posso » « E questo ti rende diverso. Tu vorresti vero? Vorresti perderti e dimenticare. Ma non vuoi e non puoi. Perché lei, qualunque sia il prezzo, ti attende. Qualunque sia il prezzo che pagherai, tu sai che devi andare fino a quell’ospedale, varcare quella soglia e fissarla negli occhi. Non sai che dirle, non sai che fare. Sei un codardo forse? Meno di loro » « Come fai a sapere tutto questo ? » « Io? » lo sconosciuto rise, di una risata sporca d’alcool « Io? Io so tutto, di chiunque sia a bordo, perché sono il più antico eggero di questo rottame senza tempo » rise ancora, svuotando di nuovo il bicchiere « Io sono il primo ad essermi perso. Io sono il Costruttore » «Il Costruttore? Hai costruito tu questo treno? » « Si, insieme al Fondatore. Siamo stati noi. L’ho costruito per lui, me lo ha commissionato tanto tempo fa … o forse non lo ha ancora fatto. Ironico che appena partito, mi ritrovò con lui, qui, a viaggiare » « Non credo di capire .. » « Il treno ti trova, lo hai capito no? Ti cerca, ti fiuta ed infine ti trova. Fiuta la tua codardia, la tua paura. Fiuta come un segugio e quando ti trova, ti accoglie. E tu lo accetti, proprio perché il treno sa che lo farai. Sa che vorresti partire e non tornare mai, lasciare tutto come in stallo e dimenticarti i tormenti ed i dolori, non scegliere, non agire, non fare. Essere il perfetto codardo » rise di nuovo mentre beveva il terzo bicchiere « Mi ha … fiutato? » Andrea fissò stranito l’uomo, cominciando a pensare che fosse l’alcool a parlare. Di cosa mai poteva trattarsi, dopotutto? Quale oggetto poteva fiutare? « Da dove vengo io, da dove viene il Fondatore, esistono tecnologie strabilianti che la tua mente non può ancora comprendere » mosse la mano in aria, lasciando che uno schermo olografico comparisse, illuminando di luce bluastra la carrozza e costringendo Andrea a socchiudere gli occhi per l’improvvisa luce. Il
Costruttore lo notò e lasciò diminuire l’intensità. Sfiorò appena dei tasti, prima di lasciar sparire anche quel piccolo ologramma. Qualcuno entrò, Andrea notò che era un cameriere, portava con se una bottiglia, che sostituì a quella già presente, sparendo senza dire una parola « Tecnologie così avanzate che mi hanno permesso di costruire questo treno. E questo treno “fiuta” » rise di nuovo « Fiuta e cerca, trova ed accoglie e non lascia mai. Mai » « Cosa vuol dire che non lascia mai? » « Che nessuno è mai sceso da qui. Nessuno ha mai sentito il bisogno di scendere da qui » « Ma se io volessi scendere … » « Potresti. Non è che non puoi, è che non vuoi. Tu non vuoi scendere. Scendere da qui vuol dire tornare esattamente dove ti trovavi, il tuo bagaglio a mano, le tue cuffie nelle orecchie, le disgrazie del giorno, il tormento del domani, la paura del futuro. Ti ritroveresti dov’eri, con quegli esatti pensieri … ti ritroveresti a scegliere cosa fare con lei » Andrea respirò profondamente, portando lo sguardo sulle colline fuori le finestre « Ecco perché nessuno scende. Sono tutti codardi, anche tu. Meno forse, ma lo sei. Chi abbandonerebbe questo … l’eternità della pace, dinanzi la difficoltà della scelta. Addio dolori e rimpianti, atti di coraggio e di follia. Benvenuta pace » « Io non riesco a capire … quello che tu dici è impensabile. Chi mai accetterebbe una situazione simile? » il Costruttore si voltò, sul suo viso, ebbro dall’alcool un sorriso enigmatico, distante, lontano anni luce e parecchi secoli « Tu perché sei ancora qui? » si alzò, prendendo giacca e bastone e con la mano libera la bottiglia e si allontanò, mentre la musica si alzava leggermente di tono, il Treno accelerava e le colline si facevano più lontane. Andrea rimase seduto, lo sguardo fisso sul paesaggio sempre più scuro, le poche case che si facevano via via puntini invisibili nella sconfinata eternità. Sorrise leggermente, senza sapere perché, osservando la calma assoluta che imperversava al di fuori dei vetri. Con sottofondo la musica socchiuse gli occhi e quando li riaprì era giorno. Sembrava un sogno, eppure era proprio giorno. C’era il Sole, il cielo azzurro, il verde di prati mischiato al giallo del grano maturo che occupava intere proprietà, fattorie al centro, lontano contadini che cominciavano il loro lavoro. Era appena l’alba, ma era per Andrea un miglioramento rispetto all’eterna notte che l’aveva
avvolto. Si alzò, sentendosi intorpidito. Non poteva essere, a rigore di logica, ato chissà quanto tempo da quando si era seduto su quella poltrona, eppure sentiva i muscoli indolenziti, come se invece di ore ne fossero trascorse, ed anche parecchie. Si mise in piedi, osservando la carrozza piena solo del suo respiro e dei libri antichi. La musica era cessata chissà da quando e, per quello che vedeva nell’ombra scossa dai primi raggi di sole, dentro la carrozza non c’era assolutamente nessuno. Prese la via della “Visconti”, sentendo la fame cominciare a cercarlo. Avrebbe gradito mettere qualcosa sotto i denti prima di cercare chi, veramente, era il responsabile di quel treno, il misterioso Fondatore. Oramai tutto faceva comprendere che se voleva, in qualche modo, comprendere ciò che gli stava succedendo, doveva affrontare l’oscuro finanziatore di quel folle veicolo. Quando entrò nel piccolo ristorante di bordo non si sorprese di notare i soliti due camerieri al lato opposto, invisibili quasi, immobili, silenziosi, sorridenti e scaltri. Per qualche istante Andrea immaginò di notare un filo di polvere sul loro capo, ma scosse il capo alla ridicola fantasia e prese posto ad un tavolo casuale, vicino un finestrone le cui tende erano scostate e permettevano al sole di entrare. Voleva assolutamente godere, ora più che mai, della vista del giorno che veniva. Il treno sembrava non andare molto veloce, riusciva quasi a distinguere uno ad uno i fili di grano che uscivano dal terreno fieri e pronti ad essere colti. Un cameriere gli portò del tè caldo, il cui odore si diffuse rapidamente nell’aria, accompagnato da biscotti al burro e da varie creme, alla frutta ed alla nocciola. Chiese qualcosa a cui il ragazzo fece un cenno di diniego e l’uomo sparì di nuovo nell’ombra da cui era uscito. Andrea se la prese comoda nel reagire alla venuta della prima portata della colazione. Si voltò lentamente, con un gesto quasi calcolato ma involontario nella realtà. La sua mente stava divagando per vie prima di allora mai intraprese. Si sentiva stordito, anche se non sapeva perché. Fissò per qualche istante la tazza fumante prima di gettare dentro di essa due zollette di zucchero e mescolare. Inspirò i fumi del tè prima di berne un primo sorso, lasciando alla lingua il piacere del gusto prima di insabbiare il tutto nei biscotti al burro. Bevve e mangiò con lentezza, sempre pensieroso, gli occhi che si posavano ora sui campi di grano, ora sulle colline, ora sulla tavola imbandita per due ma con un solo commensale, ora su una carrozza del tutto vuota. Rimase seduto per interminabili momenti, alla ricerca di un solo buon motivo per alzarsi ancora da quella comoda poltrona e fare qualcosa. Non aveva la benché minima idea di cosa avrebbe potuto fare. Il treno continuava a muoversi, il paesaggio restava quasi del tutto immutato, il vuoto continuava ad attanagliare il giovane ragazzo, la cui tazza venne riempita per la seconda volta
dal misterioso cameriere. Andrea cominciò a chiedersi se mai si sarebbe alzato da quella poltroncina. Il tè sarebbe finito e lui si sarebbe alzato? No, perché sembrava che il cameriere avesse un’infinita riserva da fornire all’ospite involontario. Il sole appariva fisso nella sua posizione, pronto ad alzarsi dal letto della notte ma non del tutto convinto di farlo, e così era immobile, all’orizzonte, donando una luce arancia all’intero creato che gli occhi di Andrea potevano scorgere. Il ragazzo si ritrovò a sospirare di nuovo, come faceva oramai da troppo tempo. Sarebbe potuto restare così per molto tempo, per sempre forse. Solo a pensare, senza far nulla che non fosse guardare, commentare e pensare. I problemi li avrebbe lasciati ai suoi giorni ati, esattamente come sembravano fare tutti. Furono dei i a distrarlo da quei pensieri annoianti. I i di un vecchio che con calma prese posto ad un tavolo non lontano da lui. Un cameriere portò una bevanda al tavolo del signore, qualcosa che evidentemente non era tè , della marmellata e un giornale apparentemente politico, anche se non capì effettivamente di quando. Andrea osservò per qualche istante il vecchio uomo che cominciò la sua colazione, portandosi di nuovo ad osservare il paesaggio quasi estivo che sembrava esserci al di là dei vetri e scorse il Sole, con la coda dell’occhio, farsi un po’ più su. Entrarono altre due persone poco dopo, che parlottavano a voce bassa, quasi sussurrando. Andrea utilizzò l’atto di prendere la tazza di tè per scrutare ed osservare i nuovi venuti. Erano Veronica e l’uomo che si era imbarcato con loro all’inizio di quel viaggio. Si ricordò del vecchio uomo che aveva poi incontrato sulla cima di quel villaggio perduto tra le montagne ed osservò l’altro presente in quella carrozza, ma non riconobbe il viso e capì che dovevano essere due persone diverse. Il vecchietto che faceva colazione non si curò né di Andrea, né di Veronica con lo sconosciuto. Si curò solo del suo giornale e della sua bevanda, nonché delle sue fette biscottate con la marmellata. Andrea ritornò a fissare l’esterno, curiosando tra l’aperta campagna alla ricerca di qualcosa di nuovo. Trovò un boschetto che sembrava aprirsi su un fiumiciattolo, una stradina probabilmente mal lastricata e piena di buca, un gruppo di uomini che andava verso i campi, i cui visi immaginò fossero resi neri dal sole del giorno e le mani rese dure dal lavoro. Intravide a qualche miglio la cima di un campanile mediterraneo, probabilmente che richiamava a se le prime pecorelle per un nuovo giorno del Signore. Sembrava l’idillio perfetto, la calma per qualsiasi anima in pena. Eppure Andrea non riusciva a trovare nessun genere di calma in sé. No, la sua mente era ancora annebbiata dalle parole del Costruttore e dall’idea che doveva, in un modo o nell’altro, trovare il Fondatore. Osservò la situazione che si era venuta a creare nella carrozza. Veronica, distaccata, sensibile ed a suo modo fredda discuteva con l’uomo d’affari, colpito da un tic nervoso che lo spingeva a giocherellare con il cucchiaino d’argento.
Perché? Era emozionato di sedere con Veronica? Guardava così spesso fuori che sembrava avere fretta di qualcosa. Il vecchio sconosciuto continuava la sua lenta lettura del giornale, accompagnata da sorsi, non lunghi, precisi, regolari, dalla tazza di vetro che stringeva tra le dita ruvide e fini. Andrea prese coraggio e dopo un ultimo sorso di tè fece per alzarsi ma qualcuno lo fermò, poggiandogli un bastone sulla spalla. « Salve di nuovo … » il Costruttore gli fece un sorriso molto vago. Era ritornato il solito ragazzo elegante, in doppio petto e giacca di seta, le mani coperte da eleganti guanti ed il capo cinto da una tuba che faceva secoli andati. Prese posto dinanzi a lui, togliendosi educatamente i guanti dopo aver adagiato il bastone al fianco della poltroncina. « Salve a lei » rispose Andrea « Riguardo ieri sera … » la mente di Andrea si concentrò del tutto su di lui « Non ho mentito, di una singola parola. Anche se qualcuno oserebbe dire che ero in preda ai fumi dell’alcool, non respingerò una sola delle parole che ho detto. E’ tutto vero, dalla prima all’ultima frase che mi ha sentito esclamare nella notte » Andrea deglutì prima di dire « Dov’è il Fondatore? » l’altro alzò gli occhi ed ebbe come un fremito, prima di ricomporsi « In giro, come al solito » posò subito gli occhi sulla tazza di nero caffè che gli venne portata in automatico dal solito cameriere che, insieme all’inseparabile compagno, serviva tutti i tavoli della carrozza “Visconti”. « In giro, dove in giro? Siamo su un treno » sbottò leggermente Andrea mentre il Costruttore faceva comparire un vago sorriso « Non hai la concezione giusta della realtà » « Non ho la cosa? » « La concezione giusta della realtà. Questo è solo un treno, per te. Per me, che l’ho visto fino in fondo, è qualcosa di più » guardò fuori le finestre, con sguardo ora vacuo « Ci stiamo fermando. Goditi la scesa, non so quanto ci fermeremo » Andrea vide un villaggio comparire dai campi di grano. I tetti rossi intervallati da balconi coperti da tendoni, che facevano ombre a sedie e tavolate, cornicioni
di marmo e strade in pietra lavorata. Sentiva già il caldo che l’attendeva fuori dalle porte del treno e fu questo a spingerlo a ritornare nel suo alloggio, senza salutare nessuno, cambiandosi e vestendosi decisamente più leggere. Si chiese dov’erano, le case gli erano familiari ma non riusciva a ricollegarle ad un luogo ben preciso. Sembrava il classico villaggio perso nelle campagne di un qualsiasi paese che affacciasse sul Mediterraneo, si aspettava quasi di vedere un molo, qualche barca ed una grande distesa blu. Non mancava una rocca, dall’aspetto normanno, enormi torre circolari agli angoli, un grosso mastio che sembrava danneggiato e lasciato a se. Andrea scese, vestito con una camicia e dei jeans, al polso il suo orologio digitale che segnava le ventuno di sera. Arrotolò le maniche della camicia, facendole arrivare fino al gomito. Si accorse di essere nella solita, non diversa e perennemente vuota, stazione ferroviaria che lo aveva accolto prima nello sperduto paese, poi a Nuova Londra. Cominciò a pensare che non esistesse, ed effettivamente doveva per forza essere così. Forse era un’illusione, una creazione del Costruttore per creare una copertura d’arrivo al treno. Chissà, si chiese Andrea, se non fosse una creazione solo nella sua testa. Si diresse alla ben conosciuta entrata, superando le colonne perennemente danneggiate, coperte da ragnatele agli angoli superiori, screpolate dal tempo. Sentiva caldo, respirò profondamente mentre i capelli lunghi gli cominciavano a dare un filo di fastidio. Mise piede fuori dalla stazione senza controllare se qualcuno fosse sceso con lui dal treno. Entrò così nel villaggio, vivo, gremito non fino all’orlo di gente presa dalle proprie faccende. Era gente comune, presa dalle proprie faccende. Delle nonne accompagnavano i nipoti verso l’asilo, ragazzi giocavano a pallone in una piazza dove c’erano qualche bancarella piena di vestiti, alcune di cibo, altre di gingilli di poco conto. Qualche camionetta degli anni ’50 era ferma agli angoli, all’ombra. Poche auto erano in circolazione, per lo più ferme. Era certamente domenica, si disse il giovane. Le porte della chiesa erano aperte, ma non c’era ancora una massa diretta verso di essa. Scrutò la piazza principale che aveva sott’occhio e notò un orologio, non molto grande, a sufficienza da permettergli di scorgere sul quadrante vecchio e ingiallito l’ora, le dieci del mattino. Mise le mani in tasca, cominciando a girovagare. Il paese non era molto grande, compatto, le case vicine, le strade strette. Andavano tutti a piedi, in bici o in motorino. Poche discese e salite, quasi tutto in pianura. Andrea eggiò per dieci minuti, dando le spalle alla piazza, sulla via principale, su un marciapiede che copriva i viandanti con una fitta schiera di stranamente ben curati alberi. Si accorse che molto rapidamente il paese terminava nella natura, dando spazio a campi coltivati e non, allevamenti e case signorili sperse nei loro giardini. Si
voltò, tornando sui suoi i, nella piazza principale, osservando la vista che gli era offerta, provando a capire perché si fossero fermati proprio lì. Il paese era uno come tanti, dimenticato dall’industria, chiuso nei suoi valori e nelle sue fondamenta inamovibili. Gente che viveva, ragazzi che giocavano, il bar aperto, i vecchi col giornale, le madri che osservavano apprensive i figli vestiti bene per la domenica. Sembrava un quadro raffigurante una civiltà scomparsa, ma invece si rendeva conto che poteva essere discostante dai suoi tempi di uno o due anni. Si sedette su una panchina, chinando la schiena ed allargando leggermente le gambe, incrociando le mani e guardando il paese, socchiudendo leggermente gli occhi per il sole, a cui sembrava non essere più abituato. Scrutò, con attenzione, tutto intorno a lui. Non c’era nessuno degli avventori del treno, della Stazione fantasma vedeva solo l’entrata, sistemata a cavallo di due case. SI rese conto che nessuno, eccetto lui, la vedeva. Si chiese cosa fosse per gli altri. Continuava però a cercare di capire perché si fossero fermati lì. Ogni singola fermata doveva avere un senso, si disse. Il treno, secondo il Costruttore, “fiutava” i futuri eggeri. Forse però faceva di più, ne capiva anche la volontà, ne esplorava le convinzioni, i sogni ed i desideri ed in qualche modo li realizzava. Permetteva di rivivere dei momenti, degli attimi. Il vecchio signore in cima alla collina aveva rivissuto una parte importante della sua vita. Ma allora perché lì? Solo lui era sceso, nessuno per quel che gli sembrava aveva messo piede fuori dal treno. Ma quel posto non era in alcun modo legato a lui, o almeno lui non rammentava alcun legame. Dovevano essere lì perché dovevano prendere qualcuno o perché un eggero doveva scendere. Avrebbe tanto voluto approfittare di quel momento per trovare il Fondatore e parlarci. Sarebbe stato l’ideale. Invece sembrava che sarebbe rimasto seduto su quella panchina, a non fare assolutamente nulla, se non godersi il calore, la gente, il venticello fresco che gli sfiorava il viso ed una barba che cominciava a farsi più che un accenno sul viso e la calma assoluta. Ogni tanto gettava un’occhiata verso l’entrata della stazione. Arrivarono le undici e mezza, le campane diedero dei rintocchi precisi e gran parte delle persone cominciò a dirigersi, i bambini scalpitando, le vecchiette già stringendo i loro rosari, verso la chiesa. Andrea si alzò, andando dal lato opposto. Nella tasca sinistra teneva un portafoglio e sembrava avere qualche monetina. Forse riusciva a prendersi un caffè. Entrò nel bar « Salve » il barista lo guardò, con sguardo quasi critico. Di certo non erano molti gli sconosciuti da quelle parti. Gli fece un cortese cenno sistemando delle tazzine e tornando a guardare lo schermo di una televisione che dava il motomondiale. Andrea si avvicinò al bancone, ordinando un caffè che arrivò poco dopo, insieme ad un aroma profondo ed un odore penetrante. Il suo sguardo si perse su un
tavolo, mentre sorseggiava il caffè. Una ragazza che stringeva un libro, due lacrime, fuori pioveva. Scosse il capo e tornò il sole, pagò e prese lo scontrino, tornando all’aria aperta, fissando il paesaggio semi-vuoto. Mezzogiorno era oramai arrivato, sentì dalla chiesa i cori che intonavano i canti d’apertura. Mise le mani in tasca e decise, sotto il sole più alto, di dirigersi verso il castello che gli era parso di vedere arrivando nel paesello. La via principale si allontanava dalla piazza, incespicando intorno ad una collinetta non molto alta su cui si reggeva la rocca abbandonata. Decise che era il posto migliore da cui godere del paesaggio. Salì, senza fatica, lungo la stradina dissestata. Il castello aveva un portone di legno a sbarrare l’ingresso ma ad Andrea bastò adagiare la mano per comprendere che era perfettamente aperto. Spinse il legno indietro, sentendo cigolare leggermente il ferro dei cardini. Dietro c’era un corridoio, che terminava su un cortile pieno d’erbaccia, una fontana rovinata e senz’acqua e panchine che un tempo dovevano aver lasciato accomodare dame e cavalieri in amore. Andrea entrò dentro il complesso militare, guardandosi intorno con fare curioso. Non c’era nessuno, qualche cardellino svolazzava intorno alle finestre aperta che dava su stanze devastate dal tempo e dagli sciacalli. Il giovane si guardò intorno, mettendosi al centro del cortile ed osservando il cielo azzurro che si stagliava sopra di lui. Vi erano varie porte da poter prendere che certamente portavano ad altre zone del castello. SI chiese se c’era un balcone da cui osservare il paese e la campagna. Entrò nella prima che trovò, cominciando a gironzolare per stanza larghe e corridoi angusti. Muri rovinati e screpolati adornavano ognuna di loro, piante rampicanti avevano preso il posto di specchi e quadri mentre si sentiva un vago odore d’edera e di antichità. Andrea superò chiazze di fango e di bagnato, piccoli campi di muffa e pietre che rotolavano, arrivando al secondo piano. Riuscì a trovare dei balconi che davano proprio sul paese. La vista era quella che si aspettava e valeva la fatica della camminata. Il silenzio cullava le orecchie di Andrea. Le campane avevano smesso di suonare, dal paese venivano, distanti, le voci dei cori e dei fedeli mentre qualche uccello sfidava il mezzogiorno estivo. Andrea sfiorò la grata di metallo che chiudeva il bancone, sporca e piena di ruggine. Fece una smorfia, provando a vedere se c’era qualcosa di anomalo nel paese. Doveva capire perché il treno si era fermato proprio in quel pacifico posto ed in quel momento. Un soffio di vento sconvolse i capelli di Andrea, smuovendo la solitamente immobile chioma mentre gli arrivarono all’orecchio due voci distanti. Come portate dal vento, distanti, quasi degli echi. Voltò lo sguardo, osservando da dove potevano mai venir. Osservò con attenzione fino a trovare un prato poco distante. Sembrava di guardare un sogno, lontano e distante. Ed a ben guardare doveva per forza essere così. Andrea,
dall’alto della balconata non tanto stabile osservava se stesso, seduto sotto un albero con una ragazza che gli dormiva con la testa adagiata sulle gambe. Nella realtà il ragazzo aveva le spalle che davano verso il se stesso sul castello, Andrea lo aveva riconosciuto solo ed esclusivamente perché aveva voltato leggermente il capo, come a guardare qualcosa. Non avrebbe mai saputo cosa ma non riusciva ancora a capire dove si trovava. Non poteva essere il suo ato, non aveva mai vissuto quel momento, forse desiderato, sognato, progettato. Ebbe come un colpo fitto al cuore che lo costrinse a portare la mano all’altezza del suo vitale organo. Era stato come se avesse smesso, per qualche fatidico istante, di battere come sempre. Respirò profondamente. Non capiva il perché di quel piccolo attacco, ma rialzò gli occhi, osservando se stesso che invece continuava a restare sotto l’albero con la ragazza. Lui sfiorava i suoi capelli, sembrava, parlavano e forse le voci che gli erano arrivate erano le loro. Non riusciva a capire ancora cosa stesse accadendo. Stava forse vedendo il suo futuro? « Questo è inquietante » mormorò tra se. Chi era quella ragazza, innanzitutto? Possibile che fosse lei, dal suo presente a qualche anno al suo futuro? Possibile? Erano lì, tranquilli, in vacanza forse, o forse si era trasferito. Erano lì a rilassarsi mentre lui cercava di dare un senso a quello che guardava. Il vento continuava a soffiare implacabile, inoltrandosi tra i mori ciuffi di Andrea e smuovendoli senza logica apparente. Ma l’italiano non voleva muoversi. Avrebbe sopportato qualsiasi cosa pur di restare lì, fisso ed immobile. Ad osservare, silenzioso, se stesso in un prossimo futuro, finalmente, almeno così sembrava, felice. Sentì il suo respiro farsi pesante e miscelarsi al rumore del vento e degli alberi, il caldo cominciare ad infastidirlo mentre il sole gli cuoceva lentamente la pelle. E seppur il metallo si era fatto scottante, le mani strette intorno alla grata rosse per lo sforzo, non le avrebbe levate. Voleva osservare qualcosa che un tempo aveva desiderato e che da, altrettanto tempo, gli sembrava solo un sogno. Aveva fatto progetti che non aveva mai potuto portare a compimento. Sacrifici in vista di un futuro che non si era formato. Aveva tessuto i fili di un vestito perfetto, lasciando che fosse poi il tempo a scioglierli con delicatezza, uno ad uno, lasciandolo semplicemente solo in un mondo che aveva smesso di dare occasioni già da molto tempo. Ed ora, invece, ritrovava quel progetto compiuto. Lì, dinanzi i suoi occhi, aveva vinto senza saperlo né poter andare a gustare il premio di quella battaglia. Poteva solo osservare la sua vittoria e cercare di capire come era stato possibile. Quel che accadde poco dopo lo sconvolse non poco perché ruppe il sogno stesso e niente, più che la fine di un sogno, ci provoca stupore e sensazioni
malinconiche, se non di sconfitta. Perché ad un certo punto una nebbia cominciò a levarsi all’orizzonte, inghiottendo in se pezzo per pezzo tutto quello che lo circondava, come un cerchio che si restringeva sempre di più, fino a diventare solo il castello. Si guardò intorno, terrorizzato. Tutto era diventato improvvisamente fioco. Ma nell’oscurità si levarono delle luci ed un soffio di vapore. Voci cominciarono a gridare e tra le urla riconobbe il suo nome. Perché lo stavano chiamando? Si sentì per un attimo sprofondare, cadere in qualcosa di profondo. Prese dei grandi respiri, provando a rimanere in piedi, concentrandosi su quella balaustra di metallo che, insieme al castello, era perfettamente immobile nella nebbia. Sentì i, ciottoli, fili d’erba che si piegavano sotto vento e i. Si appoggiò a terra, combattendo contro la sensazione di mal di testa che aveva cominciato a torturarlo insieme ad un non vago senso di nausea. Si sentiva terribilmente male e trovava nel cuore l’epicentro del dolore. « E’ qui » due ombre si avvicinarono seguendo la luce, si avvicinarono, chinandosi su di lui « Non ti preoccupare, un banale shock temporale, cercheremo di risolvere rapidamente il problema » riconobbe la voce del Costruttore ed aprendo gli occhi, tra fili di nebbia vaghi, lo vide chino con due uomini « Shock … temporale? » « Ne parleremo tra qualche istante » un uomo prese un tubo con una piccola cavità superiore e l’avvicinò al collo di Andrea, che sentì come pungersi, ma senza nessun dolore. La nebbia cominciò a dilatarsi, osservando che era stata un’illusione. Voltò gli occhi e la coppia era di nuovo la, così come tutto il mondo « Vieni, torniamo sul treno, non è sicuro per te qui » i due misteriosi e silenziosi aiutanti lo assistettero nell’alzarsi dalla polvere del balcone. Andrea si mise in piedi, rivoltandosi verso l’albero solitario e la coppia « No, voglio restare qui … » « E vuoi subire un altro shock temporale? Non so perché, ma al Fondatore non piacerebbe perdere così un eggero. Vieni con me, su » lo incoraggiò lo sconosciuto ragazzo del futuro. Sembrava non apprensivo, ma forse solo sinceramente preoccupato. Andrea non rispose ancora, limitandosi a gettare una vaga occhiata, prima di seguire, fino al Treno, il Costruttore. Si sistemarono nella carrozza “Medici”, facendosi portare una porzione di torta e del tè caldo.
« Cos’è successo in quel castello? » « Uno shock temporale. Normalmente, si evita con dei controlli accurati del viaggio che si sta per compiere, nel nostro caso, avendo destinazioni casuali o basate su algoritmi attualmente non disponibili alla lettura, è impossibile da prevedere » « Si … muore per shock temporale? » « Non più, non con i nostri moderni mezzi di controllo » rispose l’altro, osservando la carrozza piena solo dell’odore di dolce e tè « Da cosa è provocato? » « Di solito? Dall’intrecciarsi della propria linea temporale. Quando ci si imbatte nel proprio futuro. Ci sono anche altre cause, ma nell’ottanta per cento è a causa di questo. Vedere il se stesso nel futuro o direttamente delle nostre azioni può sconvolgere la mente, ma non solo. Solitamente provoca la distruzione in tempo reale di quello stesso futuro, con casi più o meno gravi di sconvolgimento del reale » Andrea lo osservò, incitandolo con il suo silenzio a continuare « Il futuro non è fisso, è variabile, è un flusso continuo di … cose, avvenimenti, ma soprattutto idee e pensieri. Se sapessi che, uscendo dalla porta anteriore, io potrei morire, di certo uscirei da quella posteriore. Ma che succede se io assisto alla mia morte, o al mio funerale, o leggo di come sono morto? Di certo penserò a come evitarlo. Come persona, io appartengo al mio tempo, non a quello che visito. Se io visito un futuro in cui sono morto e so com’è successo, se io pensassi di annullare una delle cause, non ci sarebbe più il presupposto di quello stesso futuro » « Ma … se il futuro è sempre variabile, come una tela che si sta disegnando, allora perché riuscite a viaggiarvi? Cioè, esiste allora? » « Si, come probabilità. Viaggiare nel futuro è come viaggiare nelle probabilità. Il futuro non è una tela ancora da disegnare, è tutte le tele che si potrebbero disegnare nell’infinita combinazione di eventi. Viaggiando nel futuro tu prendi solo una di quelle probabilità e la vivi, la osservi e la senti. Ma se, mentre lo fai, ne annulli una causa scatenante, essa semplicemente cessa di esistere. Ed essersi in mezzo non è cosa ideale » il Costruttore prese la tazza, assaporando un altro sorso del gustoso tè e pulendosi con il fazzoletto da taschino il labbro.
« Ma allora ... il mio stesso essere qui non dovrebbe distruggere voi? Io non potrei essere parte del programma che porterà fino a voi? » « Si, ma al Treno non può succedere nulla, e quindi neanche a noi » il costruttore sorrise beffardo « Perché? » « Un mio trucco, qualcosa che ho scoperto e che fa in modo che questo treno esista come eterno paradosso nel viaggio. Tu hai visto qualcosa oggi che appartiene al tuo futuro. Visto lo shock, penso qualcosa di molto stretto a te. E non voglio sapere cos’è, appartiene a te. Il Treno ha pensato fosse giusto fartelo vedere, a costo di intromettersi nella tua stessa linea temporale » « Ma la mia linea temporale è il vostro ato. Nel senso che dal vostro punto di vista è già accaduto, è del tutto reale. Non è più una probabilità, è un qualcosa di … fatto e successo » « Si, ma non per questo non può cambiare » il Costruttore sorrise accondiscendente « Se io ora scendessi dal treno a sei giorni dalla costruzione di questo veicolo … anzi no, non consideriamo questo esempio, sarebbe inutile vista la sua esclusività. Se io tornassi indietro nel tempo fino al giorno della tua nascita e ti sparassi, io perderei la completa memoria del perché ero lì e del perché ho fatto quel che ho fatto. Tu semplicemente non saresti mai esistito e tutto ciò che tu, la tua progenie, l’eco delle tue parole ed azioni ha inspirato o realizzato cesserebbe di essere reale. Se io fossi frutto di qualcosa che è collegato strettamente a te, mi auto-cancellerei » « Viaggiare nel tempo è … » « Pericoloso? Non sai quanto » sorrise di nuovo, non beffardo, ma semplicemente, in un modo elegante e fine. Il Costruttore guardò fuori dalla « Perché rischiare tutto? Non solo la vita, ma tutto … se voi sbagliaste, potreste sparire dall’intera esistenza, cessare di essere. Non sareste mai nati, non avreste mai creato il Treno, non avreste mai avuto un effetto su così tante vite. Cosa vale questo rischio? » « Qualcuno direbbe nulla … io dico la riparazione »
« La riparazione di cosa? » il Costruttore si alzò, avvicinandosi alla finestra « Ho creato questo » fece un vago elegante gesto per indicare la carrozza « Per lui. Non l’ho fatto per me. L’ho seguito in questa follia perché l’ho visto cadere in un baratro da cui non riuscivo a sollevarlo. Così ho creato questo per curarlo, per farlo rialzare. Io ho barato, imbrogliato persone, ucciso, rubato, commessi reati che ancora non sono tali e fatto azioni di dubbia pubblica morale. Eppure non ho pentimenti, Andrea » il Costruttore si voltò verso l’italiano, le mani in tasca. La sua figura, fino a poco fa quella di una normale persona, aveva una nuova forma, più grande e meritevole di rispetto, quella di un amico « Sto rischiando la mia stessa esistenza per lui. E lo rifarei cento, mille volte. Il Fondatore è il mio unico vero amico e non lo lascerò mai andare » fece un vago sorriso « Quindi è tutto per amicizia? » il Costruttore annuì appena, grave « Ma … cosa centro io con tutto questo? Perché il Treno mi avrebbe ricondotto a me stesso? » « Non posso dirtelo, Andrea » l’inventore della fantasticheria ferma in un villaggio perso nel futuro e nel ato « Conosco i protocolli di partenza e di arrivo del Treno, anche se ne vorrei fare a meno. E so che se ti dicessi qualcosa potrei distruggere lo stesso lavoro che ho iniziato » « Se conosci il treno … perché sei a bordo? » « Te l’ho detto, mi ha trovato. Non pensavo che lo avrebbe mai fatto, ma il Treno mi ha trovato ed ho capito che … dovevo andare anche io » « Perché nessuno scende? E’ il Treno o cosa? » « Tu perché non sei sceso? » il Costruttore si voltò, dirigendosi alla porta d’uscita. Sfiorò il legno della porta, battendo con la mano sul pomello prima di spingerlo a lato, lasciando scivolare l’anta e voltandosi per qualche ultimo istante « Il Treno vuole finire il suo viaggio. Vuole, come ogni cosa, finire ciò che ha iniziato. Siamo tutti a bordo per finire ciò che abbiamo iniziato. Che sia aver iniziato a vivere, che sia aver iniziato a sperare, ad amare, a morire … vogliamo finire. Ci manca solo l’ultimo atto di coraggio » « Perché il Treno? » « Perché è tutto iniziato con un dannato treno » il Costruttore uscì dalla carrozza
“Medici”, lasciando Andrea da solo, con qualche risposta in più, vaga ma pur sempre reale. Stava lentamente cominciando a delinearsi, in quella intricata faccenda, una sottospecie di verità. I pezzi andavano incastrandosi sotto una luce via via più chiara, che cominciava a mostrare i bordi di quel puzzle e che presto avrebbe svelato uno ad uno tutti i pezzi che Andrea aveva raccolto e messo casualmente insieme. Respirò profondamente, guardando fuori dalla finestra. Il paese era ancora lì, forse anche la coppia. Era ancora una mattina di una domenica d’estate, il caldo ed il vento non si erano mossi. Non era ancora cambiato nulla. Poteva scendere e finalmente sapere. Sentì il cuore accelerarsi improvvisamente. Avrebbe potuto sapere? Avrebbe sopportato la risposta? Guardò il cielo azzurro, immaginandosi sotto un albero a fissare le bianche nuvole con la sua testa adagiata sopra. Ma era la sua? O no? Alla fine di quel viaggio, cosa aveva fatto? Una lieve emicrania gli colpì il cervello. Si portò una mano alla fronte, pulendosi da vaghe gocce di sudore. Evidentemente non tutti i sintomi di quello shock temporale, come lo aveva sentito definire, erano ati. Si appoggiò alla finestra. Era forse uno stimolo a non uscire, a non fare quella singola eggiata ed a capire? In fondo, perché lui avrebbe dovuto avere la fortuna di poter sapere in anticipo. Batté un pugno sul vetro, lasciando che per qualche istante il tonfo risuonasse nella stanza vuota. Chinò il capo, osservando il suo petto alzarsi ed abbassarsi ritmicamente. Era difficile scegliere. Il conoscere quel futuro che sarebbe diventato così incerto o lasciarsi alla straziante attesa e vedere come sarebbe andata a finire. Avrebbe mai avuto il coraggio di saperlo? Si buttò sulla poltrona della carrozza su cui era accomodata, osservando le fumate di vapore di tè che gli si levavano intorno con fare casuale, divertito quasi. Sembravano essere uno spirito autonomo che, preso da un attimo di ebbrezza, volteggiava elegantemente intorno a lui, prendendo in giro il suo essere perfettamente immobile. Scacciò quella che era diventata una fastidiosa creatura con dei vaghi cenni della mano. Si gettò di peso sulla poltrona, come a cercare una comodità che non riusciva a raggiungere. Da casse invisibili cominciarono a venire delle melodiose note. Note di piano e di canto femminile, in se. Note ora veloci, ora lente, ora più rapide, ora meno. Il piano costante si lasciava premere, in una registrazione o da chissà quale carrozza, docile, accompagnato da ben pochi strumenti. Cosa ci faceva lì? Tutto sommato la domanda tornava ad Andrea come un boomerang, nonostante i suoi infiniti tentativi di trovare qualcosa che la fe fermare. Perché il Treno lo aveva condotto lì? Lui non aveva ancora perso, non stava ancora fuggendo. Lo desiderava, anzi, lo aveva desiderato, eppure in un certo momento si era ritrovato a prender coraggio ed a muoversi verso la città.
Aveva atteso il treno ed aveva trovato la via di fuga. Cos’aveva da condividere con le persone che erano lì a bordo? Non lo poteva sapere, non le conosceva. Sbuffò sonoramente, lasciando che il suo respiro si perdesse in tutta la carrozza mentre provava a capire cosa poteva mai condividere con un vecchio, una ragazza folle, un uomo d’affari ed una cantante senza epoca. Cosa mai poteva averci in comune con loro? Abbandonò le braccia lungo i fianchi della poltrona, penzolanti. Andrea portò gli occhi nuovamente sul paesaggio di fuori. C’era la stazione ed il sole, ma sapeva che dietro quelle colonne abbandonate si celava il suo futuro. Aveva scelto di rimanere o di partire? L’aveva lasciata, l’aveva protetta, aveva combattuto o era fuggito? Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poter andare a chiedere a sé stesso cosa aveva fatto. Avrebbe barato, si, ma sarebbe stato tutto più facile. Non c’era errore nel fare qualcosa di già fatto. Eppure, qualcosa dentro di lui gli sussurrava, lentamente, di fermarsi. Non poteva, non doveva. Avrebbe rovinato il senso stesso dell’esistenza umana con quell’azione. Come si può vivere conoscendo il proprio futuro? Come si può essere liberi se, alla fine, si interpreta solo ciò che è già accaduto. Il Treno aveva praticamente provato a barare. Era quella la conclusione a cui, in quei secondi di riflessione, Andrea arrivò. Aveva provato a barare, quasi uccidendolo. Aveva provato a trovare una scorciatoia per il più promettente dei eggeri, quello che avrebbe risolto il suo enigma. Solo che Andrea non sapeva minimamente di che enigma si parlava. Il Costruttore aveva detto che il Treno voleva terminare il suo viaggio. Come un essere vivente, cosa a dir poco incredibile, cercava e voleva terminare qualsiasi cosa avesse iniziato. Cosa poteva mai essere? Quale mai poteva essere lo scopo di quel viaggio? Andrea sospirò leggermente, comprendendo la sua totale ignoranza riguardo lo scopo di quel viaggio. Se solo fosse riuscito a parlare con il Fondatore, avrebbe potuto comprenderlo. Quando si alzò era carico di nuove prospettive. Non avrebbe barato, questo era certo. Gettò un ultimo sguardo al paesaggio fuori dai vetri limpidi e puliti. Non sarebbe sceso, non di nuovo. Avrebbe, sperò dentro di se, rivisto quel paese. Ed avrebbe alzato il capo verso il castello e si sarebbe anche incoraggiato, se ci fosse stata occasione. Sorrise, tra se e se, per quella prospettiva leggermente folle di auto-incoraggiarsi a distanza di anni, da un futuro che non sapeva neanche se esisteva più. Mise le mani in tasca, dirigendosi verso la carrozza degli strumenti, la musica ancora nelle orecchie. Superò una serie di cabine sempre vuote, quasi come se sarebbero rimaste per sempre vuote. Quando entrò osservò la cantante seduta vicino un grammofono, appoggiata su una poltrona e con un bicchiere di brandy in mano.
« Salve » fu la prima cosa che disse, lei a lui. Andrea fece un cenno, vago, con il capo, avvicinandosi. La musica era leggermente più forte, ma di certo si poteva parlare « Anche tu a perderti tra note mai diffuse? » « No … sono qui per capire perché queste note sono proprio qui » il ragazzo prese con la mano destra una sedia di legno poco vicina una chitarra classica, portandola vicino il grammofono e la cantante al centro della carrozza « A che serve sapere il perché? L’importante è che ci siano no? » « Serve invece. Non voglio restare per sempre qui a bordo, non lo desidero. Ma devo comprendere perché ci sono arrivato » la cantante dagli occhi azzurri cielo fece un sorriso quasi divertito « Perché vorresti scendere? Cosa c’è di così importante lì fuori per te? » « Tutto, e forse niente. Ma … voglio comunque sapere cosa c’è. E non posso, non fino a che sono qui. Perché sei a bordo? » « Io? Te l’ho detto, sono una reietta, come te, come tutti » « Reietta da cosa? » « Ma come da cosa? » lei rise, candida, mentre tamburi e violini tornavano alla ribalta, accompagnando un coro ed una voce quasi angelica « Sto fuggendo, come tutti. Come fai a non comprenderlo? Siamo tutti fuggitivi, mio caro. Stiamo fuggendo da qualcosa, qualsiasi cosa. Qualcuno dai rimorsi, qualcuno dal futuro, qualcuno dal ato, qualcuno dalla vita. Il Treno è un’enorme fuga di gruppo. Ci conduce attraverso gli anni, facendoci invecchiare senza più paura. E’ questo il suo scopo, no? » bevve un sorso di brandy, ridendo ancora « Tu mi dissi, una volta, che siano mesi o anni che lo hai detto non lo so, che stavi dimenticando. Dimenticando cosa? » « Dimenticando cosa mi stavo lasciando alle spalle. E più il Treno corre più mi accorgo di ricordare. Ricordo più nitidamente cosa mi stavo lasciando alle spalle e cosa, in qualche modo, devo recuperare » « Ti fa onore … non ti sei ancora perso » « Ma io devo capire, miss » riprese Andrea « Da cosa siamo accomunati io e te?
» « Noi? Dalla fuga, come tutti. Tu stavi fuggendo, vero? Fuggivi da qualcosa, come io fuggivo da me stessa » Andrea alzò gli occhi, osservando la cantante « Io fuggivo dalla mia futura fama. Avevo scritto queste canzoni, erano pronte per essere rilasciate. Eppure ad un certo punto … non ricordo perché, anzi, lo ricordo, ora si … ricordo una notte in una Parigi sotto fitte gocce di pioggia che sembravano durare in eterno. Ricordo una persona, un ragazzo, che forse avevo amato. Mi aveva amato anche lui? Non lo so … » lei fissò per qualche istante il bicchiere di brandy, quasi persa nel colore del liquore chiaro « Ma la verità è che non contava. Ero felice quella sera, corsi da lui, in un albergo vicino la Senna. Eppure, quando arrivai, non fu che lo trovai nelle braccia di qualcuna? Non so chi fosse, ma compresi. Lui mi voleva, come premio. Ma non gli appartenevo. Le canzoni scritte per lui non avevano alcun senso, se io in fondo, ero sola. Scappai, corsi alla stazione con i miei dischi, volevo bruciarli, tornare dove tutto era cominciato e dimenticare tutto. Ma arrivò un treno, e lo presi, e non seppi che era questo Treno » « Ma … perché scappare? In fondo, avevi i tuoi dischi, potevi … potevi fare qualsiasi cosa. Pubblicarli, fare una vita felice » « Che senso ha vivere, se lui non era con me? » « Non potevi dimenticare? » « Si, potevo … ma avrebbe avuto lo stesso sapore il cibo al ristorante? Avrebbe avuto lo stesso odore il campo di Rose vicino casa? No. Sarebbe stato tutto diverso. Ed io non lo volevo » « Tu … non lo volevi? » « No, io volevo quella vita, non una vita senza lui. Non aveva senso » « Aveva senso invece » rispose Andrea accigliato « Avevi le capacità, avevi il tempo, avevi l’occasione. Avresti potuto fare qualsiasi cosa, invece ti sei persa … ti sei persa » l’italiano ebbe come un’illuminazione « Tu non avresti mai ricominciato, vero? » lei annuì « Tu non avevi la forza, o il coraggio, o la volontà, di farlo. E forse è questo che il Treno cerca. Cerca i deboli e li accudisce. Ma perché? » si alzò, voltandosi verso di lei mentre si dirigeva all’uscita « Forse non si è mai trattato di diffondere quelle canzoni. Non
appartenevano più alla tua anima. Forse si trattava di riscriverle in nome di una vita nuova » Andrea uscì, mentre le note terminavano bruscamente ed il suono di un grammofono che si schiantava a terra. Pochi secondi dopo il Treno cominciò a muoversi. Andrea ebbe un piccolo attimo di sbilanciamento, finendo contro la paratia ed i suoi occhi caddero sul mondo circostante. Il Treno si stava muovendo, a velocità costante, né troppo lento, né troppo rapido. Le luci del giorno si affievolirono leggermente dinanzi gli occhi di un Andrea via via più meravigliato. Il sole cominciò a calare a vista d’occhio, come un filmato accelerato. Le nuvole si mossero a coprire tutto il cielo mentre in piccoli spicchi comparivano stelle distanti e un pezzo di Luna calante. Il tempo era cambiato, Andrea lo percepiva. Un brivido freddo lo attraversò mentre il paesaggio cambiava, lentamente, radicalmente. Alberi e querce cominciarono a lasciare spazio ad alti alberi sempreverde, scossi da venti freddi. Le case lasciarono spazio a campagne incolte ed allevamenti, lontani tetti poco illuminati in quella che doveva essere una notte gelida. Era una notte gelida probabilmente, la più gelida di quell’anno, anche se questo Andrea non poteva saperlo. Si avvicinò al vetro, sfiorandolo appena con le dita, mentre le gocce sfidavano le finestre attaccandole. Piccole macchioline sul di solito ben pulito vetro. Il Treno accelerò la sua corsa, continuando verso una destinazione incognita per Andrea. « Le serve nulla? » una voce quasi meccanica sopraggiunse alle orecchie di Andrea, che si voltò quasi di colpo « Si … lei chi è ? » « Io, sono il Capotreno » rispose gentile l’uomo, sorridendo discretamente alla domanda « No, veramente … lei chi è? » « Io sono il Capotreno, parte del Sistema Treno. Sono colui che è destinato all’organizzazione dei rapporti sociali ed umani dei membri organici di questo viaggio » « Membri organici? Ci sono anche … inorganici? » « Ovviamente. Io sono un androide, costruzione delle Industrie Tachyon di Betalgeuse » « Anche i camerieri … »
« Ovviamente. Il Treno è progettato per funzionare senza nessun umano che lo guidi » il Capotreno sorrise leggermente « Il Costruttore sapeva di dover ridurre l’apporto umano al minimo nel viaggio. E così ha fatto per quanto gli è stato possibile » « Il Costruttore … ed il Fondatore? Che parte ha? » « Lui è solo il eggero Primo. Non è diverso da lei, o dagli altri eggeri. Siete tutti molto simili, a dire il vero » « Davvero? » Andrea fece una faccia scettica « In che senso? » « Come membro del Sistema condivido alcune cose con il Treno, tra cui alcuni logaritmi di ricerca e visualizzazione. Siete molto simili, voi eggeri. Condividete delle cose, che non sapete di condividere. Il Treno altrimenti non vi sceglierebbe » « Il Treno non ci sceglierebbe … ma il Treno non subisce mai un rifiuto? » « No, sceglie con cura. Sa che chi sceglie salirà, lo sa perfettamente » « Ma qual è il suo scopo? » « Fermarsi, ovviamente. Che altro scopo potrebbe avere un Treno? Il Sistema è progettato per chiudersi, al momento giusto, al posto giusto » « Perché non lo fa? » « Perché non conosce la destinazione finale. Ci sono solo tanti intermezzi ed una nebbia in cui tutto termina. Ma il Treno non sa dov’è la nebbia, non ha coordinate né rotaie da seguire per raggiungerle. Deve continuare a cercare eggeri, fino a che non troverà il pezzo finale di un puzzle che si allarga e restringe continuamente » il Capotreno lo osservò, fisso, senza mostrare alcuna emozione. Non era stato progettato per farlo. Alcuni androidi a bordo si, lui no « Il eggero Primo deve raggiungere una certa consapevolezza, solo allora avremo una destinazione finale » « Il Fondatore intendi? Il Treno è costruito per far arrivare il Fondatore a qualcosa … il Costruttore lo ha fatto per lui, dopotutto, no? »
« Si, il Costruttore è un amico del Fondatore, da molti anni oramai. Hanno vissuto insieme ed il Costruttore ha cercato di aiutarlo, in qualsiasi modo. Ha sfidato ogni legge e regola che esistevano su Antanares per farlo. Spero per lui che raggiunga il suo scopo » « Perché è a bordo? » « Perché anche lui condivide qualcosa con voi. Inconsciamente, era un eggero senza saperlo. Ha creato una parte del suo destino. Ed anche se vincesse la sua battaglia, non scenderebbe, mai, fino a che anche il Fondatore non vinca la sua » « Amicizia quasi eterna … » Andrea si voltò per qualche istante, osservando il paesaggio « Perché mi sta dicendo tutto questo? » « Nessun eggero è mai sceso dal treno. Anzi, correggendo, non è mai sceso al punto giusto. Sono scesi, alcuni. Dove erano però al sicuro da ciò che li rincorreva. Hanno perso, quasi tutti. Quelli che lei vede sono solo una parte dei eggeri che hanno attraversato queste carrozze e goduto dei servizi del Sistema. Procede così da tanto tempo. Quando però il Treno ti ha scelto, è cambiato qualcosa. Tu non ti sei fermato a godere del Treno, lo stai provando a combattere. Questo ti rende diverso, questo mi riempie di speranza. La speranza di poter finire questo viaggio » « Pensi che ci riuscirò? » « Non lo so … forse. Bisogna vedere come andrà a finire. Non posso ingannare la mia progettazione e svelarti qualcosa degli altri eggeri. Sei il primo però che ha interagito con altri viaggiatori in modo intensivo. Li hai imparati a conoscere » « Io … si, forse, non tutti. Sento che manca qualcosa » « Si … forse manca qualcosa » « Però … io ho visto delle cose. Ho visto persone, che erano persone che … !» « Ciò che hai visto è il futuro. Il Treno ha barato, tre volte in totale. Non so come sia stato possibile, ma ha barato e superato il Sistema, cercando un mezzo per indurti a provare qualcosa di diverso. L’ultima volta ha quasi distrutto la tua
esistenza. E’ stato un errore, il Costruttore dovrebbe aver trovato la falla nel Sistema e dovrebbe averla sistemata » « Quindi è stato il Treno a farmi vedere il mio futuro … ma perché? » « Questo non glielo so dire, signore » rispose cortese il costrutto artificiale, osservandolo per qualche istante prima di dire « Io sono un artificiale, ma ho uno scopo. Spero che lei riesca a raggiungere ciò che serve per completare il viaggio » si congedò con un cenno cortese, sparendo dalla vista di Andrea ed andando nella direzione opposta verso cui l’italiano andava dirigendosi. Ma il ragazzo invece non si mosse, si appoggiò alla finestra, osservando il paesaggio che gli scorreva dinanzi gli occhi angustiato. Il Treno aveva barato, tanto era il desiderio di quell’oggetto di finire il suo tragitto da voler barare pur di farla finita. Andrea rise, rise quando si accorse di star soggettivando un oggetto inanimato. Come poteva un Treno barare, dopotutto un treno non poteva vivere. Eppure, a rigore d’apparenza, così era in quel frangente. Si appoggiò con la spalla sul vetro, incrociando le mani al petto e lasciandosi il vetro di fianco, uno specchio su quel mondo che era appena radicalmente cambiato. Improvvisamente s’era fatto inverno, di notte, e pioveva. Pioveva e sapeva di aver cambiato tempo. Vide luci di paese in lontananza e capì che erano diverse. Erano quelle luci vecchie, trovabili nei vicoli angusti delle città che volevano mantenere intatto un ricordo di un ato più felice, le città che si perdevano in loro stesse. Era un pensiero rassicurante quel ato, già accaduto, solo da godere. Andrea respirava ritmicamente, quasi seguendo la lieve pioggia che batteva sul vetro del Treno. Non sapeva dove si stava dirigendo ma una sorta di curiosità nacque in lui. Doveva essere qualcosa di importante, e sperò dentro di se assolutamente non letale per lui. Doveva essere un altro pezzo del puzzle e cominciò ansiosamente ad aspettare che il Treno si fermasse nella solita uguale stazione, pronto a gettarsi tra le vie di città dimenticate, non ancora create e perse nel tempo e nello spazio. Due fulmini sconquassarono il cielo, mostrando delle fitte nubi che sembravano ronzare in circolare sul tetto del treno. Delle luci in lontananza tremolarono, altri due fulmini esplosero rombando poi con due tuoni profondi che fecero per qualche istante tremare anche il Treno. La tempesta stava peggiorando velocemente. Andrea osservò per qualche istante ancora il cielo, prima di voltarsi e dirigersi alla sua cuccetta a bordo del Treno. Non incrociò nessuno per via ed infilandosi dietro la porta di legno che separava il suo piccolo spazio privato dal resto del mondo sentì un’altra coppia di tuoni diffondersi nei cieli
notturni di chissà dove. Si adagiò sul letto, vestito, la barba leggermente incolta, i capelli leggermente troppo lunghi, gli occhi troppo stanchi. Voleva chiuderli e finalmente dormire un po’, sperando di risvegliarsi non lì, ma su una panchina in un’anonima stazione ferroviaria italiana, a fianco il suo sacco da viaggio e nel cuore i suoi soliti tormenti, i suoi demoni con cui fare i conti. Andrea non aveva mai creduto nell’illusione di poter dimenticare tutto e tutti e lasciarsi alle spalle l’intero mondo. No, in qualunque posto ci sarebbero stati problemi da affrontare, scelte da prendere. Quel Treno rappresentava, in qualche modo, tutto quello che Andrea aveva sempre saputo non esistere. Ed infatti, ancora cullato da un servizio di androidi-camerieri imibili ed impeccabili, dal buon cibo e dalla prospettiva di vedere, praticamente, tutto ciò che era possibile vedere, non riusciva a non pensare ed a non avere il problema che era il non comprendere, ironicamente, cosa stava esattamente succedendo. Stava iniziando a capire in qualche modo i meccanismi di quel Treno ed aveva capito che, probabilmente, il solo desiderio, vero desiderio di scendere, sarebbe stato letto dal Treno e sarebbe diventato realtà. Eppure non era successo. A tratti, fissando il soffitto della non troppo piccola cuccetta, il paesaggio sotto lacrime di nuvole ed il buio della campagna a stento illuminata da lampioni antichi, Andrea aveva un vago desiderio di ritornare indietro e di arrivare in quella città, in quell’ospedale e di dare quella risposta. Non poteva, dopotutto, essere così difficile. Erano i suoi occhi a tenerlo però incatenato su quel Treno. Quella disperata paura di perderli, in una maniera o nell’altra. Se fosse rimasto, quegli occhi sarebbero stati per sempre suoi? Sarebbe stato tutto in un’eterna stasi, fino alla fine dei suoi giorni. Sarebbe morto con lei nel cuore. E questa era una prospettiva che non voleva del tutto escludere. Andava contro tutto ciò in cui, intimamente, credeva, ma era anche la possibilità migliore di coniugare quel sogno di amore eterno che si era ripromesso e che certamente la vita avrebbe messo a dura prova. Sapeva cosa lo teneva lì, sapeva cosa il Treno stava leggendo in quel momento ed era quel pensiero, quel desiderio così intimo a dire a quel Sistema di cui capiva poco che non era ora di tornare indietro per far arrivare Andrea alla sua destinazione. Per questo, l’italiano lo poteva vedere, il veicolo senza tempo scorreva su binari in mezzo a campagne sterminate, sotto pioggia, tuoni e lampi, alla ricerca di qualche nuovo ospite o di nuove città da visitare, in Inverno e Primavera, alla ricerca della sua destinazione finale.
Andrea si addormentò con quel pensiero, a metà tra il rassicurante e l'infinitamente doloroso. Quando si svegliò, ovviamente, pioveva ancora, ma il
Treno era quantomeno fermo. Dal suo lato non vedeva la stazione, ma una infinita schiera di case, tra i quattro ed in cinque piani, tutte d’epoca, circa dell’Ottocento. Alzandosi si avvicinò alla finestra, notando, grazie alla luce proveniente da una Luna che riusciva a comparire nonostante le nuvole ed ai lampioni ottocenteschi, le finiture argentate ed i mattoni di color alabastro che adornavano ogni edificio. Erano tutti simili, nessuno uguale all’altro, con tende chiuse o socchiuse che lasciavano spirare, fuori, solo dei piccoli raggi di luce dai camini accesi per il freddo. Andrea si cambiò, mettendosi un soprabito fine ed elegante, lungo, come gli piacevano e calcandosi in testa un capello che pur lasciava parecchi dei capelli all’aria. Uscì dalla cuccetta, sperando, questa volta, di incontrare mentre scendeva i tre gradini della carrozza, qualcuno. Vide con la coda dell’occhio il Costruttore prendere sparire tra il colonnato della Stazione, da solo come sempre. Il Capotreno e due camerieri erano in un angolo della stazione, vicino un muro cadente a cui Andrea mai dava attenzione. Poi sentì i i mal fermi di un uomo e voltandosi vide l’uomo anziano, l’uomo sulla collina che aveva visto rimembrare anni che sembravano eoni prima. « Salve » salutò semplicemente Andrea. Il Vecchio alzò lo sguardo, donandogli un sorriso quasi bonario, da nonno a nipote « Salve a te … esci a fare due i sotto la pioggia » « Spero di vedere qualcosa di carino » rispose cauto il ragazzo, prima di aggiungere « Ma due i sotto la pioggia non si negano mai » « Sai almeno dove siamo? » l’anziano si chiuse il bavero della giacca marrone, chiusa in petto « No, non ne ho la minima idea … ma non sarebbe divertente se sapessi già dove sono » Andrea si diresse all’uscita insieme al Vecchio. Le gocce erano diminuite di volume e se ne accorse superando le porte danneggiate della stazione. Piccole pozzanghere invadevano le vie in ghiaia e sassi della città. I lampioni erano a distanza regolare tra di loro, intervallati da alberi bassi, e piccole aiuole fiorite. Non faceva molto freddo, ma si sentiva l’umidità dovuta al temporale che ora sembrava giusto aver preso un attimo di relax. Le gocce cadevano regolari, meno di prima, bagnando i lunghi abiti dei due eggeri del Treno scesi a respirare un’aria certamente non loro e di certo diversa da quella a cui erano normalmente abituati. I due cominciarono a camminare, dirigendosi lungo una delle vie alberate e semi-illuminate della città misteriosa. Non erano soli, altri anti
eggiavano sui marciapiedi ben lastricati. Signori distinti con tuba ed ombrello vestiti di grigio e nero, signore con gonna lunga e tacchi bassi sottobraccio a giovani e meno giovani. Ogni tanto ò qualche carrozza ed unendo questo all’architettura dominante Andrea comprese che doveva essere una città di fine Ottocento. Continuò a camminare con l’anziano, entrambi leggermente troppo moderni per quella città. Più di un abitante gli rivolse un’occhiata a metà tra il preoccupato ed il curioso, come se fossero misteriosi stranieri venuti da chissà dove. Ed era effettivamente la realtà. Erano due stranieri venuti da chissà dove, un dove che loro non volevano probabilmente vedere. Andrea cercò con lo sguardo un posto dove ripararsi dall’acqua che cominciava a cadere via via di più. Tra le case quasi tutte uguali non riconobbe porte che non conducessero ad eleganti ingressi in marmo, splendenti della luce di eleganti lampade dal sapore orientale. Fu quasi per un colpo di fortuna che i due incapparono in un piccolo locale. Era un caffè, un piccolo bistrot in una strada non troppo larga. Davanti erano parcheggiate due carrozze ed una protoauto, vecchia, di quelle che cacciavano tanto fumo e facevano tanto rumore e che, in quel caso, attiravano tante occhiate stupite dalle persone. Andrea ed il Vecchio arono l’arco di pietra antica che sovrastava l’ingresso e si ritrovarono dentro un ambiente che ben stonava con la calma del di fuori. Persone di ogni genere affollavano i due piani su cui si estendeva il locale. In un angolo un violinista ed un pianista davano sfogo alle loro fantasie musicali intonando musiche allegre accoppiate, senza fermarsi mai se non per ricevere scroscianti applausi e bere dai bicchieri di cristallo che i camerieri di aggio riempivano. Due barman al bancone di mogano scuro, circondato da persone, sgabelli e bottiglie, si davano instancabilmente da fare. Dame ridenti e cavalieri annoiate occupavano divanetti rossi e blu, sotto drappi colorati d’arcobaleno e finestre indorate, che davano su vie scure che si riempivano d’acqua e di nebbia. Andrea e il Vecchio cedettero il loro soprabito ad un cameriere, che gli diede un vago sguardo vedendo quelli che, per lui, dovevano essere stravaganti abiti. I due si accomodarono ad un tavolo, vicino un grosso lucernario ed un quadro rappresentante una caccia alla tigre. Un cameriere, un giovanotto dall’aria allegra e spensierata si avvicinò loro con fare allegro. Aprì bocca ma quello che ne uscì fu se, una lingua che per Andrea era più arabo che altro. Fu il Vecchio che prontamente rispose. Andrea non comprese assolutamente nulla, se non la parola “Cognac” e forse “Per due”. Il cameriere si voltò e si diresse verso il bancone, a parlottare con i barman « Cosa gli ha chiesto? »
« Se volevamo ordinare, ho preso due cognac, se per te va bene » Andrea annuì appena e prima che potesse chiedere gli fu già risposto « Non ho studiato se, ad eccezione dell’Italiano non ho studiato nessuna lingua. Ma ho viaggiato tanto e mi è capitato più di una volta di avere un parigino tra la mia compagnia d’amici. Ho imparato così » Andrea fece un cenno vago, voltandosi con tutto il busto verso il salone dei divertimenti e delle bizzarrie. Vide cappelli che considerava impossibili. Alcune dame vestivano abiti lunghi quasi fino ai piedi, che però lasciavano scoperte le spalle. Alcuni gentiluomini le osservavano quasi vogliose ed Andrea comprese che, certamente, quel luogo aveva delle finalità non dissimili da una comune discoteca dei suoi tempi, anche se lo considerava decisamente più gradevole. « Da quando ci siamo conosciuti non mi hai mai chiesto il nome … » « Non credo sia più rilevante di quanto non sia il mio » rispose il ragazzo all’uomo, osservandolo con la coda dell’occhio « Perché sei sceso? » « Aveva senso restare fermo nel Treno ad attendere? » il Vecchio fece un cenno negativo, invitandolo a continuare « Devo capire … io devo comprendere. Perché siamo sul Treno? Chi è il Fondatore? Qual è il suo scopo? » « Lo stesso nostro, suppongo » rispose quasi vago il Vecchio, ma tanto bastò a far voltare di nuovo l’italiano verso lo sconosciuto anziano « Cosa intendi? » « Se il Fondatore è ospite come noi, certamente deve condividere con noi qualcosa. Siamo tutti legati a quel Treno da qualche desiderio, ma non ho ben compreso quale » « Forse è la Paura » Andrea respirò profondamente, gettando una vaga occhiata alla stanza e continuando « E’ Paura, una paura molto particolare. Siamo tutti uniti dalla comune paura di continuare a vivere. Siamo tutti combattenti contro un Titano più grande, non pronti a lottare, né a vincere né a perdere » « Questa Paura … come dici tu, ci bloccherebbe a bordo? » « Non è il desiderio di ogni codardo? » ringraziò con un cenno il giovanotto che
portò i due bicchieri di cognac, prendendo il suo ed annusandone l’odore. Non aveva mai amato quel liquore ma avrebbe fatto uno sforzo quella sera « Che scelta migliore c’è, se non il non lottare e lasciare il tutto radicalmente in stasi? Pensa … viaggiare per sempre, senza mai più dover confrontarsi con un demone del ato. Resterà sempre lì, ad attenderti, ma non sarà mai andato né avanti né indietro. E mentre il Treno viaggia noi cresciamo, cambiamo, invecchiamo … e forse moriamo anche. Il Demone? Sarà sempre lì, solo, ad attendere qualcuno che, sicuramente, non lo raggiungerà più » « Quindi dici che il Treno è una scappatoia? » « Si, penso di si. Penso che sia una scappatoia. Una sorta di enorme fuga da un problema primo che ha afflitto il Fondatore, al punto da costringere il suo miglior amico, il Costruttore, a prendere una radicale decisione » il Vecchio lo osservò per qualche istante, bagnandosi le labbra screpolate nel liquore ed osservandolo diritto negli occhi. Andrea non si curò dell’occhiata, certamente spinta dalla curiosità di sapere come fosse venuto a conoscenza di quelle informazioni. L’italiano, dal canto suo, gettò in gola tutto l’aspro contenuto del bicchiere. Sentì salirgli un lieve bruciore da essa, ma lo calmò con un po’ di saliva. « Ed ora? E’ un po’ come aver svelato gran parte dell’enigma dopotutto » disse il Vecchio, cominciando a sorseggiare il suo cognac ed adagiando il bicchiere mezzo pieno vicino quello vuoto di Andrea « Ed ora? Ora cerco di capire perché sono ancora a bordo. Il Treno non mi ritiene pronto per tornare a casa » Andrea prese un grande respiro « Ed io capisco perfettamente. Dopotutto, io non sono affatto sicuro di voler tornare indietro » « Cosa ti stai lasciando alle spalle? » « Mi sto lasciando alle spalle l’unica persona che veramente mi abbia mai compreso » Andrea alzò lo sguardo verso il soffitto finemente decorato, agli angoli quattro angeli ed un cielo stellato dipinto, d’oro e d’argento, a colmare il vuoto tra di loro « Lei … lei è in un ospedale. Mi starà attendendo guardando il paesaggio di una città piccola ma fine, compatta, piena di brava gente. Mi sta attendendo, sa che le voglio parlare. Sa che le voglio dire cosa farò. Mi ha offerto una scelta, chiedendomi solo, per una volta, di essere del tutto deciso con
essa. Entrambe le scelte saranno dolorose, dure, mi faranno combattere contro un vero Titano, qualcosa a cui non tutti sopravvivono. In ogni caso, per lei andrà bene. In ogni caso, per me andrà male » « Perché? » « Perché in una scelta lei rimane sola, in un letto d’ospedale, a soffrire da sola le peggiori pene. Nell’altra io sono al suo fianco, leggendole le poesie che amavo comporre nella nostra estate, suonandole qualche pezzo al piano, cantandole canzoni sottovoce, alleviando come posso il suo dolore mentre combatte una lotta a cui non voglio assistere » « Tu hai paura che lei … » « Tremendamente. So che se fuggissi porterei il rimorso, il più doloroso rimorso possibile, per sempre nel mio cuore e la mia ultima visione sarebbe lei, stretta tra lenzuola che sanno di medicine e cuscini troppo duri, che mi saluta per l’ultima volta » « E se restassi? » « La guarderei lentamente morire, un pezzo alla volta » « Non potrebbe salvarsi? » « Cinque per cento di possibilità di farcela » si voltò verso l’entrata, poi verso le finestre che davano su una pioggia non tanto fitta, le cui gocce tranciavano linee rette nell’aria davanti la luce giallastra « Ed io la vedrei cadere in un baratro da cui non potrei mai più prenderla. Ed il mio ultimo ricordo di lei sarebbe un viso scavato dal dolore e dalla malattia, con medici pieni di pietà e di nessun potere » il Vecchio non rispose subito, finendo con calma il suo bicchiere di cognac senza più parlare. Il silenzio era calato al tavolo mentre imperversava il folle suono dei due musicisti in tutto il resto della sala. Divertimento e baldoria, alcool a fiumi e canti stonati imperversavano nell’elegante locale. Un lontano tuono scosse leggermente i lampadari di cristallo ma non la gioia dei festanti, che forse a malapena si accorgevano del tempo fuori dalle mura del caffè. Se non fosse stato per i ritardatari che entravano, portando con se scialli ed ombrelli bagnati, non ci sarebbe stato nulla a collegare quel piccolo paradiso interno con l’esterno. « Ci pensi a vivere così per tutto il resto della tua vita? » chiese il Vecchio
« Così come loro … come questi festaioli incalliti? » « Già … attraverso tutto il tempo e lo spazio, e penso anche molto oltre questo monto. Vivere ogni giorno in modo diverso, fino alla fine dei tuoi di giorni » « Senza mai doversi guardare indietro o davanti, godendo e vivendo … senza limiti e problemi. Non è questo che ci invita a fare il Treno? » « Il più grave dei peccati, direbbe un mio vecchio amico. » « Sembri uno che, in verità, ha vissuto una vita non dissimile » « Sono a bordo anche io, no? » rispose il Vecchio con fare quasi noncurante « Quando scappi, non sempre ti viene offerto un comodo riparo per la testa. Spesso devi correre più veloce dei tuoi demoni. Ed io ho fatto così per quasi sessant’anni » « Un tempo lunghissimo » ammise Andrea « Già … ed alla fine qualcosa è venuto a recuperarmi » « Perché non l’ha fatto prima? » la domanda del ragazzo parve rivolta più a se stesso che al suo interlocutore « Forse perché, nel corso degli anni, non sono mai del tutto fuggito » l’anziano poggiò anche lui il bicchiere vuoto sul tavolo di legno « Avevo sempre uno spiraglio aperto sul ato, forse il Treno non pensava fossi realmente così “codardo” da meritarmi questo viaggio tutto pagato » sorrise leggermente, continuando poi « Si, penso sia per questa ragione … » « Tu da cosa fuggivi? » ma il Vecchio distolse lo sguardo ed Andrea capì che non era la domanda giusta. Non parlarono per un po’, cullandosi al suono del violino rimasto solo mentre il pianista era corso in bagno, forse a vomitare i litri di alcool che si era bevuto nel corso della serata. Da qualche parte un orologio suonò la mezzanotte mentre le nuvole smisero di piangere sul terreno oramai già bagnato. Andrea guardò il Vecchio che ora fissava un punto nell’oscurità senza mai distogliere lo sguardo. Sembrava assorto da qualche pensiero che proveniva dai recessi della sua lunga memoria. Andrea si chiese quale fosse la sua storia, cosa avesse fatto per, incredibilmente, meritare quel folle Treno. Quale lungo percorso di esperienze lo aveva portato a perdere la sua battaglia. Aveva lottato e
fuggito per sessant’anni? Chi era la donna nel paese? Andrea si alzò con calma, senza far rumore. L’anziano gli fece un vago cenno, perso oramai nei suoi ricordi. L’uomo attirò il cameriere, Andrea lo vide parlare con lui con la coda dell’occhio mentre si dirigeva all’uscita. Il portiere lo aiutò a rimettere il soprabito e lui uscì, all’aria non troppo fredda ma umida della sconosciuta cittadina se. Alzò gli occhi verso il cielo notturno e si incamminò, per vie che non aveva ancora intrapreso. Non vide, né da lontano né da vicino, il campanile che aveva battuto la mezzanotte. C’era un assurdo silenzio sulle vie di quella città ma sentì, come un canto magico, il suono di gabbiani in lontananza. Il mare non doveva essere distante. Come spinto da una forza che non poteva sconfiggere prese la via che, almeno secondo i suoi sensi, lo avrebbero avvicinato alle onde sconfinate. Camminò attraverso vicoli più stretti e vie più larghe, vialoni alberati ed illuminati e stradine senza la minima luce. Vide alcuni palazzi farsi più alti, dagli ultimi piani, gli attici, venire luci distanti. Una casa aveva le porte dei balconi spalancante, facendo volare drappi di seta verso l’esterno che però, come per magia, si teneva ancorati al loro posto. E vide una vaga luce da lì venire ed una ragazza osservare il paesaggio stretta dall’abbraccio di un ragazzo, che le coprì le spalle ignude con una giubba da militare. Andrea li osservò prima di sparire sotto un arco che copriva una strada e che lo fece ritrovare, svoltato l’ennesimo angolo, sul lungomare. Era una lunga via, di mattonelle piccole e strette, non levigate, alcune rotte, altre con buche. Era forse la via più malmessa e più, decisamente, affascinante. Un muretto non più alto di mezzo metro impediva alla gente di cadere nel mare, un mare blu e profondo come la Luna che all’orizzonte si stagliava mezza coperta da nubi non più così scure. La via procedeva rialzandosi verso un piccolo monastero a dirupo nel mare. La città, che poteva sembrare tutta in pianura, si stagliava sulla valle, a cavallo di due colline. La più vicina, a strapiombo, era quella su cui sorgeva un monastero dall’apparenza medievale, chiuso, con poche luci ad illuminare la via. Per tutto il lungomare, notò Andrea, vi erano pochissimi lampioni. Andrea si adagiò sul muretto bagnato dalle ate gocce. Volgendo lo sguardo a sinistra, all’opposto della costruzione antica, notò dei moli a cui erano ancorate barche da pesce e da villeggiature, mischiate senza riguardo tra di esse. Alcune di quelle turistiche erano ancora vive, lo si notava dalle lanterne accese e dalle vaghe voci che veniva da esse. Vicino quelle da pesca le uniche anime vive erano i gabbiani, che già sentiva l’odore di prezioso cibo. I marinai erano probabilmente a dormire, pronti a svegliarsi prima del sole per lottare contro lo sconfinato blu e vincere le sue creature. Andrea si sedette con un balzo sul muretto, distendendosi su di esso e dirigendo la schiena verso terra, il viso verso il cielo. Incrociò le braccia dietro il collo, come a far da cuscino, lasciando che la Luna rischiarasse
il suo viso. Osservò di lato il mare gettarsi contro la muraglia di roccia su cui si ergeva la cittadina scogliera. Si muoveva lento, senza troppa foga, quasi annoiato da quel ripetitivo e magico andare contro. Un vago fischio, o sibilo, affollava il vuoto dell’aria. Il vento che si snodava tra barche, palazzi e rocce si trasformava quasi in un canto sopra l’acqua. Il ragazzo dava il fianco destro al mare, completamente allo scoperto. Lasciò il braccio a penzolare verso di esso, troppo in alto perché l’acqua lo sfiorasse, ma gli bastava la libertà di sentirlo quasi volare. Sorrise tra se e se, fermo e quasi del tutto immobile, il colletto ed i capelli scossi dalla brezza rinfrescante del mare. « Speri di cadere? » la voce che lo canzonò veniva più o meno dalla strada che aveva preso lui. Veronica lo osservava, dubbiosa, ma sorridente come al suo solito « No, o forse si … non lo so » rispose sincero « Non sai se vuoi vivere o morire? » lei si avvicinò. Vestiva una felpa di pile chiusa in petto e dei jeans scuri, teneva le mani in tasca ed i capelli lunghi svolazzavano sulle spalle incuranti. Andrea non rispose, voltando lo sguardo verso il mare infinito « Come mai ci siamo fermati qui? » « Non lo so » rispose lui « Non l’ho ancora capito. Ma penso che il motivo si paventerà a noi quando meno ce lo aspetteremo » « Secondo te perché siamo qui? » « Non lo so … siamo sul tardi Ottocento, primi del Novecento forse. Un po’ più nel ato » Andrea respirò profondamente, l’odore di acqua e sale che gli arrivò fino alle narici. Veronica si avvicino alla balaustra da mezzo metro, abbassandosi sulle ginocchia ed appoggiando i gomiti sul petto di Andrea « Cosa facciamo qui … » disse, un pensiero ad alta voce che dilagò nel piccolo porto vuoto. Rimasero per un tempo indefinito in quella strana posizione, a fissare una Luna che lentamente stava lasciando spazio ad un sole che sorgeva dal lato opposto del mare. Andrea e Veronica non si voltarono, godendo solo dell’effetto dei primi raggi sul blu della notte. Un colore verde si ebbe nel cielo per qualche istante, prima che lentamente iniziasse ad esserci l’arancio. Lenti e silenziosi, un’armata di pescatori era uscita dalle loro case. Incuranti dei due
turisti si era diretta al porto mentre il Sole lentamente sorgeva, troppo lentamente per loro. Iniziarono a caricare le loro navi, a rivedere gli strumenti. Qualche capitano aveva la pipa tra le labbra, qualche marinaio delle sigarette lunghe e sbilenche. Nessuno fiatava, si sentivano poche parole. Tutto si svolgeva in modo quasi automatico, non c’era bisogno che di pochi ordini. Dall’alto del colle del monastero qualche prete si era svegliato ed aveva cominciato a dar fiato alle campane, che cominciarono a suonare, in concomitanza delle sei del mattino. Uno stormo di uccelli si levò da un boschetto dietro la struttura in pietra ed arenaria che ora Andrea poteva osservare alla luce dei raggi. « Forse dovremmo andare lì su a goderci il panorama » propose Veronica ma Andrea la zittì con un cenno secco del capo. Il suo capo era diretto verso una figura che aveva già visto, più di una volta. Il misterioso uomo anziano era sul molo, vi era arrivato mischiato alla massa di pescatori. Alcune barche cominciarono a prendere il largo, altre erano in procinto di partire. Qualche uomo sui moli buttò delle discrete occhiate allo strano visitatore. Andrea lo osservava da lontano, impensierito. Sentiva un’apprensione nel cuore che non riusciva a spiegarsi e nasceva da quella figura che, quasi poeticamente, si stagliava nera contro un mare che si stava facendo via via più azzurro. Veronica spostò i profondi ed innocenti occhi verso la figura seguendo lo sguardo di Andrea, rivolgendo poi uno sguardo curioso al ragazzo, senza comprendere. Un paio di gabbiani girarono in tondo sopra la testa dell’uomo prima di allontanarsi verso altre mete. Il Vecchio si voltò per qualche istante, il tempo di incrociare Andrea e rivolgergli da lontano un vago sorriso. Andrea capì ed in quel momento la misteriosa apprensione terminò, così com’era improvvisamente iniziata. Per qualche istante lo comprese e quando l’uomo, discretamente, legò alla propria gamba un’ancoretta di ferro adagiata e dimenticata da chissà quale battello, Andrea alzò lo sguardo verso il cielo rosato. Furono le urla in se stretto ed un piccolo tonfo a fargli capire che il Treno aveva un eggero in meno. L’italiano non si voltò, non guardò la scena, uomini che affrettati, sbandati dal sonno e dalla fatica, si diressero verso l’uomo anziano caduto in mare, per come la vedevano loro. Veronica spalancò gli occhi, premendo con più forza sul petto di Andrea « Ma perché? » riuscì a dire, ma il ragazzo non rispose. Lui sapeva perché. Tutti
cominciava lentamente a diventare chiaro. Sorrise leggermente fissando il cielo, senza curarsi né dei pescatori che provavano a salvare chi, in un modo a loro sconosciuto, era già morto, né di Veronica, spettatrice del tragico destino dell’anziano uomo senza nome. Aveva capito il primo o che aveva compiuto quell’uomo come simbolo. Forse, forse era un po’ più in là nel comprendere cosa aveva sbagliato. Rimase per qualche minuto, prima di spingere delicatamente Veronica ed alzarsi. Si sistemò il soprabito e si strinse il colletto, buttando le mani in tasca e guardando la lunga strada che dava sul mare. C’era ancora chiasso sui moli, per cui decise di allontanarsi con discrezione. La ragazza guardò alternativamente lui e la scena, non comprendendo tutto il distacco del ragazzo, che, fino a poco prima, gli era sembrato un’anima non fredda. « Ma … » « Ha fatto ciò che gli restava da fare. Ha dedicato tutta la vita a combattere … questo. Tutta la vita si. Ora ho capito. Era forse il più coraggioso uomo che c’era » Veronica non comprese, ma seguì senza più proferire parola. Andrea invece sapeva. Aveva intuito qualcosa nella vita che c’era dietro i due occhi stanchi e quei capelli grigi così ben tenuti. Aveva compreso qualcosa, qualcosa che gli era terribilmente vicino. Si diresse verso il monastero, per cambiare aria mentre provava a capire perché il Treno si fosse fermato lì. Veronica era al suo fianco, silenziosa, pensierosa. Evidentemente scossa da quello che aveva visto, non era stata più capace di chiedere, non dopo la risposta di Andrea. L’italiano, dal canto suo, non aveva problemi in quel che aveva visto. Era prevedibile e faceva onore all’uomo che il Vecchio era stato. La notizia del suicidio non doveva essersi sparsa nel paese. Vecchie megere e vedove si stavano affollando alle porte della chiesa del monastero, incuranti di ciò che al porto era accaduto. Le donne, vestite di nero o grigio, curve sui loro bastoni, braccio a braccio con le nemiche di una vita, superavano i due portoni di legno incastonati nelle mura di arenaria, al fianco di un cancello aperto che dava su un cortile al cui centro svettava un angelo con la spada rivolto verso il basso ed intorno cui un piccolo lago si celava, grazie a piante sempreverdi, ad occhi indiscreti. Andrea rallentò per ammirare il giardino prima di voltarsi verso la chiesa. Non c’era nulla di speciale in essa e non c’era nessuno che attirasse la sua attenzione in tutta la piazzola antistante. Si avvicinò al muro che delimitava lo spazio a dirupo su rocce e mare, godendo la vista di quasi tutta la città da un po’ più in alto. Era più grande di quel che sembrava e stranamente stonava non poco quel pezzo con la parte più interna. Le strade erano più strette, le case meno ordinate, più antiche ed odoravano di edera selvaggia. Bastava però addentrarsi nel paese per scontrarsi
con quella che doveva essere la loro modernità, per trovare locali come quello della notte precedente, case eleganti alla maniera della capitale. Cos’era quella città? L’ultima sfida tra l’antico dei secoli bui e del moderno della fine del Millennio? La messa cominciò, il latino del prete cominciò a diffondersi anche all’esterno e la cosa donò ancora un tocco di mistero ed antichità a quella città. Veronica non parve presa come lui. Gettava ancora sguardi al porto oramai distante, ma ancora percorso da marinai infastiditi da quell’evento eccezionale e chissà, medici e poliziotti « Cosa c’è? » « Non ti impressiona? Quell’uomo si è appena ucciso » « No, non mi impressiona. So perché ha agito in quel modo e posso comprenderlo. Ha fatto ciò che gli era rimasto da fare» « E’ già la seconda volta che dici questa cosa … cosa intendi? » « Non ne sono sicuro, solo una mia supposizione » rispose sospirando Andrea. Si avvicinò ad un olmo, appoggiandosi distrattamente dando le spalle alla piazza ed il viso all’infinito « Penso che quell’uomo abbia corso tutta la vita, aggrappandosi ad un desiderio mentre sfuggiva a quella stessa cosa. In bilico tra il fuggire ed il restare, per tutta la vita. Poi, alla fine, il Treno lo ha trovato. Ma lui non l’ha accettato. Senza più forze, ha anticipato un fato sicuro, togliendosi lo sfizio di dare un colpo di coda al Fondatore » « Cioè … era una sfida » « No, sapeva di dover morire. Tutti moriamo, solo perché siamo qui non vuol dire che non succederà anche a noi. Dico solo che lo ha voluto fare in modo … improvviso. Era una dimostrazione Voleva dimostrare al Sistema che » come colta da un’improvvisa illuminazione fu Veronica a completare la frase « Che il Viaggio prima o poi finisce »
Andrea e Veronica lasciarono stare ogni altro giro della città oramai vicina l’alba
e si portarono di nuovo alla stazione immaginaria. Entrarono e salirono sul Treno senza scoprire cosa o chi cercasse il Sistema in quel posto così lontano dalle luci delle grandi città. Avevano, a priori, scartato che fossero venuti esclusivamente per il suicidio del Vecchio, Andrea più di Veronica, ben certo che, in realtà, il Sistema non potesse prevedere tutto, non tutte le loro azioni quantomeno. Si divisero una volta in carrozza, ognuno nella sua stanza, senza più fiatare. Andrea si buttò sul letto, ben deciso ad andarsi andare ad un sonno ristoratore dopo una doccia calda. Si buttò sul letto a busto nudo, incrociando com’era suo solito le mani dietro il collo e fissando il soffitto della lussuosa cuccetta. Sperava, vivamente, che il Treno prendesse il largo da quel posto nel minor tempo possibile. Non sapeva perché, ma sentiva di non voler restare ancora sulle rive di quel mare così blu. No, doveva andare ancora più in là, ancora un po’ più distante. Il suo cuore ebbe una leggera stretta, come se sapesse che quel in là metaforico era, in effetti, l’ennesimo o lontano da lei. Si concentrava così tanto sul Treno da dimenticare il suo problema base, il perché era lì. Si voltò, fissando ora la parete e dando la schiena al resto della stanza, e forse a qualcosa in più. Fino a qualche giorno, mese o ora prima avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non arrivare in quella città e non dire e fare. Ora, in quel momento, non sapeva se fosse veramente giusto. Il fatto che lui fosse sparito, cosa provocava? Nella realtà cominciava a chiederselo. Il Costruttore aveva detto che fondamentalmente il tempo poteva essere cambiato. Ma se si fosse sbagliato? Andrea si rigirò ancora una volta, avvicinandosi pericolosamente al bordo del grosso letto. La verità è che il Treno gli aveva fatto vedere il suo futuro, osservando da fuori se stesso con una ragazza. E questo com’era possibile? Se il Tempo poteva cambiare e lui era fuori da esso, chiuso in quel vagabondante mezzo, com’era possibile che, da lì a pochi anni, fosse stato lì? Era quindi già sicuro che sarebbe sceso? Era solo un probabile futuro? Andrea continuò a pensarci, a pensarci ed ad immaginarsi le infinite conseguenze del suo viaggio senza fine. Era una prospettiva che, a differenza di molti, lo turbava e lo inquietava. Chiuso per sempre in quel Treno, senza mai più pensieri, senza mai più poter fare. Sarebbe stato il limbo perfetto, ma forse non per lui. Amava viaggiare ed anche fuggire, ma aveva sempre avuto un buon motivo per tornare indietro. E se non c’era un motivo, c’era una convinzione. La convinzione che, in fondo, il viaggio era la ricerca del dove restare e della persona cui farlo. Aveva forse compiuto quella ricerca? A metà pensava di si, ed ora stava per buttarne tutti i frutti. Alzò lo sguardo verso il finestrino che dava sugli edifici spenti e spettrali, ancora
addormentati dalle prime luci dell’alba. Il Treno non si stava muovendo affatto, era ancora immobile, vittima imibile dei soffi di vento marino. Andrea ebbe come un fremito di angoscia nel vedersi ancora lì. Aveva, per qualche istante, sperato che la situazione potesse modificarsi. Restare lì voleva continuare a pensare, indistintamente, al fato di quell’uomo così vicino all’essere il suo fato. Non sapeva, realmente, cosa si celasse al di sotto di quegli abiti eleganti e di quello sguardo a tratti vago a tratti triste. Sapeva che c’era una storia che, in qualche modo, era simile alla sua. E non poteva non rispettare l’ultimo atto di coraggio di quel Vecchio. Nel contempo, proprio quell’estrema similarità di fondo gli lasciava un amaro senso di impotenza e nel contempo lo metteva dinanzi un possibile futuro che aveva rifiutato, fino a quel momento, di prendere in considerazione. Dopotutto, quale ragazzo considererebbe tra le tante scelte il suicidarsi per codardia? Ma, se si fosse trascinato come il Vecchio lungo i suoi anni, scontento ed amareggiato, fino ad arrendersi? Andrea non volle prendere in considerazione quella probabilità. Ma non riusciva nemmeno a scacciarla ed era indissolubilmente legata a quel posto. Si chiese se il Treno riuscisse a percepirlo e se fosse quello il motivo per cui erano fermi. Fece un grosso movimento di capo, come a voler negare a qualcuno che in quel momento non c’era dinanzi a lui che era impossibile. C’erano altri ospiti e tanti motivi per restare lì. Si limitò a provare a chiudere gli occhi ed a fare qualcosa che non fosse pensare. Ma i suoi sogni, quando sopraggiunsero, lo lasciarono amareggiato quanto la Luna che splendeva su una città costiera se. Ebbe un soffio di sconforto nel cuore e decise di alzarsi, avvicinandosi alla finestra e buttando un occhio sulla via semi-vuota. Due carrozze girovagavano apparentemente senza meta sopra i ciottoli e il nitrire dei cavalli gli arrivò parecchio ovattato alle orecchie. Sospirò, aprendo l’armadio ed osservando la sfilza di panni lavati. Non si chiese come fosse possibile e si vestì per uscire, adeguandosi all’epoca in cui pareva essere finito. Un completo nero faceva a suo comodo. Come la prima volta, scese da solo. Alzò gli occhi verso il cielo stellato, non c’era più nuvole ma notò che il pavimento era bagnato dove non coperto dal tetto. Aveva piovuto mentre dormiva e la cosa lo fece contento, preferiva non camminare di nuovo sotto la pioggia. Mise le mani in tasca e si diresse all’uscita senza incontrare nessuno. Non fu così sulla via principale su cui dava la finta stazione. Persone di ogni genere ed età affollavano la via. Le dame portava ancora gli ombrelli da eggio, probabilmente fuori da prima che il sole classe. Gli uomini parlavano tra di loro, arricciandosi le ben curate barbe ed i baffi, parlottando in lingua se senza che Andrea potesse comprendere anche una sola parola. Andrea cominciò a camminare senza una meta precisa, invocando
quel Fato che sembrava star giocando con la sua vita oramai da troppo perché gli fe trovare un posto tranquillo dove sistemarsi. Si accorse che, in ogni caso, malamente sarebbe stato compreso e sicuramente mal visto, essendo straniero. Ma non aveva molto di meglio da fare, per cui decise di buttarsi in mezzo alle strade illuminate dai lampioni a gas ed ombreggiate alberelli vaghi adornati di fiori bianchi e da palazzi grigi ed eleganti in cui scandali e relazioni proibite abbondavano. A differenza del giorno prima non si gettò nel locale pieno di giovani, preferendo qualcosa di più sobrio e tranquillo. E lo trovò, non lontano da quel lungomare spettro di un coraggioso atto di morte. Su una parallela del grande oceano blu che senza fine si stagliava sullo sfondo della città, un piccolo locale senza insegna dalle ampie vetrate prendeva posto alla base di un grosso edificio grigio. Le finestre, adornate da tende dorate, davano su saloni pieni di tavoli di legno elegante, con candelabri sopra di essi e tovaglie rosso fuoco. Andrea entrò senza curarsi dei pochi che c’erano e cercando istintivamente un bancone dove adagiarsi. Appoggiò il suo soprabito grigio sulla parete vicino la porta ed un quadro rappresentante una fanciulla dormiente prima di dirigersi dal barman. C’era un vago odore d’oppio e di sigarette, ma non gli diede più fastidio di quanto si aspettasse. Una comitiva di giovani uomini e donne era in un angolo un po’ più appartato. Varie bottiglie e posacenere, accompagnati da due libri, erano sul tavolo davanti loro. Qualcuno alzò lo sguardo verso Andrea, senza curarsi però effettivamente di lui più del necessario. Quando Andrea appoggiò entrambi i gomiti al bancone il barista lo guardò « Bonsoir » Andrea accennò giusto ad un saluto prima di dire l’universale parola « Cognac, un bicchiere » il barman si fermò qualche istante, prima di annuire. Forse non era il primo italiano a are da quelle parti, rifletté il ragazzo. L’uomo dietro il bancone si avvicinò ad Andrea mentre questi si sistemava su uno sgabello, mostrandogli una bottiglia che Andrea accettò senza remore. Poco dopo sentì il liquore essere elegantemente gettato dentro un bicchiere di cristallo e due cubetti di ghiaccio che per qualche istante danzarono nel poco spazio loro lasciato. Pochi istanti dopo il se lasciò davanti l’italiano il cognac richiesto. Andrea lo prese con la mano destra, portandolo all’altezza degli occhi come ad osservarlo meglio, prima di cominciare a bere apaticamente. Si guardò ogni tanto intorno, il gruppo di giovani ancora chino sui libri e sulle sigarette, una coppia poco distante vicino le vetrate, un pacchetto con forse un anello e due sorrisi che avrebbero fatto l’invidia della Felicità personificata. Il barman puliva con un bianco straccio i bicchieri, portandoli vicino una lampada per osservare la presenza di eventuali macchie. E poi c’era Andrea, appoggiato al legno del
bancone, a fissare una serie di bottiglie dai nomi in una lingua che non aveva mai amato, stringendo il bicchiere pieno di ghiaccio, alcool e ricordi. Prese un lungo respiro, inzuppando il dubbio nel liquido e sperando che in qualche modo vi annegassero. Qualsiasi cosa sarebbe comunque stata migliore di quei momenti. Non sapeva più che fare. La sua comprensione del Treno era diventata una via per evitare di affrontare il vero problema che lo aveva portato a star seduto in quel bar non lontano dal mare e dall’odore di acqua e sale. La prospettiva di un perenne viaggio lo affascinava, lo aveva sempre fatto. Ma era veramente realizzabile? Il Sistema ed il Treno suggerivano proprio di si e lentamente in Andrea prendeva piede l’idea di cogliere quell’occasione. Ma ogni volta che il suo pensiero si soffermava su quella prospettiva, ecco che pur ricompariva il voler pensare: e lei? Il Treno avrebbe pensato a tutto, per Andrea, ma chi sarebbe stato con lei? E non era banale pietà, quella di Andrea. Non era la banale pietà che si rivolge ai malati terminali. Era amore, ed Andrea lo sapeva. Ed anche lei lo sapeva. Era l’amore di due ragazzi che si vedevano divisi da un muro che poteva diventare invalicabile. Un muro che avrebbe lasciato, in Andrea, un duro colpo e che sarebbe diventato, in qualche modo, un dolore quasi insopportabile, per lei letale. Andrea finì il cognac e fece cenno al barman, che lo riempì di nuovo. Abbandonarla voleva dire fuggire a quell’amore e non lottare con lei, risparmiarsi la sofferenza di vederla lentamente abbandonare i giardini della Terra per la polvere. Restare con lei voleva dire confortarla con le sue poesie sotto olmi e pini mentre lentamente il soffio vitale la abbandonava. C’era una terza prospettiva, un banale cinque per cento che lo teneva incatenato in quel bar. Quel misero cinque per cento, la sua unica speranza di vedere un’altra estate. Ed era quella prospettiva che non gli permetteva di fuggire con un ultimo ricordo. Era o no il cinque per cento più importante di tutto? Quei cinque casi su cento rappresentavano, effettivamente, il vero amore di una persona, ma Andrea non poteva capirlo, non ancora. Quei cinque casi rappresentavano la vita, la vita che Andrea voleva negarsi in cambio della pace dell’anima. Questo il Treno stava fiutando in lui, quella paura disperata a soffrire una vita statica, vicina la persona amata si, ma sempre una vita statica, lontana dall’avventura, dai piaceri della scoperta e dall’avventura. Una vita sofferta, come quella del Vecchio che alla fine aveva perso. La prospettiva di quella vita lo angosciava non poco e non riusciva a capire se il suo amore, o quello che pensava di provare per lei, fosse o meno sufficiente. E, se non lo fosse stato, se mai fosse considerabile come amore. Rivolse tutta la sua angoscia dentro quel cristallino bicchiere in cui i ghiaccioli si ciondolavano allegramente dentro il cognac, che sparì per la
seconda volta tutto d’un sorso. Andrea non riusciva ancora a scacciare i suoi fantasmi e sapeva che, vista la sua innegabile resistenza all’alcool, non li avrebbe scacciati ancora per un po’. Restò per qualche istante con il bicchiere vuoto, osservando quasi il vuoto, la mente ed gli occhi lucidi, il cuore annebbiato da qualcosa di più del rimorso. Non poteva spiegarselo, e forse non doveva farlo. Andrea non sapeva minimamente cosa fare in quel frangente. Non sapeva quasi mai cosa fare, e mai come in quel momento si accorse che un singolo atto poteva decidere tutto il corso della sua vita. Era forse questo che lo bloccava? Quella scelta così fondamentale da bloccarlo del tutto? Sorrise quasi tra se e se, osservando le poche persone che affollavano il locale. Fece cenno al barman e riempì ancora il bicchiere, di nuovo. Non attese molto prima di portarlo alle labbra « Ciao » fu la voce della misteriosa cantante del Treno a risvegliarlo. Si voltò, osservando il volto limpido ed ancora giovane, il corpo racchiuso dall’abito lungo ben adeguato a quei tempi, i tempi che le appartenevano. La voce risultava con un pesante accento se e lei gli fece un vago cenno « A quanto pare noi, figli del Viaggio, siamo capaci di comprenderci senza problemi. E’ una cosa divertente no? » lei fece un sorriso al barman e si fece portare un bicchiere di cognac, Andrea riempì il suo per la quarta volta. « Anche tu scesa a far due i? » « Il Treno non accennava a partire … mercì » ringraziò il barista che gli porse da bere e ritornò a guardare il suo compagno d'avventura « Tu che fai invece? » « Mi crogiolo nell’alcool … sperando che finisca di annebbiarmi. Pare non funzioni » sorrise quasi spettrale, cominciando ad odorare quel liquido che gli bruciava la gola « Un’azione autodistruttiva … perché mai? Sembravi così sicuro sul Treno » « Come si può essere sicuri di qualcosa? Sembra una trappola creata proprio per coprire ogni sicurezza » « Parli come se avessi imparato tutto sul treno » « Forse è così. Non penso sia più difficile di quel che appare »
« Non comprendo .. » lei sorseggiò finemente il cognac, mentre qualcuno dei giovani avventori la osservava da lontano « Noi non siamo i veri viaggiatori del Treno, ce n’è uno solo ed è il Fondatore. Noi siamo solo … gli ospiti che finiscono di completare il quadro che il Costruttore ha creato per lui. Siamo come figure adornanti, con uno scopo ben preciso probabilmente » « E quale sarebbe questo scopo? » « Penso … penso sia far completare il viaggio. Il Treno offre il perfetto rifugio, ma si può scendere, se lo si vuole veramente. Eppure nessuno lo vuole. Coglie le persone che sono come il Fondatore ed offre loro la via di fuga perfetta. Ed attende, viaggiando ancora, lascia nuovi spazi, occasioni. Il Treno ed il Sistema fanno tutto. Ma nessuno scende » Andrea ingoiò poco elegantemente alcool e ghiaccio « Perché? » « Perché noi tutti stiamo cercando il Viaggio. Cosa abbiamo alle nostre spalle? Sofferenza, lotte continue e probabilmente una vita insoddisfacente. Qui abbiamo il mondo, il tempo, lo spazio … perché tornare indietro? » disse l’ultima frase, fece l’ultima domanda mentre una lacrima gli cadde dagli occhi « Abbandoniamo tutto ciò che amiamo per non perderlo. Soffriamo per non soffrire peggio. Scappiamo, tormentati da qualcosa che pensiamo di non poter combattere. Ed alla fine cadiamo proprio nella trappola del Treno. L’eterno viaggio, la prospettiva ideale » il quinto bicchiere di cognac si materializzò dinanzi ai suoi occhi per la maestria magica del barman. La ragazza rimase ancorata al suo primo bicchiere « E se io ti dicessi che voglio scendere dal Treno? »
PARTE III
Le rotaie avevano preso a scorrere apparentemente infinite. Il rumore aveva un che di piacevole per il giovane Andrea. Cullato da quel senso di movimento, nella sua cuccetta, non poteva che rallegrarsi di lasciare il paese teatro di così tante novità da parte di quel Sistema che, almeno all’apparenza, stava ritrovando la giusta rotta. Il rumore del metallo che si muoveva aveva avuto un effetto calmante sull’animo di Andrea. Quando la ragazza nel bar gli aveva fatto quell’annuncio aveva sentito come la testa girare. Che fosse l’effetto dell’alcool o dell’ansia che per qualche minuto spirava via, aveva vissuto un momento di realizzazioni completa. Erano bastate due frasi dopo la domanda per far sorgere il primo sorriso sul viso di Andrea, un vero sorriso, da non sapeva neanche lui quanto tempo, probabilmente da quando un anonimo medico aveva comunicato all’italiano ed alla sua fidanzata la notizia del tumore. Eppure quelle due frasi avevano rallegrato Andrea, gli avevano dato un motivo per abbandonare per qualche istante l’alcool e riaccompagnare la donna a bordo del Treno, prima di buttarsi proprio nella cuccetta. Erano veramente bastate due frasi. Ora, chino sul letto, le spalle contro il muro e le mani appoggiate al materasso, il ragazzo fissava il buio della stanza chiedendosi cosa fosse realmente successo. Il Treno aveva accelerato, lo percepì appena le rotaie aumentarono il loro giro. Il paesaggio stava cambiando di nuovo, irrealmente. La pioggia tornò insieme al freddo ed alle nuvole, e con loro venne una campagna completamente piatta, costeggiata da svariate isole composto da villagetti con campanili di pietra ed in lontananza una torre di ferro illuminata come se fosse festa. Andrea non alzò lo sguardo, non sarebbe sceso. Le luci inondarono la cuccetta prima completamente al buio, le luci di una città viva e brulicante di persone. Una massa una cui parte sarebbe tornata, invecchiata, nello stesso momento della sua partenza, insieme alle sue creazioni. Gli aveva spiegato ogni cosa, la cantante. Gli aveva spiegato della sua fuga, della sua lotta, del tradimento, delle sconfitte, della paura. La stessa paura che l’aveva trascinata insieme al suo bagaglio ed ai suoi dischi, vinili pieni di memorie e ricordi, di sentimenti e di sogni, su quel Treno senza destinazione. Gli aveva detto di come, però, aveva trovato qualcuno che aveva usato con lei le parole giuste. Che infondo sarebbe potuto andare bene o male,
ma che comunque sarebbe andata. E che tanto le bastava per tornare a vivere. Andrea continuava a fissare il vuoto mentre il Treno rallentava. Sentiva leggermente caldo, forse per l’alcool, forse per la corsa a piedi nelle vie della città sperduta. Sentiva caldo, sentiva caldo vicino ad un cuore che, fino a poco prima, avrebbe volentieri strappato. Sentì una porta in lontananza aprirsi, dei i frettolosi, un “Grazie” mormorato contro dei corpi metallici che risposero con sorrisi più sinceri di quelli di molti umani. L’italiano prese un gran respiro mentre il Treno riprendeva a partire. Quella fermata, la più breve di tutte fino a quell’istante, la più importante di tutto il viaggio, terminava in un solo istante. Si portava via tutto, le luci e le masse, per una nuova destinazione. Il Sistema cominciò a far partire il Treno, indeciso forse. Andrea la sentì quell’indecisione, e la sentirono tutti i eggeri. Sentirono che il primo colpo era stato attestato e tutte le volontà erano scosse. Una morte, una partenza. Cosa fare ora? Era forse la domanda che si potevano porre un po’ tutti a bordo di quel Treno. Lentamente le acque, prima apparentemente delle paludi in cui tutti loro si erano incagliati, sembravano diventare un lago, e forse un fiume, un fiume da prendere con qualsiasi mezzo, anche a nuoto, pur di ricominciare a far ciò che ognuno di loro si era prefissato. Chiusi nelle loro cuccette, quegli orgogliosi esemplari di razza umana cominciarono a comprendere qualcosa di più di loro stessi, compresero qualcosa delle loro paure, di quelle paure che la misteriosa cantante dalla voce di usignolo si era decisa ad affrontare e che loro, dall’alto del loro coraggio e della loro intelligenza, non osavano neanche guardare da lontano. In quel momento, lentamente, tutti loro avevano dovuto prendere coscienza che qualcuno aveva appena vinto la sua battaglia, la sua più grande battaglia. E mentre il Sistema, a modo suo, gioiva per il primo obiettivo raggiunto da tutta la sua creazione, il Costruttore osservava una città meravigliosa allontanarsi ed un timer, lentamente, avvicinarsi ad una data di scadenza.
L’italiano adagiò la testa sul morbido cuscino mentre il Treno stava oramai di nuovo correndo. Gli sembrava di sentire, ora, lontana una musica. Distante almeno sessant’anni, poi settanta, poi ottanta. Gli sembrava di poter vedere una serie di dischi dorati sulle mensole di una casa, poco lontana da Marsiglia. Ricordò di aver visto quei dischi, forse in delle foto di qualche rivista del settore. Dischi d’oro dedicata ad una cantante. Era un ricordo che gli era appena arrivato in mente e lui non riusciva a comprendere come. La musica l’aveva invece già sentita, era la stesa della carrozza che risuonava tra i vetri appannati dal caldo. Capì che alla fine aveva vinto lei e che la storia era cambiata. Era cambiata insieme ai suoi ricordi, alle sue memorie. Dettagli della vita di una donna, spenta a novant’anni dalla vecchiaia, circondata dalla fama, dalla gloria e dal ritratto di un misterioso giovane che nessun reporter era mai riuscito a rintracciare, incontrato, secondo i diari di lei, in un viaggio durato anni e consumato in un istante. Era ricordi nuovi, lo capiva, non li aveva fino poco prima la fermata in quella città illuminata a festa. Eppure ora gli sembravano così normali, così reali. Sorrise, quasi tra se e se, capendo il trucco, comprendendo la potenza, e quindi la pericolosità, di quel viaggio. Il Costruttore doveva veramente voler bene al suo amico da rischiare la stessa esistenza del suo mondo per lui. Andrea socchiuse gli occhi al suono del Treno e della musica mentre gocce di pioggia cadevano sui finestrini e un lampo solitario illuminava la notturna campagna di uno sconosciuto paese. Le stelle girarono più volte nel cielo, cambiando di posizioni. Una nuova luna apparve mentre Andrea dormiva, nuove costellazioni arrivarono alla volta celeste ed un nuovo colore, più chiaro, un azzurro quasi da mattino, tinse il cielo di quella che non era più la Terra. Andrea dormiva, ma se fosse rimasto per qualche minuto ancora con gli occhi aperti verso il di fuori si sarebbe accorto del lento aggio di paesaggio. Le pianure verdi fecero spazio ad un paesaggio spoglio, ricco solo di rocce sporgenti che davano su un mare quasi verdastro mentre in lontananza si vedevano le luci di strutture a metà tra il cielo e il terreno. Non c’erano più alberi ma solo rocce e delle enormi strutture distrutte. Andrea non le vide, perché il Treno le sorò prima che uscisse dal mondo dei sogni in cui era caduto. Quando Andrea si risvegliò il Treno era però ancora nel mondo alieno. Quando mise il naso contro il vetro della sua cuccetta, sul suo viso si disegnò un’espressione di stupore, guardando le nebulose violacee osservabili ad occhio nudo nel limpido cielo notturno. Il Treno era immobile ma non c’era nessuna stazione fuori a fare da entrata, per l’italiano, in quel nuovo ambiente. SI mise rapidamente una felpa e i jeans, dirigendosi all’uscita della carrozza, ansioso di
respirare, per la prima volta, l’aria di un mondo nuovo. Quando mise piede a terra, inspirò a pieni polmoni, restando deluso quando si accorse che, nell’aria, c’era un odore di margherite e di terra bagnata, niente di più, niente di meno. Fece una smorfia alzando gli occhi. Le due lune, le stelle diverse, le nebulose violacee, erano tutte nel cielo, ad osservare il creato muoversi e morire lungo binari sconosciuti. Eppure lui sentiva il tipico odore di campagna, lo stesso identico odore che poteva assaporare alle prime luci dell’alba dalla finestra di casa sua. Mise le mani in tasca, guardandosi attorno. Il Treno si era fermato nel nulla. Non c’era nulla di rilevane. Un mare sconfinato, delle ripide scogliere, sassi e rocce ovunque, senza una pianta. SI chiese persino da dove venisse l’odore di margherite, visto che non c’era traccia di flora in tutta la zona che poteva guardare. Si avvicinò alle scogliere, voltandosi per osservare il Treno coperto da una vaga nebbiolina alla fine, impedendo di vederne il termine. Era curioso l’effetto perché quella nebbia gli impediva di vedere solo la fine del Treno, come se la celasse, coprendo di rimando una parte di orizzonte. Andrea fece una smorfia, rinunciando in quel frangente a capire e cercando invece di godere della luce lunare di quello strano nuovo mondo. Era emozionato a mettere piede per la prima volta su quel suolo alieno e dopo l’iniziale delusione per l’odore di margherite si era di nuovo scoperto curioso rispetto a tutto quello che lo circondava. Sfiorò con la mano destra un sasso, al tatto diverso da qualsiasi altro sasso avesse mai sfiorato in tutta la sua vita. Socchiuse gli occhi al rumore delle lente onde che si schiantavano senza sosta contro le grigie scogliere. Non sentì null’altro, se non il vento che ululava tra i varchi e il rumore del nulla assoluto. Rimase così per qualche istante, prima che un’esplosione distante lo fe voltare. Gli era arrivato all’orecchio solo l’eco dell’esplosione, ma la vista non lo tradì quando, socchiudendo le palpebre e provando a guardare meglio all’orizzonte, sopra la locomotiva ottocentesca del Treno, distante, a mezz’aria, si alzò un fumo rosso come il Sole. Un fumo che si espanse quando qualcosa lo colpì, ancora. Come lampi, enormi raggi azzurri e gialli si scontravano, letali. Qualcosa sparava a qualcos’altro, era l’unica possibilità. Ed Andrea ebbe un fremito di gioia nel sapersi ben distante da lì. La curiosità voleva spingerlo a dirigersi proprio da quella parte, ma il buon senso lo ancorò sulle scogliere, a godere da lontano alla lotta tra giallo ed azzurro. « Affascinante, nevvero? » « Costruttore … » « Mi dispiace che il tuo primo viaggio fuori dalla Terra sia proprio nel bel mezzo
di una guerra » « Che guerra? » « Una guerra che ha dato origine a tutto quello che posso conoscere. Questo pianeta si chiama Oridea VI, nel Settore Cygnus. Siamo lontani circa trenta anni luce da casa mia » il Costruttore si mise al fianco di Andrea, ammirando lo scontro « Chi sta combattendo ora? » « Ah, non lo ricordo » rispose il Costruttore « E forse sarà meglio non saperlo. I laser azzurri sembrano i modelli Mark VII della Repubblica di Alpha Vega, però potrei sbagliarmi. Stanno combattendo, giusto questo basta a suggerirci l’idea di non farci vedere da loro. Non capisco perché siamo qui comunque » « Beh, dobbiamo prendere qualche sasso come ospite? » chiese ironico Andrea « Non lo so, il Treno fa cose strane negli ultimi giorni. Siamo senza mimesi non lontano da un campo di battaglia, spero che a nessuno venga la voglia di puntare uno o due LADAR da questa parte » borbottò il Costruttore con una smorfia. Era elegante come al solito ma sul viso calmo si era disegnato un’espressione di disapprovazione « Cosa si fa allora? Attendiamo che il Sistema riparta o che una delle due fazioni ci scopra? » « No, spero di no. Se saremo in pericolo attiverò il Protocollo d’Emergenza, sperando funzioni. Non l’ho mai provato a dire il vero » « Ah, eccellente » rispose, la vena ironica sempre crescente nel tono dell’italiano « Oridea VI, cosa c’è in questo mondo? » « Nulla … terraformazione parziale, il necessario per mettere su qualche colonia mineraria. Una città, Orsinia, a metà tra cielo e terra, un piccolo spazioporto, tante lotte per le concessioni minerarie. Nulla di più, nulla di meno » rispose il ragazzo, avvicinandosi alla scogliera e piegando le ginocchia, arrivando quasi ad abbassarsi del tutto. Prese un sasso e lo buttò in acqua, attendendo il tonfo « La cantante … è scesa vero? »
« Già, una cosa positiva pare » rispose il Costruttore alla domanda di Andrea, senza voltarsi « Spero lo sia almeno. Hai qualche ricordo di lei? » « Si … mi sono apparsi dal nulla. Come se li avessi sempre avuto ma non ricordassi. Sembra che abbia avuto successo » « Felice di questo. Vuol dire che facciamo progressi comunque e che il Sistema non si è bloccato in qualche strano loop » « Non basta ancora? » « Bastare? E’ un caso su un milione il suo. No, c’è bisogno di qualcosa di più profondo di una singola azione. Ed io non so cosa cercare » « Perché non mi fai parlare con il Fond … ! » « No » rispose il Costruttore ,voltandosi di colpo ed interrompendo l’italiano « No, non si può fare questo » Andrea non rispose. Avrebbe voluto ma qualcosa, nel tono del suo interlocutore, gli fece capire che non c’era logica che avrebbe potuto cambiare quel no in un si. Mise le mani in tasca, avvicinandosi anche lui al bordo della scogliera, molto pericolosamente vicino al bordo. Chinò il capo, ritrovandosi a fissare le onde colorate di un, almeno per lui, innaturale verde. Il Costruttore era ancora leggermente piegato poco vicino lui, il Treno, fermo ed immobile, alle loro spalle. « Che si fa allora? » « Non lo so … nell’area non c’è nulla. A meno che non vuoi fartela a piedi fino alla più vicina miniera e sono circa 30 chilometri, per vedere giusto un bel buco nel bel mezzo della natura. Altrimenti ci sono circa duecento chilometri che ci separano dallo scontro. Ma non te lo consiglio » Andrea sospirò, tornando a fissare il paesaggio fisso e quasi immobile. Gli sembrava strano che il Treno fosse arrivato fin lì senza ragione, ma sicuramente, qualunque essa fosse, non era di certo ritrovabile nelle rocce e nella selvaggia campagna di Oridea VI. Il silenzio calò quando il Costruttore sparì dalla scena, ritornando probabilmente sul Treno. Andrea, invece, rimase ad attendere sulla scogliera, preso dal paesaggio alieno che continuava, per nulla stranamente, a suscitare uno strano fascino nel giovane italiano. Era il primo, in ordine temporale almeno, a mettere piede su un suolo alieno. Si rese conto di come, però, la cosa gli fe solo un vago effetto. Tutto quello che stava vivendo era un'avventura che poteva
sembrare ridicolmente incredibile, straordinaria a dir poco. Eppure lui non riusciva a sentire quell'emozione attraversagli il cuore, per nulla. Anzi, a tratti ne era spaventato, come pure era normale fosse. A tratti, invece, ne era semplicemente così preso che non pensava che fosse straordinario, o almeno non desiderava lo fosse. Desiderava fosse il suo nuovo quotidiano, desiderava che quel viaggiare sempiterno, avanti ed indietro tra lo spazio e il tempo, diventasse la sua nuova casa, il nuovo posto da considerare come rifugio e riparo dalle tempeste dalla vita. Se fosse stato un viaggio straordinario, non avrebbe mai potuto considerarla casa. Prese un gran respiro di quell'aliena aria, crogiolandosi per qualche istante nel vento di Oridea VI. Piccoli vortici di sabbia e sassolini si alzarono su un'altra cima, mentre in lontananza, tra le nubi, ancora le due o più navi si scontravano crudelmente, donando a quell'area quel tocco di realismo che serviva, anche ad Andrea, per restare ancora alla realtà. Sembrava un sogno, un distante lontano sogno di un viaggio eterno che non sarebbe finito che con il suo risveglio nel comodo letto, prima di prendere il treno regionale per andare da lei. Si concesse un sorriso al pensiero, che represse quando quelle tre lettere, quelle tre singole lettere che componevano il pronome “lei” fecero capolino nella sua testa. E fu di nuovo un gran turbinio di pensieri ed emozioni contrastanti. Si voltò contro il Treno, schiantando gli occhi contro il legno ancora fresco e la vaga foschia che ne copriva il retro. Voleva fissare l'immagine di quel Treno, renderlo il quanto più reale possibile, lasciar sparire tra le assi di raffinato materiale il viso che gli sembrava impossibile estirpare, anche per pochi istanti, dalla memoria. Come poteva? Come poteva pensare di allontanare il ricordo di lei? Ogni cosa, dai sassi al legno, dal violino al semplice respirare gli ricordavano lei. Era un mix di sentimenti, di amore e di ansia, di preoccupazione, di rimorso, di volontà di espiare e di fuggire, che gli impedivano di dimenticarla. Si accorse, quasi senza volerlo, che in fondo la soluzione era lì. In fondo non si trattava proprio di affrontare, una singola volta, una cosa da cinque minuti, il suo grazioso viso? Doveva solo affrontarla, e farla finita. Un si, un no. Cosa cambiava? Doveva solo dire delle parole, nulla di più. Sarebbe potuto correre a bordo, gridare al Treno la sua volontà e probabilmente in men che non si dica lo avrebbe portato proprio sotto l'ospedale. Invece, invece Andrea si ritrovava in piedi sulle rive di un mare verde su un mondo distante anni luce e tempo da casa sua, su sassi di un materiale che non riconosceva, sullo sfondo una battaglia tra navi titaniche. Sospirò, lasciando che anche il suo respiro si perdesse nell'aria dei pianeta. La sua prima gita su un pianeta alieno si stava rivelando quanto la più noiosa
delle tappe fin'ora affrontate dal Treno e dal Sistema, almeno le tappe in cui Andrea era presente. Cominciò a sentire un non più vago fresco, mentre le due lune continuavano la loro immobile orbita intorno il planetoide. Il freddo si stava facendo via via più pungente ed alla fine Andrea si arrese, conscio di non volersi prendere il primo raffreddore extra-terrestre. Si buttò di nuovo sul Treno, dirigendosi alla solita carrozza “Medici”, distendendosi a gambe larghe sulla prima poltrona che riuscì a trovare, cioè appena entrato. Era ora di nuovo calato un silenzio mistico, prima interrotto dai i pesanti dell'italiano e dal rumore della porta di legno che veniva aperta e chiusa. Non c'era musica, non c'era movimento della carrozza. Era possibile, solo se si era di buon orecchio, sentire il fruscio del vento che si stava levando via via più rapido intorno il Treno immobile. Andrea portò la mano alla vicina libreria, provando a scrutare tra i volumi qualcosa che stuzzicasse il suo intelletto e lo spingesse a leggere qualche riga. Scartò tutti i saggi, o almeno i presunti saggi che erano sistemati dritti sui vari livelli del mobiletto in mogano e rifiniture dorate di stampo vittoriano. Prese così un romanzo, di un autore sconosciuto. Il libro sembrava vecchio, la copertina in qualcosa che ricordava la plastica, un'immagine e un nome sfocato sopra. Lo prese e cominciò a leggere, sereno e tranquillo. Sfiorò la carta, particolarmente ingiallita sui bordi ma stranamente ben tenuta. Cominciò a leggere quello che sembrava il primo racconto breve di una lunga serie, vista la dimensione del tomo. Andrea prese un respiro leggero, assaporando parola per parola mentre fuori il vento scorreva rapido come un fiume in piena. Cullato così dalla lettura di cavalieri, fate, stregoni e combattenti spietati, il giovane non si accorse delle ore e dei minuti che placidamente volavano via. Il cielo di Oridea VI si era fatto nuovamente scuro, in lontananza i lampi erano cessati ed improvvisamente il Treno si rimise in marcia. L'italiano alzò gli occhi al cielo, come a ringraziare qualcosa o qualcuno per non essere più nel bel mezzo del nulla, o almeno sperare di non rimanerci a lungo. Quel posto lo angosciava. Si sarebbe dovuto sentire emozionato, ma osservando di sfuggita il tetro paesaggio non trovò nulla per cui provare la benché minima emozione, non da solo. Cominciò a sentire la mancanza degli altri eggeri. Del Costruttore, di Veronica. Quando il suo pensiero sfiorò l'immagine del Vecchio, così ben radicata nella sua memoria oramai, si accorse che sul suo viso gli era comparso un vago sorriso triste. Il Vecchio era morto e la cantante era riuscita a scendere da quel folle Treno, oramai rimanevano in pochi i suoi conoscenti. Troppo pochi. Si cominciava a sentire stranamente solo, isolato dal mondo che conosceva e dalle persone che in qualche modo aveva amato ed odiato, specialmente dalle prime.
Alzò lo sguardo verso i vetri, osservando nuovi sassi e pietre comporre il paesaggio del triste pianeta. Tutte simili, nessun segno di intervento umano. Era questo un pianeta del futuro? Si alzò dalla poltrona, avvicinandosi al vetro per poter osservare meglio. Avvicinò così tanto il viso da schiacciare il naso contro la finestra, gli occhi che cominciarono a vagare attraverso le lande desolate che componevano le pianure di Oridea. Era quasi buoi li fuori, la notte era di nuovo calata, seguendo un ciclo che non riusciva a seguire. Le due lune erano in cielo, ai poli opposti oro, tra di loro costellazioni e formazioni di stelle che non aveva mai visto e non aveva mai pensato fossero osservabili. Osservò l'orizzonte, cercando qualsiasi cosa fosse anche solo irregolare, il segno che su quel mondo c'erano altre forme di vita oltre i eggeri del Treno. Ma non c'era nulla. Nessuna forma irregolare, nessuna costruzione artificiale. Solo il vuoto, l'oscurità che lentamente avanzava inesorabile, un silenzio assordante scosso solo dal rumore del Treno, del ferro della rotaie battuto dalle ruote metalliche del mezzo senza tempo. Andrea prese un gran respiro, facendo per allontanarsi. Un lampo, fu quello che vide. Un lampo in un gruppo di nubi lontane. Un lampo ed un'ombra nei cieli di Oridea. Un'ombra così grande, come non l'aveva mai vista. Un enorme ombra, gli angoli smussati dalle pesanti nuvole. Provò a guardare, mentre sentiva il Treno virare leggermente verso la sua destra. E vide un altro tuono ed un'altra ombra, la stessa, solo che più in basso, come se cadesse. Osservò, provando a scrutare tra il nero e il grigio di una notte aliena, quando la scorse, una punta, a malapena visibile, una serie di luci rosse fioche intorno a quella che doveva essere la prua di una nave, enorme, senza fine. La vide, man mano, cadere dalle nuvole, colpita e ferite. Quando le nubi smisero di coprirla, vide fiammelle lontane, luci azzurri e gialle. Innegabilmente, stava cadendo. L'enorme vascello stava semplicemente cadendo verso il suolo e neanche molto lentamente. Vide dei fuochi azzurrini accendersi dietro ed ai lati, come se qualcuno avesse provato, all'ultimo, ad attivare dei motori, ma non servirono. La punta, e ben presto tutto il corpo della nave, toccarono terra. Andrea guardò un'esplosione, che sollevò polvere e devastò una larga parte dell'area presumibilmente. Il Treno continuò la sua marcia mentre in lontananza i fuochi divoravano ciò che restava dell'enorme astronave. Il ragazzo italiano osservò ancora il cielo, noncurante delle fiamme che si levavano dal terreno sotto di esso. Doveva esserci anche una seconda nave, per forza. Doveva essere lì, coperta dalle nubi e qualcosa gli suggeriva che ben presto l'avrebbero incrociata. Sembrava esserci un unico luogo dove trovare vita e quel luogo era proprio l'incrociatore da battaglia che si era sfidato con un suo simile nei cieli di Oridea. Andrea incrociò le braccia, le fiamme zampillavano in lontananza come fontane, tra i metalli roventi, squagliati dai laser e dai sassi appuntiti della superficie
spietata del pianeta. Della seconda nave non c'era però traccia. I minuti continuarono a are nel totale silenzio e nel buio spietato che affliggeva il piccolo pianeta sperso tra i meandri della Galassia. Erano quei momenti quelli che Andrea odiava con tutto il suo cuore. Quei momenti di calma apparente in cui non accadeva assolutamente nulla. Le stelle erano immobili nel cielo, fotografie di un vago ato che poteva essere terminato da eoni. Le lune erano immobili, con i loro crateri, la loro forma quasi tonda ed il loro colore arancio chiaro. Solo le fiammelle che si levavano dai detriti della nave schiantata osavano non restare immobili, zampillando ed esplodendo in mille scintille quasi a ritmo. E, sotto le stelle e le lune e ben distante dalle fiamme, il Treno continuava la sua corsa, lasciando Andrea preda dei suoi più reconditi incubi ad occhi aperti. Era demoralizzante, sotto un certo punto di vista, il non riuscire ad arrivare a nulla. Era a bordo del perfetto veicolo per il viaggio perfetto, ma sentiva, dentro di se, qualcosa di sbagliato. In un altro momento, chissà, forse avrebbe accettato senza pensarci due volte. Ora, invece, non riusciva a trovare quella serenità che la sensazione di poter viaggiare per sempre gli avrebbe dovuto lasciare. Quando era salito sul Treno aveva sentito il suo presente sgusciargli alle spalle, immobile, ad osservarlo. Ed era stata la sensazione migliore che avesse provato. Il sapere di essere libero da ogni obbligo. Ma ora, dopo chissà quante ore e giorni, si sentiva invece diverso. Sentiva che che, invero, il suo presente lo attendeva, con la forma di una ragazza dai grandi occhi blu che l'attendeva paziente su un non troppo comodo letto d'ospedale. Si vergognava, e non poco. Si vergognava della sua codardia, ma la sua paura superava la sua coscienza. Si rese conto di quanta forza quella se doveva aver trovato per poter rimettere piede fuori dal Treno e restarci via per sempre ed, almeno in parte, avrebbe voluto sentirsi un po' orgoglioso per l'aiuto che le aveva dato, in una qualche maniera. Appoggiato ancora alla parete di fine legno traballante, si voltò verso l'orologio a pendolo che, all'altro capo della carrozza, sembrava osservarlo con aria di sfida. Le lancette sembravano seguire il naturale ordine del Tempo. I secondi avano, ogni sessanta scorreva un minuto ed ogni sessanta minuti la lancetta dell'ora ti ricordava che avevi un po' meno tempo da vivere. Andrea però si rese conto di quanto ora, osservando il vetro, il legno ed il metallo di quell'aggeggio, si rendesse conto di quanto fosse così di poco conto. Perché, dal suo punto di vista, quei secondi, minuti ed ore non stavano scorrendo e né tanto meno lui stava scorrendo con loro. No, li stava lasciando andare. Era come osservare le onde del mare in cui prima si stava nuotando. Lui ne era fuori e ne stava volontariamente rimanendo fuori. Da qualche parte nello spazio e nel tempo, qualcuna lo stava aspettando. Era ferma,
immobile, non stava vivendo. Come in stasi, attendeva che lui prendesse una decisione. Che razza di egoista poteva mai comportarsi così? Lasciare che non solo la propria ma anche l'altrui vita si fermasse? Fu questo il pensiero che, mentre un solitario lampo scuoteva i cieli scuri di Oridea VI, attraversò la mente di Andrea. L'egoismo insito nel suo volere a tutti i costi rimandare l'inevitabile scelta era proprio che, nella realtà, stava fermando la vita di lei e non lo meritava. Aveva così tanta paura di scegliere e di prendere in mano il suo destino? Era così codardo? Un senso di non lieta disperazione prese piede nel cuore di Andrea. Il ragazzo non riuscì a trovare, in quel momento, una risposta a quella domanda che lo continuava ad attanagliare senza sosta. Dopotutto, come poteva trovarla. Era così in vista la risposta, solo che non voleva coglierla. Nessuno, su quel Treno, voleva coglierla, o non sarebbero mai dovuti salire a bordo e forse non sarebbe mai stato necessario che venisse creato. Il Costruttore aveva compreso qual'era la risposta ed avrebbe tanto voluto donarla al suo unico grande amico. Ma alcune volte donare può non essere facile e ci sono cose che possono essere capite solo se vengono colte autonomamente, in solitudine, con le proprie mani. Riceverle non le darebbe il giusto senso. Il Costruttore lo sapeva, o almeno sperava che così fosse. Sperava che, un esempio dopo l'altro, avrebbero lentamente spinto quell'anima solitario del Fondatore sulla via che tutti coloro che lo amavano speravano prendesse. E il ragazzo dagli occhi spenti dall'alcool e dalla mancanza di vita, gettato nell'ultima carrozza, disteso su un letto a due piazze troppo grande per un un'unica persona, era forse quello che sperava di più. Quando i freni del Treno cominciarono a ronzare, tutti i eggeri erano in trepidazione, almeno i eggeri che si stavano interessando un minimo a quello che succedeva al di fuori dei finestroni di vetro spesso. Andrea si scosse dai suoi pensieri osservando ora il paesaggio che era diventata ora una distesa di metallo fuso e di fiamme che divampavano senza fine. Il Treno doveva essersi diretto verso la zona dello schianto dell'astronave che aveva intravisto tra le alte nubi di Oridea, ma non riusciva a capire come mai. Di certo, e di questo non aveva dubbi, non avrebbero trovato sopravvissuti. Ma evidentemente non era di sopravvissuti che il Treno era affamato. I sopravvissuti erano di certo una categoria di persone che il Sistema non cercava. Sopravvivere voleva dire aver provato a lottare ed aver vinto, o perso. In qualunque caso, voleva dire anche aver preso una scelta. Ed il Treno si cibava dei dubbi. Il cielo era ancora scuro, percorso da grandi nubi grigiastre che avrebbero preannunciato pioggia se fosse stata la Terra. Lì, lontano dai cieli così familiari per lui, non sapeva cosa mai potevano suggerire. Mise le mani in tasca, appoggiandosi con la spalla destra al
vetro ed osservando il paesaggio al di fuori, attendendo di notare qualcosa che non fosse un detrito o una roccia. Quando il Treno si fermò definitivamente Andrea rimase deluso nel non notare nulla di straordinario. Scese dal mezzo appena le porte si sbloccarono. La prima cosa che gli venne in mente era un cimitero, in cui i detriti facevano da lapidi. Vi era, nell'aria, un odore di sangue bruciato, un puzzo di morte quasi insostenibile. Si fece forza, cominciando a camminare tra i detriti e la polvere, tutto ciò che rimaneva di quella che prima doveva essere stata una grande nave, vista la quantità di pezzi sparpagliati. SI avvicinò ad una lastra di metallo più grande, ancora fumante. Si abbassò, dandole un lieve colpo con la gamba perché si rovesciasse. A lettere, piccole, non molto grandi, c'erano scritti dei numeri e un nome: Supernova. Nulla di più, nulla di meno. Osservò quel singolo frammento per qualche secondo, prima di rimettersi in piedi, osservando l'enorme disastro senza riuscire a capire perché mai il Treno si fosse fermato proprio lì. Si voltò, osservando il Treno, straordinariamente ancora avvolto alla coda dalla nebbiolina che aveva già avuto modo di osservare. Un impeto di curiosità prese piede nel suo corpo, spingendolo a muoversi proprio verso quella coda quando un rumore lo fece sobbalzare. Un fischio, o almeno qualcosa di simile, gli sibilò vicino l'orecchio destro e colpì una roccia. Si voltò, come a cercare chi fosse la fonte di quell'improvviso suono. Ma non vide nulla. Osservò stupito ciò che lo circondava, senza trovare nulla che giustificasse quel sibilo improvviso. Ma non trovò nulla. Il vento continuava il suo lento percorso attraverso i detriti, alimentando le fiammelle che scaturivano da questo o quel pezzo buttato tra la fine ghiaia e la polvere dell'alieno mondo. Fece per rimettersi in marcia, quando ne sentì un secondo, uguale. Questa volta era poco distante da lui, come se fosse stato lanciato da un qualche punto non troppo lontano. Si incamminò con fare rapido. Sentì un terzo sibilo e un tonfo, secco. Come un corpo che cadeva a terra. Andrea si appoggiò ad un grosso rottame di metallo, sporgendosi ed osservando quella che sembrava un'arena improvvisata. Un corpo a terra c'era effettivamente e sembrava appartenere ad un soldato. Davanti lui c'era un altro umanoide, il viso coperto da un casco integrale, la divisa del tutto nera, un'armatura che mai Andrea aveva visto. L'essere ancora in piedi portò le mani alla testa, togliendosi il copricapo e lasciandolo cadere a terra. Adagiato a terra c'era ora anche quel casco bagnato dalle lacrime che Andrea riusciva a scorgere sul viso di un ragazzo che, probabilmente, non aveva avuto più di venti anni. Piangeva, semplicemente piangeva. Non emetteva altro suono, non si muoveva, il fucile appeso al fianco, un paio di bruciature sul braccio destro. Il corpo era steso a terra, immobile. Chi c'era dietro il casco azzurro della seconda tuta? E perché mai stava piangendo se, da quel che sembrava, l'assassino era lui? Andrea rimase
fermo ad osservare la scena. Il vento portava con se ancora quello sgradevole odore di bruciato, ora misto al sangue fresco che lentamente fuoriuscì dai fori presenti sul petto del cadavere. Andrea osservò attento la figura del ragazzo piangente. Sentiva un vago timore osservandolo, qualcosa che aveva a che fare con una spontanea paura. Non gli era mai capitato di provarla, così, senza una vera ragione. Quel ragazzo gli faceva paura. Era forse lo strano accostamento lacrime-omicidio a provocargli quella sensazione di disagio interiore, o forse era tutto l'insieme di detriti, morte e soldato che gli dava un'aura non maligna, ma decisamente non rassicurante. Cosa si celava dietro quella morte? L'italiano provò a calmare il suo respiro stranamente accelerato, tornando dietro il detrito metallico, al coperto, o almeno così sperava. Si guardò intorno, studiando il tragitto migliore per allontanarsi senza farsi vedere. Era meglio evitare, lo sentiva, di conoscere qualcuno di nuovo in quel posto. SI allontanò, o almeno cominciò ad allontanarsi, quando sentì dei i avvicinarsi. Regolari, lenti e cadenti. Precisi i che si facevano via via più vicini. Andrea si nascose un'altra volta, sporgendosi il tempo necessario per notare il Costruttore procedere a lenti i verso la piccola arena. Avrebbe voluto fermarlo, ma aprire bocca in quel momento sarebbe voluto significare certamente l'essere scoperto dal misterioso soldato. Perché stava andando da quella parte? Sapeva quello che si trovava lì? Il Costruttore era come al solito vestito in perfetto stile ottocento, elegante ed impeccabile, un'aria a metà tra la triste e la determinata sul viso, il bastone con la punta di cristallo stretto nella mano sinistra. Andrea alzò gli occhi verso quella che era una scena a dir poco strabiliante. Un uomo, vestito come non se ne vedevano da secoli, dinanzi un soldato di un remoto futuro, vicino un cadavere, circondati dal relitto bruciante di una nave senza nome, persi in un mondo lontano anni luce da qualsiasi traccia di civiltà. Era sicuramente una scena rara. « Salve » esordì semplicemente il Costruttore, spostando gli occhi sul cadavere e sulle lacrime del soldato che ora impugnava la sua arma, sul suo viso un'espressione di stupore « E tu chi diavolo sei? » « Nessuno che tu debba considerare un nemico » fece un vago gesto, indicando il fucile, senza tradire nessuna emozione « Sono solo un viaggiatore, disarmato. Nulla di più, nulla di meno »
« E ti dovrei anche credere? » il soldato parve sprezzante. Scomparse le lacrime, negli occhi s'era accesa una fiera determinazione che raramente Andrea aveva visto sul viso di qualcuno « Chi sei? E da dove vieni? » « Non serve che io risponda a queste domande » il Costruttore fece girare il pollice sul diamante del bastone, un gesto quasi invisibile, ma una lieve onda azzurro scaturì da quel singolo atto. Il militare premette il grilletto del fucile, reattivo ad ogni provocazione, ma non successe nulla « Ho bloccato le armi, per sicurezza. Non ci tengo a morire accidentalmente » il soldato non rispose, estraendo un coltello in fine titanio, lanciandosi contro il Costruttore. Il gigante in armatura contro il fine ragazzo sempre elegante. Andrea fece per gridare attenzione, ma il suo coetaneo del futuro si limitò a sorridere. Senza scomporsi scansò il primo fendente, abbassandosi con velocità sovrumana e colpendo con un preciso colpo di bastone la gamba destra del soldato. Senza attendere ancora lo colpì con un calcio all'altra gamba, lasciando ruzzolare a terra il militare, impreparato a tale reazione « Non voglio fare del male a te e non voglio subirne, Tamerlan » riprese il ragazzo « Sono qui per invitarti » « Invitarmi? Ma cosa diavolo stai dicendo? » la voce dello sconosciuto detto Tamerlan era incrinata dalla rabbia « Invitarti, si. Invitarti ad un lungo viaggio, che certamente tu, più di altri, apprezzerai. D'altronde, per un uomo nella tua posizione, quale premio migliore se non, finalmente, la fuga! » « Io non fuggo mai » rabbioso il soldato si lanciò, per l'ennesima volta, in una carica. Provò a sorprendere con un paio di finte il Costruttore, che senza scomporsi, lo mandò a tappeto « Non hai speranze di battermi, rinuncia a questo fin da ora. Sono qui non per umiliarti in un combattimento ineguale, ma a portarti un invito che so ti è necessario. Ti guardo negli occhi e vedo una luce non unica, ma che si diffonde sul viso di centinaia di persone, in centinaia di mondi, in centinaia di eoni. Vedo la luce della semplice, banale, disperazione » il Costruttore voltò lo sguardo verso il cadavere « Chi era? » « Non è affare tuo »
« Lo è … sono qui per offriti una chance di salvezza, Tamerlan. Non voglio ucciderti, non voglio picchiarti, umiliarti, ferirti o prendermi gioco di te. Sono qui perché così è dovuto essere, e doveva essere proprio dopo la morte di … lei o lui? » il soldato non rispose, alzandosi in piedi e riponendo il suo coltello « Io non ho bisogno di nessuno, di nessun aiuto e di nessun viaggio miracoloso. Non è la luce della disperazione che vedi nei miei occhi, non è la luce che ti vanti di aver visto nei visi di centinaia di persone. Il fatto che tu non la riconosca mi fa capire che non hai nulla da offrirmi » « Ed allora che luce sarebbe? » « Nessuna luce. Non c'è luce nei miei occhi, ragazzino » il soldato si chinò, riprendendo il suo casco « Sono stato portato qui per uno scopo e quello scopo sei tu, Tamerlan. Io ti offro la possibilità di rimandare la scelta che devi compiere » « Quale scelta? Io l'ho compiuta la mia scelta » il soldato si voltò « Non so chi tu sia, ma forse sei in ritardo » un sorriso triste si distese sul viso del militare « Sei in ritardo di trenta minuti. Se fossi arrivato prima, chissà, forse avrei accettato la tua offerta » Andrea continuò ad osservare dal suo riparo lo scambio di battute. Quel militare, chiunque egli fosse, non sarebbe salito sul Treno, se lo sentiva. Ma come era stato possibile che il Treno avesse sbagliato soggetto? Non succedeva mai, da quello che aveva capito. Chiunque scegliesse era predisposto, dagli eventi e dalla psiche, ad accettare la venuta di quel miracoloso veicolo. Eppure, quel soldato, quel fiero militare, aveva rifiutato, aveva parlato di un ritardo. Era possibile, per un Treno che viaggiava nel Tempo, essere in ritardo? Il soldato si allontanò, inseguito dal Costruttore. Andrea avrebbe voluto seguirli ma qualcosa gli suggerì che era meglio evitare. Quella medesima sensazione di panico che l'aveva colpito prima era tornata, come un fulmine a ciel sereno. E senza pensarci due volte, Andrea si voltò e si diresse, di corsa, verso l'unico porto sicuro che sapeva di avere, il Treno. Quando mise piede nel suo alloggio si sentì finalmente al sicuro, libero da quell'oppressivo senso di panico che lo aveva condizionato fin da quando aveva visto Tamerlan. Era quella la paura pura? Qualcosa di più che semplice timore di qualcuno, seppur per nulla conosciuto. Andrea si buttò sul suo letto quasi con un secco gesto tonfo. Il silenzio divenne lentamente l'unico compagno, per
l'ennesima volta, di Andrea. Era stanco, il ragazzo, di quella sequela di fatti che terminavano, inesorabilmente, con lui buttato sul letto a fissare il soffitto o nella carrozza adiacente, su una poltrona di comoda pelle, a fissare il paesaggio. Voleva fare qualcosa di più, qualunque cosa. Non riusciva a capire cosa glielo impedisse, nella realtà. E, dentro di sé, sapeva che tutto sarebbe rimasto immutato se lui non avesse deciso una qualsiasi cosa. Ironicamente, quel Treno pieno di prospettive e possibilità era una macchina della noia, una trappola per intelletti ed azioni che non aveva ragione d'esistere se non per le persone come Andrea. Perché le persone come lui sapevano che agire voleva dire terminare di rimandare e prendere la scelta che non volevano prendere. Ed era così difficile, ad Andrea si stringeva il cuore al solo pensiero di quel terribile atto che avrebbe dovuto compiere. E non ne aveva il benché minimo coraggio perché sapeva di essere solo un codardo. Doveva affrontare una delle scelte più complesse della sua vita e sapeva di essere solo un codardo, un dannato codardo senza spina dorsale, senza il coraggio di prendere il vero e giusto treno che lo avrebbe condotto fino alla città persa tra le verdi colline e l'azzurro di in cielo sereno, vicino le porte bianche di quell'ospedale che ospitava lei. Doveva aprire la maniglia, con delicatezza, con un mazzo di rose, aprire la bocca, osservarla, e poi chiuderla, dicendo ciò che si sentiva di dire. Ma non ne aveva il coraggio. Il suo intelletto superiore, come amava considerarlo, gli aveva mostrato un'infinità di vie che, al più, conducevano lungo una strada fatta di sofferenza e cinte da dolore ed angoscia sterminate. E le prospettive che tutto andasse per il meglio terminavano la loro vita sotto le macerie create dalla paura. E lui ne aveva tanta, di paura. Così tanta che non poteva nemmeno osare alzare gli occhi al di fuori di quel Treno ed osservare quello che sarebbe potuto succedere, perché la sola vista gli faceva crollare ogni convinzione ed ogni volontà. Era un codardo, in tutto e per tutto. E sapeva che, se avesse potuto, avrebbe rimandato per sempre quella scelta, a costo di morire nel dubbio. Perché, nonostante tutte le belle parole che amava spendere con gli amici, in quel frangente, in quel singolo frangente, ogni premessa d'onore e coraggio crollava dinanzi la realtà. Almeno, pensò, non sono solo. Era l'unico pensiero rincuorante di tutta quella strana storia. Lui non era solo. Doveva esserne confortato, almeno in parte? L'italiano non si sentiva solo. Sapeva che, come lui, altre persone, un numero imprecisato, affrontavano il medesimo pensiero su quel Treno quasi maledetto, bloccate come lui dinanzi una scelta ed incapaci di fare qualsiasi cosa, di imboccare questa o quella via. Erano un gregge senza pastore. Si sentiva come la pecora di un branco fermo ed immobile al buio di una notte senza stelle e luna, senza guardia o cancello a difenderli dai presunti lupi che li circondavano. Ogni tanto una pecora imboccava la via che pensava portasse all'ovile, ma ciò la salvava o la uccideva?
C'era una verità inammissibile per Andrea in quel discorso, ma non riusciva ancora a coglierla. Anzi, ce n'erano più di una. La metafora del gregge era forse la metafora veramente più sensata e completa per descrivere come i viaggiatori del Treno si comportavano. Che lo ammettessero o meno, erano proprio come pecore smarrite, circondate da altre pecore ma incapaci di prendersi carico di una responsabilità, di farsi forza l'un l'altro, di sfruttare qualcosa per ottenere una situazione diversa. La paura, la codardia, la volontà di non prendersi responsabilità, tutto questo impediva loro di uscire dal buio in cui si trovavano, costringendosi a rimanere in un perenne stato di minorità rispetto a chi, tentennamento dopo tentennamento, decideva di riprendere in mano la propria vita. Andrea provava un sincero senso di rispetto per coloro che erano riusciti ad andarsene. La cantante che aveva avuto il coraggio di ricominciare, il Vecchio che aveva avuto il coraggio di farla finita. Ci voleva coraggio per un atto così pieno di disperazione ma anche di volontà di non restare schiavo di una volontà che non aveva la forza né di andare indietro né di andare avanti. E quale sensazione peggiore se non il perdersi in un Limbo di grigiume? Nessun eggero l'avrebbe certamente ammesso, ma non erano altro che in un Limbo, un Limbo in cui si stavano irrimediabilmente perdendo. Perché, Andrea ancora non poteva accorgersene, più il tempo ava più le sensazioni si facevano fievoli, deboli. Piano piano tutto perdeva colore, il cibo perdeva il suo sapore, il vino il suo odore. Le ioni diventavano puri sfoghi, le azioni routine e tutto diventava privo di un vero senso. Tutto diventava in virtù del mantenimento di uno status quo, destinato a non infrangersi mai. Ci si perdeva nel lusso e nell'ozio, nel voler ad ogni costo dimenticare quanto si abbandonava e chi si abbandonava. Andrea non era ancora a quel disperato punto, per sua fortuna. Perso, oramai, tra i suoi pensieri, Andrea non si accorse della notte che era di nuovo giunta, questa volta senza nubi. Due lune, le stelle sconosciute ed un arido paesaggio costellato di detriti non più fumanti era quanto effettivamente i eggeri del Treno potevano gustare dai finestroni. Ma a questo Andrea non fece caso. Disteso ancora sul letto, senza cognizione di tempo, perso nei meandri dei ricordi che ancora, come marchi indelebili, gli si presentavano, quasi un invito a non abbandonare tutto, stava cominciando ad apprezzare l'effetto quasi medico che quei ricordi avevano su di lui. Il ricordo di anni migliori, di giorni più felici ed emozioni positive quasi gli riempivano il cuore, impedendogli, per pochi fatidici istanti, di pensare a quanto, nel suo tempo, nel preciso istante della sua partenza, lo attendeva come un lupo affamato all'ingresso di una grotta. Certamente però c'era, nei ricordi, un invito non tanto implicito, un invito alla lotta per quei giorni migliori, per farli tornare dopo le aride difficoltà. Perché, in fondo, i ricordi non sono solo un luogo in cui perdersi, camminando come tra alti
fili d'erba e cullandosi di ciò che è andato. Ma sono un invito, a rialzarsi dai campi di rose e margherite e dirigersi verso nuovi lidi, nascosti sicuramente da scogliere sempre più appuntite, frastagliate da onde che sbattono con forza sul duro granito, ma che riservano nuove e più calde sensazioni, specie se non affrontati da soli. L'uomo non vive per essere solo. Quando ci prova, mente a se stesso, si culla nella solitudine per evitare di soffrire, una sofferenza spietata che spinge a chiudersi come ricci, ma che elimina dalla vita ciò che più grande c'è nel mondo. Le ore arono. I sogni ad occhi aperti, misti a ricordi e sensazioni irreali, continuarono a volare davanti Andrea come un film. Eppure il ragazzo non sentiva il benché minimo bisogno di alzarsi dal letto. Nessun bisogno materiale lo avrebbe levato da quella comoda postazione per osservare di nuovo le sue azioni e la sua vita, le vie che non aveva ancora preso e quelle che avrebbe potuto percorrere, le persone con cui aveva camminato e quelle con cui doveva ancora correre. Era il film migliore, quello in cui i fotogrammi erano le possibilità prese, le perdute, le mancante e soprattutto le più importanti, quelle colte. Perché tra ciò che non esisteva sempre si potevano trovare le scene che invece si erano realizzate, quelle di cui andare fieri, in ogni caso. Perché ogni tormento e piacere, ogni cosa bella e brutta, ogni singola azione e sensazioni compiuta e provata erano i colori che componevano il grandioso disegno della vita. Andrea preferiva rivedere quel film piuttosto che alzare gli occhi e fissare fuori le finestre, gustandosi la vista del notturno di un mondo alieno che, fino a quel momento, aveva riservato ben poche sorprese per l'italiano. Come primo viaggio fuori dalla Terra, era stato infruttuoso e ben poco piacevole. Tutto il film che poteva gustare terminava però con una semplice domanda: e da quel momento in poi? Che si doveva fare? Si restava ad osservare, ad attendere pazienti la prossima tappa senza fare nulla? Andrea non lo sapeva. In quel momento gli bastava stare fermo sul letto ad osservare la sua immaginazione correre su binari che raramente aveva modo e voglia di percorrere. La sua mente non conosceva pace. Voleva continuare ad esplorare ogni possibilità, ogni singola possibilità colta e perduta e si beava di quei magici reami che creava, istantaneamente, davanti se. Ad ogni sbattere di ciglia nuovi visi, nuove persone, nuove creazioni, si manifestavano. Ogni volta che chiudeva gli occhi qualcosa cambiava, prendeva una nuova scelta. Per un momento, per un singolo istante, immaginò come poteva essere vivere con il potere di cambiare, quando si voleva, ogni singola decisione della propria vita. Sarebbe stato sicuramente interessante, infinito quasi. Si affrontano uno sconfinato numero di scelte nella vita. Poterle cambiare, chissà, si ritrovò a pensare che probabilmente non
sarebbe finito su quel Treno, avrebbe impedito tutto ciò che lo aveva portato a quel punto. Ma quanto avrebbe perso del suo Io e quando vi avrebbe guadagnato il suo Spirito? Fu un attimo, il pensiero sparì come era comparso e mentre Oridea si cullava nella notte Andrea si perdeva nei suoi sogni, infiniti e sconfinati campi di azioni e sensazioni che non avrebbe mai provato. Si era perso dentro quella vasta distesa di immagini ed illusioni, perso e se avesse potuto chissà se sarebbe mai tornato indietro. Dopotutto, cosa c'era per lui indietro? E cosa c'era per chiunque su quel Treno? Un viaggio senza fine, una battaglia che non volevano combattere, scelte e difficoltà. Quanto, invece, poteva essere più piacevole restare persi nella propria immaginazione? Vi sarebbe rimasto ancora a lungo, nonostante fossero anche ate ore da quando si era disteso su quel letto. Lentamente, placido e lento, il suo corpo si risvegliò dal torpore in cui era caduto e cominciò a ricordargli che aveva una lunga serie di bisogno da soddisfare. Controvoglia si alzò ma, quando si accorse che uno dei bisogni da colmare era il mangiare, gli venne un nuovo attacco di panico. Perché? Si ritrovò a pensare Andrea, non si spiegava quell'improvvisa paura che una semplice porta di legno con una maniglia dorata decorata poteva creare nel suo cuore. Doveva solo uscire, andare al vagone ristorante, mangiare qualsiasi cosa ci fosse a quell'ora e tornare a letto. Non era poi così difficile. Eppure, nell'italiano, qualcosa, come un sesto senso, si era attivato e gli aveva creato nella mente una sensazione di panico incontrollabile che lo bloccava nel suo alloggio, sulla soglia del bagno, i capelli bagnati dalla doccia appena compiuta e un asciugamano a coprirli per metà. Non riusciva a spiegarsi quell'improvviso senso di paura, quasi di angoscioso terrore di ciò che poteva esserci al di fuori, nei tetri e per lo più vuoti corridoi del Treno. Fondamentalmente non aveva nessun motivo per provare paura. Era stato fuori, non c'era nulla che avrebbe potuto ferirlo, al di là della noia e dell'apatia che coglievano chiunque a bordo. Eppure, al di fuori di quello, non c'era veramente nulla che potesse farlo male. Andrea si asciugò i capelli, vestendosi e preparandosi per andare a cena, ma di nuovo, posta la mano sulla maniglia, si bloccò. Qualcosa continuava a tenerlo a freno. Spostò lo sguardo prima sul paesaggio notturno, poi sul letto, che in lui provocava strane memorie e sembrava richiamarlo come un totem richiama a se i credenti. Era una strana sensazione, che contrastava con il crescente senso di fame che stava provando. Come due forze che andavano in direzioni opposte, fame e paura combattevano per dominare le prossime azioni di Andrea, senza che il ragazzo riuscisse minimamente a capire perché. Comprendeva la fame ma non la paura. Di cosa, istintivamente, senza nessun accenno di qualcosa che potesse provocarla, aveva
paura? Si fece forza, concentrandosi su quella fame che lentamente prendeva sempre più piede ed attraversò la porta. Si guardò intorno scattando, con movimenti secchi della testa. Non c'era nessuno, il Treno era immobile ed il corridoio antistante la porta di legno della sua cuccetta vuoto, privo di ogni forma di vita. Sul muro un quadro solitario appeso ad un chiodo metallico si affacciava insieme agli occhi di Andrea sul nulla più totale. Fuori dalle piccole finestre semicoperte da drappi verdi la superficie di Oridea continuava a restare placida ed immobile, non più scossa neanche dalle fiamme dei detriti. Era pacifica, stranamente cheta. Andrea si voltò verso la solita carrozza ristorante, muovendosi a i molto più corti del normale. La sensazione di panico era ancora annidata dentro il suo cuore e doveva farci i conti ad ogni movimento. Ogni singolo movimento del suo corpo veniva condizionato da quell'irrazionale terrore del nulla. Andrea attraversò i vuoti vagoni fino a giungere al ristorante. Era privo di vita anche quello, eccezion fatta per i soliti impeccabili camerieri. Senza curarsi neanche di loro prese posto non lontano dal bar e dalle porte che dovevano portare al ristorante, attendendo con calma che lo servissero. Non sapeva se era ora di pranzo, cena o colazione, non sapeva cosa aspettarsi sul piatto, non sapeva neanche se avrebbe veramente mangiato. Emise un vago gemito al crescere del cieco terrore. Qualcosa gli stava mettendo paura, gli creava ansia e lui non riusciva a capire perché. Si voltò verso la porta da cui era entrato, la porta che dava sull'ennesimo corridoio, sulla biblioteca verde e silenziosa e sulla sua cuccetta, la calma e pacifica cuccetta, il suo unico riparo. Il pensiero di quel letto tranquillo dove gettarsi e sognare ancora un po' gli portò quasi un senso di serenità che non si aspettava. Il pensiero del comodo giaciglio, al sicuro da ogni problema, da ogni paura, da ogni possibile avversità gli imperversò nella mente come un calmante, quasi spingendolo ad alzarsi. Ma la comparsa di un piatto lo trattenne al tavolo. Uova e pancetta, la più classica delle inglesi colazioni che non erano proprio nel suo stile ma che erano più che mai gradite dal giovane italiano. Cominciò a mangiare, solo, nella carrozza vuota, scossa dai venti lenti del pianeta che non facevano che un vago rumore nel silenzio nero e profondo. Andrea mangiò con calma, gustandosi ogni boccone, come se non avesse messo mano al cibo da chissà quanti giorni o più. In effetti non lo sapeva neanche lui, non riusciva più ad avere la benché minima concezione del tempo a bordo di quel Treno. SI, poteva guardare sorgere e cadere lune e soli, ma non poteva sapere se era perché, realmente, il Treno aveva percorso un tragitto durante il quale il tempo era ato o perché il Treno aveva traato i confini del tempo ed era andato avanti o indietro a suo piacimento. La sensazione di vaghezza che quella condizione gli dava creava un senso di nausea nella mente di Andrea, ma lo scacciò con un generoso sorso di succo
all'arancia. Di sicuro il Treno era pieno di comodità. Osservò per qualche istante la tavola imbandita, prima di prendere la secca decisione di tornare nel suo alloggio, al sicuro da nausee e paure. Prima ancora di voltarsi la voce di Veronica lo fece giusto voltare « Ciao Andrea » la ragazza sembrava tranquilla, serena. Vestiva jeans e maglietta, una mezza coda per tenere i lunghi e voluttuosi capelli a bada, quantomeno ordinati. Prese posto senza chiedere davanti a lui e l'italiano non protestò « Ciao Veronica » si limitò a rispondere tranquillo. « E' da un po' che non ti vedevo in giro. Che fine avevi fatto? » chiese lei facendo un vago gentile cenno di saluto ai camerieri, tra cui uno che sembrava conoscere « Sono stato in giro ed in alloggio … sai, un pianeta alieno, era interessante » « Era? » « Non c'è nulla di che li fuori » fece spallucce, accompagnando il gesto del corpo con uno delle mani, prendendo la forchetta ed attaccando un pezzo solitario di pancetta nel suo piatto di fine ceramica « Beh, un peccato. Chissà perché siamo qui » rispose ancora lei, dubbiosa, osservando prima il paesaggio non terrestre e poi il piatto che gli veniva fatto comparire con magistrale abilità dinanzi gli occhi. Andrea fece per aprire bocche ma un vago senso di disagio lo spinse a restare in silenzio. Restarono zitti, entrambi, per qualche istante. Il ragazzo spostò ogni tanto lo sguardo su lei che mangiava, senza avere curiosità di quell'atto così umano, quanto di lei in sé. Avevano parlato più e più volte, avevano assistito alla morte del Vecchio assieme, avevano una sorta di minimo legame, come ospiti di quel Treno. Un legame che loro non poteva ovviamente comprendere. Ma in Andrea si accese, comunque, la spia della curiosità. Il suo istinto che gli suggeriva di aprire bocca per fare l'unica domanda che ancora non le aveva posto, non direttamente « Perché sei a bordo? » lei alzò gli occhi blu mare, osservando, quasi sfidando, lo sguardo di Andrea « Potrei farti la stessa domanda » rispose
« Lo so, ma ora l'ho fatta io a te. Perché sei su questo Treno, da dove vieni? » « Da dove vengo? Tu mi hai visto salire su questo Treno, sai da dove vengo » « Ti ho visto in una stazione, vero, ti ho visto salire con me. Ma io non so chi tu sia né perché tu fossi lì » « Vuoi davvero saperlo? » Andrea fece un gesto secco con il capo « Sono un assassina e venivo dal luogo del mio omicidio » Andrea strabuzzò leggermente gli occhi, ma non li distolse « Ho ucciso, anche se non volevo farlo. Come avrei potuto? Chi avrebbe mai voluto uccidere una persona che amava? » « Chi hai ucciso? » « Ho ucciso il mio fidanzato. Lui è morto perché io sono stata troppo stupida, libera ed ingorda per fare come lui aveva detto » « Cosa è successo? » Andrea prese il bicchiere con il succo alle mele, osservando il viso di lei farsi vacuo, perso nei ricordi « Eravamo in un paesino non distante dalla città. C'era una fiera, c'era il vento, pioveva, gli alberi si muovevano, tetri segnali di tempesta. Ma io volevo andare in quel paesino. Volevo andarci perché lì c'era una persona » gli occhi di Veronica si riempirono d'ombra « Io avevo tradito la persona che amavo ed ora volevo andare in quel paesino perché volevo vedere colui con il quale l'avevo tradito. Lui non lo sapeva, lui non sapeva nulla. Lui mi amava alla follia ed io lo amavo semplicemente, ma non riuscivo a capire se era giusto legarmi, per sempre, a lui. E lo avevo tradito, e per quel tradimento volevo andare in quel paesino. Non guardavo gli alberi, non guardavo le luci dell'auto che oramai non illuminavano a più di due metri da noi. Lui sembrava calmo, ma sapevo che era teso. La strada, piena di buche … il vento ed infine, uno schianto. Era un incrocio, chi metterebbe un incrocio su una via che va a ridosso di un ripido monte? Eppure c'era un incrocio e c'è stato uno schianto. Siamo finiti giù, giù vicino un fiume piccolo e stretto. E lui è morto. Senza urlare, senza dolore. E' morto, morto perché io ero troppo libera, lui troppo innamorato » Andrea alzò lo sguardo verso Veronica. Non c'erano lacrime sul suo viso. Aveva sentito la storia ma c'era qualcosa che non quadrava « Non saresti finita qui » disse, semplicemente « No, non può essere per questo
motivo. Cosa eri andata a fare nella stazione » « Volevo prendere un Treno, ma non prenderlo per andare chissà dove. Volevo andare davanti la sua tomba, chiedergli scusa e poi raggiungerlo. Io l'amavo, capisci? L'amavo ed ho lasciato che la mia indole me lo portasse via. L'ho strappato dalla vita come un erbaccia, ma l'unica erbaccia ero io » « Volevi suicidarti … ma non eri così sicura, o non saresti salita a bordo » lei non rispose. Nessuno dei due mangiava o beveva più, un ghiacciato silenzio scese sulla carrozza “Visconti” « Non mi dici le solite frasi? » chiese Veronica, accennando ad un vago sorriso « Niente “Non è colpa tua”? » « Da come hai descritto i fatti, lo è » rispose caustico Andrea, spegnendo il sorriso di lei. Il ragazzo portò lo sguardo fuori dai finestrini del vagone « E' colpa tua, e dovrai conviverci, a lungo o forse a breve » « Approvi il mio gesto? » « No, sarebbe uno spreco » accennò adesso Andrea ad un sorriso, osservando dall'altro capo del rotondo tavolino « Sarebbe lo spreco di un'altra vita per lo stesso errore. Non credo sia la cosa giusta » « Riusciresti a conviverci, tu? » « Non lo so, o non sarei a bordo » Veronica lo osservò freddamente per qualche istante. Nei loro sguardi c'era una luce simile, una luce che non avrebbe mai dovuto toccare visi così giovani « Hai anche tu ucciso qualcuno? » « No, ma potrei farlo » l'italiano accarezzò con calma la tovaglia, come fosse un animale « Potrei farlo. Potrei scendere ed ucciderla dentro. Potrei, o potrei uccidermi lungo le sofferenze e guardarla morire, o forse vivere. Chi lo sa » « Siamo entrambi in bilico come equilibristi sopra un mare di fuoco. Potremmo avanzare, ancora un po', un o alla volta, sperando che la corda non sia meno spessa. O potremmo buttarci e toglierci quest'ansia di dosso adesso. E la cosa, ammetto, non è male. Come si può convivere con questo? »
« Il Vecchio vi ha convissuto per anni, e forse decenni » rispose Andrea « Qualsiasi cosa fosse, era simile a noi. Veniva solo da un altro tempo. Chissà perché così vecchio è salito a bordo. Ha perso giusto alla fine » c'era una nota di malinconia nella voce di Andrea, una nota di malinconia accompagnata da un tono sommesso di speranza « Forse è bene che il Treno sia arrivato a noi così presto. Potremmo ancora vincere » « O forse potremmo non scendere » propose lei, speranzosa « Viaggiare per sempre, lontano da tutti, dai loro sguardi d'odio, dalla finta pietà, dalla finta apprensione. Viaggiare, dove nessuno ci conosce e morire, tra cent'anni, sereni in un letto ancora in movimento » Andrea osservò Veronica, sul viso di lei i segni di una strana euforia quasi aliena, che il ragazzo non riusciva a far sua « O forse dovremmo scendere ed affrontare la vita » sospirò infine lui « Forse tutto questo è fin troppo facile e bello. Forse, semplicemente, dovremmo riprendere un po' di coraggio ed andarcene di qui » Andrea alzò lo sguardo verso la carrozza “Visconti”, il suo soffitto finemente decorato, le tende di seta delicata, i tavoli con piatti di ceramica e posate d'argento « Forse, tutto questo, è solo l'invito ad andarcene, senza più affrontare il problema. Ma anche andarsene, in fondo, non è una scelta? Non stiamo scegliendo semplicemente di percorrere la terza via? » Veronica non rispose « Stiamo scegliendo, senza volerlo, la via della codardia. Fuggiamo al problema, alle situazioni strane, nemiche, ostili. Fuggiamo perché siamo deboli, senza forze e senza speranza. Abbiamo commesso una colpa solo salendo qui, lo dovevamo capire fin da subito. Abbiamo commesso la capitale colpa di non andare avanti e questo non è … giusto » « Come fai a dirlo? Questa è la nostra occasione » il tono di lei si alzò « È la nostra occasione di farla finita, di prendere ed andare. Perché dovremmo sprecarla? » « Tu non hai torto » ammise Andrea « Ma è una strada che io non posso e non voglio percorrere. Se io ora me ne andassi, quanti ne soffrirebbero? Quanti perderebbero momenti felici e lei, che fine farebbe? No. Io non posso andarmene. Io non posso continuare a percorrere queste rotaie, non è per me questo Treno. Io ho ancora molto da fare » « Dovrai andare, tornare indietro, e soffrire … non ci saranno seconde occasioni, penso » disse Veronica. In lei c'era una punta di ammirazione, di invidia, quasi di
adorazione per quel ragazzo che ora, in piedi, gli sembrava il Titano che aveva appena sconfitto « Forse. Forse soffrirò, forse piangerò vicino una lapide di marmo, piangerò fino a morire dentro. E forse, dopo la tempesta, ci sarà un sole più giallo, una mattinata più azzurra ed un mare più blu. Forse ci saranno le tombe ed i cimiteri, e forse ci saranno anche gli sguardi complici vicino le bianche scogliere. Chi siamo noi per negarci entrambe le possibilità? » Andrea si voltò verso l'uscita, tese la mano verso la maniglia e si voltò, per l'ultima volta, verso Veronica seduta ad un tavolo, mentre lo fissava « Addio, spero che un giorno ci rincontreremo »
Quando Andrea uscì dalla carrozza “Visconti” aveva oramai, dentro di se, l'idea fissa che era ora, per lui, di tornare a casa. Ma decise, per l'ultima volta, di fermarsi nella biblioteca “Medici” e dare un'ultima occhiata ai libri che vi erano contenuti. Quando vi entrò non fu sorpreso di non notare seduto nessuno, come lui, preso a leggere o a godersi la musica che, in sottofondo, accompagnava le giornate dentro quel vagone. Si diresse verso il solito posto che prendeva quando si trovava lì, accarezzando la pelle della poltrona prima di sedersi su di essa con un gesto calmo. Si gustò il buio della carrozza, quel buio colorato di un vago verde, donato dai drappi che cingevano tutte le pareti. La musica era sempre leggera, una musica quasi jazz, anni trenta. Avvicinò la mano, allungandosi innaturalmente verso la vicina libreria, sfiorando il legno ed aprendo la pesante anta. C'erano tanti romanzi, racconti e saggi. Prese il primo che gli capitò a mano, curioso. Non c'era titolo, come su quasi tutti i libri che erano lì dentro. Lo prese, sistemandosi di nuovo e cominciando a leggere dall'introduzione. L'autore si scusava per le imprecisioni, per le poche chiarificazioni. Sembrava scusarsi per quasi ogni cosa che potesse essere contenuta nel romanzo. A partire dalla storia stessa. Andrea superò poco dopo la prima pagina, cominciando a leggere quella che doveva essere una storia di un tempo che lui non conosceva. Ma non andò oltre la prima pagina perché fu interrotto dal Costruttore, che entrò con un gesto poco plateale, quasi come se venisse in segreto. La punta della mantellina era leggermente sporca di fango. « Hai corso? » chiese Andrea « Beh, felce di vedere che ogni tanto il Treno si sbaglia »
« Tamerlan non salirà a bordo? » lo sguardo di Andrea era curioso, così come divenne curioso lo sguardo del secondo ragazzo al sapere che Andrea conosceva. Gli bastò la piccola storia per rilassarsi « Si, non salirà. È andato, ha preso la sua nave ed è ripartito. Ripartito per il mondo, per la storia e per le conquiste che lo attendono. Avrà una grande vita » « Perché eravamo qui per lui? Cosa potrebbe volere il Treno da uno come lui? » « Ha affrontato dei … momenti. Dei periodi critici, forse il Treno voleva tentarlo. E ha perso, Tamerlan ha vinto l'ennesima sfida. Non c'era spazio né per l'attesa, né per i ripensamenti » « Sembri quasi adorarlo » « Ha avuto coraggio, coraggio non da soldato » Andrea prese un primo respiro prima di dire « Voglio scendere » il Costruttore si voltò quasi del tutto mentre agiva per svitare il tappo da una bottiglia di brandy « E non qui, sia ovvio. Voglio scendere tra le colline dove mi avete raccolto, come un profugo. Ho smesso di correre » « E vuoi andartene? » « Si, voglio tornare a casa, anzi, in quella stazione. Voglio prendere il regionale ed andare da lei, voglio prendere una decisione » « Se scendi … non si torna indietro » il Costruttore si sistemò u ciuffo di capelli ribelli, slacciandosi il colletto della camicia e riempendo con il brandy due bicchieri. Uno lo porse ad Andrea che accettò con calma « Si, lo so » « E non ti interessa nulla, di tutto questo? » prese posto davanti a lui, osservandolo, quasi speranzoso « Il Treno ti offre … tutto, ti offre l'infinito » « E cosa me ne faccio dell'infinito, se dentro sono vuoto? » Andrea poggiò le labbra sul bicchiere, lasciando che delle gocce di brandy le superassero e cadessero come acido nella sua gola « Non voglio l'infinito, io voglio scegliere e battere i miei demoni. Un viaggio in loro compagnia … non lo sopporterei »
« E quindi vuoi scendere … » « Si, voglio tornare a casa, prendere le mie valige. Fare ciò che è giusto per me ed andare avanti » il Costruttore alzò il bicchiere, porgendolo verso Andrea « Allora brindo a te, Andrea. Hai scelto, e solo per questo meriti molto più che la mia approvazione » i bicchieri si scontrarono per un istante, cristallo contro cristallo, l'eco risuonò per la carrozza prima che entrambi svuotassero i bicchieri « Chi è il Fondatore? » chiese Andrea, ancora una volta. La curiosità continuava a roderlo dentro. « Chi è il Fondatore … beh, è una persona che spero scelga, molto presto, prendendo esempio da voi. Se lo farà, vuol dire che ogni cosa che ho fatto, ogni sacrificio, ogni azione, buona e cattiva … sarà stata ben sfruttata » il Costruttore si alzò, sistemandosi la giacca nera « Il Treno presto ripartirà, è in fase di ricarica delle batterie. Appena avrà finito prenderà la via di casa tua » disse con calma « È stato un piacere averti a bordo, te, la cantante, il Vecchio. Meglio di quanto sperassi » « Finirà mai? » disse Andrea indicando la carrozza mentre il Costruttore prendeva la via del suo alloggio « Spero vivamente di si » una risata fu l'ultima cosa che sentì Andrea del misterioso ragazzo. Quando la porta si chiuse Andrea si accorse di essere rimasto ancora solo, un'altra volta, l'ultima volta, sperava in cuor suo. Gli dispiaceva non aver trovato la risposta a proprio tutti i dubbi che gli erano venuti su quel Treno e su chi lo popolava. Ad amor del vero, non aveva trovato risposta a nulla. Era stato un aggio, lui per il Treno ed il Treno per lui, come un incontro in discoteca, una notte e via. Quella notte non sapeva e forse non avrebbe mai saputo quanto era durata. Non era importante, aveva forse portato però a quel risultato di cui Andrea aveva bisogno. Mai, quanto in quel momento, era stato sicuro ed aveva avuto in sé la volontà di tornare in città e di andare da lei. Non sapeva, non lo avrebbe saputo fino a che non l'avesse vista, cosa le avrebbe detto. E forse non era tanto importante in quel momento. Lui sarebbe andato, questo invece si che era importante. Andrea sarebbe uscito da quel limbo mortale che era il non sapere ed il non voler sapere. Quella volta, avrebbe vinto. Il silenzio, scosso a malapena dalle poche note della canzone di sottofondo, aveva un che di inquietante per Andrea. Rinunciò a leggere lo sconosciuto libro,
preferendo incrociare le mani dietro la nuca mentre si distendeva sulla comoda poltrona, arrivando quasi a fissare l soffitto immacolato della carrozza. Nulla si muoveva, niente. Né fuori né dentro il Treno, tutto era miracolosamente tranquillo. In altre carrozze, esseri umani rosi da dubbi simili a quelli di Andrea erano chiusi nei loro pensieri non immacolati, scossi da idee e strani sogni. Andrea non si sentiva più in comunione con quelle persone. Sapeva di essere diverso, non era più un fuggitivo, era un soldato che si dirigeva al fronte, Niente diserzioni, avrebbe affrontato la sua battaglia come era giusto che fosse. Non avrebbe pensato solo al suo “io”, ma avrebbe pensato anche a ciò che le sue azioni provocavano. Perché, in fondo, solo di questo si ha paura. Si ha paura degli effetti, di ciò che su gli altri si provoca con le azioni sbagliate al momento sbagliato. Tutti avevano sbagliato sul Treno o aveva paura di farlo. Qualcuno aveva il terrore di prendere in mano le conseguenze, qualcuno non le voleva vivere. Il Fondatore a che categoria apparteneva? Si chiedeva l'italiano mentre era disteso comodamente nella carrozza “Medici”. Lui aveva avuto paura delle conseguenze, ma non era più così, no. Lui ora avrebbe fatto ciò che era giusto. Il che, voleva dire, anche prendere la decisione apparentemente più dolorosa. Fu con il pensiero fisso che, finalmente, si sarebbe liberato di quel demone che Andrea sentì un vago tremolio venire dal vagone mentre il Treno si metteva in moto ed il Sistema calcolava la nuova, vecchia destinazione. Il aggio fu più strano di quel che Andrea poteva credere. Aveva gli occhi fissi sul paesaggio fuori dal finestrino quando il Treno ò, saltò, si mosse. Un vago bagliore, mentre una luna sfumava e spariva. Ne restava una sola che lentamente lasciava spazio all'azzurro del mattino. Le stelle tornarono al loro posto, anche loro andando prematuramente a dormire mentre le rocce si alzarono dando vita a monti e colline erbose, costellate da castelli e case isolate, protettrici di famiglie e segreti. E lentamente Andrea tornò dove era partito. Dove tutto era partito. Dove era partita la sua storia, la sua avventura, dove avevano preso piede i suoi incubi ed i suoi sogni. Era di nuovo al suo posto. Fuori dai finestrini c'era una fermata del regionale per la città e non c'era nessuno. C'era una panchina, dove sarebbe andato a sedersi. Psi alzò, era infine giunto il momento di scendere dal Treno. E ne era fiero. Si sentiva fiero di se, come non accadeva da fin troppo tempo. Era una sensazione quasi indescrivibile, lo faceva sentire immortale, onnipotente. Per quei brevi istanti, si sentì veramente libero e potente, libero da ogni tipo di costrizione. C'erano ora solo lui e la sua futura scelta, che lo attendeva fuori dalle porte dei vagoni in legno leggermente traballanti. Come non essere fieri di se, quando si riesce a vincere l'angoscia, la paura primordiale? Il paesaggio continuava a diventare via via che avano i minuti qualcosa che
Andrea aveva più che vivido nella sua mente. Vedeva la casa dell'amico d'infanzia, la piscina sotto il sole più caldo di Agosto, le amicizie, gli amori che si infrangevano tra un succo d'arancia ed un nascondino a nove anni, la prima birra nascosta. Vide, tra gli alberi più alti, il cimitero del paese, le infinite veglie dei tanti parenti che andavano per luoghi migliori o peggiori, il camminare tra le tombe, il primo incontro con lei, al di là di una cripta di marmo con cancelli di ferro battuto rosicchiati dal tempo e il profumo di fiori di campo appena dietro le austere mura del camposanto. Andrea continuò a scrutare il paesaggio, ora in piedi vicino la finestra, come era suo solito fare. Vide ancora un paese poco distante da dove era nato, da raggiungere rigorosamente in bicicletta ando per i boschi, la paura dei cinghiali, il primo bacio con la persona sbagliata. Tutto, di quello che vedeva, gli ricordava la sua vita ata spensierata. Una vita che si accorgeva fatta di tante milioni di piccole scelte, atti di coraggio quotidiani che lui aveva sempre compiuto. E poi si era bloccato, bloccato nel momento in cui aveva bisogno di più coraggio, di più audacia e di più volontà. Era scappato da ciò che invece doveva affrontare a viso aperto, senza paura e terrore alcuno. Ed ora se ne accorgeva. Ma stava tornando e di questo era fiero come non mai. Era fiero, era fiero di star tornando, di non star fuggendo ancora. Appoggiò il naso alla finestra, portando gli occhi su una villa non tanto lontana. Il momento si avvicinò. Vide il profilo di un paese lontano farsi man mano vicino. Era proprio il suo paese, le sue origini era tutte lì, tra muri di mattone e vetri puliti da madre apprensive, mentre figli spensierati correvano nei prati scoscesi. Il Treno cominciò a rallentare. Lentamente Andrea cominciò a discernere i profili dei vari alberi vicini la ferrovia. Poi un palo segnò l'inizio del regno umano. Ed entrarono nella stazione. Vuota e decadente, ammuffita in più e più punti, la stazione era finalmente arrivata. Andrea aveva quasi il cuore che gli palpitava per l'attesa. Si diresse alla porta che tante volte aveva preso per uscire in città senza nome, distanti secoli da lui. Quella volta sarebbe tornato a casa, la sua casa. I freni striduli rallentarono ancor di più l'andatura dei vagoni di legno, un rumore assordante che ben contrastava con il paradisiaco silenzio che invece era calato dentro, tra travi marroni e tappeti persiani di rosso ed oro decorati. Andrea non attese che il Treno si fermasse del tutto, aprendo con un gesto secco la porta e balzando sulla pietra della banchina. Respirò a pieno polmoni, l'aria di montagna che gli penetrò dentro con un sol getto freddo, facendolo rabbrividire leggermente. Si guardò intorno. Non c'era veramente nessuno, non sentiva voci, agire o movimenti. Osservò lentamente le panchine vuote ed il tabellone con gli orari dei treni. E vide l'ora. Non era ato che un minuto, il tempo di arrivare fino al binario. Non era ato un minuto, un singolo minuto. Lui non era stato via che per massimo quarantacinque secondi. Si voltò verso il binario e vide che
era vuoto. Non c'era nessun Treno, nessun estremo saluto dai eggeri di quel magico veicolo che sembrava averlo accompagnato per mesi. Nessun ultimo saluto del Fondatore, nessun ultima parola. I suoi bagagli erano esattamente dove pensava dovessero essere. Si sedette e guardò intorno. Non c'era nessuno, nessun Vecchio, nessuna Veronica, nessun signore elegante. Era solo. IL regionale sarebbe arrivato solo per lui. E la cosa gli andava bene. Incrociò le mani, sfiorando il vetro del suo orologio digitale. Si sorprese, non pensava di averlo con sé. Si tastò le tasche, sentendo il cellulare e le cuffie in quella destra dei jeans blu che indossava. Qualcosa gli diede un vago senso di disturbo. Si ricordava di aver levato orologio e cellulare quando era salito a bordo, prima di infilarsi sotto l'acqua. SI era anche cambiato. Fece per alzarsi ed andare a controllare uno specchio quando un trillo fece vibrare il suo cellulare. Un messaggio, era lei. Rispose e posò il cellulare. Non poteva ancora parlare. I minuti arono lentamente, troppo, per Andrea. L'euforia di essere sceso dal Treno era scemata fino a sparire, lasciandolo di nuovo in un vago stato d'angoscia, di dubbio e di estrema ansia. Il regionale, come annunciato da una voce metallica quasi asessuale ma dal vago timbro femminile, era in ritardo di cinque minuti. E la cosa non gli piaceva. Cosa sarebbe potuto succedere ancora in quei cinque minuti di ritardo? Il Treno sarebbe potuto tornare, lui sarebbe potuto sparire per sempre nelle nebbie di una coda che non aveva visto, preso al volo da un Costruttore tanto lontano quanto la sua creazione? Non lo sapeva e non voleva saperlo. Si sentiva in dovere, verso se stesso, verso il Vecchio ma soprattutto verso lei di non lasciarsi guidare da quelle paure che gli apparivano ora temibili ed ora ridicole. Aveva preso una scelta, doveva seguirla fino in fondo, lo sentiva negli angusti spazio del suo cuore. Prese un gran respiro, sistemandosi le cuffie nelle orecchie ed alzando il volume della musica. Si sentiva stanco, anche se non ne aveva motivo alcuno. Sentiva veramente una grande stanchezza dentro di sé, come un peso che lentamente lo stava trascinando nel mondo dei sogni. Alzò lo sguardo verso i binari ancora vuoti, il suo borsone con il necessario per una notte. Guardò di nuovo l'orario, accorgendosi di come ora erano quasi dieci minuti di ritardo. E sentì il fischio, il motore diesel, il rumore inconfondibile delle carrozze traballanti di metallo ed alluminio che si avvicinavano. Comparve, senza vapore, alzando un filo di polvere dai binari così poco usati. Il Treno si fermò, quasi vuoto, un capotreno in divisa scese, guardandosi intorno, localizzando l'unico eggero. Andrea prese il suo biglietto e il suo bagaglio, sorridendo vago all'uomo dai pochi capelli neri in testa. Gli diede il pezzo di carta che stringeva nella mano destra e si buttò dentro, accomodandosi in un vagone quasi del tutto vuoto. Una famiglia, una
coppia, qualche persona sola, erano l'eterogeneo gruppo che occupava i sedili scomodi. Andrea prese posto, lasciando che lentamente uno stato di quiete e sonno cadesse su di lui. Doveva dormire, se lo sentiva. Aveva bisogno di chiudere gli occhi e lasciare che la musica lo trasportasse chissà dove, lontano da città e treni, forse in una campagna toscana, vicino una quercia ombreggiata da un castello con un grande balcone, in un giorno di un'estate che Andrea voleva a tutti i costi vivere.
Quando Andrea arrivò all'ospedale, l'enorme struttura che dominava praticamente la città che si celava nella valle, tra due montagne ricche di fiumi e boschi, era teso. Teso come un filo pronto a spezzarsi, esattamente come il ragazzo. Aveva posato il suo borsone nella camera d'albergo di un vicino hotel, uscendo poco dopo, senza fare null'altro. Aveva ancora gli stessi vestiti con cui era sceso dal Treno, quei vestiti che ancora non aveva visto. Si portò vicino uno specchio, pronto a capire se quello che aveva vissuto fosse stato tutto frutto di un sogno. Ma cos'era stato reale? E cosa immaginario? Quelle tre persone, su una banchina di una stazione decadente, erano solo frutto della sua immaginazione? Quell'attimo di solitudine lo aveva del tutto frastornato ed insieme all'ansia avevano creato quel sogno? Portò gli occhi su uno specchio, guardando diritto innanzi a sé, schiantandosi contro i suoi stessi occhi che lo fissavano tesi. Prese un respiro, profondo, lento, cadente, mettendo le mani in tasca e dirigendosi verso la stanza di lei. Superò una fila di porte uguali tutte aperte, su scene che avrebbero dovuto commuovere ogni cuore umano. Bambini, vecchi ed adulti sedevano su letti, circondati da oggetti cari, dolci e ricordi. Chi di loro sarebbe giunto fino al domani? Andrea non se lo chiese, non li guardò neanche. Il suo cuore e la sua mente erano come sulla Luna, lontani dal reale. Erano concentrati sulla battaglia che avrebbe dovuto affrontare da lì a poco con sé stesso, con un futuro incerto e con lo spettro della Morte in persona. Bussò, delicato. E la vide. E vide sparire, in quel momento, ogni singola paura, ogni singola ansia. La vide, lei voltò il capo e lo guardò, sorridendo « Andrea! » disse semplicemente, il tono quasi sommesso, ma era felice. Era felice di vederlo dopo tanto tempo lontano. Lui non ci pensò due volte. Si avvicinò quasi di corsa e la baciò, la baciò per interi minuti, lasciando che il respiro quasi gli mancasse mentre il Sole levava al tramonto in una città cinta dalle montagne e dai boschi. La baciò e quando si separò, quando lei le disse tutto, le disse ogni singola cosa che gli stava succedendo. Lui aveva paura,
Andrea alzò lo sguardo verso i vetri chiusi mentre lei parlava. Ed incrociò i suoi occhi, di nuovo. Erano pieni di paura. Ma comprese. Non era non avere paura, non era mai stato cancellare la paura. Era stato giusto essere un pizzico più coraggiosi ed essere una spanna sopra la paura stessa. Aveva il terrore di perderla e le strinse la mano quasi inconsciamente, lasciando che sul suo viso cinto da capelli dorati si disegnasse un altro sorriso. Andrea avrebbe continuato a provare quel terrore fino a che non sarebbe finita ma non se ne sarebbe importato, avrebbe imparato a sopportare, avrebbe imparato a dominare quell'emozione e avrebbe continuato a percorrere quella via insieme a lei. Rimase nella stanza, fino a che lei non si addormentò. Era notte sulla città, mille luci si accendevano mentre le strade si svuotavano della vita del giorno ed aprivano locali che prima erano chiusi. Giovani e non giovani si riversarono per festeggiare una nuova notte, una nuova estiva notte di vita e divertimenti. Andrea mise le mani in tasca, avvicinandosi al finestrone, appoggiandosi alla parete, come già si era appoggiato sulle pareti di una carrozza in bilico tra mille tempi. Sentì molto più stabile quella parete,quasi reale. Era una sensazione che non avrebbe mai descritto, non lo sapeva fare, ma la sentiva ferma, stabile. Era una bella sensazione. Osservò la città, i viali alberati ed illuminati da lampioni di fine Ottocento. Donavano un aspetto quasi magico a quelle vie gremite di gente. Bancarelle e luminarie, di certo era la festa del patrono. Lo aveva dimenticato. Guardò verso il letto dove lei dormiva. Il giorno dopo, dimessa, avrebbero festeggiato insieme.
PARTE IV
Andrea prese il mazzo di fiori dalle mani dell'uomo con un gesto calmo. Li odorò per un solo istante, erano adorabili. Con calma camminò verso l'arco di marmo sovrastante le cancellate in ferro battuto nero. Angeli e croci si frastagliavano sotto la struttura del Settecento, un salto in un ato remoto. Lontano si sentiva i rumori delle auto e delle ruote sull'asfalto, i clacson e la vita di una città che correva. Andrea entrò nel cimitero a o lento, non aveva nessuna fretta. Aveva corso abbastanza, anche troppo per quel che lo riguardava, ora come ora voleva godersi attimo per attimo. Il camposanto era uguale a come lo aveva lasciato l'ultima volta, due settimane prima. Non era cambiato nulla. Gli alberi erano ancora verdi di primavera, i fiori colorati, i ceri accesi. Coppie e solitarie persone eggiavano per i vialetti verso i cari defunti, viaggiatori che avevano terminato la strada da percorrere. Sarebbe successo a tutti loro, prima o poi. Quelle visite servivano proprio a ricordargli che non era ancora così. Andrea si diresse verso la sua di destinazione, una delle tante lapide, un po' più pulita, un po' più giovane e recente. Il rumore di scarpe su pietra si perse nel vento che sfiorava gli aghi degli alti sempreverde che con movimenti lenti e costanti agitavano la pallida giornata. Il sole, che tendeva al tramonto giusto sopra il muro di cinta del cimitero, gettava un'ombra rossastra sul marmo bianco e grigio, quasi dandogli una luce che, normalmente, esse non avevano. Una luce un po' più viva. Andrea si chinò vicino la lapide. Accese la solita candela ed adagiò i fiori, restando a gambe abbassate, con la testa a livello della lapide. Sorrise, sorrise leggermente, il cappotto lungo nero che finiva tra i fili d'erba ed il capello in testa che non conteneva i capelli allungati. Un filo di barba ben tenuto era sempre presente sul viso di Andrea, insieme all'immancabile acqua di colonia che lo accompagnava ovunque. Appoggiò la testa sulla lapide. Non disse nulla, non aveva bisogno di dire nulla. Si rendeva conto di quanto poco fosse producente parlare con qualcuno che era morto e che non poteva affatto ascoltarlo. Si rendeva perfettamente conto anche della perfetta inutilità di portare dei fiori profumati ad una tomba austera e seria, in fila come tante altre, sotto un cielo scoperto da ogni possibile nuvole, con il primo accenno di Luna e stelle pronte a prendere piede nel firmamento celeste. Andrea lo sapeva, ma pur si rendeva conto che quel piccolo gesto di prendere un mazzo di fiori ed adagiarli
lì, vicino il bianco marmo, sorridendo e semplicemente restando lì, attendendo qualcosa, godendosi la pace, riposando, gli concedeva un sollievo all'anima come pochi. Dopotutto, l'aveva previsto, no? Seduto su una poltrona di seta, vicino assi di legno scuro, in una carrozza colorata di verde dalla poca luce filtrata da addobbi sventolanti, su un Treno che non aveva un oggi o uno ieri. Aveva previsto tutto, quasi si stava chiedendo come fosse stato possibile essere tanto precisi a riguardo. Aveva previsto proprio ed aveva accettato la possibilità che quella previsione si realizzasse. Non aveva nulla da recriminare a riguardo, se non che era effettivamente accaduta. Aveva sperato e lottato che non succedesse, che il peggio non arrivasse proprio quando era possibile evitarlo. La vita non quasi mai come ci si aspetti vada ed Andrea aveva effettivamente provato sulla pelle cosa voleva dire. Almeno in parte. Un'analisi critica dei suoi ultimi sei mesi gli avrebbe permesso di guardare come, tra sconfitte e disastri, aveva ottenuto successi a dir poco fantastici. E non sapeva che farsene di quei successi. Si ritrovava ora a non sapere nulla, veramente nulla, del suo futuro. Tutti i suoi programmi erano andati nel fuoco, bruciati da un mondo che non aveva nessuna pietà per i suoi figli e non aveva alcuna voglia di privilegiarli in alcuna maniera. L'italiano rimase lì per buoni dieci minuti prima di alzarsi, sistemarsi il bavero della giacca lunga e dirigersi all'uscita. Sarebbe tornato di nuovo su quella tomba, ma ora aveva altro da fare. Mise le mani in tasca superando ancora le cancellate di nero ferro battuto e l'arco di marmo. Ora cosa fare? Si ritrovava sempre a non sapere cosa fare dopo. Optò per andare a destra, incamminandosi parallelamente al cimitero e dirigendosi verso il centro della città. Qualcosa gli sarebbe venuto in mente durante il cammino. Casa sua era dalla parte opposta ma non aveva alcuna intenzione di tornarvi. Era vuota e non c'era nessuno ad attenderlo. Non c'era veramente nessuno. Un filo di polvere, forse, attendeva giusto di essere levato dal suo letto, dal divano, dalla televisione. In cucina mancava, la utilizzava un po' più spesso delle altre stanze. Viveva in un palazzo dell'Ottocento, stucco giallo oro fuori, finestre decorate da glifi, tetto leggermente piegato verso est, un enorme terrazzo dove ospitare amici e conoscenti. Era stata la sua reggia, ora era solo la sua gabbia. Aveva previsto tutto, anche quello, e non se ne pentiva. Non riusciva a farlo. Si guardò alle spalle sentendo il rumore di una berlina che lo superò senza ritegno. Si era voltato e per un attimo il suo cuore aveva sperato che dal filo di nebbiolina prenotturna si levasse lo squillo ed il vapore di una locomotiva della stessa epoca della sua casa, con a bordo un gruppo di persone eterogenee, ma c'era solo quell'auto e null'altro. Il vuoto, un paio di lampioni che luccicavano attirando zanzare e moscerini, una panchina rotta. Continuò a camminare, ancora con le mani in tasca ed il cellulare dentro quella della giacca che vibrava
insistentemente, qualcuno lo cercava ma Andrea, e tutti lo sapeva, quel giorno non era mai rintracciabile. Era un giorno ogni due settimane e ne aveva bisogno. Aveva bisogno di quelle ore per sorridere gli altri tredici giorni, per stringere mani e far finta che tutto andasse bene. Chi lo conosceva sapeva che non era affatto così, ma lui non poteva farci nulla. La società giustifica tutto, eccetto la tristezza. Così Andrea camminava, tranquillo, per le vie della periferia, tra tranquille villette da cui provenivano suoni e voci di famiglie altrettanto tranquille, qualche giovane giocatore di calcio in cortile, qualche confidenza tra amici ed amiche e chissà, forse qualche primo bacio. Andrea istintivamente provò a cogliere qualcosa alla sua destra, afferrando l'aria. Soppresse un gemito che gli stava salendo in gola. Era quella la vera solitudine? Il cercare qualcuno e prendere il nulla? Il voltarsi e poter osservare il proprio riflesso nel vetro, e non negli occhi di qualcuno. Si, in effetti forse era così. Si fermò davanti le vetrine di un negozio. Si fermò a fissare il suo riflesso, il suo viso serio, la barba, i capelli, le sue mani in tasca e non strette a quelle di nessun altro. Guardò alle sue spalle, verso il cimitero oramai non più visibile ai suoi occhi. Era lì, lei, l'unica a cui avrebbe stretto la mano. Sospirò, guardandosi intorno, nella totale solitudine, osservando la strada priva di vita. Non c'era niente o nessuno. Auto ferme ed alberi appena smossi, cartelloni di autobus che non avano mai in orario e cemento con abbastanza buche da sembrare di campagna. Andrea osservò tutto questo, da solo, comprendendo che lo aveva previsto ed ora doveva accettarlo. Avrebbe voluto cercarvi un perché, ma non poteva e non avrebbe mai potuto trovarlo. Come fare, dopotutto? Non aveva un senso compiuto. Era stato coraggioso, due anni prima. E lo era stato per altri diciotto mesi, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Aveva fatto tutto nel segno del coraggio. E tutto gli si era ritorto contro. Tutto, fino all'ultimo tassello del puzzle che aveva provato a comporre, era andato a rotoli. Il tavolo era caduto ed i pezzi persi su un pavimento troppo grande. Lei era andata e non c'era coraggio che gliela avrebbe ridata. No, non quella volta. Sul Treno, fermo a riflettere nella carrozza, aveva avuto l'arduo compito di prendere ogni singola goccia di forza e volontà che gli scorrevano nelle vene, alzarsi e scendere. Ora avrebbe potuto farlo, ma non avrebbe mai, mai riavuto lei. Non si può riavere chi è andato, chi lontano oramai dorme, pacato, sotto marmo e terra bagnata, odorante di alberi e di fiori sempre nuovi. Andrea lo sapeva e si disperava dentro per questo. Perché, quella volta, la situazione era proprio al di fuori del suo controllo. Nulla poteva, nulla avrebbe potuto ed anche se ne aveva preso atto ciò non lo confortava affatto. Anzi, stranamente l'esser così logicamente sicuro che nulla avrebbe cambiato quella situazione lo sconvolgeva, poteva sentire il cuore bruciargli nel
petto e provare, una volta per tutte, a spegnersi. Ma non ci riusciva o quella situazione angosciante sarebbe finita sei mesi prima, sei lontani mesi prima. Riprese a camminare, continuando a farlo per tutto il tempo che fu necessario a portarlo, oramai di notte, al centro della città. Aveva veramente camminato tanto. C'era gente, viva, gente che camminava, viveva e parlava ad alta voce. Gente per i marciapiedi, vicino il bar all'angolo, seduta nella piazza. Carrozzine e mamme, palloni e bambini, adulti con il giornale e ragazzi con la birra. C'era di tutto da vedere e da vivere. E poco o nulla interessava ad Andrea. Non aveva voglia di vivere la notte in quella città, non quel giorno che volgeva al termine. Non voleva vedere i suoi amici, i suoi nemici, i suoi familiari. Era in mezzo alla folla vivente e voleva restare solo. Aveva di certo preso la direzione sbagliata uscendo dal cimitero. Sospirò, scansando una comitiva di studenti stranieri e superando il porticato brulicante di troppe persone rumorose. Profumi di pizza e buon cibo venivano dalle finestre spalancate e dai ristoranti. Evitò accuratamente chi lo avrebbe invitato a sedersi e prendersi una buona spaghettata, ben conscio che la fame lo avrebbe spinto ad accettare. Ma non gli andava. La sua mente che si ostinava a provare ad avere un totale controllo voleva andarsene di lì per avere modo di buttarsi in profonde e tristi riflessioni. Era il suo unico giorno per farle e non voleva sprecare preziosi minuti dinanzi un piatto di fumante pasta in casa, seppur la cosa gli era in qualche modo dolorosa. Andrea si gettò però comunque nei vicoli, ben conscio della strada per l'unico angolo di pace che gli era possibile. I palazzi lo schermavano dai rumori delle strade principali, le balconate sembravano offrirgli riparo dalla visione delle costellazioni silenziose e guardinghe. Camminò ancora a lungo, superando l'ennesimo pub gremito di persone esultanti dinanzi la partita del Sei Nazioni. Si incespicò attraverso quelli che sembrano pezzi di un labirinto senza fine, della vecchia città medievale, con le sue case austere, mischiate ai cortili dei palazzi rinascimentali e barocchi, delle statue del Quattrocento e di quelle del Novecento sepolte sotto verdeggianti alberi tra gli androni di palazzi moderni. Era uno strano e poetico mix. Era tutto poetico in quella città, per questo, per quanto la potesse odiare, in fondo l'amava. L'amava come amava i due silenziosi guardiani, le due montagne a nord e sud della valle che accogliente aveva lasciato vivere la città florida e splendente, amava le strade nei boschi, i parchi, tutto. Amava tutto perché rimandavano a lei. Tutto in quella città rimandava a lei. Salì una piccola collina, entrando in uno dei numerosi giardini sempre aperti della città. Era un luogo non magico, ma speciale certamente. Non era il più grande né il più bello, c'erano poche panchine e la vista era limitata su un pezzo solo di città, dal lato opposto rispetto a casa sua. Eppure era il suo posto
preferito, perché era il posto dove si era fermato con lei dopo che le avevano dato due mesi di vita e dove si fermavano ogni volta che il gioco della clessidra continuava. Ogni volta erano due mesi ed avevano sbagliato otto volte, quasi a far sperare Andrea e lei in una cura, in un miracolo improvviso. Ma non esisteva cura e non esisteva miracolo e la nona volta il medico aveva centrato la sua prognosi e lei gli era sgusciata dalle braccia come una sirena che torna nelle vastità dell'oceano. Andrea si appoggiò con ambo le mani sulla pietra del muro che gli arrivava fino a metà busto e gli impediva di cadere su un piccolo strapiombo. Era un vista magica, con vaghi e vani rumori, il profumo di margherite e gelsomini ed il gufare di uno o due civette. Andrea si piegò leggermente, stanco dalla lunga camminata. Era il suo momento di ideale riposo. La sua mente era pronta per partire lungo la via delle cupe e gotiche riflessioni prima della mezzanotte ma un urlare continuò spezzo la bellezza del luogo e la magia della solitudine. Una coppia litigava ed Andrea si ritrovò, solo, ad assistere al classico litigio tra innamorati. Quanto poco comprendevano della vita quei due per urlarsi così contro, quando c'era a pochi i qualcuno che avrebbe dato qualsiasi cosa per poterlo fare? Poi, proprio in quel posto? Nel suo posto? Non aveva un altro luogo dove sfogare i propri umori. Andrea sbuffò sonoramente, trattenendosi dall'urlare a sua volta di andare a litigare a casa loro. Sospirò e messe le mani in tasca si diresse verso casa sua, ad un'ora di distanza. Era la prima volta che in quel giorno ci tornava. In quel giorno, non ci tornava mai. Il tragitto fu più veloce di quanto avesse desiderato, forse troppo per i suoi gusti. Prese il grosso mazzo di chiavi dalla tasca, lasciando stare il cellulare che ancora vibrava. La sua giornata di pace non era ancora terminata e non lo sarebbe stato prima di tre ore. Salì all'attico, la sua non piccola residenza, il suo ultimo rifugio. C'era un innaturale silenzio dentro di esso. Quando la porta finì di cigolare Andrea poté sentire il vento fuori dalle finestre chiuse o appannate e la polvere tornare a posarsi da dove era stata smossa. Si tolse la giacca, dirigendosi ad un mobiletto e prendendo una bottiglia di whisky ed un bicchiere. Odiava restare al chiuso ed optò per salire sul terrazzo. Era silenzioso anche quel posto. Un gazebo sorretto da colonne di legno copriva un tavolo e sei sedie, che non venivano usate da un bel po', come la griglia che era adagiata vicino una serie di pannelli di vetro di cui Andrea aveva rimosso il ricordo, quasi sorprendendosi non fossero ancora stati usati. Le poche piante erano quasi morte di inedia ed Andrea si accorse che anche il pavimento aveva bisogno di cure, come quasi tutto lì sopra. Sospirò, sistemandosi vicino al parapetto di marmo, affiancando ad un lampioncino la bottiglia e versandosi l'alcol nel bicchiere con un gesto quasi automatico. Alzò lo sguardo verso la vista. Era fuori dal centro, sicuramente, in una zona più tranquilla. Non sembrava esserci nessuno, ma pian piano, scrutando
con lo sguardo i palazzi ed alternando alla calma secca il portarsi il bicchiere alle labbra, Andrea vide un altra figura, in una terrazza uguale alla sua. Era una ragazza, silenziosa, pacata, i capelli neri che le scendevano fin sotto le spalle. Era su un balcone, non sola. C'erano altre persone con lei, alcune più grandi, altre più piccole. Sembrava una riunione di famiglia, ma lei non ne era interessata, o non sarebbe di certo rimasta a guardare la notte dall'alto del suo palazzo, pensò il giovane italiano. Stringeva un libro nelle mani, coperto dall'oscurità. Andrea fece per volgere lo sguardo, ma qualcosa lo trattenne ed i loro sguardi si incrociarono. Per la prima volta, Andrea guardò diritto negli occhi quella ragazza e per la prima volta quella ragazza guardò diritto negli occhi Andrea. E rimasero fermi a fissarsi. Andrea allargò un sorriso, lei rispose. Lei alzò il libro, facendogli vedere il titolo sotto la luce del lampione che anche lei aveva vicino ed Andrea, sotto la luce del suo lampioncino su un terrazzo abbandonato a se stesso, alzò il bicchiere salutando una delle sue lettrici. Andrea le sorrise ancora, facendo un cenno alla bottiglia, lei comprese ed annuì vigorosamente, dirigendosi alle scale che l'avrebbero portata al piano terra e poi dall'altro capo della stradina silenziosa. Andrea prese un secondo bicchiere e si guardò intorno. Non era la miglior presentazione. Mentre la ragazza percorreva il suo tragitto, Andrea si rese conto che nulla stava avendo senso. Per quale motivo l'aveva invitata lì sopra dopo un solo sguardo? E perché si erano incrociati i loro sguardi? Non comprese. Era stato un fortuito caso che lui fosse su quel terrazzo a posto che al suo posto, nel parco, a guardare la città da solo. Invece, per la prima volta, stava per are quel giorno, o almeno la notte di quel giorno, con qualcun altro. Era una cosa stupenda o una cosa stupida? Lei avrebbe approvato o meno? Alzò gli occhi verso il cielo, quasi pentendosi di quanto aveva fatto. Osservò le stelle silenziose e la Luna che, sede di follia, lo guardava dall'alto quasi con austerità, ma sembrava contenere un vago invito. Come anche lei attraversava fasi di luce ed ombra, sparendo e riapparendo ciclicamente, forse anche lui, pensò Andrea, sarebbe solamente dovuto saltare fuori dalla sua fase d'ombra. Sentì bussare il citofono, rispose, aprì la porta. Aveva fatto la cosa giusta? Il silenzio della casa sembrava effettivamente suggerigli di si, ma il suo cuore era sempre stato per lei. Era forse sbagliato ora andare avanti? Non sapeva perché, ma qualcosa gli pesava sul cuore. Si avvicinò alla porta, osservando alcune fotografie lì vicino. Anche nella penombra riuscì a guardare i suoi occhi che lo fissavano, dall'oltretomba, quasi allegri. Erano allegri? Non li aveva mai visti allegri. Li aveva visti spenti, a tratti morti, ancor prima che lei andasse. E da quando l'aveva sepolta, di certo non aveva poggiato l'occhio su sue foto, se non quella della lapide che la rappresentava al cimitero cittadino. Sentì l'ascensore fermarsi al piano terra ed aprì la porta, che dava
ancora sul vuoto. Stava facendo la cosa giusta? Si voltò per l'ultima volta verso le foto. Era allegra e sorrideva, sorrideva. Stranamente sorrideva. Sorrideva perché ogni foto le aveva fatte col sorriso ed Andrea si rese conto di quanto poco riuscisse a vedere il mondo da lì a sei mesi. Lei aveva sempre sorriso, anche con la morte vicina. Lui si era arreso ed aveva deposto le armi. Guardò la luce dell'ascensore avvicinarsi. Era stato tutto un caso, come il Treno, come le destinazioni, come la sua camminata notturna, come il suo essere infastidito da una coppia che non lo aveva neanche visto, il suo tornare, il suo prendere la bottiglia e il suo salire su quel lato del terrazzo, il suo guardare continuo ed il suo aver incrociato proprio lei. Era stato veramente tutto un caso. Le porte dell'ascensore si aprirono, lui alzò lo sguardo, vide i capelli, vide il viso e capì. Il suo viaggio era finito, non due anni prima, ma in quel momento. Non si finisce il viaggio del Treno scendendo solamente. E non era affatto finito per lui con il suo primo atto di vero coraggio. Aveva avuto bisogno di ancora più coraggio per affrontare qualcosa che era più di una scelta, era la conseguenza della scelta. Ed aveva vinto. Da qualche parte, un Treno continuava a viaggiare. Qualcuno aveva ancora bisogno di un aggio. Un aggio per morire o tornare a vivere, un aggio non per il viaggio senza fine, ma per finire il proprio viaggio.
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