Un guaio con i folletti Gayle Ramage
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Traduzione di Elisa Pardini
“Un guaio con i folletti” Autore Gayle Ramage Copyright © 2015 Gayle Ramage Tutti i diritti riservati Distribuito da Babelcube, Inc. www.babelcube.com Traduzione di Elisa Pardini Progetto di copertina © 2015 CoverD “Babelcube Books” e “Babelcube” sono marchi registrati Babelcube Inc.
Sommario
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UN GUAIO CON I FOLLETTI Michael si fermò in fondo alle scale, una mano appoggiata alla balaustra di mogano, gli occhi puntati verso l’alto. Dopo aver portato diverse scatole su in camera sua, era pronto a godersi un po’ di riposo, ma aveva sentito qualcosa, come un basso mormorio di voci vicine. Rimase fermo, le orecchie tese per captare di nuovo il rumore, ma tutto era quieto. La casa era vecchia, costruita in epoca georgiana, almeno a detta dell’agente immobiliare, e forse si era trattato solo di un normalissimo scricchiolio tipico degli edifici antichi. Accantonando il pensiero, si diresse in cucina e si versò qualcosa da bere. Sul tavolo stavano ancora le ultime scatole in attesa di essere aperte, ma Michael si disse che avrebbe potuto pensarci la mattina dopo. Adesso aveva bisogno di riposarsi, almeno finché aveva la casa tutta per sé. Michael si era appena seduto sul divano di pelle nera quando sentì un deciso bussare alla porta. Sospirando pesantemente posò il bicchiere sul tavolinetto da fumo e si alzò per vedere chi era. Aprì la porta e si ritrovò faccia a faccia con un cappello di lana bianco e nero, con un pon pon bianco a pochi centimetri dal suo naso. Chi lo indossava stava frugando in uno zaino multicolore. «Ciao, Elsa. Scusa, sono in ritardo di un paio di mesi,» disse il cappello. «Avrei dovuto chiamarti per dirti che sarei tornata stasera. Ho pensato di venire a vedere come stavi.» Visto che Michael non rispondeva, il cappello si sollevò a rivelare il proprietario. Una spruzzata di lentiggini spiccava sul naso di una giovane donna, un paio di ciocche di capelli rossi sembravano essere sfuggiti alle grinfie del cappello, circondandole il volto pallido. Alla luce abbagliante dell’ingresso, Michael notò che aveva gli occhi di due colori diversi: uno era viola e l’altro verde. «Tu non sei Elsa, » disse lei, con un’ombra di sospetto nella voce. Gli sbirciò da sopra la spalla come se si aspettasse di vedere qualcun altro nell’ingresso. «Lei dov’è? » «Temo di non conoscere nessuno di nome Elsa,» spiegò Michael. «Forse intendi la signora che abitava qui? Non ho mai saputo come si chiamasse.» «Abitava qui? » «Sì. È morta tre mesi fa.»
La donna si sporse verso di lui e gli afferrò un braccio, con quegli strani occhi sgranati e in allarme. «Oh, dèi,» disse affannata. «Com’è morta? Per favore, è molto importante.» «Mi hanno detto che è stato per cause naturali. È morta nel sonno. In pace.» «Beh, direi che è già qualcosa.» La donna sospirò profondamente, mollando la presa sul braccio di Michael. «Mi dispiace averti detto della tua amica,» disse lui. «Vuoi entrare? Stavo bevendo qualcosa, se vuoi farmi compagnia sei la benvenuta.» La donna lo studiò per un momento e poi acconsentì con un cenno del capo. «Mi farebbe piacere, grazie.» Si gettò lo zaino sulle spalle e si chinò per raccogliere da terra una borsa simile. Ne aveva molte, in realtà, e Michael, gentiluomo come sempre, la aiutò a portarle in casa prima di accompagnarla in salotto. Andò in cucina per procurarsi un altro bicchiere di vino e quando tornò nell’altra stanza trovò la donna in piedi vicino al caminetto spento, intenta a bere il vino che Michael aveva versato per sé. «Sembra tutto diverso,» disse lei, guardandosi attorno. «Era parecchio spoglio quando ci siamo trasferiti qui,» le spiegò lui. «C’erano solo una poltrona e una vecchia lampada da tavolo. Credo che i familiari di Elsa abbiano preso il resto del mobilio, o forse l’hanno venduto.» «Avrebbero venduto anche Elsa stessa se avessero ricevuto una buona offerta.» «Ah,» disse Michael, versandosi dell’altro vino. «Capisco.» «Lei diceva sempre che era sicura di aver portato a casa dall’ospedale i bambini sbagliati.» «Sembra una gran donna.» «Sì, lo era,» disse l’altra dolcemente. Prese un altro sorso di vino, che sembrò ridarle la carica. «E io invece sono una strana donna che ti compare davanti alla porta, si beve il tuo vino e non ha neanche l’educazione di presentarsi.» Sorrise e gli si avvicinò, tendendogli la mano libera. «Sono Hattie.» La sua stretta di mano era cordiale ma decisa.
«Piacere, io sono Michael.» Una volta fatte le presentazioni, Hattie fece un o indietro e sorrise di nuovo. «Beh, ci sei solo tu o devo aspettarmi che il resto della famiglia salti fuori a farmi “bu”?» «Ho tre ragazzi, sono andati in giro a esplorare,» rispose Michael. «Avevo un po’ di timore a lasciarli uscire da soli, specialmente visto che siamo in una città nuova, ma Tom, il maggiore, è abbastanza grande da badare agli altri due. E devo ammettere che è piacevole potermi godere un po’ di pace e tranquillità dopo una giornata così frenetica.» «Hai già dato un’occhiata a tutta la casa?» domandò Hattie. «Questi vecchi edifici sono sorprendentemente grandi.» Michael fece cenno di no. «Me lo lascio per domani, ora sono troppo stanco per fare qualsiasi cosa. Infatti credo che andrò a letto appena i ragazzi saranno tornati.» «È un modo carino per chiedermi di andarmene?» chiese lei. «Oh, cielo, no!» Hattie posò il bicchiere vuoto sul tavolo e sorrise. «Non ti preoccupare, sono parecchio stanca anche io e non vedo l’ora di dormire di nuovo nel mio letto. Grazie per il vino.» «Quando vuoi,» rispose lui, riaccompagnandola all’ingresso. «Sì, non c’è niente di meglio del proprio letto. Hai alloggiato in albergo quando eri via?» «Albergo? Magari!» Senza dare altre spiegazioni, Hattie iniziò a recuperare le proprie borse. «Lascia che ti aiuti,» disse Michael, sollevando una borsa da viaggio con un motivo cachemire, che profumava di lavanda e di ferro. «Grazie.» Hattie riuscì ad aprire la porta con la mano libera. «Abito dall’altra parte della strada, non è distante.» Scomparve nella mite aria serale mentre Michael prendeva una piccola valigia di pelle. Restavano ancora tre borse ma sarebbe tornato a prenderle un momento dopo.
In casa di Hattie si respirava un’aria di chiuso e c’era un freddo che suggeriva un lungo abbandono, e Michael rabbrividì nel momento stesso in cui vi entrava. Lasciò le borse nell’ingresso mentre Hattie cercava l’interruttore. «Problemi col contatore,» spiegò, visto che erano rimasti al buio, col tono di chi non è affatto preoccupato. «Ci penserò domani.» «E resterai senza corrente?» Hattie recuperò la pila di posta che si era accumulata durante la sua assenza. «Oh, ci sono abituata,» disse con una scrollata di spalle. «E poi ho un’imbarazzante quantità di candele. Starò benissimo, ma grazie per l’aiuto, mi ha fatto molto piacere.» Michael le disse che sarebbe andato a prendere le borse che erano rimaste a casa sua. Una volta tornato all’abitazione di Hattie, le posò a terra con un gemito. «Santo cielo, ma cosa c’è qui dentro?» Nel rialzarsi sentì una fitta alla schiena. «Oh, le solite cose,» replicò lei con disinvoltura. «Grazie ancora, Michael.» «Figurati. Se hai bisogno di qualcosa, sai dove trovarmi.» Le sorrise e si voltò per andarsene. «Ah, ti hanno detto della soffitta?» sentì la voce di Hattie alle sue spalle. Tornò a guardarla. «Soffitta? Che c’è in soffitta?» «Michael, qualcuno è entrato in soffitta?» Chiese lei, cercando di controllare il tono di voce. «Solo mio figlio Ben.» Michael ebbe a malapena il tempo di notare l’espressione allarmata sul volto di Hattie prima di vederla sfrecciare via, lasciando la porta spalancata. Prudente come sempre, Michael la chiuse prima di seguirla in fretta. Quando fu rientrato in casa propria non riuscì a vedere Hattie da nessuna parte, ma il suono di i pesanti che tuonava su per le scale gli rivelò dove fosse. Le corse dietro e la trovò vicino alla porta della soffitta, con entrambe le mani ben strette sulla maniglia per assicurarsi che la stanza restasse chiusa.
«Che succede?» le domandò, a dir poco stupito. «Qualche idiota ha aperto la porta, ecco che succede,» sibilò Hattie, fulminandolo con lo sguardo. «Mio figlio non è un idiota. Non ha trovato niente di strano lassù, altrimenti me l’avrebbe detto. Anzi, lui vorrebbe anche usarla come camera.» Hattie lo guardò incredula. «E a te non importerebbe se tuo figlio dividesse la stanza con...» Scattò in avanti all’improvviso, afferrandogli il braccio. «Dividesse la stanza con cosa? Che stai facendo, donna?» Michael cercava di mantenere la calma anche se la situazione diventava sempre più bizzarra. Hattie ignorò le sue domande. Gli prese le mani e le posò sulla maniglia, avvertendolo di tenere la porta chiusa a ogni costo, e poi scese le scale di corsa. «E ora dove te ne vai?» Gridò Michael. «Torno fra un attimo,» rispose lei. «Hattie!» Nessuna risposta. Con entrambe le mani ancora ben strette attorno alla maniglia, Michael si mise a fissare la porta, accorgendosi che in alcuni punti la pittura rossa si era scrostata. Si appuntò mentalmente di aggiungerla alla sua lista delle cose da fare, e si chiese cosa ci fosse di tanto terribile in quella soffitta. Dopo averla ispezionata, Ben aveva detto solo che pensava che fosse fantastica e che voleva che fosse camera sua, quindi Michael non aveva ragione di preoccuparsi. Alla fine Hattie ricomparve in cima alle scale. Michael era pronto a costringerla a dirgli che diamine stesse succedendo, ma si zittì quando vide la cosa che teneva tra le mani. All’inizio credette che fosse una pistola, ma quando Hattie si avvicinò poté notare che quell’oggetto non assomigliava a nessuna pistola che avesse mai visto prima. C’erano diversi pulsanti su entrambi i lati della canna, tanto per cominciare. «Okay,» disse lei gravemente. «Ora puoi lasciare la maniglia.» «Non finché non mi dirai cosa diavolo sta succedendo, e che cos’è quell’affare,» ribatté Michael con decisione. «Dico sul serio. Questa situazione ha del
ridicolo.» «Non mi crederesti.» «Lascialo decidere a me.» Erano in un’ime. Hattie fulminava Michael con lo sguardo, e Michail ricambiava le occhiatacce con la stessa intensità. Alla fine Hattie cedette. «Elsa ha avuto qualche problemino con... con delle cose,» spiegò «Ha chiamato me e io sono riuscita a confinarle in soffitta e ho chiuso la porta. Le avevo detto di non aprirla fino a quando non sarei tornata, ma di sicuro lei ci è tornata ed è morta.» «E perché non ha chiamato la polizia? Perché proprio te?» «La polizia?» Hattie rise. «Magari fosse così semplice! No, serviva uno... specialista.» Michael aggrottò la fronte. Uno specialista? Cosa voleva dire? Si chiese se non lavorasse per i servizi segreti e le domandò persino se fosse una spia. Hattie rise talmente tanto da non riuscire a rispondergli per un po’, ma poi si ricompose e scosse la testa. «Non sono una spia.» Sentendosi un po’ imbarazzato, e parecchio irritato, Michael berciò: «Al diavolo, dimmelo e basta!» «Ci sono dei folletti!» rispose, alzando la voce. In silenzio, Michael cercò di capire cosa aveva detto, poi rise. «Folletti? Che cosa...» Lei gli lanciò un’occhiata terribile. «Sì, folletti, e di certo non rideresti più se ti fosse capitato di incontrarne uno prima d’ora.» «Non volevo offenderti, ma... folletti?» «Sì, sì. Folletti. È quello che ho detto.» Ripeté lei irritata. «Quindi hai rinchiuso dei folletti nella mia soffitta,» disse Michael, cercando una conferma di quell’assurdità. Nonostante la sua incredulità continuava a tenere
stretta la maniglia della porta. Hattie si tolse il cappello, lo appoggiò sulla balaustra e si ò una mano tra la criniera di ricci rossi. «Fatti da parte,» gli disse di nuovo, stavolta in tono più gentile. Premette uno dei bottoni dell’arma, che emise un suono simile a un elettrodomestico che si ricaricava. Michael valutò le sue opzioni. Avrebbe potuto trascinare questa strana donna giù per le scale, fuori dalla casa e fuori dalla sua vita, ma qualcosa lo fece spostare dalla porta come gli aveva chiesto lei. Era soprattutto curioso di scoprire cosa avrebbe fatto la donna quando si sarebbe ritrovata davanti una normalissima stanza vuota. «Okay,» disse lei. «Conterò fino a tre, e poi aprirò la porta. Fa’ quello che ti pare ma non venirmi dietro. Puoi restare vicino alla porta, in caso avessi bisogno del tuo aiuto. Chiaro?» «Certo.» Hattie fece un cenno col capo e avanzò, allungando una mano verso la maniglia, l’altra che teneva stretta l’arma. «Uno... due...» sussurrò, «TRE!» E spalancò la porta, entrando. La soffitta era completamente al buio, eccetto per il lucore della città che entrava dal lucernario. Attimi dopo, Hattie premette l’interruttore e illuminò la stanza, e Michael automaticamente si mise a cercare con lo sguardo qualcosa di inusuale, ma trovò solo un semplice pavimento di legno e pareti nude. Osservò Hattie che alzava l’arma, mirando contro un punto vicino alla finestra. «Mi sorprende che siate ancora qui,» disse in tono freddo. «Pensavo che ve la sareste filata appena ne aveste avuto la possibilità.» «Cosa?» chiese Michael. Hattie proseguì a parlare. «Ormai la porta è aperta da un po’, avreste potuto andarvene.» «Con chi stai parlando?» Michael mosse un o esitante dentro la stanza. «Qui
non c’è nessuno.» «Michael, se proprio vuoi restare qui almeno chiudi la porta e appoggiatici con la schiena.» gli disse Hattie. «Se senti che qualcosa prova ad aprirla, tu non ti muovere.» «Qualcosa che? I tuoi folletti? Stai ancora cercando di farmi credere che siano qui dentro? Scusami ma io non vedo nessun altro a parte te.» Hattie schioccò la lingua in segno di disapprovazione e si voltò a guardarlo. «Chiaramente tu non puoi vederli. Li vedi i miei occhi, vedi le iridi di colori diversi? Be’... immaginali come occhiali 3D.» Michael aveva un’espressione completamente smarrita. «Cosa?» «Quando creature come questi folletti vogliono diventare invisibili a occhio nudo, solo le persone con gli occhi come i miei riescono a vederli.» Si zittì per un momento. «Okay, la metafora del 3D faceva schifo, ma capisci cosa voglio dire?» «Io... credo di sì,» rispose Michael. «Bene. Quindi, per favore, fa’ come ti dico.» Rimasto senza parole, Michael si chiuse la porta alle spalle e si mise a fare la guardia, sentendosi un idiota. «Grazie.» Hattie si girò a guardare il punto che stava osservando prima. «E ora?» «Ora,» rispose lei, le dita più strette sull’impugnatura dell’arma, «farò quello che avrei dovuto fare mesi fa.» «Non vorrai mica sparargli?» «Certo che no, perché mai dovrei farlo? Hai detto una cosa molto stupida.» «E allora che vuoi fare?» Hattie si volse a guardarlo con un ghignetto disegnato in volto. «Li voglio
dipingere.» In quel momento Michael capì di essere salito su un treno diretto al Paese dei Pazzi. L’arma che la donna teneva in mano era una specie di marcatore da paintball modificato, e lei sembrava avere tutta l’intenzione di sparare proiettili di vernice addosso a folletti invisibili nella sua soffitta. Nonostante la situazione fosse ridicola, e nonostante il forte impulso di mettersi a ridere per il guaio in cui si era cacciato, Michael decise di restarsene zitto e limitarsi a osservare. Il primo colpo fece un rumore fortissimo. Michael sobbalzò, sbattendo la testa contro la porta. Sulla parte di muro proprio sotto il lucernario c’era una bella macchia di vernice blu. «Mancato,» borbottò Hattie, girando su se stessa. Puntò la pistola verso l’angolo più lontano della stanza e sparò di nuovo. Un’altra chiazza blu si dipinse sul muro, ma stavolta Michael riuscì a vedere una piccola mano che gocciolava vernice nel correre verso l’altro angolo. «A-ha!» esclamò la donna, seguendo con l’arma il movimento della mano. Premette di nuovo il grilletto, svelando maggiormente la creatura. Il folletto non restò fermo abbastanza a lungo da permettere a Michael di guardarlo per bene, ma si capiva che era alto meno di un metro, e che sembrava aver bisogno di una bella mangiata. «Uno è andato, me ne restano quattro,» disse Hattie, gli occhi puntati altrove ora che una delle creature era stata scoperta. «Ce ne sono cinque?» domandò Michael. «Cinque folletti nella mia soffitta?» «Non per molto.» La pistola sparò di nuovo. Tombola! La pittura colpì un folletto che si stava arrampicando sul soffitto mansardato, facendolo cadere a terra con un tonfo. Questo era completamente ricoperto di vernice ed era rimasto fermo sul pavimento, emettendo suoni incoerenti. A un certo punto Michael era sicuro di aver sentito una strana imprecazione pronunciata nella voce rauca del folletto. Un altro fu preso poco dopo, colpito in pieno volto, e andò borbottando a raggiungere il suo amico ancora steso per terra. Michael si chiese se la vernice contenesse una specie di blando tranquillante, visto che sembrava che le creature si arrendessero non appena colpite.
«Porcospino!» abbaiò Hattie all’improvviso. Si girò di nuovo, fermandosi con la pistola puntata dritta verso i piedi di Michael. Lui abbassò lo sguardo: quelle scarpe costavano quasi cento dollari, non le avrebbe mai sporcate con della vernice blu! Poi però si rese conto di quello che Hattie gli stava dicendo. Un piccolo porcospino marrone gli stava dando dei colpetti contro un piede. «Non far uscire quella piccola carogna,» gli disse Hattie, aggiustando la propria mira verso la povera creaturina. Il porcospino sembrò accorgersi del pericolo in cui si trovava e iniziò ad arrampicarsi sulla scarpa sinistra di Michael, cercando di raggiungere la porta. «Cristo, ma cosa stai facendo?» chiese Michael, piegandosi per sollevare delicatamente l’animaletto tremante, facendo attenzione a non bucarsi con gli aculei. «Non puoi sparare della vernice addosso a un porcospino, Hattie, insomma!» «Insomma, Michael, metti giù quel coso, a meno che non voglia ritrovarti pieno di vernice anche tu.» «Perché?» Lei sospirò rumorosamente, come se si fosse scocciata di dovergli spiegare tutto. «Perché i folletti possono trasformarsi in porcospini quando si sentono in pericolo o quando non vogliono essere osservati dagli umani.» Alzò una mano a prevenire la sua obiezione. «E non chiedermi perché proprio i porcospini, io non ne ho idea. Non sono un’enciclopedia ambulante del sovrannaturale.» Michael osservò la creaturina, che ricambiò il suo sguardo con due occhietti a spillo. Non era sicuro che Hattie gli stesse dicendo la verità, ma del resto aveva avuto ragione fino a quel momento... Non sapeva cosa fare, almeno fino a che il porcospino non si fece sfuggire una chiara risatina. Michael lo lasciò andare e la creatura cadde a terra, ma prima ancora che potesse colpire il pavimento, Hattie lo bersagliò con un proiettile di vernice. Ancora in forma animale, la creatura cercò di scappare via correndo, ma cadde dopo pochi i e si arrese, trascinandosi verso gli altri folletti semiaddormentati e buttandosi a dormire. A Hattie non servì molto altro tempo per abbattere le altre bestiacce, e di lì a poco un piccolo cumulo di creaturine blu era seduto con aria avvilita al centro
della stanza. Uno, però, aveva ancora abbastanza forza da alzare il dito medio verso i due umani, un gesto che Michael trovò molto volgare. Hattie si scansò i capelli dagli occhi e gli rivolse un sorrisone. «Ecco fatto,» disse allegramente, lanciandogli il marcatore che Michael acchiappò al volo. «E ora?» chiese lui, sperando che non glieli avrebbe lasciati lì. Lei rispose frugandosi in tasca ed estraendone un oggetto che assomigliava a una piccola palla di fili d’argento. Qualunque cosa fosse, nel vederla i folletti sobbalzarono. «Catene infrangibili. Non possono fuggire se li lego con questo, anche se usassero l’ascia più affilata del mondo non servirebbe a niente. Solo la persona che li lega può slegarli, ma non chiedermi come funziona. È una cosa molto rara e non sono in molti ad averla.» Srotolò lentamente il filo. «Io ce l’ho solo perché chi me l’ha data sa che ne farò sempre buon uso.» Alla fine riuscì a mettere in fila i folletti e il porcospino. Michael, ancora con la pistola in mano, la osservava mentre avvolgeva il filo attorno al gruppo, stringendolo quanto bastava per tenere insieme le creature. «La vernice viene via?» domandò, osservando le macchie blu sparse per la soffitta. Hattie si voltò verso di lui mentre faceva un doppio nodo. «Certo che sì, questi poverini non vorranno certo restare sempre visibili. Vedrò di trovare un torrente nel posto dove li sto riportando, e li laverò.» «Li lasci andare?» Hattie si alzò con un leggero gemito. «Non ho il diritto di tenerli, Michael.» «Quindi non sei una specie di...» Si fermò, cercando la parola giusta. «Non sei una specie di poliziotta?» Notò il suo sorrisino. «Be’, e allora cosa sei?» «Sono umana proprio come te.» «Ma tu sai dell’esistenza dei folletti.» «E di tutti gli altri.»
«Tutti gli altri?» «I folletti sono solo una tra le migliaia di creature con cui condividiamo questo mondo,» spiegò lei. «I folletti sono solo dei burloni, sono innocui. Ringrazia di non aver avuto a che fare con i Giganti di Ghiaccio o...» «Giganti di Ghiaccio?» Hattie si posò una mano sul fianco. «Hai intenzione di ripetere ogni parola che dico?» «Sì, è possibile.» «Ascolta, tutto quello che devi sapere è che quelle creature di cui leggevi quando eri bambino sono reali. Sono reali come me e te.» «E tu sei una persona che riesce a vederle e che protegge noi umani da loro?» Lei rise. «Oddio, no! Non sono un supereroe o una cosa del genere, non ho superpoteri o spade magiche. Sono solo in grado di vederle mentre la maggior parte delle persone non ci riesce, quindi a volte devo mediare tra le diverse razze.» «Ce ne sono altri come te? In grado di vederle? O ci sei solo tu?» Hattie si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea. Suppongo che ci sia anche qualcun altro.» Michael fissò il pavimento per un attimo. «È difficile accettare tutto questo.» «Allora non farlo.» Hattie gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. «Nessuno te lo sta chiedendo, ti sei solo trovato in mezzo a questa situazione. Torna al tuo vino e ai tuoi bambini e dimentica tutto quanto.» «Non credo di poterlo fare,» rispose lui. Lei gli sorrise, stringendogli la spalla per un momento. «Grandioso! Allora posso chiederti di aiutarmi, ogni tanto.» Tornò verso i folletti e prese l’estremità del filo, tenendolo stretto mentre li tirava delicatamente verso di sé.
«Aspetta un attimo, che vuol dire che mi chiederai di aiutarti?» Domandò Michael. Hattie si fermò all’improvviso per guardarlo, con il gruppetto di folletti che le finì addosso senza che lei sembrasse infastidita. «Oh, sai, le solite cose. Tenere d’occhio la mia casa quando non ci sono, prendere la posta, quelle cose lì.» Sorrise. «Perché, pensavi che intendessi qualcos’altro? Pensavi che volessi una mano con le creature?» «No,» mentì lui. «Casa e posta. Ottimo, certo.» Diede un’occhiata all’orologio: erano quasi le otto e mezzo. Aveva detto ai ragazzi di tornare prima delle nove e non voleva che rientrassero in casa e gli chiedessero perché una donna dai capelli rossi stava portando un gruppo di creature macchiate di blu a so per la loro nuova casa. Non senza fatica, Michael e Hattie riuscirono a portare i folletti giù per le scale e a infilarli nella vecchia Mini gialla di Hattie, che era parcheggiata fuori da casa sua. Non riuscirono a farli entrare tutti nel portabagagli, nonostante fossero piuttosto piccoli, quindi Michael fece da palo mentre Hattie li ficcava sul sedile posteriore. Hattie e Michael si appoggiarono all’auto, entrambi con la pelle e i vestiti macchiati di vernice blu lì dove avevano toccato i folletti. «Per fortuna che questa roba viene via,» commentò Michael, pulendosi le mani sui pantaloni. «Grazie per l’aiuto.» «Ti direi “quando vuoi”, ma...» Lasciò la frase in sospeso e sorrise. «Allora direi che ci rivedremo in giro.» Hattie aprì lo sportello del guidatore e scivolò sul sedile. «Dove li porti?» «Credo che siano delle parti di Exeter, quindi li porterò lì.» «Exeter? Ma ti ci vorranno delle ore, non arriverai prima di mezzanotte.»
«No, ma prima parto, prima posso tornare.» Inserì la chiave e la girò, facendo ruggire il motore. «E poi se li tenessi fino a domattina mi terrebbero sveglia imprecando e cantando. Oddio, quelle canzoni...» Rabbrividì. «Comunque grazie di nuovo, Michael.» «Figurati.» Michael indietreggiò mentre Hattie chiudeva lo sportello. Lo salutò con la mano e poi partì. Michael osservò la piccola Mini fino a quando non sparì dalla sua vista, poi tornò verso casa sua, cercando di mettere a fuoco tutto quello che era successo. I ragazzi tornarono poco dopo, carichi di scatole di pizza. Ingrid cullava tra le braccia una bottiglia di limonata. Trovarono Michael seduto in cucina a bersi un caffè, col portatile aperto di fronte a sé. «Ehi, ragazzi,» disse, chinandosi a dare un bacio alla figlia. «Com’era Edimburgo?» «Fantastica!» esclamò Ben, buttandosi su una pizza. «Abbiamo camminato per tutta Princes Street e poi siamo andati a giocare a bowling e io ho vinto due volte!» «Una. Hai vinto una volta sola,» lo corresse Ingrid. «Tom ha vinto due volte.» «Sì, ma tu mi hai quasi battuto, Ing,» disse Tom, solleticando la sorellina sotto il mento e facendola ridere. «Abbiamo pensato che magari avevi fame, papà, quindi abbiamo preso la pizza.» «Lo vedo,» rispose Michael, con già l’acquolina in bocca al sentire il profumo delizioso che si levava dalle scatole di cartone. Posò il caffè e andò a cercare dei piatti. «E avete ragione: ho una fame terribile.» «Ti sei goduto la tua pace e la tua tranquillità, allora?» chiese Tom, versando la limonata in quattro bicchieri. «Scommetto che hai ato una bella serata noiosa.» Michael lanciò un’occhiata allo schermo del portatile, che mostrava un articolo sui folletti. «Sì,» rispose. «Una serata molto noiosa.»
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