Non Mordere La Mano Che Ti Nutre v303o

Andrea Marchi

NON MORDERE LA MANO CHE TI NUTRE

Abel Books

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Indice

Estate Autunno Nella nebbia

Estate

1. Matteo, Matteo dove sei? Que mi insomnio es mi castigo tu amor sera mi alivio csss Nelle maggiori città italiane colpite dall’afa, sono stati allestiti sistemi di sicurezza csss Do I have to change my name? Am I gonna be a star? Do I have to change my name? csss Bush e Saddam sono paradossalmente uniti nella medesima invocazione alla guerra santa e all’esaltazione del martirio dei propri soldati csss Io volessi dirti addio ti chiamereeeiii Se io rivedendoti fossi certa che non soffri

ti rivedreeeiii Se guardandoti negli occhi sapessi dirti basta ti guardereeeiii Ma non so spiegarti che il nostro amore appena nato è già finiii – iii - tooo dan dan dan dan dan dan Il gatto si avvicinò all’orlo del tavolo e due mani lo trattennero prima che saltasse giù. “Fermo, buono micio, buono.”. Il ragazzo alzò l’animale per la pancia e se lo rimise sotto gli occhi, riprendendo l’ispezione del pelo, in cerca di zecche o quant’altro. Adorava quell’ultima canzone. Spense la radio, perché le riecheggiasse liberamente in testa, senza interferenze. Una mosca continuava a ronzargli intorno. Ora zampettava sul suo braccio madido di sudore. S-ciaf. Mancata. S-ciaf. Mancata ancora. Faceva troppo caldo. L’estate duemilatre sarebbe stata la più calda dell’ultimo decennio. Il gatto agitava la coda. Fece di nuovo per saltar giù dal tavolo, ma il ragazzo riuscì ad acciuffarlo un secondo prima. “Bello micio, dove vai?”. Lo strinse fra le braccia. Gli carezzò la schiena e la pancia. La coda vibrò e ondeggiò lentamente verso destra. Gli occhi del gatto erano immobili. Al primo fff dell’animale, il ragazzo mollò la presa. MATTEO, MATTEO DOVE SEI? Era la voce di sua sorella. Un istante dopo comparve affannata in giardino. “Potresti anche rispondere quando ti chiamo. Ti ho portato un regalo.”

“Che regalo?!” Teneva le mani dietro la schiena. Matteo si dondolava a destra e a sinistra, nel tentativo di scorgere qualcosa. “Un lettore cd tutto tuo!” gridò alla fine sua sorella, sventolando in cielo la mano con il regalo. Matteo gridava di gioia e saltava come un rospo. “Ci posso ascoltare musica dove e quando voglio?!” “Dove e quando vuoi.” Matteo ne fu felice. Fece un balletto che solo lui e sua sorella sapevano. Il balletto della felicità. “Telecamera, trucco. Registriamo!” Mi chiamo Matteo. Il mio nome non mi piace. Che nome vorresti? Un nome nuovo tipo... Luigi Filippo D’Orleans, Donatello, Mullah Omar. Li trovo, belli no? Mullah non è un nome E che cos’è? Un prete, tipo, solo che musulmano Ah ...E cosa ti piace fare? Mi piace travestirmi da cose diverse. Da grande voglio fare l’attore. Guarda che facce che so fare. Non bisogna saper fare solo facce diverse, per essere un bravo attore.

So fare anche altro. Tipo imitare... ALLL-LEGRIA. Chi è? Mike Buongiorno Seee buongiorno. Buongiorno. Sei sicuro che non è Buongiorno?! Sì Mmh... Cari telespettatori, dovete sapere che mio fratello è un cacasotto. Vuoi che ti racconti la storia della bambina morta? Mia sorella è una puzzona. Prima di dormire scoreggia. Mio fratello è un cacasotto perché ha paura della storia della bambina morta. Mia sorella è... A mio fratello piace Bea NOOO, bleah! Che merda! Gli piacciono le ragazzine con le tette da vecchia Mia sorella è... lesbica Sai cosa vuol dire lesbica? ... Non sai cosa vuol dire lesbica, vero? So cosa vuol dire frocio. È la stessa cosa di lesbica, solo che vale per le femmine. Lo sapevo. Aspetta che prendo una cosa. Chiudi gli occhi... apri! Scenetta d’innamoramento

Ma dai! Quella Barbie è decapitata. È una prova, non importa. Vabbé... Ciao sono Ken. Non vedi che muscoli che ho. Sei molto carino Ken. Non può parlare se è decapitata. Allora che fa? Scoreggia. ... Usciresti con me stasera, Barbie? Prrr. Ho la cacarella. Allora, quando la diarrea ti sorprende, sorprendila con Imodium 2. GLI APPUNTAMENTI DELLA SETTIMANA LI TROVATE IN FONDO. “Ptsss… Alice?!” “Eeeh! Io vado fuori mamma.” Ssst, aveva fatto con il dito, il vecchio del posto davanti. “Ho mal di testa, esco.” NEL NOME DEL PADRE, DEL FIGLIO E DELLO SPIRITO SANTO. “Seee, mal di testa.” borbottò sua madre “Era questione di un minuto.” A Matteo gli formicolavano le mani per la benedizione. Non sarebbe più andato a messa. Aveva deciso che la religione è solamente una

questione tra l’uomo e Dio; niente preti, catechismo e messa la domenica. Tanto lui al buon Gesù ci credeva lo stesso e lo pregava a casa. Inoltre, quelli che andavano a messa venivano presi per il culo il doppio, per non parlare di quelli che facevano i chierichetti. Anche sua sorella non voleva più andarci in chiesa. Aveva detto di essere atea. Ateo vuol dire che chi lo è, non crede in Dio. Ateo era qualcosa di estraneo a loro madre. Dì almeno le preghiere, le aveva risposto. LA MESSA È FINITA. ANDATE IN PACE. Matteo guizzò fuori dal suo posto come una biscia, ritrovandosi però incolonnato. La porta della chiesa si apriva e si chiudeva. Il sole entrava e rimaneva fuori. Sarebbe stata davvero l’ultima volta quella. Adesso, con le vacanze scolastiche, anche la messa andava in ferie. Ancora un poco. Esci, esci. Matteo aprì la porta e il sole lo accecò. Barcollò giù per i gradini, finché pian piano riprese a vedere. Il muso schiacciato di Bea, sua madre che chiacchierava con la madre della ragazza. E sua sorella dov’era? Dopo la messa, Matteo, sua madre e sua sorella andarono a bere l’aperitivo al Bar Nazionale con la famiglia Visentin. Erano amici, e la figlia dei coniugi Visentin, Bea, aveva fatto le medie con Matteo. Non era vero niente che le ragazze grasse sono le più simpatiche; Bea era una gran rompiballe. Tutti la prendevano per il culo, anche quelli che lei non credeva. La chiamavano tettona, perché il petto le era cresciuto più rapidamente delle sue compagne, ma lo stesso, erano tette che facevano schifo, sgonfie come due palloni bucati. Matteo guardava fuori dalle vetrate del bar e nel riflesso del vetro intravedeva la sua faccia. Aveva un brufolo gigantesco in fronte. Tirò su col naso. Gli serviva un fazzoletto, ma non aveva voglia di chiederlo a sua madre. Non aveva voglia di parlare, né che nessuno gli parlasse. Il padre di Bea gli si era seduto di fronte. Era uno di quelli che contano in paese. Conosceva molte persone importanti. Stava sfogliando La Gazzetta dello Sport e ogni tanto guardava Matteo. Erano già tre volte.

“Per che squadra tifi, Matteo?” disse alla fine “Per nessuna. Non mi piace il calcio.” rispose il ragazzo “Ma dai!” ... “Che scuola hai scelto per il prossimo anno? Bea mi diceva che eri un secchione.” “Insomma, abbastanza... Liceo scientifico comunque.” “Anche tu il liceo. Hai già in mente qualche università allora!?” Matteo non avrebbe voluto neanche farlo il liceo. E poi non era detto che bisognava fare per forza l’università. È vero che tutti dicevano che senza una laurea, al giorno d’oggi, non vai da nessuna parte, e che se non vai all’università, con il diploma del liceo è come non avere niente in mano, però lui non ci credeva e avrebbe fatto di testa sua. Alla fine, si era iscritto al liceo perché a scuola se la cavava bene e ci teneva a essere sempre il migliore. “Bea è fissata con l’idea che vuole fare giurisprudenza.” Nel frattempo la ragazzina aveva chiesto dei soldi a suo padre per una coppetta di gelato e lui le aveva sganciato venti euro. Il signor Visentin era un omone alto e bruno. Da seduto occupava due posti, ed aveva allargato le braccia dietro le spalle di sua moglie. I primi bottoni della camicia erano aperti e mostravano un torace scuro, cosparso di peli, e una catenina d’argento appiccicata alla pelle. Ad un certo punto prese a controllarsi le tasche, per poi tirar fuori il cellulare, portarselo all’orecchio e parlare a voce alta. Sua moglie gli fece cenno di parlare piano, ma lui fece l’occhiolino a Matteo e continuò a parlare forte. Portava un grosso anello all’anulare e se lo gingillava davanti agli occhi finché discuteva al telefono. “E smettila di tirar su col naso!” Il tono duro di sua madre lo sorprese e lo indispettì. Non aveva tirato su col naso.

“Non ho il fazzoletto.” ribatté Matteo “E mettitelo in tasca prima di uscire! Ma non quelli di stoffa, quelli di carta che vanno meglio. Ha il brutto vizio di tirar su col naso.” disse alla fine sua madre rivolgendosi alla madre di Bea. Quest’ultima guardò il ragazzo con occhi brillanti. Era una donna allampanata, vestita di bianco e nero, e rimestava nella tazzina di caffè una bustina di zucchero dietetico. Matteo prese un fazzoletto di carta dal pacchetto e si soffiò il naso, rabbiosamente, come per cavarselo e darglielo, pieno di sangue e moccio, in mano a sua madre. “Dovresti tagliarli questi capelli però!” continuò lei “A me piacciono così.” “Ma sono lunghi e adesso, d’estate, sudi. E poi, i capelli corti ti fanno il viso più pulito, più ometto.” Poteva andare al diavolo sua madre e il suo ometto. Lui era affezionato ai suoi capelli lunghi da rockstar. Una cameriera arrivò con una coppetta di gelato da due gusti e panna montata sopra. Bea vi si scaraventò sopra e prese ad abbuffarsi come un cinghiale, impiastricciandosi la bocca e perfino la punta del naso. “Sai, ho incontrato Marcello e Alex l’altro ieri.” disse con la bocca piena. Matteo ebbe un improvviso tuffo al cuore, di quelli che non sapeva gestire. Alice lo salvò tirando fuori dalla tasca il cellulare, offrendogli così, la possibilità di cambiare argomento. “Chi è?” chiese lui bruscamente “Martina.” ... “Hai il moroso, Alice?” intervenne Bea

La ragazza s’irrigidì e con gli occhi bassi, lisciandosi i jeans, rispose di no. Bea rise, mostrando quello che aveva in bocca. “Anche il tuo fa le foto?” disse poi, sporgendosi per vedere cosa scriveva Alice. “No.” “Ti faccio una foto col mio.” “No dai!” Alice non si piaceva nelle foto. “Sorridi.” “Dai no!” Ciak! “Guardati, sei venuta bene.” I grandi avevano pagato e fecero segno ai tre ragazzi di incamminarsi. Devi vedere che bel mare c’è in Sardegna, diceva Bea ad Alice. “Voi dove andate al mare?” “Da nessuna parte.” rispose i due fratelli all’unisono BEA VIENI QUA UN ATTIMO, l’aveva chiamata sua madre da dietro. “Sì mami?!” Era il momento. Alice e Matteo avevano un paio di metri dal gruppetto. Stavano discutendo. Anche loro madre. Senza fare nessun segno, Alice scattò in avanti, voltando a destra, per la prima via che aveva incontrato. Matteo la seguì, (ma Alice di colpo era sparita), così disorientato, si nascose dietro l’angolo di una casa. Lì, aspettò una manciata di minuti, riprendendo fiato.

Sentì la voce di sua madre, poi quella della madre di Bea, poi quella di Bea. Poi le voci si estinsero. Decise allora di uscire allo scoperto e di risalire la via per cercare sua sorella. Improvvisamente comparve come uno spettro, BUH! Matteo mollò un urletto sgraziato. Alice si spanzava dal ridere. “Vaffanculo.” sbottò il ragazzo “Vaffanculo.” e prese a ridere dietro la sorella. 3. “Quanto è antipatica quella cicciolona merdosa di Bea.” “Brufolosa, pussoide.” “La sua faccia è un brufolo gigantesco.” “È la faccia di un bulldog.” “Quali sono i bulldog?” “Quelli con il muso schiacciato e gli occhi a tetto come lei.” … “Telecamera dai!” esclamò Alice Matteo con i pollici e gli indici disegnò un rettangolo, e con un occhio strizzato e l’altro che ci guardava dentro, mimò il cameraman. Il villaggio dove vado io è il migliore della Sardegna. L’anno scorso c’era anche Cannavaro. L’ho visto in spiaggia con la moglie. CHE FIGO! E lei, che cesso! Come fa uno così a stare con una così. Gru gru gru. (Quando rideva, Bea faceva un verso simile al grugnito dei maiali) La mia faccia è un brufolo pieno di pus giallognolo. Adesso me lo schiaccio. “Bleah!” esclamò Matteo.

Risero insieme, poi dal nulla, sua sorella s’incupì. Infilò la mano nella tasca davanti dei jeans e tirò fuori un pacchetto di sigarette, identiche a quelle che fumava il loro nonno. Guardò il fratello, per fargli capire che non doveva saperlo nessuno, ma non gli chiese se ne voleva una. Per questo, Matteo gliene fu grato. Alice s’accese una sigaretta e cominciò a fumare. Anche se cercava di non fissarla, Matteo s’accorse chiaramente che sua sorella non sapeva fumare come il nonno. Le tremava la mano e i suoi tiri erano rapidi e corti. Era la prima volta che Alice non sapeva fare bene una cosa e questo gli dette parecchio fastidio. Vide sua sorella per quello che non era e non aveva mai visto, e non gli piacque per niente. “Non devi fumare.” ... “La mamma non frena la lingua quando è con gli altri.” disse Alice evitando il discorso “È una stupida ingenua. Non capisce che così la fregano.” Continuava a sbatter la cenere ogni volta che faceva un tiro. “Poteva anche fare a meno di dire a voce alta di non tirare su col naso. Mi ha dato un fastidio!” le fece eco Matteo Alice annuì. “Sono cazzi miei, no?” Sua sorella lo guardò. Matteo, lì per lì, non riuscì a capire che sguardo fosse. Una volta aveva detto figa davanti a suo padre; se figo vuol dire bello, figa è bella; però doveva aver capito male, perché suo padre l’aveva guardato molto, ma molto peggio, di come lo stava guardando adesso sua sorella. Alla fine, Alice scoppiò in una sonora risata. “Andiamo dai.” Fumò ancora, fino ad arrivare al filtro, poi buttò per terra il mozzicone. S’incamminarono. Parevano due coetanei. Alice, con suo fratello, si levava di

dosso tutto il casino dei suoi sedici anni. “Andiamo per di qua, così tagliamo.” Matteo girò lo sguardo verso dove indicava sua sorella. Le case a schiera delineavano una dolce curvatura della strada. Rivoltò la testa, subito dopo che aveva visto. “No dai, continuiamo dritti. eggiamo un po’.” disse, tirando Alice per il braccio. “Mi fai male, molla!” Alla fine si divincolò dalla presa del fratello. Pure lei volse lo sguardo verso dove aveva guardato Matteo; un gruppo di ragazzini si faceva avanti. Allora decisero di proseguire dritti. 4. Sua madre, piatto bicchiere forchetta coltello. Sua sorella, piatto forchetta coltello bicchiere. Noi, piatto forchetta, la preferita, coltello bicchiere, quello della collezione Nutella. Suo padre, capotavola, forchetta, la sua, tovagliolo, il suo, coltello, il suo, piatto bicchiere. “Dove siete scappati prima? Ma che figure di... merda mi fate fare!” Sua madre stava lavando l’insalata per il pranzo. Era incazzata nera. Sua sorella, invece, stava di sopra, in camera, che ascoltava musica. “Alice doveva farmi vedere una cosa. Non potevate venirci tutti. Sono cose segrete, mamma.” “Matteo smettila!” inveì sua madre “Hai quattordici anni, o no? Cosa devo fare anche con te?!” Il ragazzo afferrò il paniere e andò a deporlo al centro della tavola. Sua madre gli aveva fatto andare in malora la gioia del pranzo domenicale. Cosa voleva dire, che era solo un bambino? Non capivano proprio niente lei e suo padre.

Staccò un pezzetto di crosta da una pagnotta, poi scavò nelle sue viscere e cavò fuori, con grossa soddisfazione, la mollica. Dando le spalle a sua madre, con la mantovana sotto gli occhi, infilò ancora le dita nel buco che aveva fatto e ci raspò per benino. “Non mangiare tutta la mollica! Lo sai che tuo padre s’arrabbia!” “No no... non la mangio mica.” Prese la pagnotta e la seppellì sotto altre tre. Improvvisamente, suo padre spalancò la porta della cucina; aveva gli occhiali da sole nuovi e il giornale sotto braccio. Salutò e dal saluto si capì che era una buona giornata. Posò il giornale e si levò gli occhiali. Allora, con un paio di sguardi ispezionò la stanza. Sua madre gli ò accanto con la bottiglia dell’aceto. “Hai preso il TV Sorrisi&Canzoni?” “…Me ne sono dimenticato.” Poi si rivolse a Matteo. “Matteo metti il vino. ALICE SCENDI CHE È PRONTO!” Nel frattempo suo padre aveva la televisione. “ALICEEE!” ... “ALICEEE!” La musica al piano di sopra improvvisamente cessò. Una trentina di secondi più tardi, sua sorella fece la sua apparizione in cucina. “A che ora dobbiamo mangiare?!” protestò sua madre “Potevate mangiare.” sbottò lei “Perché rispondi così a tua madre?!”

Suo padre aveva alzato il volume della TV. Tan ta da da da dan. Tadannn. Il Tg1 era appena cominciato. Alice e Matteo si misero il cibo sul piatto e andarono a sedersi nei rispettivi posti. Loro madre portò due fette di bistecca e l’insalata a papà. “Tan ta da da da dan. Tadannn.” Matteo aveva mollato un calcetto alla caviglia di sua sorella, che aveva fatto finta di niente. Fui fui fui fui fui fui fuifuiii. Matteo le diede un altro calcetto. Fui fui “Matteo, la smetti di fischiare, perdio! Guarda te, non c’è una volta che posso ascoltare il telegiornale in santa pace.” brontolò suo padre con il fumo alle orecchie. Alzò ancora il volume di una tacca. Ammazzato il proprietario di una tabaccheria nel bresciano. I responsabili dell’assassinio sono due giovani romeni, già arrestati dalle forze dell’ordine, che stavano tentando di rapinare la tabaccheria. Il proprietario aveva cercato di reagire, ma uno dei due romeni ha fatto fuoco. Apparvero le foto dei due romeni arrestati. Avevano due brutte facce; i lineamenti aguzzi, gli occhi duri come pietre. “Cosa bisogna fare con ‘sta gente qua?!” s’imbestialì suo padre “Ammazzarli! Non metterli in galera, ammazzarli. Pena di morte?! Troppo poco... Si doveva fare come diceva Bossi. Fuori dai coglioni terroni ed extracomunitari.” “Non dire così, non voglio che i nostri figli diventino razzisti.” lo sollecitò sua madre “Non è questione di essere razzista, io non sono razzista. Io rispetto le altre culture. Ma perché loro non devono rispettare la mia? Sono tutti bravi a fare i

falsi buonisti, qua. Sono disagiati, poveretti, dobbiamo aiutarli ad integrarsi. A me sembra che per loro sia una scusa bella e buona per andare in giro e uccidere la gente che non c’entra niente?! Voglio vedere se fai così a casa loro. Ci sono delle leggi che regolano un paese. Vanno rispettate, punto primo. È così che ci si integra... È quella di ogni giorno. L’altra volta quella ragazza che è stata investita da un albanese ubriaco. Io farei come in America: pena di morte e chiuso.” “Cosa è successo papà?” mormorò Matteo Gli piaceva vedere suo padre incazzato, se non lo era con lui. La pensava così per gli extracomunitari. Non era razzista, solo che i musulmani non gli andavano a genio, i cinesi neanche, perché erano sporchi, i rom perché rubavano, e tanto manco gli slavi e gli albanesi. Preferiva di gran lunga i negri, perché erano gentili e sorridenti. Considerava i sudamericani degli attaccabrighe, però non c’era nulla da fare: erano dei grandi campioni di calcio. La conduttrice del Tg1 continuava a parlare dell’argomento con tono severo. Abbiamo raccolto nelle maggiori città italiane, le testimonianze della gente comune, per vedere cosa ne pensa di questo continuo afflusso di immigrazione. Sentiamo. “Certo che sono cretini anche i giornalisti!” proruppe suo padre “Cosa deve pensare la gente. Che se va avanti così nessuno uscirà più di casa.” tzzz Gianni l’ottimismo è il profumo della vita “Perché hai cambiato canale?” fece suo padre rivolgendosi a sua madre “Rimetti sul telegiornale.” “No dai! Guardiamo qualcosa di più allegro... Comunque non voglio che parli così, di pena di morte con i tuoi figli.” disse sua madre “Sì va bene, dico per dire! Però bisogna inasprire le pene. Pene severissime, come in giro per l’Europa, e poi vedrai che la gente ci pensa su due volte prima di commettere un reato.” “Hai ragione, ma bisogna anche, in qualche modo, agevolare l’integrazione di

questa gente. Non voglio giustificare, ma c’è ancora troppa ostilità nei confronti di uno straniero. Io per prima, eh!... Buon senso, ecco cosa ci serve.” Matteo dava ragione a sua madre, per una volta. BUON SENSO. “Buon senso?! Un paese non è che si fonda sul buon senso! Ognuno ha il suo. Ci sono le leggi, le regole valide per tutti. Adesso parlo in generale. Pensa a quante cose la gente bada; casa, macchina, vestiti, vacanze. E tutti se ne fregano delle regole o non ci pensano. Le regole hanno un suo perché. Sono un compromesso. Un patto. E chi non le rispetta va punito... Occhio per occhio, dente per dente, dico io.” “Calmati adesso.” fece sua madre, sfiorandogli la mano, poi riprese a parlare “Oggi i tuoi due figli mi hanno fatto fare una figura da rincitrullita. Sono scappati via finché ero con i Visentin. Come se avessero due anni a testa.” Sua sorella, con il capo chino sul piatto, continuava ad imboccarsi. Alzava ogni tanto lo sguardo per seguire la TV. “Sono solo vostra madre per lavare, stirare e farvi da mangiare?! E il rispetto?” “Mamma, doveva farmi vedere una cosa importante. Te l’ho già detto.” “Smettila Matteo!” Matteo sperò che sua madre morisse fulminata in quel momento. Poi pensando a quel che aveva pensato, ritirò il pensiero. Alice si alzò e uscì dalla stanza. “Dove vai?!” la inseguì con la voce sua madre “Non abbiamo ancora finito il discorso. E visto che non sono più vostra mamma, mettiti le posate e il piatto nel lavandino. Siete stati abituati troppo bene, ecco cos’è. Ma la storia cambia adesso. Sono stufa.” Matteo si alzò, commensali in mano, quando un movimento, avvertito con la coda dell’occhio ed un presentimento, lo fecero mollare tutto nel lavandino e con ò spedito e chiappe strette si cacciò fuori dalla stanza. Era sulle scale che portavano alle camere quando, sentì suo padre alterarsi.

“D’ora in avanti non si compra più il pane. Gli taglio le mani a quel ragazzo!” 5. La seconda guerra mondiale è stata causata, Hitler invase la Polonia. Le alleanze sono due: Triplice Alleanza, Italia Germania Russia, e l’asse Tokyo Roma Berlino? Uno, due, tre i. Siamo in pallone, non ricordiamo più niente. Matteo aveva un solo tarlo in testa, sempre lo stesso, che lo deconcentrava da tutto il resto. Lasciava il suo pensiero metter radici e divagava dal rio di storia. Ad esempio Hitler. Adesso, sapeva che stava pensando ad una cosa sbagliata, eppure l’aveva pensata; alla fin fine è perché le persone sono diverse che ci sono mille problemi nel mondo. Non è vero niente che siamo tutti uguali. Tutti dicono che gli uomini sono uguali perché sono uomini, ma anche il leone e la zebra sono tutti e due mammiferi. Sono uguali perché tutti gli uomini muoiono. Ma una volta morti non sono più uomini. E neanche all’aldilà sono tutti uguali. Matteo aveva quattordici anni, ma i grandi non potevano nemmeno immaginare che guai doveva affrontare, altro che la casa, la spesa e fine mese. Quelli suoi erano i veri problemi. Quel suo tarlo: non venir considerato, o peggio venire schernito. Aveva capito che non voleva essere come gli altri, che gli altri lo volevano come loro e che il bene non è poi tanto bene. Stava da solo in un angolo del cortile, per tutta la durata dell’intervallo. Alcuni ragazzi gli si avvicinavano o semplicemente gli avano di fianco. Se rimaniamo fermi è come bere la pozione dell’invisibilità. La nana prof d’italiano e storia deve avercela con noi. Ha sempre creduto che avessimo qualche problema, “di socializzazione”. Ma noi non abbiamo nessun problema. È lei che ce li ha fatti venire. È brutta, sembra una strega, con quel mento appuntito e i capelli ricci, grassi, come imbevuti d’olio. “Matteo, vieni a riare con me?” Era Irene. L’aveva scosso dai suoi pensieri senza preavviso e questo lo infastidì parecchio. Ci rifletté un attimo, poi acconsentì alla proposta della ragazza.

“Hai studiato bene la seconda guerra mondiale?” disse lei “Abbastanza.” “Ho una paura tremenda per gli esami.” “Maddai, saranno facili. Mia sorella mi ha detto che gli esami di terza media sono facilissimi.” “Manca solo un mese. Non vedo l’ora che sia tutto finito.” “Già.” “Dimmi dello sbarco in Normandia.” “Lo sbarco in Normandia….” Matteo avvertì un rumore di i alle sue spalle. Lo sfregolio della ghiaia sotto i movimenti scomposti e pesanti di qualcuno. “Allora lo sbarco in Normandia….” Il rumore dei i è accompagnato da degli schiamazzi. Li ha riconosciuti. Sembra il terremoto. Marcello, la Pantegana e Alex ci stanno alle calcagna. “Gli americani arrivano in Normandia nel 1944.” Va via. “Liberano la Francia.” Va via, va via. Scappa! Bam bam bam. Una scarica fredda lungo la colonna vertebrale lo immobilizza e gli fa perdere per qualche istante il senso dell’equilibrio. “Lasciatelo in pace! Stiamo riando.” ringhiò prontamente Irene “Fatti i cazzi tuoi!” le sibilò la Pantegana “Vogliamo riare anche noi, frocio.” ghignò Marcello “Mi devi are il compito, capito!” lo intimò la Pantegana Matteo annuì. Bastava solo che andassero via.

“Lasciatelo stare!” insistette Irene “Sennò che fai.” ribatté Alex Marcello si avvicinò minacciosamente a Matteo, sebbene Irene cercasse di contrastarlo. Aveva lo sguardo cattivo. Matteo era immobile, duro come un palo. Non gli riusciva di parlare, tantomeno di muoversi. Gli bastava solo che se ne andassero. Non si accorse nemmeno che alle sue spalle la Pantegana si stava avvicinando e che con un guizzo rapidissimo gli strappò di mano il libro di storia. Lo lanciò per aria ed alcuni fogli, che c’erano dentro, svolazzarono di qua e di là. Inoltre, la copertina aveva uno strappo vistoso. “STRONZI!” gridò Irene, accucciandosi subito, per aiutare Matteo a raccogliere i fogli del libro. Matteo stava per scoppiare in pianto, ma pensò a sua sorella. “Adesso questo lo facciamo vedere alla prof.” disse Irene rivolgendosi a Matteo e riferendosi alla copertina. “Provaci solo, frocio!” ringhiò Marcello FROCIO, FROCIO! Matteo cominciò a correre. Come l’uomo più veloce della luce. La Pantegana e Alex lo rincorsero. La Pantegana lo avvinghiò per la maglietta. Matteo si voltò e d’impulso gli diede un calcio allo stinco. RAGAZZI BASTA, urlava la nana prof d’italiano e storia, correndo come poteva verso i due litiganti. Riuscì ad intromettersi e a separarli. Marcello rideva in disparte. “Andate in classe.”disse la prof Tutti i ragazzi che avevano assistito alla scena, guardarono chi ridendo, chi severamente, Matteo, quando ò davanti a loro per ritornare in classe. Cosa avete da guardare, pensò. Cosa avete da guardare, tutti? 6.

Cominciavano un centinaio di metri prima del supermercato ad alzarsi sui pedali delle loro biciclette, quella di sua madre lei e la mountain bike lui. La mountain bike ce l’aveva da quando aveva otto anni; ormai le ginocchia gli arrivavano al manubrio. CHI ARRIVA ULTIMO APPARECCHIA! Matteo era arrivato per primo. Vinceva quasi sempre, eppure ogni volta toccava a lui apparecchiare. “Stavolta però la apparecchi tu sul serio.” disse a sua sorella “Va bene.” “Giura.” “Giuro.” “Giura bene.” Sua sorella sbuffò. Poi incrociò i due indici e li baciò, come vige da regolamento. “La lista ce l’hai tu?” chiese al fratello “Sì.” Matteo cavò dalla tasca il bigliettino della spesa. C’erano poche cose da prendere e avevano a disposizione cinquanta euro. Con il resto avrebbero avuto abbastanza soldi per prendere due coppete al cioccolato e panna montata, da mangiare poi di nascosto in giardino. Secondo loro madre erano andati al Prix, ma al Prix ci vanno solo gli extracomunitari e i morti di fame, e le robe che vendono lì sono di sottomarca. Una volta, al Prix, Matteo aveva visto la madre di Bea. Fu una grossa rivincita, che lo fece sprizzare di felicità una settimana intera. Quando si erano incrociati, la madre di Bea, dalla vergogna, s’era quasi tuffata dentro la vasca dei surgelati. Alice e Matteo erano solidali sul fatto di non andare al Prix. Alla Coop, invece c’erano le cose di marca. Furono svelti a prendere tutto quello che dovevano e alla fine si diressero verso

il banco frigo, con lo sguardo e la mano indirizzati dove si dovevano trovare le coppete. CIAO MATTEO, CIAO ALICE. Li sorprese una voce alle spalle. Quando si girarono, per rispondere al saluto, la mamma di Niccolò stava sorridendo loro, con quella dentatura brillante e gli occhi commossi, che usava sempre per salutare. Era una donna giovane e bella, e teneva i capelli fino a metà schiena, da far invidia ad una ventenne. “Come sta la mamma ragazzi?” “Bene.” “E il papà?” “Bene anche lui.” La donna si chinò per prendere una confezione di latte. Dietro apparve Niccolò, suo figlio, che lanciò a Matteo un’occhiata sprezzante. Era stato in classe sua alle scuole medie. Non aveva mai legato con nessuno e non ci si poteva fidare di lui. Inoltre, dicevano che fosse uno spara balle. La signora dal Molin guardò il figlio e poi Matteo. “a a trovare Niccolò un pomeriggio di questi. Lui è sempre a casa da solo. Almeno vi fate compagnia.” “...Va bene.” rispose Matteo, annuendo con la testa. Niccolò aveva spinto il carrello verso gli scaffali della pasta e dei biscotti. Mugugnò qualcosa, poi emise un lamento simile ad un ciao, un attimo prima che sua madre gli dicesse saluta. “Ciao Matteo. Ciao Alice. Salutatemi la mamma.” Matteo si limitò a far sì con la testa. Era accaldato su tutto il corpo e le guance gli bollivano. Pensò che non riusciva a non reagire arrossendo, quando si trovava in situazioni di disagio. Avrebbe preferito non fosse così, avrebbe preferito

sopportare l’imbarazzo, invece di evidenziarlo in quel modo. Si guardò intorno e vide che sua sorella era già sparita. Poi, s’accorse che stava alla cassa e con la mano gli faceva cenno di muoversi. 7. Alice deve andare ad una festa. Sua madre e suo padre le avevano dato il permesso. Il telefono continuava a squillare. Era sempre per lei, la Eli, la Fra, ma soprattutto la Marti. Nessuno telefonava per Matteo. Alice stava rintanata in camera sua tutto il santo giorno, scendeva per mangiare o per guardare la TV. E per rispondere al telefono. Irrompeva giù per le scale come se avesse pesato una tonnellata. Poi, spifferava attaccata alla cornetta e quando Matteo e sua madre avano di là, con un gesto della mano, li ammoniva ad evacuare in fretta la zona. Alice deve aver trovato una compagnia. Una compagnia è un gruppo di ragazzi e ragazze che si trovano nel fine settimana per divertirsi. Speriamo sia la volta buona. Poi, quando trovi una compagnia, per una ragazza vuol dire che c’è dell’altro sotto, di solito. Avrà preso una cotta per qualcuno. O qualcuno la corteggia. Anche sua madre aveva avuto una compagnia da giovane. Era così che aveva conosciuto suo padre. Era la festa del patrono del paese. Una volta c’erano le feste del patrono. Allora venivano i vaccari a vendere le vacche e c’erano le bancarelle come al mercato del sabato e tre giostre, gli autoscontri, le catene e la casa degli specchi. L’ultima sera, che cascava di sabato, il tendone centrale diventava una specie di sala da ballo. Mi piaceva il rock ‘n roll, ma credete che vostro padre mi avesse invitato una volta a ballare? Era timido e per la testa aveva solo la sua lambretta e il calcio. Ma fra tutte le ragazze, aveva occhi solo per me. Lo so. Alla fine non avevano mai ballato insieme, ma non si sa perché, quella sera si erano baciati. A sua madre le erano tremate le gambe e aveva sentito lo stomaco sottosopra. Ci si sente diversi da innamorati, è così.

Alice era diversa ultimamente. Lo si vede dagli occhi. Gli occhi sono lo specchio dell’anima. Le capisce le cose vostra mamma, anche se voi non gliele dite. Sua sorella era distesa sul divano, in salotto, con gli occhi incollati alla TV. Matteo ava da una stanza all’altra della casa. Erano le due del pomeriggio. Faceva caldissimo. Veniva voglia di restare nudi. Matteo si sentiva appiccicoso, aveva la fronte e la nuca sudate. Le spalline della canottiera e l’elastico delle mutande gli prudevano a contatto con la pelle. Era annoiato e sonnolento, quindi stizzito; pensava che è meglio qualsiasi cosa piuttosto della noia, anche il dolore. La noia proprio non riusciva a sopportarla. A quell’ora del pomeriggio il rumore delle auto e dei camion cessava, solo il cinguettio ininterrotto di qualche uccellino in giardino e l’afa opprimente. In salotto faceva un po’ meno caldo. Le tapparelle erano abbassate quasi del tutto. Dalle fenditure, sottili lame di luce attraversavano l’oscurità della stanza. Matteo uscì dal salotto e si diresse verso la cucina. Prendi in mano un libro e leggi, gli aveva detto sua madre, dopo che l’aveva trovato come un cane che si morde la coda, a rigirarsi nel letto. Sta zitta mamma gli avrebbe gridato per un eccesso d’ira, ma non rispose, si tenne tutta la rabbia per se e smise di contorcersi. Adesso camminava per la casa battendo i piedi. Arrivò in cucina. Aprì il congelatore. Girò la scatola dei ghiaccioli per prendersene uno, ma la scatola era vuota. Non riuscì più a trattenere la rabbia. “MAMMA! I GELATI SONO FINITI!” ... “MAMMA!” “Li avete finiti voi. Io no di certo.” rispose sua madre da un’altra stanza Non c’è mai niente in questa casa, pensò Matteo, e quando pensava poteva anche bestemmiare, e giù una sfilza di cane e porco nella sua testa, puntando gli occhi

per sfida al crocifisso, alla faccia del buon Gesù, che tanto buono non era, perché a volte, le cose peggiori gliele faceva capitare proprio a lui e non agli altri. Ritornò in salotto, tesissimo. Sua sorella guardava i Simpson, con uno sguardo da pesce lesso. Pronto? Pronto. Cercavo Miss K Lurina? Un minuto. C’è qualcuno che si chiama Miss K Lurina. Miss K Lurina. Matteo si avvicinò a sua sorella e con un rapido movimento le pizzicò il sedere. “Ahi!” gemette lei Allora, le tirò il piede destro. Alice si divincolò dalla presa, infastidita. Si poteva giocare solo quando andava bene a lei. Pensò ad una parola, ma rimosse immediatamente il pensiero, tanto che si convinse di non averla neppure pensata. Le sfilò il calzetto e le scimmiottò davanti con il calzetto. “Lasciami in paceee!” disse, con voce stridula Matteo le tirò il calzetto in faccia. “MAMMAAA! Matteo mi rompe.” “MATTEO! LASCIA IN PACE TUA SORELLA! PRENDI IN MANO UN LIBRO E LEGGI… TI FA BENE LEGGERE.” gli urlò sua madre da un’altra stanza “Leggere non serve a niente. Tutto quello che serve veramente, non sta nei libri.” ribatté Matteo Se ne andò in bagno. Si mise davanti lo specchio. Il vetro rifletteva una pelle bianca come il latte, leggermente scottata lungo le braccia, sul naso e sulle guance. Il busto era glabro, magro, la pelle sottile come un guanto in lattice ricopriva appena la sua minuta cassa toracica, e aveva le tettine piccole e turgide. Si faceva schifo e provava pietà per se stesso.

Aprì il cassetto di un mobile di fronte allo specchio. Prese quello che gli interessava e dispose tutto in fila indiana, sul ripiano dello specchio. Il preferito era il rossetto di sua madre. Lei lo usava poco. Solo nelle occasioni speciali. Matteo si impiastricciò le labbra. Non era venuto bene. Che colpa ne abbiamo se non sappiamo mettercelo, di solito ce lo mette Alice. Allora prese la matita, il rimmel e un po’ di terra per le guance. Tremando con la mano, Matteo s’avvicinò la matita alle palpebre. Quasi si bucò l’occhio. Rabbrividì per intero al solo pensarci. Allora, prese i trucchi e li buttò dentro il cassetto, strattonandolo perché s’era pure incastrato; quando si sa che i mobili di legno si incastrano facilmente, solo quella famiglia poteva comprare mobili di legno, sua madre e il suo vizio, non sa mica che i mobili di legno si incastrano, e poi sono da curare, da mettere a posto e lei che c’ha poco tempo perché lavora; ma sua madre è fissata con l’ordine, la pulizia e il lavoro, è malata la sua povera mammina, poverina è proprio malata. Quando avrete una casa vostra capirete! Matteo non voleva una casa sua per sempre. Matteo voleva vivere in giro per il mondo. E non voleva fare sempre lo stesso lavoro. Non voleva avere per forza una famiglia; solamente gli bastava una grande storia d’amore e diverse amanti che soddisfero i suoi sogni erotici. Sognò di rimanere con le dita incastrate nel cassetto così quando sua madre avrebbe avuto un figlio monco allora sì ci avrebbe pensato due volte a comperare i mobili di legno e i ghiaccioli nuovi. Almeno sua sorella potrebbe darle una mano, a cosa servono le figlie sennò e poi sua madre si lamenta, ma è cretina se la lascia stravaccata sul divano, che non ha voglia di scenette, lui donna e lei uomo, e che guarda i Simpson. “Matteo, cosa stai facendo?” Il ragazzo trasalì e si voltò di colpo. Sua madre lo guardava in modo strano. “...Voglio fare l’attore mamma.” disse Matteo, con il volto scarabocchiato di rossetto e matita nera. La donna scrutò per benino il figlio e volle capire ciò che volle.

“Prima si deve studiare e poi puoi coltivare i tuoi hobby… ADESSO METTITI A POSTO, NON TI VOGLIO CONCIATO COSÌ.” Matteo si sciacquò velocemente la faccia. Hobby era una parola odiosa. Una parola che si addiceva più ai vecchi, che a lui. Le sue erano ioni. Salì in camera e si buttò sul letto. Sulla scrivania aveva un paio di occhiali da sole di plastica. Era ancora sporco in faccia. Il segno del rossetto era uscito dai margini delle labbra e un tratto rosso scendeva verso il mento. Gli altri non fanno queste cose, pensò.

8. “Mamma la maglietta è pronta? MAMMA!” Sua sorella strillava fastidiosamente. Era diventata una regola adesso. Ma sua madre le avrebbe mollato un bel manrovescio in bocca, se ci avesse provato ancora. Non è perché adesso hai sedici anni, che ti può rivolgere così a tua madre. “Mamma, dai che sono in ritardo! La maglietta, mamma!” Era diventata una pazza isterica, sua sorella. Quel pomeriggio doveva andare in piscina a casa di Christian. La sua maglietta preferita era ancora nel mucchio delle robe da stirare. Sua sorella era scesa in cucina con addosso una gonnellina e il pezzo sopra del costume. Era la prima volta che Matteo la vedeva così. Aveva un seno piccolo, la pancia piatta e i fianchi morbidi. I riccioli scuri le cadevano sulle spalle nude. Era bella sua sorella. Soprattutto quando gli faceva le linguacce. Il camlo trillò alle due, appena suonate. La madre di Martina era stata puntualissima. “Vabbé mamma, ne metto un’altra. Martina è arrivata.” “Adesso te la stiro. Vorrà dire che aspetterà un attimo. Falla entrare.”

“Mamma non importa, devo andare ciao.” Matteo s’affrettò a salire la rampa di scale che conduceva alle camere. Entrò in camera sua. La porta era aperta, le tende tirate, la luce del sole indorava la stanza. Con un dito scostò la tenda. Il sole picchiava sul tettuccio dell’automobile, parcheggiata davanti casa. Sua sorella aveva appena aperto il cancelletto ed era uscita. Non se la sarebbe presa alla fine. Il ragazzo lasciò la tenda e si cacciò in picchiata giù per le scale e fuori, chiamando sua sorella a gran voce. L’acqua della piscina era fredda. Alice ritrasse immediatamente le dita dei piedi. Doveva far tutto con calma. “Claudio, smettila di bagnarmi che non entro più.” Claudio continuava a puntarle gli occhi addosso, ma è viscido, le fa schifo. Alice si era seduta nuovamente sul bordo della piscina. Prima una, poi l’altra gamba, fino al ginocchio. Sono bianche come mozzarelle, le sue gambe. “Claudio vaffanculo!” Nessuno aveva le palle di dirgli quello che si pensava di lui. Alice si bagnò le cosce. Fredda. La sentì fino allo stomaco. Il sole gli bruciava le spalle. Decise di immergersi. Giù dritta, fino al collo. Gelida, gelida sulla pancia. Trattenne il fiato. Butta fuori. “Claudio vaffanculo!” “Sei uno stronzo.” lo rimproverò Martina Martina si era immersa anche lei. A noi piace Martina. Sa un profumo eccitante e il suo viso malizioso, con quelle labbra carnose e gli occhi scuri e svegli, somiglia a quello di Manuela Arcuri. Ma lei vorrebbe essere come Elisabetta Canalis.

“Matteo entra!” gli gridò Martina da dentro e con le mani alzò un po’ d’acqua. Gli spruzzi bagnarono il petto, il collo e le spalle del ragazzo, che rabbrividì. Le mattonelle intorno alla piscina erano bollenti, Matteo aveva le piante dei piedi arse e dure. Andò a sedersi sullo sdraio. “Lascia stare.” sbottò Alice. Si era molto arrabbiata per il tiro che le aveva giocato suo fratello. Aveva preso a lamentarsi come un bambino di cinque anni, finché lei e Martina non l’avevano portato alla festa di Christian con loro. Tutto ad un tratto Claudio emerse da sott’acqua, davanti a sua sorella, e le spruzzò in faccia l’acqua. “Daiii! Ouch ouch.” Lui rideva di gusto. “Vaffanculo, smettila!” Splash. L’acqua schizzò nuovamente dappertutto, come lamine di metallo negli occhi dei ragazzi e delle ragazze. Matteo indietreggiò d’impulso, quel che poté, per non bagnarsi troppo. La piscina si gonfiò. Due ragazzi nel fragore delle onde si battevano come due leoni. Alice stava in disparte a guardare. Matteo andò verso il tavolo, dove la madre di Christian aveva preparato il rinfresco. Allungò la mano su un bicchiere di plastica e si versò un po’ di succo di frutta. Quando la donna portò un vassoio di tramezzini e stuzzichini vari, dalle gole dei ragazzi si levò un boato di gioia. La piscina si gonfiò nuovamente, l’acqua andò a frangersi sui bordi, fuoriuscendo, portando con se nella rinsacca le ciabatte a bordo vasca e inzuppando gli asciugamano stesi per terra. I maschi più forti sopraggiunsero subito al tavolo, facendo valere il proprio corpo da uomo appena abbozzato, lucido e scuro, come la pelle di un serpente al sole. Matteo mangiò in disparte. Sua sorella faceva finta che non ci fosse. Gli arrivò un pezzo di tramezzino in testa. Claudio si guardava intorno che nessuno lo avesse sgamato. Idiota, pensò Matteo. Martina indossava un costume due pezzi nero, che metteva in mostra il suo bel

seno. Aveva la carnagione scura, un piccolo tatuaggio di stella marina sulla spalla sinistra e il piercing all’ombelico. Alice aveva lo stesso costume di Martina, un sorriso luminoso e uno sguardo dolce. Alice e Martina sono come sorelle. Anche Alice voleva farsi il piercing all’ombelico. Saltavano abbracciate, cantando sguaiatamente Avril Lavigne. Christian aveva portato fuori lo stereo; adesso cantavano tutti. Matteo s’avvicinò a sua sorella. “Alice.” sussurrò … “Alice!” “Cosa vuoi?” rispose sgarbatamente lei “Andiamo?!” “Matteo non rompere! DOVRESTI SOLO STAR ZITTO, DOPO IL CASINO CHE HAI FATTO!... VAI VIA SE VUOI!” “Matteo, non ti stai divertendo?” gli chiese Martina “Sì sì.” Il suo zainetto era sullo sdraio di sua sorella. Matteo prese la maglietta e se la mise. In fondo non era tanto lontano da casa per andarci a piedi. Christian e Alice stavano vicini e parlavano. Matteo non sapeva cosa fare. Christian era abbronzato e bello. E portava vestiti di marca. Matteo si guardò il costume con i pappagalli e una specie di Capitan Uncino, che gli aveva comperato sua madre dai cinesi, e si sentì sprofondare di vergogna. Il giardino dava sul salotto. Entrò, senza sapere bene il perché. Il salotto era ampio e arredato con gusto. Il divano era spazioso e accomodante. Davanti c’era un tavolino di vetro con una scacchiera e poi il televisore; piatto, tecnologico, nuovissimo. Sotto c’era uno scaffale con moltissimi dvd. Matteo fu preso da uno sconforto irreversibile.

La TV era accesa. Su MTV. Una ragazza mulatta in primo piano ballava insieme ad altre ragazze. Nel riquadro didascalico in basso, compariva il suo nome. Beyonce. Got me looking so crazy right now, your touch Got me looking so crazy right now, your touch Got me hoping you’ll page me right now, your kiss Got me hoping you’ll save me right now Looking so crazy in lovÈs, Got me looking, got me looking so crazy in love Uh oh, uh oh, uh oh, oh oh Matteo pensò che una ragazza così l’avrebbe sposata domani, ma di ragazze così non ne avrebbe mai avuta nessuna, se non attraverso l’immaginazione. Nella sua breve vita aveva solo saputo immaginare e nulla di quello che avrebbe voluto, s’era mai realizzato. Ritornò fuori. Stavano ballando tutti. Christian ballava vicino a sua sorella, ogni tanto si toccavano, lui la stringeva. BACIO, BACIO, BACIO. Alice rideva ed era tutta rossa. Guardò in direzione di suo fratello. “Io vado a casa.” le disse lui Alice lasciò le braccia di Christian e si avvicinò a Matteo. “Dì a mamma che resto qua fino a mezzanotte. Mi porta a casa poi la mamma di Martina.” Matteo annuì. “Stai attento per strada. Ma ti fidi ad andare a casa da solo?” “Non ho mica cinque anni.”

“Era per dire.” “Ciao.” “Ciao.” “Matteo, vai a casa?” Martina era sopraggiunta e aveva preso sottobraccio sua sorella. “Sì.” “Peccato... Alice, dai vieni!” “Sì. Ricordati di dirlo alla mamma.” gli ripeté ancora sua sorella “Seee.” “E digli che mangio qua, sennò si preoccupa.” “Seee.” “Ciao.” “Ciao.” Sua sorella lo salutò ancora con la mano, ma poi trascinata da Martina, andò incontro a Christian e agli altri ragazzi. Matteo attraversò nuovamente il salotto per raggiungere l’ingresso principale. Doveva farsi tutta la strada a piedi. Ci sarebbe voluto un po’. Chissà cosa avrebbero fatto sua sorella e Martina stasera? Lei e Christian si mettevano le mani dappertutto e le loro bocche calde si erano sfiorate. 9. I tacchetti delle scarpe da calcio schioccavano a contatto con le mattonelle del pavimento, mentre i ragazzi entravano uno dopo l’altro, le magliette sporche, le gambe pesanti, nello spogliatoio. Lo spogliatoio in breve tempo si riempiva dell’odore di sudore, e di una coltre spessa di vapore che usciva dalle docce bollenti. Il pavimento, invaso di pezzi di terra ed erba, portate dentro da quei fuoriclasse che non ci pensavano di sbattere gli scarpini all’ingresso, si allagava

e diventava una specie di terreno paludoso. Matteo si spogliava lentamente, attento a non poggiare le piante dei piedi per terra senza ciabatte. Sua madre diceva che gli sarebbero venute le verruche e che toglierle faceva un male cane. Era stato suo padre a premere perché si iscrivesse nella squadra di calcio del paese. Aveva cominciato a seguire tutte le partite del campionato, ma lui rimaneva per lo più in panchina e se entrava, giocava al massimo dieci minuti. Allora, per tutto il tempo, suo padre lo incitava, davanti agli altri genitori, a metterci sempre la gamba in ogni contrasto, che non doveva avere paura degli avversari più grandi, che doveva saltare di testa senza chiudere gli occhi, che spalle alla porta doveva difendere il pallone e che doveva tirare qualche volta, invece di arla sempre. Era umiliante. Adesso,suo padre aveva smesso di seguirlo alle partite e Matteo pensava che avrebbe fatto ancora qualche allenamento e poi si sarebbe ritirato. Sua madre s’era già fatto avanti con il nuoto, lo sport più completo, ma non c’erano storie. Mai più sport in vita sua. Matteo si tolse i calzoncini e rimase in mutande. Non avrebbe osato lavarsi nudo. Ogni volta faceva tutto pian piano, per arrivare per ultimo sotto la doccia, così ne avrebbe trovata di sicuro una di libera e non avrebbe dovuto rimanere nudo ad aspettare. Molti suoi compagni si erano già lavati e si stavano rivestendo. Prese il bagnoschiuma dalla tasca laterale del borsone ed andò alle docce. La prima all’angolo era libera. Girò la valvola dalla parte dell’acqua calda e scivolò lentamente sotto il getto. Si rivolse al muro, dando le spalle ai suoi compagni che si stavano lavando. Li poteva sentire chiacchierare animatamente. Tra tutte, distinse le voci di Marcello e Orso Bruno. Orso Bruno era uno dei più vecchi della squadra e aveva molto successo con le ragazze. Lo chiamavano Orso Bruno perché aveva il petto tutto ricoperto di peli ed un pisello lungo e grosso. Era un salsicciotto scuro, con la vena centrale robusta quanto un cavo d’acciaio. Finché si lavava se lo toccava e questo gli si irrigidiva di tanto in tanto, appena, come se fosse un qualcosa di separato dal resto del corpo, una bestia o un mostro. Marcello stava raccontando a Orso Bruno della sua ultima ragazza. ME LA SON FATTA A CASA SUA, TI GIURO, E A CASA GHE GERA ANCHE I

SUOI CHE VARDAVA LA TELEVISION E NOI DUE IN CAMERA A CIAVARE. ANCH’IO MI FACEVO LA MIA EX CON I SUOI A CASA. MI SAREI FATTO ANCHE SUA MAMMA, CHE FIGA!… SAI CHE FIGATA, TROMBARE FIGLIA E MAMMA! TAH TAH!… MA TE LA SEI FATTA FATTA? TROMBATA, SI’, LEI ZERA LA PRIMA VOLTA. Matteo si stava ando il bagnoschiuma su tutto il corpo. Lui quelle cose non le avrebbe mai fatte, o chissà quando, e non era giusto che fosse toccato proprio a lui di dover aspettare. L’amore prima o poi arriva, quando meno te lo aspetti. Il problema era che lui se lo aspettava sempre. Inoltre, c’erano un sacco di cose che non sapeva bene e che erano importanti per il sesso. Parole tipo spagnola, greca, sessantanove. Il sessantanove proprio non riusciva a capirlo, più che altro cosa c’entrasse il numero. La spagnola e la greca per fortuna le conosceva; nella prima mettevi il coso in mezzo alle tette e lo lasciavi là, nella seconda lo mettevi in mezzo al culo. Anche il tampax non aveva capito bene che specie di mutanda fosse. Per non parlare poi del goldone, che era l’unico della sua classe a non averne visto uno. Orso Bruno chiuse la doccia e il getto d’acqua cessò. Qualche attimo dopo, Marcello chiuse anche la sua. Matteo era l’ultimo. I due ragazzi ciabattarono verso il loro posto, discutendo ancora animatamente. Quando Marcello ò davanti a Matteo gli tirò l’elastico delle mutande e glielo fece schioccare addosso. Matteo emise un lamento soffocato. Si girò verso Marcello: anche lui si lavava completamente nudo. Il suo pisello non era grosso come quello di Orso Bruno, ma era grosso lo stesso. L’invidia accese in Matteo una fiamma di speranza, che in fondo anche lui poteva diventare come Marcello un giorno, ma la fiamma si spense subito, come per un’improvvisa secchiata d’acqua. Aspettò ancora un poco, sotto il caldo getto della doccia, che Marcello e Orso Bruno si fossero seduti. Chiuse l’acqua e raggiunse il suo posto. S’asciugò e si vestì rapidamente. Un nodo gli stringeva la gola. Ogni tanto sentiva le palpebre e le ciglia inumidirsi, e con un colpo veloce delle dita cercava di cancellare ogni traccia di debolezza dal suo viso. Si diceva che era forte e il nodo che gli stringeva la gola lo soffocava di più, che quasi lo strozzava. Fece tutto rapidamente, prese il borsone e se lo caricò in spalla. Anche Marcello

e Orso Bruno avevano finito. Matteo uscì dallo spogliatoio. Afferrò la bicicletta per il manubrio e ci saltò in sella. Sembrava un handicappato con quella mountain bike, ma non c’erano soldi adesso per comperarne un’altra. Sua madre e suo padre erano solo operai. Ma lui non avrebbe mai fatto l’operaio. Diede un colpo di pedali. Marcello e Orso Bruno parlavano ancora davanti ai loro scooter. Marcello diede un calcio alla pedalina e con la mano girò l’acceleratore. VROOOM. 10. Erano tutti a letto. Scese in punta di piedi le scale. Suo padre russava. A tastoni riuscì ad arrivare in salotto. Sua madre non tirava mai giù del tutto le tapparelle in estate e un po’ di luce notturna schiariva la stanza. Gli permise di trovare il telecomando. Allora accese la TV, preoccupandosi di azzerare subito il volume. Silenzio. Suo padre aveva smesso di russare un istante, poi aveva ripreso. Con il rumore che faceva, non riusciva a sentire se qualcuno fosse sceso di sotto. Non doveva assolutamente farsi beccare. Andò avanti con i canali. 14 tzzz, 15 tzzz, 16 tzzz. Al 16 si bloccò. Il cuore gli diede un forte colpo di cannone, quasi da squarciargli il petto, e cominciò a respirare più profondamente. Era divertente quel rito della notte. E segreto.

Portò la mano dentro le mutande e lo sentì di marmo, avere il pieno possesso del suo corpo e della sua mente. Biancaneve inginocchiata, ingoiava e poi leccava il pisello del Principe azzurro, un uomo aitante, muscoloso, dal fascino esotico. La telecamera inquadrava il suo membro, così grosso ed eretto che non si sapeva come fe a stare tutto in bocca a Biancaneve. Matteo era come stordito e a tratti gli mancava il fiato. Dal suo coso cominciò a colargli del liquido tra le dita. Ora il principe aveva afferrato la ragazza per i fianchi e da dietro la infilava con colpi violenti, virili. La faccia di Biancaneve si era contratta, deformata in una smorfia corrotta dal piacere. Il liquido bianco sgorgava tra le dita di Matteo, giù fino al polso. Era caldo e come colla. La pelle era impregnata di quell’odore. Era strano, ma gli piaceva. Ad un tratto avvertì un rumore. Si destò di soprassalto, rimettendo il suo coso dentro le mutande e sistemandosi come poteva. Il telecomando… “Matteo, cosa fai sveglio?” Sua madre apparve sullo stipite della porta. Con la faccia scomposta dal sonno, era orribile. Lo spaventò a morte. Il telecomando… “Niente mamma, non ho sonno.” rispose Matteo a fil di voce Biancaneve scopava con il principe. Le sue tette bianche sobbalzavano in primo piano. Il telecomando… eccolo! “Alice è arrivata? Ma cosa guardi?” “Boh! Prova a vedere di sopra se è arrivata.” “Ma cosa guardi?” “Niente mamma. Vado a letto.” disse lui, trovando finalmente il tasto giusto.

Lo schermo si annerì di colpo. Rimise la sedia a posto, e senza il coraggio di guardare sua madre in faccia, salì di fretta le scale, con il cuore in gola. Andò in bagno, si asciugò le mani e corse a letto. Allora tirò un sospiro di sollievo. Che sua madre avesse capito? Non poteva più permettersi di rischiare d’ora in avanti. Il ricordo di Biancaneve nuda e troia gli aveva fatto tornare la voglia, ma era anche spossato dall’eccitamento. Non ci volle molto, perché si addormentasse. Si svegliò, poco dopo, nuovamente per colpa di sua madre. La sentiva scendere e salire le scale e brontolare con suo padre, che era in camera da letto. DISE CHE NON LÈ RAGGIUNGIBIE. VOL DIRE CHE LA GA EL TELEFONO SPENTO. A COSA GHE SERVE EL CELLULARE, SE NON LA RISPONDE! Matteo guardò la sveglia sul comodino. Le due e mezza ate. NIENTE. IL TELEFONO DISE CHE LÈ ANCORA IRRAGGIUNGIBILE… EEE, MA STA VOLTA NO LA A MIA LISCIA! Sentì i i pesanti di suo padre, prima nel pianerottolo, poi giù per le scale. DOVE VETO? A VEDERE DOVE LA POE ESSERE… PRIMA O CASA DE QUEO COLLA PISCINA E SE A ZE LÀ, LA CIAPO PA NA RECIA. Matteo sentì la porta aprirsi, poi richiudersi. Alice, Alice, cosa credeva adesso?! Di poter rincasare all’ora che voleva?! Gliela avrebbe rovinata suo padre, la festa! Non avrebbe rivisto più per un po’ Christian e neanche Martina. ò un bel quarto d’ora, ma niente. Matteo non poté più riaddormentarsi. Non si sarebbe perso il momento in cui sua sorella fosse rientrata per nulla al mondo. Sua madre, di sotto, provava e riprovava a telefonare. Poteva esserle successo qualcosa. Che ingenua mamma, sua sorella stava con quell’altro a far chissà cosa. Adesso per giorni e giorni non si sarebbe parlato che di quello che sua

sorella aveva combinato e lui sarebbe divenuto un esempio di buon comportamento all’interno della famiglia. Apparecchio io la tavola mamma, vado io a fare la spesa mamma, porto io il sacchetto dell’immondizia fuori, mamma. Le tre erano ate da una decina di minuti, quando la serratura scattò e la porta d’ingresso si aprì pian pianino. In men che non si dica scoppiò il putiferio. DOMANI FACCIAMO I CONTI, e giù a rotta di collo sua madre le tirava fuori tutte, anche di quella volta che. Sua sorella strillò pure lei, come un uccellaccio che gli vien tirato il collo. Matteo la sentì poi salire le scale affannata. Suo padre era tornato. Aveva girato tutto il paese. Bestemmiava come una mitragliatrice. DOMANI FACCIAMO I CONTI, prese e se ne andò a letto e come per un ordine, sebbene sua madre continuasse a borbottare tra i denti che per un po’, quella sarebbe stata la sua ultima festa, in tutta la casa tornò il silenzio assoluto. Il giorno successivo, Alice scese a mezzogiorno, quando la famiglia stava già pranzando. Suo padre la squadrò severo. Sua madre mantenne una forzata indifferenza. Alice non aveva guardato in faccia nessuno e si era riempita il piatto. Matteo si sentiva eccitato e al tempo stesso un po’ pentito per esserlo, ma non riusciva a trattenere l’istinto: godeva da morire all’idea di vedere gli altri litigare. Inoltre Alice se lo meritava per il fatto di essere stato con Christian, invece che con lui, tutta la sera. Indicando il vassoio con le bistecche impanate, disse “Qualcuno ne vuole ancora? Posso prendere l’ultima fetta?” Sua sorella alzò lo sguardo verso l’ultima bistecca. “Lasciamela.” Matteo se la prese lo stesso; sua sorella fece per ribattere, poi improvvisamente trattenne il fiato e riabbassò gli occhi sul piatto. “Come mai eri sveglio ieri notte?” Sua madre si era rivolta a lui. Il pezzo di carne per poco non gli era andato per traverso. Allora era vero che, masturbarsi fa venire le occhiaie. Sua madre doveva essersene accorta. Vostra madre le cose le capisce.

Cercò di riappropriarsi della calma, con la forza dello spirito. “Avevo caldo.” “E tienti la finestra aperta.” “Tutta non mi va, mamma.” “Allora un po’, almeno. Non vorrai svegliarti per il caldo ogni notte?!” Matteo sperò che qualcuno cambiasse argomento, e in fretta. Suo padre stava guardando sua sorella che faceva la finta tonta. Prese la parola. “Il cellulare non si tiene più ? Cosa te lo abbiamo comperato a fare?!” ... “A tua figlia, serve solo per mandare i messaggini alle sue amiche.” intervenne sua madre “Era scarico mamma!” “Potevi almeno chiamare per dirci che saresti tornata così tardi.” “Non sapevo che fosse così tardi.” “Almeno tua mamma dorme.” “Ah! Guarda che quello che non dormiva eri te.” “Ma se continuavi a rigirarti nel letto e a brontolare.” Alla fine la colpa venne attribuita al sistema. Matteo trebbiava insalata e carne a ritmo sostenuto, senza mai alzare gli occhi dal piatto. Alice ci ha abbandonati e nostro padre non conta un fico secco. Adesso sua sorella fa quel cavolo che vuole. 11. “Punto! Quindici a sette. Abbiamo vinto noi!” Sara e Irene non ci stavano a perdere e scalciavano come caprette.

“Ma la prossima volta Alice sta con me!” esclamò Irene In verità sua sorella aveva giocato in una squadra di pallavolo, ma il merito di quel punto ce l’aveva lui. “Abbiamo vinto noi, scorreggione.” fece Matteo, imitando l’andamento del papero. Pre pre, e si sfilò i calzoncini mostrando le mutande e battendosi il sedere. Irene afferrò un sasso da terra e glielo tirò. Con un salto, Matteo lo schivò e continuò a battersi le chiappe. Sua sorella rideva come una pazza. Avevano fatto pace. Nuovamente. “Sei uno scemo.” Gli piaceva farla ridere. “Scemo.” Era bella sua sorella, soprattutto quando metteva quella polo bianca che le appiccicava addosso le sembianze di una collegiale. Sembrava tornato tutto come prima. Come sempre. Matteo stava ancora prendendo in giro Sara e Irene, quando un’automobile sostò a pochi i da loro. Sua sorella si voltò e gli si illuminò il viso; fece segno di aspettare e corse dentro. “No dai, l’ultima partita, l’ultima….” si lamentò Matteo. Ma Alice era già entrata. Così, con Irene e Sara, andò a sedersi sul muricciolo che delimitava la sua casa. “E adesso che si fa?” fece Sara “Andiamo da me a giocare a monopoli.” propose Irene Matteo non le ascoltava. Guardava oltre il vetro della macchina. Christian era ato per prendersela e portarsela via. Sua sorella uscì, raggiunse la macchina e salì. L’auto gli ò davanti. Alice ci ha traditi.

“Allora , vieni da me?” “No io vado a casa.” rispose Matteo. E diede un calcio al pallone, per mandarlo oltre il cancello di casa sua. Il sole batteva forte, faceva sudare anche solo respirando. Alice ci ha traditi. Preferisce Christian a noi. Matteo aveva pedalato fin giù in tangenziale. C’erano degli operai al lavoro lungo la strada. Erano a torso nudo e la loro schiena era nera, come l’asfalto nuovo che stavano stendendo. Arrivò con il fiatone fino alla rotonda che indicava Treviso, Padova, Vicenza. C’era quella strada per tornare a casa, che non aveva mai fatto. Era una stradina in mezzo ai campi, costeggiata dagli steli di granturco e lunghi capannoni industriali. L’orizzonte era disseminato di gru, che si stagliavano sfavillanti contro il cielo pulito, come braccia meccaniche che salivano dalla terra per stritolarlo. Stavano costruendo per tutta la campagna. Molte di quelle gru appartenevano alla GIRARDI Costruzioni, l’azienda edile del padre di Marcello. Il padre di Marcello era un uomo che si era fatto da solo, da semplice muratore a ricco imprenditore. Per questo motivo, tutti lo trattavano con ossequio. Tra le fabbriche e i terreni di granturco spuntava, qua e là, qualche rudere o a qualche casolare di campagna, con le galline nell’aia, la puzza degli escrementi delle vacche e del letame, i cagnacci che ringhiavano al cancello. Alcuni cancelli erano spalancati. Allora Matteo scattava, in piedi sulla sua mountain bike, pedalando a più non posso, per paura che i cani si accorgessero della sua presenza e lo inseguissero. Arrivò a casa, fradicio di sudore. “Dove sei stato?” fece sua madre, appena lo sentì varcare la soglia d’ingresso “In giro.” “In giro dove?” “In giro!”

“Matteo non puoi continuare ad andartene in giro da solo. Devi farti degli amici… Prova telefonare a Niccolò. Con lui andavi d’accodo, no?” Odiava sua madre quando s’intrometteva nella sua privacy. “Sarà al mare mamma. Poi c’è Alice.” sbottò “Alice ha degli amici suoi, adesso. E forse anche un fidanzato.” ... “Vuoi continuare a startene nascosto in casa. Non voglio vederti sempre qua a ciondolare. Adesso provo a chiamare la Gabriella, per sapere se Niccolò è a casa.” “NO!” “E ALLORA VAI! O chiamo.” ruggì sua madre Matteo uscì di casa, prese la bicicletta e si rimise a pedalare. Pedalava come per andare indietro. La mamma non ci lascia in pace. Non ci lascia risolvere da soli i cazzi nostri. Che male c’è a stare soli. Se noi stiamo bene da soli. La stazione delle corriere era semideserta. Un signore i giacca e cravatta leggeva il giornale, seduto su una panchina. S’allentava il colletto della camicia e con un fazzoletto s’asciugava la fronte. Il sole bruciava ed era accecante. Faceva troppo caldo per andare in giro. Era meglio starsene a casa. Ma sua madre non lo capiva. Matteo pedalava lentamente tra i condomini. Una donna con i capelli pieni di bigodini, grembiale e sandali, strascicava il sacco nero della spazzatura fino al bidone. Diede un paio di pedalate energiche e lasciò la bicicletta andare, come fosse un’altalena. Certe cose non si possono nemmeno pensare. Non si può dire odio. Ma io odio. Odiamo nostra mamma quando fa così, odiamo nostra sorella che ci ha traditi, odiamo Marcello, più di tutti: ma un giorno loro vedranno. Mancava la lunghezza di un’abitazione, con il suo giardino intorno, da oltreare. Non si sentivano ne voci, ne niente. Probabilmente stavano stravaccati sulla panchina a fumare e non avevano voglia di fare un tubo tutto il

pomeriggio. Già prima di partire da casa Matteo sapeva che avrebbe dovuto are di là. Ne era terrorizzato. Mancava il muricciolo di confine della casa e la siepe. Poi, si apriva il parchetto di quartier Firenze; c’erano già lo scivolo e l’altalena. Matteo strinse appena la mano sui freni. Il muro e la siepe si tolsero di mezzo. Era quasi fermo. Sul sellino della bicicletta. Il parchetto di quartier Firenze era semivuoto. C’erano due scooter. Allungò la pedalata, e l’allungò e l’allungò, come in volata Cipollini. Scampato. Niccolò abitava in quartier Firenze, ma dall’altra parte del parchetto. Arrivò davanti alla sua palazzina, pieno di dubbi sul da farsi. Alla fine sua madre avrebbe saputo la verità, perché non avrebbe certo esitato a contattare la madre di Niccolò. Avevano congiurato insieme il tutto. Decise che avrebbe fatto come aveva detto sua madre. Appoggiò la bici al muretto e andò verso il citofono. Suonò amaramente il camlo, LORENZO BORDIGNON, GABRIELLA DAL MOLIN, sperando che Niccolò non fosse in casa. ... “Sì, chi è?” Era la voce della Gabriella. “Sono Matteo, c’è Niccolò?” “Ah! Ciao Matteo, sali.” Il cancelletto si aprì. Ormai era fatta. Matteo salì fino al secondo piano del condominio. La porta dell’appartamento era già spalancata. La madre di Niccolò sbucò da un’altra porta all’interno dell’appartamento, ben acconciata e con il solito sorriso rotondo. “Ciao Matteo, come stai?”

Matteo annuì. “Bene.” “Ho detto a tua mamma che potevi are a trovare Niccolò quando volevi, così diventate amici. Anche Niccolò non sa con chi uscire. Dai entra!” Matteo entrò in casa. L’appartamento era normale, cucina in soqquadro, salotto ordinato, piccola biblioteca e fotografie di famiglia appese al muro. “Vuoi qualcosa Matteo? Hai sete?” Matteo scosse la testa per dire no. “Ti porto un succo di frutta allora. Tropicale o mirtillo?” “Non importa.” ribadì “Ho solo quelli. Guardo se ho della coca cola.” “…Mirtillo.” “Mirtillo ok. Vieni, Niccolò è in camera.” La donna diede una piccola spinta con la mano a Matteo, ed entrambi andarono verso la camera da letto di Niccolò. “Niccolò! È venuto a trovarti Matteo. NICCOLO’!” La donna non ricevette alcuna risposta dal figlio. “Entra pure Matteo, Niccolò ti aspetta.” e con la mano lo spinse ancora, verso la porta della camera. “Vado a prendere i succhi.” La stanza era all’ombra, disfatta come un campo di battaglia. L’impavido cavaliere in cerca di gloria, ma troppo spavaldo per saper affrontare la sfida con la giusta dose di saggezza, si dimenava sul sofà, joypad alla mano, contro un mostro orrendo ed insulso che latrava e grugniva da dietro il teleschermo. Il cavaliere a volte bestemmiava, sottovoce, perché sua madre non voleva sentirle in casa sua le bestemmie.

Game over. E giù, rincarava la dose di porco, cane e maiale e per non poterle urlare, saltava sul sofà come un pazzo isterico. Quando si fu calmato, con sorpresa, si accorse che dall’uscio della sua cameretta, un ragazzino che conosceva, lo stava guardando. “Siediti giù, che sto giocando... Di solito lo finisco sempre questo gioco, non so perché oggi… Muori mostro di merda! Muori!” “Non preoccuparti, sto in piedi.” mormorò timidamente Matteo Con lo sguardo ispezionò la stanza: computer, TV, videogiochi, enciclopedie National Geographic. Niccolò era figlio unico. Sua madre entrò nella stanza per portare i succhi. La donna gli faceva un po’ pena e il succo al mirtillo somigliava alla tachipirina. “Ti piace quell’enciclopedia. La colleziono per Niccolò, ma lui manco la guarda... Niccolò, fai giocare anche Matteo!” “Non si preoccupi. Non mi piacciono i videogiochi.” disse prontamente Matteo “Allora uscite. È una bella giornata, andate fin giù al parchetto… Hai sentito Niccolò?” Matteo arrossì. Niccolò saltava sul sofà. Di nuovo game over. Aveva gli occhi fuori dalle orbite. “Smettila! Dai, smettila subito!” Niccolò s’era di un colorito purpureo. “Ebbasta ti ho detto.” Il teleschermo si annerì di colpo. La donna aveva staccato la spina. “Ecco fatto! Su uscite.” Niccolò si alzò dal sofà. Sembrava sull’orlo di una crisi di nervi. Matteo si stropicciava il colletto della maglietta, senza permettersi di aprir

bocca; avrebbe voluto sparire. Seguì Niccolò fuori dalla stanza e dalla casa, muto, mentre la madre di lui gli sorrideva e gli diceva di are ancora a trovarla. Il mondo è diviso così: truzzi, sono quelli che vanno sempre in discoteca e vestono in modo discotecaro, fighetti, quelli di buona famiglia o che si spacciano per tali e che sono sempre vestiti bene, punkettoni, metallari e comunisti, quelli che ascoltano musica rock duro e vestono da straccioni. Quei ragazzi che non appartengono a nessuna di queste categorie, oscillano tra il normale e lo sfigato. Normale è non avere niente che conta. Sfigato, peggio. Matteo si riteneva indubbiamente più ribelle di tutti loro, ma la cosa non gli veniva riconosciuta e questo gli arrecava immensa frustrazione. Alla fine anche l’anticonformismo era una gran balla. Lui era un anticonformista perché non cedeva alla norma della sua età, ma il suo trasgredire non veniva considerato affatto. Se tutti fanno tardi la sera, iniziano a fumare, si ubriacano e si fanno le ragazze e noi no, perché sono loro gli anticonformisti e noi gli sfigati? A tratti gli occhietti a capocchia di spillo di Vincenzo, da dietro i fondi di bottiglia che portava, apparivano interrogativi, ma non di certo doveva sospettare che Matteo non lo stava ascoltando per niente, preso come era dal suo bisogno di sfogarsi con qualcuno. Niccolò stava giocando a calcio al campetto. I ragazzi riuniti sulle panchine discutevano delle loro cose. TI SCROCCO UNA CICCA. ANCHE OGGI! ZE L’ULTIMA. DOMAN LE TOGO MI …MA SECONDO TE LA GIORGIA C’È STATA CON NICCOLO’?! MA VA IN FIGA, CONTA UN SACCO DI BALLE, COME QUEA DEL MOTORIN. CHE SFIGATO! Vincenzo è mezzo terrone. Al sud ci sta la mafia. O stai dalla loro parte, o ti tocca andare via. Se vai a Napoli o a Palermo con una macchina targata del nord, te la rubano, oppure ti tagliano le gomme. Vincenzo non si accorge di niente. È come un uccello in gabbia. Aspetta solo che gli si metta da mangiare e da bere e lui mangia e beve. Matteo in fondo provava comione per lui, ma poi pensava che Vincenzo era uno di quelli che ti si attaccano addosso e non si staccano più. Ti parla da vicino, ti placa, e senza gesticolare, parla e parla. Dalle panchine qualcuno li sta guardando. Matteo lo sa bene e sa anche il motivo.

È come se la prima volta che ti guardano, scattassero una fotografia di te; quello rimane impresso nella loro testa. Non si può cambiare una fotografia. Vincenzo continua ad avvicinarsi e non c’è più spazio. Improvvisamente, dalle panchine si levarono grugniti e bestemmie, un eccitamento convulso che scompigliò completamente la noia pomeridiana. Dal campetto di calcio, i ragazzi accorsero subito. Niccolò l’aveva sorato. Non si erano nemmeno accorti di lui. Pure Vincenzo si era volatilizzato all’istante. Volavano manate, calci. I più piccoli formavano l’ultimo anello della ressa e si lamentavano perché non potevano sbirciare. Si sentiva la voce di Alberto dominare su tutte. Era arrivato da poco in sella al suo scooter. Tutti quei ragazzi avevano uno scooter. Matteo, ad un metro e mezzo dal gruppo, muoveva un o, poi lo ritraeva. Se avesse potuto avrebbe voluto nascondersi dietro se stesso. CHE TETTE CHE HA QUESTA! E FAMMI VEDERE DAI! EHI SGOCCIOLINO MOLLA! CAZZO! PROPRIO DO GRAN BEE TETTE E TIRA UN PO’ PI IN QUA CHE NON GHE VEDO! A UNA COSÌ, COSA CI FARESTI NICCOLÒ? ...UNA SPAGNOLA, DA VENIRGLI IN BOCCA AH! MA COSA VUTO FARGHE, CHE TUTTI SANNO CHE NON TE GHE MANCO I PEI LÀ! Risate. Era stato Alberto a fare la battuta. Era lui che aveva portato al parchetto il giornaletto porno e lo teneva in mano, a dimostrazione che era suo. “E tu? Cosa ci faresti tu, frocetto?”

Tutti si guardarono intorno, la maggior parte ridendosela già sotto i baffi. Trovarono Matteo che se ne stava andando. “Allora, cosa ci faresti? Dicci!” insistette Alberto, avvicinandolo. Matteo era immobile. “...Me la scoperei.” disse fievolmente. “Ma che vuoi scopare e scopare.” se la rise Alberto “Tu sai solo farti le pippette, segaiolo che non sei altro.” “Ma a Matteo non piacciono le femmine. Noi lo sappiamo.” “Cosa piace a Matteo?” “Io so cosa piace a Matteo.” continuò Alberto “Ti piace questo, vero?” e nel frattempo si era sbottonato i jeans e gli aveva mostrato il pisello. Era scuro e brutto. “Ti piace l’uccello, vero?” continuò, gingillandoselo sotto gli occhi di Matteo “Vorresti ciucciare, frocetto?” Matteo cercò Niccolò con lo sguardo. Ma non lo trovava. AH AH! CIUCCIACAZZI MOSTRACI IL CULETTO, FROCETTO MANGIA PANNOCCHIE! T’INCULI TUO PADRE?! FROCIO! FROCIO! Ridevano tutti, mentre Alberto faceva il pagliaccio. Solo quando non lo presero più in considerazione, Matteo fu libero di andarsene. 12. Matteo aveva pensato di fare un bello scherzo a sua sorella.

Quel giorno, verso le tre del pomeriggio, quando sua sorella sarebbe dovuta uscire, l’avrebbe bagnata con l’acqua della canna. Irene e Sara erano sue complici. Poco prima delle tre, Alice si stava sistemando in bagno. Irene doveva solamente chiamarla con una scusa qualunque, per portarla allo scoperto. Sara avrebbe aperto il rubinetto dell’acqua, mentre Matteo avrebbe atteso, nascosto, con la canna puntata, il momento buono per sparare. Quando sua sorella scese e fu sulla porta di casa, Matteo fece un cenno a Sara, saltò fuori dal suo nascondiglio e sparò il getto d’acqua contro la sorella. La bagnò del tutto; i jeans e la maglietta aderirono al suo corpo, il trucco scese in lunghe lacrime nere lungo le guance. In quel momento davanti a casa sua si fermò un’automobile. Era Christian. “Matteo, ma sei deficiente?!” urlò sua sorella “IOOO? Anche Irene e Sara stavano con me.” Matteo si guardò intorno, ma le due ragazze si erano già dileguate. “SEI UN BAMBINO! CRESCI CAZZO!” “Ma era così, solo per scherzare.” tentò di giustificarsi “MATTEO, CAZZO, DEVO ANDARE VIA! NON DEVO MICA STARE A CASA TUTTO IL GIORNO COME TE!” “...Vaffanculo.” Rispose fra i denti, e corse via, lasciando la canna per terra, che spandeva ancora acqua, mentre sua madre stava urlando perché aveva bagnato casa e bisognava asciugare. In preda alla rabbia, mentre correva, percosse i rami delle piante del suo giardino. Arrivato alla rete di recinzione s’accucciò sotto il pero. Staccò qualche foglia dall’albero, lacerandola in mille pezzi, che si lasciò scivolare tra le dita come fosse cenere. Sbatté i pugni per terra e strappò erba e fiori. Sentiva ancora sua madre lamentarsi, che bisognava asciugare e che alla fine toccava sempre a

lei. Aveva le guance bollenti, le palpebre gli prudevano; un nodo gli stringeva la gola. A sua sorella non gliene fregava più niente, e dubitava dell’idea che gliene avesse mai importato qualcosa. Prese una decisione: se ne sarebbe andato di casa. Matteo era arrivato giù in tangenziale con il fiato rotto. Non sarebbe più scappato di casa. Non era destino. Lo stesso, si mise a pedalare come un forsennato. Le auto correvano oltre i cent’allora. I camion gli facevano la barba; con le loro ruote gigantesche avrebbero potuto schiacciarlo. Continuando per la tangenziale, oltre la rotonda Treviso, Padova, Vicenza, avrebbe incrociato poi altre strade e altre strade ancora; da quel groviglio di strade non poteva fuggire. Sfinito, aveva preso per la zona industriale ed, eludendo il centro, aveva deciso di ritornare, arreso all’imprevedibilità di una fuga non pianificata, quando a poche centinaia di metri, improvvisamente smise di pedalare. Rallentò. I freni della bicicletta stridettero. La ruota girò ancora qualche attimo, fino a che il ronzio dei raggi non cessò del tutto. Un piede si piantò per terra. Poi un altro. Allora Matteo smontò dalla bici. Davanti, aveva il monte Torta. Era come un’escrescenza anomala nel bel mezzo della pianura, un foruncolo, una pustola. Era strano, come per quel monte così vicino a casa sua, non ci fosse più andato. Ricordava quando ci andava da bambino con sua sorella. Faceva sì e no la prima o la seconda elementare. Si diceva che sotto il monte Torta ci

avessero sepolto qualcosa, tipo una chiesa o un convento, e che i partigiani si nascondessero lì durante la seconda guerra mondiale. Trascinò la bicicletta per la strada sterrata che conduceva al sentiero. L’erba ai lati della stradina sarà stata alta un metro. Sulla sinistra, ai piedi del monte, c’era un orticello, sopra, una macchia argentata di ulivi. Un grosso insetto dalla corazza smeraldina ronzava intorno alle piante. L’idea di avventurarsi da solo per il monte, vista l’erba alta e gli insetti, un po’ lo spaventava. Non era come quando ci andava con sua sorella. Non c’aveva fatto neanche caso agli insetti quelle volte. La strada sterrata finiva e cominciava il sentiero, più stretto e in salita. Matteo lasciò la mountain bike in mezzo alle frasche e si incamminò. Gli uccellini cinguettavano chissà dove, in mezzo alle fronde degli alberi. Fu strano, perché la sensazione d’inquietudine, al cantare degli uccelli non si placò, anzi. Una certa soggezione si era impadronita di lui, come in un sogno procedeva ammaliato dal canto e si ritrovò avvolto dall’ombra. Faceva un po’ più fresco all’ombra. Tra i rami ava della luce e non era così chiara, pareva ammorbidita e di un colore filtrato dal verde delle foglie. Sembrava di attraversare la navata di una chiesa. I rumori della strada giungevano lontani lontani; dopo la seconda curva il silenzio calò quasi completamente. Il sentiero cominciava nuovamente ad addolcirsi. Il mondo fuori, giungeva impercettibile come fosse stato a mille e mille metri d’altezza ed ogni rumore del bosco, benché minimo, sembrava venirti addosso. Si fermò dove c’era una vecchia e corta panca di legno e si sedette, stanco e sudato. L’afa era greve. Il silenzio solenne del monte era rincuorante e allarmante al tempo stesso. Matteo non ci era abituato, al silenzio. Tranne che di notte, a casa sua c’era sempre rumore e anche ovunque andasse. Lì, non si trovava del tutto a suo agio, nel silenzio. Quel pomeriggio Matteo ebbe molta paura della morte. Aveva continuamente l’impressione che qualcuno gli stesse alle spalle e benché continuasse a rigirarsi su se stesso, lui non poteva vederlo. Sentiva l’ombra danzargli alle spalle e l’ombra delle ali, furtiva spostarsi ogni qual volta si guardava alle spalle.

Gli angeli custodi stanno alle spalle. E ti guardano attraverso e sanno il colore dei tuoi occhi. Ma sono ombre, ombre nere e le loro facce sono pallide e mute, e gli occhi trasparenti. La corteccia degli alberi scricchiolava, le foglie vibravano, fruscii provenivano dal fitto della vegetazione. All’improvviso il cielo si annuvolò e il bosco divenne d’ombra. Nuvoloni scuri, da dietro il monte, si spostarono rapidamente sopra la sua testa. In fretta fu tutto nero. Un fulmine illuminò il cielo, poi il tuono rimbombò per tutta la pianura. La pioggia iniziò a cadere, prima tic, poi tic tac, poi tic tac tic tac, poi tic tac tic tac tic tac, e alla fine la pioggia riecheggiava rumorosamente dentro il bosco. Anche la temperatura si abbassò. Allora, la sensazione di essere spiato si fece ancora più forte, spaventosa, dentro il bosco. Alle sue spalle non ci stava più l’angelo custode. Quel nessuno s’era nascosto e lo spiava e gli diceva che sarebbe stato meglio allontanarsi. Matteo, dove sei? Matteo, MATTEOOO! Adesso chiamo la polizia. Sua madre lo stava chiamando. Non sapeva dove era. Diceva che pioveva a dirotto e se non si fosse affrettato si sarebbe bagnato tutto. Corse affannosamente giù per il sentiero. Non vogliamo morire, non vogliamo morire. Pioveva forte. Raggiunse la bicicletta e si rimise in strada. Pedala, pedala di fretta, sotto il temporale e quando sei davanti alla porta di casa, apri, voltati, e subito chiudi. 13. Aveva già aperto la porta d’ingresso, portato il suo corpo dall’altra parte; solo la testa faceva capolino da dietro. “Ciao mamma.” disse “Esci? Dove vai?” fece sua madre dalla cucina “Mi trovo con i ragazzi al quartier Firenze.” Sua madre era comparsa e si sfregava le mani sul grembiale. Si vedeva che era

entusiasta. “C’è anche Niccolò?” “Credo di sì.” “Ma allora vai là al parchetto?! Bene, ti sei fatto degli amici.” “Sì.” “Torna per le sette.” “A-a.” Per arrivare in cima, il sentiero che continuava da dove era arrivato il giorno prima, ad un certo punto si allargava, il sole spuntava fuori da dietro gli alberi, e sulla sinistra compariva un prato giallo e secco, che precipitava ad imbuto, fino ad una giungla di vecchi alberi bruciati e fitti rovi. Una massiccia staccionata fiancheggiava il sentiero. Dietro la staccionata c’erano dei ciliegi, disposti in fila, con le fronde che si baciavano. Alcune ciliege marce erano sparse per terra, intorno alle radici degli alberi. Poi, quando lo sguardo poteva divagare in uno spazio più ampio, al centro di questo, appariva una cosa insolita. Dritto davanti a lui c’era uno spiazzo circolare e perfetto, con al centro una panchina. Dava la spalliera al sentiero, che riprendeva poi a salire. Lo spiazzo, a sinistra, si teneva la scarpata e la giungla di rovi. Davanti, la pianura sottostante. Era chiuso come una gabbia, tutto intorno c’erano dei cipressi, alti e severi come giganti. Matteo non entrò in quel cerchio, perché pensò che lì si riunissero gli angeli custodi, e proseguì per il sentiero. Camminò ancora un poco. Poi il sentiero si ramificava; un braccio si fermava ad un cancelletto, l’altro proseguiva per chissà dove. Al di là del cancelletto, c’era una stradina e l’erba alta la inghiottiva; più in su un boschetto. Un boschetto di pini marittimi, disposti nuovamente a formare un’anomala circonferenza. Scavalcò il cancelletto, con gli occhi fissi sul boschetto di pini. A volte il sole sembrava avvicinarsi, a volte rimpicciolirsi. Bruciava in

continuazione. Matteo non spostò mai di un attimo lo sguardo dai pini, ma quando fu di là, immerso fino alle ginocchia nell’erba, fu colto da un orrore indicibile: davanti a lui, il boschetto sembrava adesso più vasto e alle sue spalle si ricordò di avere i cipressi, la panchina e gli angeli custodi, che lo guardavano dentro. L’impressione di sentirsi in trappola gli assediò la mente e i pini che da giù non gli sembrarono poi tanto alti, gli furono di gran lunga sopra la testa. Corse e corse affannosamente, fino al boschetto, ripetendosi che era solo la sua immaginazione. Sotto gli alberi c’era ombra, e per la prima volta ebbe la sensazione di stare al sicuro. L’erba era corta e rada, cosparsa di pigne rotte e aghi di pino. Qua e là spuntavano escrementi secchi e un nugolo di mosche e moscerini ci ronzava sopra. Oltre l’ultimo pino si apriva il panorama. Ancora la pianura, giù in fondo, e la tangenziale, le gru, i cantieri, le fabbriche che fumavano lente, e sotto la sua casa e la casa dei vicini, e sulla sinistra ancora il monte Torta e il bosco. Solo per caso, fu spinto a guardare ancora più a sinistra, in mezzo alla vegetazione, e a vedere qualcosa che già aveva visto lui. Quella cosa, se n’era stata in silenzio per tutto quel tempo a guardarlo e anche se quella cosa di occhi non ne aveva, il suo sguardo era incerto e penetrante come quello di una creatura selvaggia. Quando fu vista da Matteo, non si mosse. Rimase immobile a fissarlo. Non molto distante, in mezzo al bosco, sorgeva una casa. Matteo si guardò indietro in direzione del cerchio dei pini. Oltre si stendeva un prato giallo e fitto. Era tutto immobile, non un filo d’aria. Il sole era ad una spanna dalla terra, come un grosso faccione spaventoso. S’avvicinò alla porta della casa. Non era esattamente una casa, era una specie di torre di vedetta, una torre di modeste dimensioni fatta di legno e lamiera. Doveva essere una base per i cacciatori o per qualcuno che sorvegliava il cielo e il bosco da lì. Per una specie di custode. Poggiò una mano sulla maniglia e provò ad aprire. Niente, era bloccata. Si guardò alle spalle, poi a destra e poi a sinistra. Provò ancora. Spinse, spinse, spinse con tutta la forza che aveva in corpo.

La porta si aprì leggermente. Spinse ancora e un fasciò di luce avanzò nella semioscurità della stanzetta interna. Matteo grondava di sudore. Se lo asciugò con la mano. Spinse ancora la porta con irruenza, finché non si aprì per metà. Un guizzo improvviso, accompagnato da un fruscio intenso, come un lampo, attraversò il campo visivo del ragazzo. Forse si trattava un serpente, di quelli neri, sottili, che vivevano in quelle zone. Matteo ne aveva visto uno, una volta nel suo giardino, e ne era rimasto inorridito. Se l’aveva sognato di notte ai piedi del letto, che gli si attorcigliava alle caviglie durante il sonno e gli sibilava a pochi centimetri dal naso. I serpenti neri dovevano aver fatto nido dentro la torre. Gli sembrò di sentire i loro sibili e raggelò. Allora afferrò la maniglia della porta a due mani, e tutto d’un fiato tirò, fino a richiudere l’ingresso. Poi, si mise a correre verso il sentiero, balzando come una lepre, semmai ci fosse stato qualche altro serpente nero in agguato, lungo il tragitto. Nessuno ci viene più quassù. Questa è la nostra base segreta. Noi siamo i nuovi custodi della torre. 14. Matteo partiva da casa che erano di solito le due e mezza appena. Andiamo al quartier Firenze, con Niccolò e gli altri. A quest’ora il sole ti arrostisce il cervello. E mettiti un berretto! Pedala, pedala in piedi. Come Pantani. In volata, come Cipollini. Potremo diventare dei ciclisti, vincere la maglia rosa al giro d’Italia. Matteo si sentiva un uomo per la sua età, più uomo dei grandi. In quei giorni, non ci pensava più a sua sorella, non ci pensava più a giocare ai travestimenti, a diventare un attore. Aveva un atempo più importante adesso; era il custode segreto del monte Torta e della torre. Salì fino al cerchio dei cipressi. Andava lì a cercare un po’ d’ombra, poiché il

sole non smetteva di picchiare un attimo. Sole su tutta la penisola e temperature sopra la media. Si consiglia di non uscire nelle ore più calde del giorno e di bere molta acqua. Sarebbe stato così anche per le settimane a venire. Sembrava non tramontare più, il sole. Pensò al mare. Al mare si correva svelti fino al bagnasciuga e poi, a spintoni e a spruzzate, lui e sua sorella finivano per cascare in acqua. Si stava freschi in acqua. La zona d’ombra occupava buona parte del cerchio dei cipressi. L’ombra era fresca come l’acqua. Noi stiamo stravaccati sulla panchina, gli occhi chiusi a prender l’ombra. Il mondo è rotondo. Il sole è una palla infuocata che brucia e scioglie tutto. Matteo si sentiva strano, ma era tranquillo, come non lo era mai stato, e in quella sensazione di beatitudine voleva dargli un bacio a qualcuno ed abbracciarlo. Ma non è concesso baciare un amico. E poi, quello che Matteo provò in quel momento fu di essere uomo, con la barba pungente, la capigliatura fitta ed un po’ ingrigita. Un uomo stava seduto su quella panca, mentre una lieve brezza gli scompigliava la camicia aperta, che profumava di quel profumo dolce, di ammorbidente e di appena stirato, e lo attraversava una nostalgia lunga più di cent’anni. Allora quell’uomo si toccò la fronte sudata e scoprì che era segnata da rughe profonde. La capigliatura folta all’improvviso si era diradata. Le dita scure e nodose odoravano delle sigarette di suo nonno. Era come diventato un uomo; era come se in un istante tutto fosse cambiato, tutto si fosse risolto, ogni suo più infido problema. Era successa una specie di magia, che lo lasciava felice e fiducioso del suo domani. Improvvisamente, avvertì delle presenze. Una voce. Catarrosa. Poi finalmente, vide una persona che saliva il sentiero; un vecchio, con un cappello in testa, una canottiera e una paio di pantaloni verde scuro. Parlava con il cane, un bastardo di piccola taglia, che lo precedeva.

Matteo si accucciò dietro un cipresso. Spiò il vecchio, mentre gli ava davanti e proseguiva, senza accorgersi della sua presenza. Il cane invece, continuava a fermarsi, annusava l’aria, si guardava intorno. Abbaiò anche, un paio di volte. Ad un certo punto, il vecchio, che lo aveva lasciato indietro, lo chiamò e dopo aver alzato la gamba e pisciato, il cane raggiunse il suo padrone. Cosa ci faceva lì quel vecchio? Forse era lui il custode del monte Torta e della torre. Il silenzio sprofondò nuovamente nel bosco, soltanto qualche fruscio o il cinguettio di qualche uccellino, ogni tanto. Il sole picchiava forte, come sempre. Matteo ritornò ad immaginare il mare e pensò di nuotarci dentro. Avrebbe voluto tornare bambino, al mare, avrebbe voluto fermare il tempo in quell’istante, in quel luogo sicuro, dove nessuno poteva fargli male. Sotto di lui la pianura era calma. Una strada la attraversava in lungo, ma poi c’erano altre strade ancora che si congiungevano o ripartivano. Proprio sotto al monte, c’era una casa e nel giardino un cane correva di qua e di là abbaiando. Matteo prese da terra un sasso e lo lanciò. Con lo sguardo lo seguì andare alto, incontro al sole, poi scomparve e non lo vide più ricadere. Gli venne un senso di profonda tristezza nello scoprirsi solo, anche se si sentiva un uomo. Siamo noi i nostri migliori amici, con noi ci confidiamo, con noi non abbiamo segreti, ma tutti fanno cose più belle. Gli venne tanta rabbia e si sentì stupido a fare quel che stava facendo. Guardò alla sua sinistra la scarpata che scendeva fino ad arrivare alla giungla di rovi e alberi mezzi bruciati. Non era mai andato laggiù. Chissà quali segreti si potevano nascondere in mezzo a quei rami aggrovigliati. Magari c’era una seconda torre. Improvvisamente sentì un abbaio che lo fece trasalire. Il cane e il vecchio, stavano tornando. Non intendeva nascondersi ancora. Per fortuna erano abbastanza lontani. Sgusciò fuori dal cerchio dei cipressi e si mise a correre giù per il sentiero. Sentì il cane abbaiare ancora, uof uof. Forse ci sta rincorrendo. Corri, corri. Più veloce della luce, record mondiale. Non smise di correre fino a che non arrivò alla sua mountain bike. Non l’avrebbe cambiata con nessun altra bicicletta al mondo; era un regalo di suo nonno.

Il sole picchiava sempre. Matteo montò in sella e pedalò a perdifiato verso casa. Era strano, quello che sentiva era come se un estraneo stesse vivendo insieme a lui, dentro al suo corpo, mentre il bambino che andava al mare e giocava con sua sorella, stava morendo. 15. Così come le fotografie rimangono lì, immuni allo scorrere del tempo, e non le puoi modificare, così accade anche per certi ricordi. La Pantegana e Alex lo avevano trascinato fino allo sgabuzzino. Dal gioco della bottiglia era uscito lui. Lo avevano fatto a posta. I ragazzi urlavano di tutto e qualcuno tirò dei pezzi di pane e salame in testa a Matteo. “Non puoi più tirarti indietro, sennò infrangi le regole del gioco. E fare la penitenza è peggio.” disse sadicamente Marcello. “Lasciami in pace. Dai Marcello, lasciami stare.” implorò Matteo La Jenny aspettava dentro lo sgabuzzino, con la luce accesa. Era più grande di tutti di un anno, poiché era stata bocciata, e, secondo alcuni racconti, era una troia. Si era tolta la felpa ed era rimasta con un reggiseno bianco. Aveva seni distanziati e piccoli e da sotto il reggiseno si intravedevano capezzoli grossi e scuri. O almeno così pareva. Marcello diede un paio di spintoni a Matteo e di forza lo costrinse ad entrare nello sgabuzzino. Poi gli lanciò una scatoletta, Durex, e risero tutti. NON SA NEANCHE COSA SONO, sentì commentare. Chio la porta e la assicurarono a chiave. La Jenny stava davanti a lui. Erano da soli. “Dammi un bacio con la lingua.” disse ad alta voce Matteo non rispose. Allora la Jenny si sfilò i jeans e rimase in mutandine e

reggiseno. Le gambe erano sottili e diafane. Le vene principali si intravedevano e questo non era tanto bello. Non abbiamo mai visto una ragazza che non conosciamo quasi nuda. Poi, la Jenny gli prese la mano e se la portò in mezzo alle gambe. Matteo teneva la mano morta, ma il dorso di essa per il volere della ragazzina continuava a sfregare su e giù, sentiva il tessuto delle mutandine e gli sembrava di sentire anche sotto. A Matteo parve di avvertire un calore improvviso giù in basso. Allora ritirò bruscamente la mano. Provò disgusto per quello che aveva fatto. “Ma sei frocio davvero?!” urlò la Jenny “Io non ti amo.” rispose lui La Jenny bussò come una forsennata perché le aprissero la porta. “È frocio! È frocio!” Scoppiarono tutti a ridere. FROCIO, FROCIO, urlavano. Quando pure Matteo uscì dallo sgabuzzino, nessuno osò più avvicinargli. 16. Ciao Ciao ... ... Cos’è che non va in noi due? Ma chi siamo noi due?! Chi sono io e chi sei tu? Io sono quello che parla adesso e tu quello che risponde Ma se sei tu quello che ha risposto adesso, allora io sono io

Lascia stare, sei mio amico? Sì. Siamo noi i migliori amici di noi stessi. Noi chi? Aah! Non ho più voglia di parlare con te. Cosa daresti perché le cose cambiassero? Tanto le cose vengono da sole. Fama o soldi? Fama... Ma perché dobbiamo sempre scegliere? Perché sì. La vita è fatta di scelte. Io non voglio scegliere le cose. Ma se dici sempre che vuoi poter scegliere. Ma scegliere è difficile. Allora, vuoi fare l’indeciso?! Voglio avere una vita parallela, in cui non sbaglio, in cui sono quello che non sono. Non ti piace quello che sei? Sì, ma non mi basta. Forse ha ragione nostra mamma, alla fine l’importante è essere se stessi Ma io voglio diventare come gli altri?! ...

Guarda il sole. È così grande oggi. Sembra che ci venga addosso. Così il mondo esplode. Succede un nuovo Big Bang. Peggio di una guerra Alla fine se ci pensi è normale che nel mondo ci sia la guerra, sarebbe normale se si fosse formato dal Big Bang, no? ... Lo sai cosa ho capito? Cosa? Il mio peggior nemico sei tu! Ma se hai appena detto che sono il tuo miglior amico Ma alla fine è colpa tua se io sono così, se noi siamo così. Senti chi parla! Tu sei noioso E tu sei un credulone, allora? Adesso ti spiego. Sentiamo. Se non avessimo baciato Marcello quella volta, ora non sarebbe così difficile. Loro non ci chiamerebbero frocio. Ma l’abbiamo fatto. Cosa vuoi dimostrare? Già l’abbiamo fatto. Era solo un bacio sulla guancia per dimostrargli il nostro affetto. Uno slancio, tutto qui. Lui non ha capito niente. Ma se non l’avessimo fatto, ora non saremmo soli.

Non serve a niente dire se, se poi l’abbiamo fatto Che male c’è?! Mi è sempre piaciuto pensare ai se. E poi non è vero che non bisogna pensare ai se. È solo una perdita di tempo. I se non esistono. Invece no. VIVONO. Io sono un se, per esempio. Tu non sei un se. Tu sei noi. Io sono: se fossi stato così Tu sei uno scemo mi sa Tu sei un ma, invece: ma sono così. Non ho capito niente. Cos’è che sono io? Un ma E tu? Io un se. Sono quello che non siamo Quello che? Una proiezione delle possibili vite che non vivremo e che non potremo mai vivere. Sono un genio, no? ... ... Boh... Non ci ho capito niente. Ci fa strani effetti parlare da soli. È vero, solo gli scemi parlano da soli. No, alla fine tutti parlano da soli. Nessuno è solo, proprio solo. Ha se stesso.

Ha te. E tu. 17. Il sentiero, un filare di ciliegi, dune d’erba intorno e il bosco. Il temporale ha lasciato le sue impronte. Sul sentiero i solchi asciugati delle pozzanghere sembrano strane orme di giganti. Un grillo continuava a frinire e Matteo non riusciva a capire da dove venisse il verso. Odiava i grilli e le cavallette, più di tutto, soprattutto quelle grosse e marroni. Abbandonò il sentiero e tagliò per la scarpata, dritto verso il cerchio dei pini. L’erba gli arrivava fino alle ginocchia. Il prato si stendeva leggermente in salita, per poi affossarsi e oltre il lieve declivio spuntavano le chiome immobili dei pini, del cerchio dei pini. Matteo muove i misurati; con quel sole accecante, aguzza più che può la vista. È cauto. D’improvviso viene preso di soprassalto. Una lepre aveva tagliato a lunghi balzi l’orizzonte. Matteo la rincorse un paio di metri, e la lepre era già scomparsa. Il grillo aveva taciuto per un po’, o non se n’era più preoccupato, ma adesso se ne ricordò: dov’era? D’improvviso il suo verso gli fu addosso. Matteo si voltò e il grillo non c’era, ma il cricri c’era ed era forte come il terremoto e lo stava seguendo. Il grillo, lo rincorreva per il prato. Corse verso un corridoio di faggi. Lì si fermò. Il respiro rotto. Inspira, butta fuori, inspira, butta fuori. Silenzio. Con il o pesante, Matteo riprese a camminare. Oltre il cerchio dei pini, c’era la torre. Ancora un poco. Provava un attanagliante senso d’angoscia e perdizione che lo rallentava. Si trovava in mezzo all’erba, quando sentì ad un tratto che qualcosa gli si era appiccicato alla maglietta. Iniziò a scuotersi tutto, a gridacchiare e a battere i piedi per terra. Si toccò la maglietta. Niente. Si toccò la schiena. Dove era andato il grillo? Improvvisamente sentì un ronzio, che era forte e il ronzio gli girava intorno e lo seguiva. Matteo prese a correre di nuovo. Era frastornato e inghiottito dalle sue paure, come se fosse stato in un incubo.

Correndo, sentì un colpo al petto, tipo, toh! Aveva già capito tutto o capito quello che aveva immaginato. Con una mano tese la maglietta, e ci vide il grillo appeso, verdognolo e rivoltante. Non poteva aspettare tanto, il grillo poteva saltargli in faccia e appiccicarsi al naso. Gli faceva schifo e non l’aveva mai fatto, però doveva farlo. Il grillo stava immobile, pronto a sferrare il suo attacco a sorpresa. Fu un attimo. Con uno schioccar di dita, Matteo catapultò il grillo nell’erba chissà dove, sicuro di averlo tramortito o almeno di non ricevere una sua imminente reazione. Guardò verso il cerchio dei pini e pensò alla torre. Allora s’affrettò a raggiungerla. Silenzio immobile, sovrannaturale quasi. Non c’è nulla di cui aver paura, noi siamo i custodi del monte Torta e della torre. È solo la nostra immaginazione. Eppure, ad ogni rumore Matteo si guardava intorno e il paesaggio era sempre lo stesso, immutato. Il sole gli batteva in testa, che oltre a ribollirgli, stava cominciando a dolergli seriamente. Avrebbe dovuto ascoltare le precauzioni di sua madre e mettersi un berretto. Inoltre, le gambe e le braccia gli prudevano da matti per via delle punture degli insetti. Prima del cerchio dei pini, il terreno si affossava. Il fosso era secco, ma se ci fosse stata l’acqua ci sarebbe stati i rospi. Poi, il terreno s’inerpicava ancora, fino al cerchio dei pini. Oltre il cerchio, c’era la torre. Si sporse, finché la vide, ma non gli suscitò l’impressione della prima volta. Sembrava stesse dormendo. Forse anche i serpenti neri che ci abitavano dentro, stavano dormendo. Respirò lentamente e si avvicinò ancora un poco. Fu in quel momento, che sentì qualcosa appoggiarsi sulla sua schiena e premere. Lì per lì riconobbe che si trattava di qualcosa di duro, ma non ebbe modo di pensarci. Trasalì e mollò un urlo di spavento, e mentre stava per voltarsi e scappare, una voce gli disse, FERMO LA’, e lui disse, chi sei? Vai via, e si stava lagnando e mettendo a piangere, quando sentì ridacchiare e la voce dirgli, NON DOVEVI VENIRE QUI, SEI NOSTRO PRIGIONIERO, e quella voce, come per un’intuizione, gli parve di conoscerla già. Allora si voltò. Aveva ragione. La Pantegana si materializzò dinanzi ai suoi occhi; il fisico segaligno, il volto

asciutto, il solito sorriso provocatorio stampato sulle labbra. Al suo fianco, Alex fumava una sigaretta e gracchiava divertito. “Cosa ci fai qui frocetto.” disse la Pantegana. “Cosa vuoi? Lasciami andare.” “Zac zac.” fece Alex, mimando con le dita una forbice “Ti tagliamo le balle, frocetto.” “Cos’hai in mano?” si allarmò di colpo Matteo, facendo inavvertitamente un salto all’indietro. La Pantegana teneva in mano con disinvoltura una cosa che aveva visto solo nei film, che adesso era lì, davanti a lui, nella mano destra della Pantegana; una cosa che nessun ragazzo di quattordici anni poteva avere. Sembrava inverosimile. Eppure era vero, perché se fosse stata finta l’avrebbe capito subito. Era tutto vero. “Secondo te?” ghignò la Pantegana “Sai che in America, quelli della nostra età ce l’hanno già. Se la portano anche a scuola.” Allora, gli puntò addosso la bocca della cosa. “Oh! Stai fermo.” La Pantegana se la dondolava davanti agli occhi e i raggi del sole rimbalzavano sul metallo bollente, lanciando schegge di luce ovunque. “Guarda che so adoperarla benissimo.” Alex stava alle spalle di Matteo senza che lui se ne accorgesse. BUH! Matteo fece un salto e subito dopo si lagnò, e la Pantegana si stava capottando dal ridere. Gli puntò di nuovo addosso quella cosa. “FERMO LA’!” Probabilmente, la Pantegana si credeva in un film. Adesso la teneva per traverso. La bocca della cosa sembrava appiattirsi e la cosa stessa pareva divenire un tutt’uno con la linea, data dal braccio teso. Matteo pensò in un attimo che anche le cose inanimate, se osservate attentamente e da una nuova angolatura, possono animarsi.

Improvvisamente ,Alex gli saltò di nuovo addosso e gli diede un palpone in mezzo alle gambe; Matteo saltò per aria una seconda volta, mollando calci a vuoto. “LASCIAMIII!” La Pantegana lanciò uno strillo, così acuto, da risvegliare il bosco. “Vieni con noi.” disse “Dai no! Lasciatemi in pace.” “Se non te le suoniamo noi, te le suona Marcello quando torniamo a scuola. Lo sai, frocetto?” “Chemmenefrega.” “Tanto ti becca quando torniamo a scuola.” “Non me ne frega. Lasciatemi in pace.” ... “Vieni frocetto… Ti facciamo vedere solo una cosa. Poi, puoi andar via.” La Pantegana con una pacca sulla spalla lo aveva spinto in avanti. Matteo in quel momento si stava pisciando addosso dalla paura, ma non poteva far altro che ubbidire. All’interno della torretta non si riusciva a respirare per il senso di soffocamento e per il tanfo di chiuso. Fortunatamente i serpenti neri non si erano fatti vedere, tantomeno sentire. Dentro, c’era molta confusione e l’aria era polverosa; si distinguevano nell’ombra due sedie pieghevoli, colpito da una luce che proveniva da sopra, un cuscino logoro e sporco di terra, un paio di lattine di birra vuote ed inzaccherate, una bottiglia ancora per metà piena e un bicchiere di plastica, con del liquido giallo, come il piscio, dentro, cenere galleggiante ed una labile schiuma biancastra che faceva venire il volta stomaco. Una scala di corda portava al piano superiore, da dove entrava la luce, attenuata da dei fogli di nylon che coprivano una finestrella. Alex, con le mani, tirò via la terra da un punto e comparve una scatola.

“È qui che l’abbiamo trovata, la pistola.” esclamò la Pantegana, gingillandosi l’arma sotto gli occhi. La luce che arrivava da sopra era soffusa, la vampa di calore opprimente, l’aria irrespirabile. Alex aprì la scatola; c’erano dei portafogli, un orologio e altre cianfrusaglie. Sotto, c’era una cassa. Alex, aiutato dalla Pantegana, la sollevò e aprì anche quella. Facilmente. Probabilmente la avevano già aperta. Avvolte dal nylon e protette dal polistirolo, all’interno c’erano due mitragliette e un’altra pistola. “Questo kalashnikov è leggero, ma potentissimo. Ehi frocetto! Adesso ti faccio un paio di buchi nello stomaco.” disse Alex afferrando una delle due mitragliette ed imbracciandola. “Non sai se è un kalashnikov!” ribadì la Pantegana “L’ho visto io un kalashnikov.” “Eddove?” “In TV. Sono le mitraglie che usano i mutandinen, i mullah, come cazzo si chiamano. Quelli di Bin Laden. I talebani.” “Ma vaffanculo! Perché l’hai visto in TV sai anche riconoscerlo, adesso!” Matteo non apriva bocca. Era tutto inverosimile. Sembrava un incubo, ma purtroppo era vero. L’aria dentro la torretta era divenuta insostenibile, sentiva che stava malissimo ed era fiacco. Lo disse alla Pantegana. Uscirono. La Pantegana si guardò intorno senza dire niente, come se stesse fiutando l’aria. Poi, si bloccò in direzione di un gruppo di alberi. “Guarda adesso prendo quell’uccello.” “Dai non sparare.” lo ammonì preoccupato Matteo “farai rumore, ti scopriranno.” “Che cazzo vuoi?!” ringhiò l’altro “Guarda là!” “Ma non c’è niente.” disse Alex

“Là. Non lo vedi.” “Non sparare.” “Non c’è un cazzo!” La Pantegana si preparò per lo sparo “Non sparare, dai.” cercò di esortarlo per l’ultima volta Matteo Mise a fuoco. Matteo chiuse gli occhi, si tappò le orecchie. Non fece a tempo di girarsi verso la Pantegana e dirgli nuovamente di non sparare, che un botto violento, PAM, lo assordò e gli risuonò un paio di secondi nelle orecchie, prese un colpo al cuore e tremò tutto e quando alzò lo sguardo verso la Pantegana, lo trovò con un’espressione di sorpresa e spavento dipinta negli occhi, il braccio leggermente proteso, che guardava la pistola e nell’aria si spandeva un solleticante odore di bruciato. La Pantegana scoppiò a ridere nervosamente. “Che cazzo di rinculo!” “Figo, ma che cazzo hai preso.” “Boh! Chemmenefrega.” La Pantegana aveva gli occhi fissi sull’arma. Bam bam. Si girava intorno e faceva finta di sparare. Se la infilò in tasca, poi la riprese in mano. “Voglio provare anch’io con questa.” fece Alex riferendosi alla mitraglietta “No.” fece la Pantegana “Che cazzo vuoi?! Tu hai provato!” “È meglio domani. Adesso basta fare casino.” “Ma vaffanculo, per un colpo.” “Qualcuno sente e s’insospettisce. TU NON DIRAI NIENTE A NESSUNO SENNO’ TI TAGLIAMO LE BALLE! VERO FROCETTO?” ruggì tutto ad un tratto, la Pantegana, riferendosi a Matteo

“No, lo giuro.” “Ho un’idea. Domani portiamo su un cartello stradale e ci divertiamo con quello.” Improvvisamente la Pantegana si zittì. Anche Matteo sentì quello che aveva sentito la Pantegana e anche Alex. ANDIAMO VIA. NO. La Pantegana puntò la pistola verso dove avevano sentito i rumori. COSA VUOI FARE PANTEGANA?! Lui non rispose. Improvvisamente da sotto, videro venir su due individui, prima la testa, poi le spalle e mezzo busto. Erano tutti e due negri, extracomunitari, uno con gli occhiali e una tunica addosso; l’altro, con la pelle un po’ più scura, gli occhi grandi, i baffi e la testa pelata. Ad un certo punto, i due negri si accorsero dei tre ragazzi e cominciarono a gridare qualcosa di incomprensibile e a venir su velocemente. Sembrava che ce ne fosse un altro, dietro loro due. CHI CAZZO SIETE?, urlò la Pantegana. VA IN FIGA PANTEGANA, IO ME NE VADO! Alex lasciò la mitraglietta e corse giù per il bosco, la Pantegana mollò la pistola per terra e seguì Alex, infine venne Matteo. Si gettò a capofitto giù per il bosco, dopo che la Pantegana e Alex l’avevano fatto. I due individui gli urlavano dietro cose incomprensibili e un sacco di parolacce in italiano. Matteo correva giù per il bosco come una lepre braccata dai cani. Non aveva mai pensato di correre così. Vedeva di schiena Alex, e la Pantegana più a destra. Lui era l’ultimo, ma stava per raggiungerli. Non sentiva il terreno sotto, non sentiva i rami che gli tagliavano le braccia, o i pungitopo e le ortiche che gli graffiavano i polpacci, non sentiva le gambe andare, o il corpo, o il sudore, o la fatica, sentiva solamente una paura mortale che gli stava alle calcagna, come un’ombra nera, vastissima, che ricopriva tutto il bosco e allungava le mani su di lui, per avvinghiarlo e ucciderlo. Il suo corpo lo sentiva solamente battere e battere e battere. Sotto era come se non ci fosse niente. E dietro la paura. La paura che abbaiava e ringhiava e cercava di colpirlo. Si girò per guardare. Inciampò e si ritrovò per terra. Si rialzò subitastante. Silenzio. Improvvisamente, sentì male, alla testa, alle gambe, ai fianchi, alle braccia, male da piangere. Si perlustrò velocemente il corpo. Trovò il ginocchio sinistro che

sanguinava, i gomiti sbucciati. Gli veniva da piangere, ma s’impose di riprender fiato, di mantenere la calma. Alzarsi gli faceva male. Raccolse le gambe, avvicinandosi con il petto, per farsi piccolo piccolo. Respira. Strisciando, cercò di nascondersi dietro due alberi vicini. Pensò che era un incubo e che sua madre a breve l’avrebbe svegliato. Sarebbe stato bello. Mamma, Alice e papà, sarebbero venuti a cercarci. Noi non abbiamo preso le pistole. Non abbiamo fatto niente. Non dobbiamo aver paura. Anche se sono extracomunitari, anche se sono delinquenti, anche se sono assassini. Ci fu un fruscio. Non riuscì a vedere nulla. Doveva rialzarsi e correre. Gli piaceva correre, correre più veloce della luce, record mondiale, è l’uomo più veloce del mondo. Al via partire come un proiettile, guardare dritto l’arrivo. Non dovremmo avere paura. Dritto all’arrivo, correre. Non ci prenderanno. Era pronto a ripartire, ma il suo occhio fermo improvvisamente ne vide uno. Era il negro con gli occhiali, che indossava una tunica bianca ed un gilet grigio sopra. Stava scendendo ad una cinquantina di metri da lui. Muoveva un randello per aria e di tanto in tanto colpiva i rami più bassi degli alberi. Lo stava cercando, come un segugio Matteo si strinse a se ancor di più. Calmi, respira. Buon Gesù aiutaci, solo per questa volta, ti daremo quello che vorrai, ma aiutaci. Il negro scese, senza notare la sua presenza. Grazie Buon Gesù, facci tornare a casa, ti prego. Matteo si rialzò, pian piano, rimanendo curvo con la schiena, guardò il bosco, sotto e sopra di lui. Sotto non conosceva la zona, per di più c’era uno di loro adesso. Allora, pensò di risalire. Aveva paura, ma decise di risalire. Ce l’avrebbe fatta. Se l’altro era sceso, ne rimaneva solo uno di sopra. Alla fine era più facile beccare l’altro scendendo, che trovare quello che era rimasto lì. E poi, sopra, conosceva meglio il posto. Ce l’avrebbe fatta.

Scattò. Risalì, facendo moltissima attenzione e guardandosi continuamente intorno e alle spalle. Sua madre aveva preparato l’insalata di riso per la cena. A casa sarebbe stato al sicuro. A casa non può prenderci nessuno. Buon Gesù aiutaci, e faremo i buoni per sempre. Uscì dal bosco, più o meno dove era la torre. Adesso doveva fare moltissima attenzione, perché era allo scoperto, e poteva essere facilmente visto. Il cuore sussultò ancora; il terrore autentico comparve davanti a lui, poi svanì, appena, per la distanza incolmata tra di loro. Per fortuna li aveva visti solo lui. Si accucciò. Non erano tanto distanti. Aveva avuto ragione, quando gli era sembrato di averne visto un altro. C’era il negro di prima, quello con i baffi, pelato, e ce n’era un altro. Sembrava più giovane, indossava la divisa dei Lakers e sull’avambraccio destro aveva una cicatrice più lunga di una spanna. Risaltava parecchio, forse per via del sole accecante che ne modellava la strana forma, si notava molto bene sulla pelle scura del negro. Gli scappava da pisciare talmente tanto che gli pareva di percepirne l’odore, e sentiva solo la paura battere e battere e battere, anche più di prima. I due negri, stavano discutendo tra di loro. Stavano litigando, perché i toni erano accesi. Poi d’improvviso iniziarono a spintonarsi, e a menarsi, e poi sempre d’improvviso un colpo gli rimbombò nelle orecchie, fino a spaccargli i timpani, PAM, e uno dei due negri, quello con la cicatrice, crollò sulle ginocchia e cadde a terra, mentre l’altro rimase in piedi. Quest’ultimo restò un paio di minuti impalato, la pistola abbassata, una mano sulla bocca, poi d’un tratto afferrò il cadavere per i piedi e lo trascinò, strattonandolo, in mezzo alla vegetazione. Lo spinse ancora, come poteva, per un pezzo ad urtoni, per un altro tratto a calci, finché il corpo non scomparve alla vista del ragazzo. Allora il negro diede qualche occhiata furtiva intorno a lui, poi come niente fosse si accese una sigaretta. Espirò. Stava camminando in direzione del nascondiglio di Matteo, quando si bloccò. L’aveva visto?! Non avrebbe più dimenticato quella faccia; la testa pelata, i baffi, la mascella quadrata, gli occhi spalancati oltremodo, iniettati di sangue, la bocca aperta come le fauci di un mostro infernale, che gridava qualcosa di indecifrabile. Era il demonio in persona.

Matteo alzò la testa e defilandosi sulla sinistra, rientrando e uscendo dal bosco, prese a correre, e saltare e correre ancora. Non sentiva niente sotto i suoi piedi, non sentiva i suoi piedi, ne sentiva niente intorno a lui e sopra di lui, pensava solamente a sua madre che lo aspettava, a sua sorella, a casa, dove non poteva succedergli nulla. Il ragazzo corre giù per il prato, a il cerchio dei cipressi e corre giù per il sentiero. Ha paura di trovarselo davanti, quel negro; che da un momento all’altro, salti fuori dal bosco, e PAM. Ma pensa anche a correre lui, campione del mondo, il record mondiale di velocità. Alla fine non abbiamo fatto niente. Stiamo solo correndo, per il bosco. Ogni tanto si guarda indietro. Niente. È sempre tutto uguale, il sole, il bosco, il silenzio. Ormai è arrivato. Gesù aiutaci ancora un po’. Vede le case, con i loro giardini, la strada, le macchine are. Comincia a sentirsi bene. Tanto bene. Troppo bene. Ormai è al sicuro. Arriva alla sua mountain bike, quella piccola dove le ginocchia gli arrivano al manubrio, la sua bicicletta tutta speciale, l’afferra e ci salta sopra, e comincia a pedalare. È in strada, quando si guarda ancora alle spalle. È finita, seminati. In quel momento Matteo provò una felicità immensa spandersi come un maremoto per tutto il suo corpo, la più grande che avesse mai potuto provare; non riusciva a trattenersi dal ridere. Tremava come una foglia, sotto la pelle e sopra la pelle, e rideva. Gli scappava da pisciare così tanto che la vescica gli bruciava e si stava per pisciare addosso. Ma non si fermò lungo la strada. Aveva i vestiti sporchi, i gomiti sbucciati e le ginocchia insanguinate, ma non riusciva a trattenere il riso. Arrivato a casa, stanchissimo, ma ancora tremante, si rifugiò in bagno e ci rimase fino a cena. 18. Sua sorella quella sera era uscita. Ormai usciva quasi tutte le sere. Matteo ricordò qualche serata tirate le una di notte a giocare a carte in cucina. Gli sembrò lontanissima, sebbene si trattasse di quell’estate. Uscì sotto il portico. Fuori era nero. Si sedette in una delle sedie a dondolo in vimini. La sera era appiccicaticcia. Qualche zanzara gli ronzava intorno e così

ogni tanto, prendeva a grattarsi le braccia e le gambe. Il monte, gli stava davanti, silenzioso e scuro. Non c’era più andato e non ci sarebbe andato mai più. Da allora era rimasto a casa tutto il giorno per la paura di incontrare i due negri, oppure si era mosso solo vicino a casa, dove si sentiva al sicuro. A sua madre aveva detto che erano andati tutti al mare. La porta d’ingresso era aperta, la TV accesa. Stavano trasmettendo un dossier esclusivo per il secondo anniversario dell’11 settembre. Sembrava un martedì qualunque. Il presidente americano George W. Bush si stava recando in Florida per far visita agli alunni di una scuola elementare. Di lì a poche ore il terrore, venuto dal cielo, avrebbe sconvolto l’America e tutto il mondo, cambiando inesorabilmente il corso della Storia. Poteva sentire il rumore della TV giungere dalla cucina. Se ne sentì rincuorato come se fosse rimasto lontano da casa per tutto quel tempo. Il volo 11 dell’American Airlines si schianta contro la torre nord del World Trade Center. Matteo ricordava i due aerei, prima uno poi l’altro, tagliare le torri in due, l’esplosione imminente, il fumo nero. Chiesi al cappellano una preghiera breve. Eravamo sotto attacco. Poi una delle due torri si sgretola, frana, piomba a terra come un castello di sabbia, sollevando un fungo di fumo, polvere e macerie, che intrappola New York. L’11 settembre sarebbe diventato come l’Olocausto, pensò. Il Gazzettino stava sopra la bilancia in cucina, dove si lasciavano le chiavi, gli spiccioli avanzati, la posta. Del negro morto su al monte Torta nessuno sapeva niente. Il Gazzettino non aveva riportato nessuna notizia a riguardo. Era meglio così, nessuno aveva colpe, nessuno doveva pagare. Forse anche per questo si sentiva normale, strano, ma normale, aveva un segreto, un segreto sconvolgente, però si sentiva come se non fosse successo nulla di sconvolgente. Non era sconvolto, solo un po’ strano, ma con il tempo la stranezza sarebbe ata. Il tempo è la cura migliore. Prima dell’accaduto, l’idea di un omicidio lo

terrificava, rappresentava qualcosa di straordinario, un atto di follia che non trovava spiegazione e perciò lo lasciava paralizzato dall’orrore. Ma ora che era venuto a contatto con la morte, assistendo a quell’omicidio, l’accaduto rimaneva sì straordinario e sconvolgente alla ragione, ma perdeva il suo terribile mistero, il suo orribile incantesimo; la morte appariva normale, senza colpe o colpevoli, senza macchia alcuna; la morte inghiottiva la vita intera. Pensò che la morte era così facile e semplice e che non cambiava niente e che era stupido aver paura della morte, perché uno non se ne rende nemmeno conto e muore. Intravide una luce accendersi in soggiorno, poi per un momento sentì l’acqua del lavandino scrosciare. Alzò gli occhi. Il monte era più grande del solito. Sembrava andargli addosso. Era nero. Era sempre stato lì, da quando abitava in quella casa, da quando era nato. Noi andiamo sul monte, la Pantegana e Alex vanno sul monte, i tre negri vanno sul monte. Gli venne un brivido al solo pensare che si erano mancati tutte le volte e per un non nulla. Che lassù non era mai stato solo. E Marcello?! Lo pensò improvvisamente, per caso. Era già settembre, fra pochi giorni sarebbe tornato a scuola; Marcello avrebbe continuato a fargli quello che gli aveva sempre fatto e quell’incubo non sarebbe mai finito. Gli sembrò che un’ombra si fosse mossa abilmente giù in strada, da un nascondiglio all’altro. Era buio pesto, non si poteva vedere niente. Dei brividi gli corsero a fior di pelle, giù per la schiena, fino a sentir freddo. Matteo si alzò e andò rapidamente verso la porta di casa. Si girò per guardare il monte e sussultò. Stava faccia a faccia con quel negro morto. Aveva gli occhi vuoti e la pelle negra, così negra che sembrava blu, e il bianco annacquato degli occhi era infettato di giallo. Rimase muto. Matteo chiuse gli occhi, si voltò e mosse qualche o nel buio. Toccò la maniglia, tiepida, la strinse saldamente. Aprì la porta, ancora qualche o nel vuoto, sentiva le gambe a pezzi, fino a che si chiuse la porta alle spalle. La morte intacca la vita a tal punto da non spaventare più, il resto è solo l’immaginazione, si disse. Quello che vide, quando riaprì gli occhi, fu l’asse da stiro di sua madre in soggiorno e lei che stava stirando.

Autunno

1. Sarebbe stato di nuovo tutto come prima. Non sapeva se doveva esserne felice o meno. A quello che era successo su al monte Torta non voleva più pensarci, voleva dimenticarlo e grazie al tempo ce l’avrebbe fatta. Si ritornava a scuola; ma nell’ansia dei giorni precedenti all’inizio, un po’ per i nuovi compagni, un po’ per il cambiamento generale, gli era ribalenato in testa il pensiero di Marcello. In verità non l’aveva mai lasciato, ma in quei giorni era così assillante che gli stringeva lo stomaco. Lo zaino era leggero. Matteo camminava verso la fermata del bus pensando che sarebbe stato bello fermare il tempo, anche solo per un poco. Oppure sognava di farlo correre in fretta, fino alle prossime vacanze estive. Fra un paio di mesi sarebbe arrivato l’inverno. Si crogiolò nel pensiero del fuoco del caminetto e della neve fuori, del Natale e dei regali da scartare la notte della vigilia. La fermata del bus non era molto distante da casa sua. Svoltando l’ultimo angolo, la si intravedeva. Una ragazzona alta, fatta a pera, guardava fisso nella direzione dalla quale sarebbe dovuto arrivare l’autobus. Una ragazza brutta, mingherlina, con un fermaglio tra i capelli, che gli sfioravano le spalle, cercava di attacar bottone con lei, ma la prima non distoglieva mai lo sguardo dall’orizzonte. Anche Matteo arrivato alla fermata aveva il suo posto dove guardare. Per terra. Qualche volta staccava lo sguardo, ma solamente in direzione delle due ragazzine. La carnagione di quella mingherlina non sapeva di sano. Aveva gli occhi grandi e il naso all’insù. Distolse lo sguardo, ma capì che la ragazza lo aveva beccato. “Tu fumi?” fece Vrooom. Uno scooter era arrivato. BRUCIAMO OGGI?NO OGGI NO.

DOMANI DAI. “No.” rispose Matteo “Peccato, perché.” Il rumore del traffico troncò le ultime parole alla ragazza e non si capì niente. Matteo non si preoccupò di indagare sul senso delle parole della ragazza mingherlina, ma ributtò lo sguardo a terra. Sudore freddo gli corse lungo tutta la schiena. Quanto ci vuole! Si sentì sfiorare la spalla. Era nuovamente lei “Scendi in centro studi tu, vero?” Annuì. Le gambe gli tremavano. CI VEDIAMO DOPO. CIAO. Vrooom. Il muso dell’autobus comparve in fondo, anticipato da una fila di automobili. Fu lento ad arrivare. Un’agonia. La porta anteriore si aprì. Sul predellino, Matteo si sentì nuovamente sfiorare la spalla. “Me lo tieni il posto?” Metà faccia spiaccicata sul finestrone dell’autobus; alla fine la ragazza mingherlina si era seduta di fianco a lui. Matteo aveva gli occhi chiusi, ma non stava dormendo. Solamente, non voleva guardare e non voleva essere guardato. Ascoltava le frasi di quei eggeri che ben conosceva accavallarsi l’una sopra l’altra. DAI, BRUCIAMO CON ALBERTO OGGI. EHI GIULIA, VIENI ALLA FESTA SABATO? SI, ME LO HA DETTO LA FEDE. IO E GIAN ANDIAMO A COMPRARE DA BERE. ANCHE SUPERALCOLICI, CHE VOIALTRI PRENDETE SOLO BIRRA, COME L’ULTIMA VOLTA. L’autobus sussultò, Matteo aprì gli occhi. Per fortuna, la ragazza mingherlina si era addormentata. Malattia gli stava bene come soprannome. Matteo si ricompose sul sedile. Malattia non batteva ciglio. Nel frattempo sul

bus era salito il controllore. Ad un suo cenno, Malattia aveva riaperto gli occhi e gli aveva mostrato il biglietto, poi si era rimessa a dormire. Anche Matteo gli aveva mostrato il biglietto. Successivamente, per una sorta di effetto magnetico, girò la testa per guardare di dietro. Il controllore era fermo un paio di posti oltre il suo. Sulla destra, c’era un ragazzo negro. Aveva uno sguardo duro e indifferente e guardava fuori dal finestrino. Teneva lo zainetto sulle ginocchia e la mano sinistra sulla tasca superiore. Il controllore aveva chiesto il biglietto anche a lui. Il ragazzo negro non aveva capito. Il biglietto, ripeté il controllore. Il ragazzo negro cercò nelle tasche e alla fine estrasse un biglietto. Era valido. In quel momento il ragazzo negro si accorse dello sguardo di Matteo e si voltò verso di lui. Gli sguardi si incrociarono, un istante, poi Matteo si rimise composto sul sedile, confuso ed allarmato. L’autobus sussultò nuovamente. Malattia spalancò gli occhi. Matteo li chiuse immediatamente e poggiò la testa sul vetro del finestrone, rimettendosi ad ascoltare. VAFANGULO STRONZO. COSA MI HAI DETTO ALBA DI MERDA?! TORNA A CASA COL BARCONE CHE SEI VENUTA. AHI! ME LA DAI MIKAELA? VAFANGULO L’autobus improvvisamente si fermò. Era arrivato. Matteo aprì gli occhi. Tutti si alzarono e scesero dal mezzo. Matteo scostò la faccia dal finestrone. Attese. “Tu non hai dormito?” gli disse Malattia. Ritardò ad infilarsi lo zaino sulle spalle, finché le voci, che venivano dalla coda dell’autobus non si dispersero. Non le distingueva quasi più. Allora arrivò il suo turno di scendere. “Facciamo la stessa strada.” disse ancora Malattia La fermata era affollata di studenti. Dobbiamo essere in classe fra poco. Malattia

lo tallonava. Matteo marciava a o spedito per liberarsene. “Hai la morosa?” “No.” rispose lui “Perché cammini così in fretta?! Non siamo mica in ritardo.” VROOOM. TI SEI COMPRATO IL MOTORINO NUOVO? VROOOM. ADESSO, FINITO IL RODAGGIO, HO GIA’ PRONTA LA MARMITTA TRUCCATA. CIAO ALBE. EHI TU, SECCHIA! VIENI QUI. ASPETTA. QUELLO È UNO DI PRIMA. “Oggi a che ora prendi l’autobus?” disse ancora Malattia “A l’una e un quarto.” “Io lo prendo prima.” “Va bene. Ciao.” “Ciao. A domani.” Malattia proseguì dritto. La sua scuola era dopo quella di Matteo. Il ragazzo invece deviò a sinistra, superò il grande cancello e mise piede nel cortile, strapieno di studenti, cercando con lo sguardo il gruppetto dei suoi compagni di classe. 2. Ogni mattina, prima di salire in aula, alcune ragazze in classe con Matteo si riunivano in un angolo del cortile. Melissa era la più bella della classe. Matteo era l’unico maschio in mezzo a quel gruppetto. Fino a quel momento andava tutto bene. Poi una mattina, s-ciaf, qualcuno gli rifilò un colpo gagliardo alla nuca, il famigerato coppino. Il coppino è molto umiliante. Matteo si voltò e di fronte si trovò Marcello. “Ciao frocetto come stai?”

Alex conosceva le sue compagne di classe e si era messo a fare lo spaccone. Marcello si fece bello agli occhi di Melissa. Quando la camla suonò l’inizio delle lezioni, le ragazze fecero per avviarsi verso il portone d’ingresso. “Ciao frocetto.” sibilò Poi mollò un pizzicotto in mezzo alle gambe a Matteo.“Ci becchiamo.” Per tutta la mattinata Matteo non riuscì a calmarsi. A meno dieci alle otto, ogni mattina, avano di là, Marcello, la Pantegana e Alex. Le finestre della 1C davano direttamente sul cortile d’ingresso. Marcello, la Pantegana e Alex ridevano con le sue compagne di classe. Poi c’era sempre il ragazzo negro. Alla fine si scoprì che era in classe sua. Fumava da solo vicino al grande cancello e si muoveva come una bestia disorientata. Portava un giubbetto in pelle nero, anche se non era ancora stagione da portare un giubbetto così. Puzzava e nessuno gli stava troppo vicino. Da quando al mattino, all’inizio della lezione, invadeva l’aula, non si curava della presenza dei suoi compagni, nemmeno dei proffi, e nessuno si curava di lui. 3. I suoi compagni di classe, riuniti in cerchio intorno alla prof di educazione fisica, a volte lo guardavano e si scambiavano risolini sardonici. Avevano già sentito Marcello, la Pantegana e Alex. Matteo si chinò per allacciarsi le scarpe, poi si tirò su i calzini e sentì i suoi compagni che stavano facendo qualche battutina sul suo conto. “Ragazzi, stamattina vediamo un po’ la resistenza. Andiamo fuori a correre. Su!” disse la prof “Professoressa.” fece Matteo alzando il dito “Sì?” “Posso andare a mettermi una maglietta con le maniche lunghe?”

“Sì, ma fa in fretta, che cominciamo... FORZA RAGAZZI USCIAMO.” Il ragazzo corse fino allo spogliatoio. Pensò che si sarebbe calmato un po’ lì. Aveva bisogno di stare da solo qualche minuto. Quando aprì la porta dello spogliatoio, trovò il ragazzo negro, con le mani dentro uno zainetto. Questo alzò lo sguardo verso di lui, una frazione di secondo, poi senza battere ciglio ritornò a frugare nella tasca dello zaino. Non disse niente. Matteo aprì il suo zainetto e ci guardò dentro. La prof non aveva fatto neanche caso all’assenza del ragazzo negro, nessuno ci aveva fatto caso. Rovistò tra la sua roba e trovò la maglia che doveva mettere. Per un istante, il ragazzo pensò che se avesse detto quello che stava succedendo, forse sarebbe stato considerato in modo positivo dai suoi compagni di classe. Ma pensò anche, che il ragazzo negro poteva spaccargli la faccia e avere altri amici come lui. Gli ritornarono in mente gli extracomunitari del monte Torta, e adesso, che se l’era cavata bene, non aveva nessunissima intenzione invischiarsi in un’altra situazione pericolosa. Con la coda dell’occhio, vide il ragazzo negro che aveva preso da un portafogli dieci euro e se li era messi in tasca. Aveva fatto tutto come se niente fosse. Poi questo uscì dallo spogliatoio. Dopo che se ne fu andato, Matteo prese lo zainetto e lo mise sotto la panca, con le scarpe sopra. Corse giù e raggiunse i suoi compagni e la prof in cortile. Aveva il vuoto in testa e non riusciva a prendere una decisione. Il ragazzo negro stava dicendo alla prof che non poteva fare educazione fisica quel giorno perché aveva mal di stomaco. Il suo sguardo e quello di Matteo si incrociarono più volte. Era serio, ma non sembrava preoccupato. Il ragazzo negro non lo aveva minacciato nello spogliatoio, non gli aveva detto niente. Forse sapeva in anticipo che lui avrebbe avuto paura a confessare tutto. Quando i loro sguardi s’incontrarono per l’ultima volta, Matteo gli sorrise. La prof fece sedere il ragazzo negro su una panchina lì vicino. Matteo si mise a correre. Si sentiva confuso e non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Sapeva che non era una cosa giusta tacere a riguardo del furtarello, ma provava una strana eccitazione, del tutto nuova. Poteva dirsi felice. I suoi compagni di classe stavano correndo per il perimetro del cortile. Erano già un bel po’ avanti. Matteo fece uno scatto e quando aveva quasi finito il giro, raggiunse la coda del gruppo. Li guardò mentre ridevano tra di loro, spingendosi

o menandosi qualche buffetto per far baccano, e sentì che li odiava visceralmente. Voi nemmeno immaginate quanto sono furbo, vero? 4. Alla fine poteva dirsi entusiasta come non mai per quello che era successo nello spogliatoio e non gliene fregava niente, ne dei dieci euro rubati, ne dei suoi compagni di classe. L’aveva fatta sotto il naso a tutti e avrebbe voluto dirglielo forte che gliel’aveva messa in culo, cari compagni. Ma doveva mantenerlo quel segreto, per non rischiare di rovinare tutto. Melissa gli camminava davanti. Tutti i ragazzi le guardavano ipnotizzati il sedere. Le ragazze sanno bene che i maschietti si masturbano pensando a loro. Chissà quanto ci godono. “Cosa fai sabato Meli?” Valeria e Melissa fanno le amiche. Valeria in realtà è una sua rivale. “Vado ad una festa a casa di Checco.” “Aaah! Ma allora...” “Ci siamo baciati sabato. Lui continua a chiamarmi.” “Mio moroso invece sta diventando uno stronzo.” Melissa diceva che il moroso di Valeria era un cesso. Alla fin fine nessuno dei suoi compagni di classe conosceva il vero valore dell’amicizia. Matteo si fermò. Melissa si sarebbe accorta di lui prima o poi. Tutti si sarebbero accorti di lui prima o poi. Ma sarebbe stato troppo tardi. VALERIA, SE METTI DI NUOVO IL PERIZOMA MENTRE FAI GINNASTICA, LA PROSSIMA VOLTA TI STUPRO E TU NON GUARDARMI IL CULO! Il ragazzo negro è l’ultimo della fila. Adesso è il suo complice. Ha una busta di

plastica del supermercato dove tiene la roba per fare ginnastica. Cammina serio, chissà a cosa sta pensando. È invisibile anche lui per gli altri, come noi. Oramai sono vicini. Da che paese vieni? Come mai sei qua? Diventiamo amici? Ora sono amici, quello che è successo nello spogliatoio lo prova. Matteo si sentiva furbo come il diavolo. Era il diavolo in persona. Le braccia sue e del ragazzo negro ad un certo punto furono vicinissime, sembravano sfiorarsi ad ogni o. Con un movimento goffo, Matteo aprì la prima tasca dello zaino e prese il plumcake che aveva per l’intervallo. Ne scartò velocemente la confezione. Allora spezzò il plumcake a metà. “Vuoi?” disse girandosi verso il ragazzo negro e porgendone un pezzo. “No.” rispose lui freddamente Matteo sorrise e si mise in bocca i due pezzi della merendina. Da quel momento fino in classe non gli rivolse più la parola. 5. La terza volta che avevano lezione di lettere e storia, la prof entrò e, dopo aver salutato la classe e appoggiato la borsa sul fianco della cattedra, tirò fuori, Il Corriere della Sera. “D’ora in avanti ragazzi, prima di cominciare la lezione, cercherò di ritagliare un quarto d’ora di tempo per la lettura di un quotidiano. Logicamente, il tempo è quello che è e leggeremo solamente alcune notizie, non tutte. Non che le altre non siano importanti, ovviamente. Il mio obiettivo sarebbe quello di stimolarvi a comperare il giornale. Ma forse chiedo troppo. Comunque d’ora in avanti cercherò anche di farvi le fotocopie degli articoli che leggeremo. Oggi non è stato possibile, purtroppo.” Fece una piccola pausa. “Allora parleremo d’altro.” I ragazzi del banco dietro a Matteo, fecero un paio di commenti volgari sulla prof. In verità la prof di lettere e storia era una bella donna, abbondante e dai tratti mediterranei. Quel giorno portava una gonna fino al ginocchio e una camicetta, sbottonata il giusto, da lasciare intravedere dalla fantasia e non, il solco tra i seni generosi. Ma la cosa più bella, era la bocca. Una bocca da pompini. Il pompino è quando la donna succhia il coso dell’uomo, e lei aveva proprio la bocca adatta, abbastanza grande e con due labbra carnose.

“Allora.” riprese la prof “cosa ne pensate di quello che è successo in America l’11 settembre di due anni fa?” La classe intera rimase in silenzio. “Ricordate no?!” incalzò la prof “L’attentato alle torri gemelle.” Sì, disse una voce. Poi un altro sì. Poi il SÌ generale. “Cosa ne pensate? Come è cambiata la vostra vita in questi due anni? Pensateci su.” ... “Tu?” disse poi la prof riferendosi alla ragazza che aveva detto il primo sì “Scusa ma non mi ricordo il nome. Devo ancora memorizzarli tutti. Come ti chiami?” “Ilaria.” Ilaria era già stata denominata la Sfiga. Tutti la ignoravano e la deridevano. La Sfiga leggeva molto e scriveva sempre sul suo quaderno. Matteo cercava di essere gentile con lei, (in fin dei conti gli faceva pena), però stava anche attento a non farsi vedere dagli altri ragazzi della classe. “Ilaria.” ripeté la prof “cosa ne pensi?” Ci fu un brusio di sottofondo. “Ragazzi, silenzio per favore.” “Mi ha fatto molta paura. Se penso che può capitare anche da noi....” “Tu?” disse rivolgendosi ad un’altra ragazza “Anch’io la penso come Ilaria. Sono dei fanatici, dei barbari, degli ignoranti. Anche come trattano le donne, da inferiori. Le picchiano, le stuprano, le costringono a mettersi il burqa.” “Tu, cosa ne pensi?” Matteo si accorse che la prof stava parlando proprio a lui.

Scivolò con lo sguardo sul suo seno. Si intravedeva quasi completamente tetta destra. “Io non riesco a capire come ci si possa far esplodere per la propria religione.” Difatti Matteo riteneva insensato il gesto dei kamikaze, ma al tempo stesso, (cosa che non diceva) pensava che morire per un’idea era da eroi; era un modo estremamente ammirevole per morire. “I musulmani sono degli esaltati. Non sono come noi.” esclamò Massimiliano, dal banco dietro al suo “Comunque a me non è cambiato niente. Non mi interessa. Chi vuoi venga a colpire, un paesetto come il nostro! Un conto è New York. Noi non c’entriamo niente.” “Pensi che da noi non cambierà niente, allora?” insistette la prof. “Si vabbè, però alla fine qui cosa vuole che succeda.” “Bene.” disse la prof “Allora adesso mi fate un breve compito, abbastanza libero, su di voi, su quello che è cambiato dopo l’11 settembre, sulle informazioni che avete raccolto o sentito dire dai vostri parenti e amici, il vostro rapporto con il paese in cui vivete dopo l’11 settembre. È un compito senza votazione. Vi do tempo... (guardò l’orologio) mezz’ora.” C’era tempo di leggerne solamente uno, aveva detto la prof di lettere e storia, poi doveva assolutamente cominciare la lezione. Aveva già in mente a chi far leggere il tema. Indicò nella seconda fila, vicino alla finestra, un ragazzo che si faceva i fatti suoi, scarabocchiando l’astuccio. “L’hai fatto?” si accertò la prof “...Sì.” “Bene, leggi.” ... “Io chiamo Tamba, vengo di paese lontano dall’Italia, di Africa. Lì io ho un amico che si chiama Paul e noi stare insieme da bambini, perché nostre famiglie stare insieme, amici. Io vivo lì, nel mio paese, in città con mia famiglia. Papà e

mamma lavorano e mio fratello va a scuola come me. Noi stiamo bene in nostro paese però a volte gente combatte. Non so perché, combatte anche bambini come me. È colpa di governo, dicono. Una volta io ho visto un bambino sparare a un grande e lui sparava come matto e grande cadeva morto. Io non ho più tanta paura quando vede in TV che sparano o esplode case e palazzi come in America, io ho visto davvero. Poi un giorno tutto è cambiato. Noi andiamo via di nostro paese. Andiamo in Francia e poi qui e poi non so dove. Dove noi stare bene come in Africa prima. Mia mamma mi racconta sempre una storia sulla guerra. Una donna ha un bambino. Quando va lavorare in campo lascia il bambino all’ombra. Bambino comincia a piangere così viene una aquila e carezza bambino con ali e bambino smette di piangere. Sua mamma ha paura che aquila fa male e non carezza, si avvicina, ma aquila va via. Il giorno dopo succede lo stesso. La sera dice tutto a suo marito, ma lui non crede vero. Il giorno dopo succede stessa cosa così donna va a chiamare marito, “Vieni c’è aquila adesso vedrai.”. L’uomo prende arco e frecce e corre verso dove è bambino. Vede bambino piangere e aquila venire e calmare bambino, suo figlio. L’uomo crede anche lui che aquila fa male a bambino. Prende due frecce e tira, ma aquila si sposta e lui uccide figlio con due frecce. Mia mamma dice che da allora uomini si uccidono e prima c’era pace. L’uomini si scontrano per pregiudizio, perché non sanno il vero, io credo. La aquila era buona, ma uomo voleva ucciderla lo stesso.” ... “Finito?” Il ragazzo negro annuì. “Bene Tamba, a parte un po’ di errori grammaticali, hai centrato abbastanza l’obiettivo. Bene. Ragazzi, quello che ha scritto Tamba, vi dovrebbe servire molto per comprendere i problemi di chi come lui, ha vissuto la guerra e la povertà ed è fuggito dal proprio paese in cerca di una vita migliore. E adesso si trova in un paese nuovo e deve integrarsi. Tu sei musulmano Tamba?” Il ragazzo negro stava nuovamente scarabocchiando il suo astuccio. Si ridestò. “...Sì.”

La professoressa additò il crocifisso. “Comunque sia, cristiani o musulmani, nelle mie ore di lezione lo toglieremo. Nell’istruzione, nella scuola, si fonda uno stato. È dalla scuola che si formano gli uomini che formeranno lo stato in un futuro prossimo e se lo stato si fonda sulla laicità, allo stesso tempo lo dovrebbe essere la scuola. Ricordate ragazzi, la scuola non è solamente un luogo dove acquisire nozioni, dove acculturarvi in modo ivo, ma la scuola riporta il pensiero dell’uomo nel corso della storia, che è la cosa principale. Il pensiero vi deve incuriosire, indurre a sua volta a nuove riflessioni, a rimettere e rimettervi in discussione alla ricerca di una nuova chiave di lettura, per quanto ci è possibile. Non perdete mai la curiosità per le cose, ragazzi. Nutritevi di interessi. Continuate a farlo.” In quel momento la camla dell’intervallo trillò. L’ora era volata. Gli alunni si alzarono tutti in piedi e sbatacchiando banchi e sedie ed infine la porta, in un boato selvaggio e scomposto, raggiunsero chi il cortile, chi la paninara al secondo piano. La prof infilò i suoi libri, Il Corriere della Sera e l’astuccio nella borsa, guardò affettuosamente gli ultimi tre ragazzi rimasti in aula e dopo aver salutato, lasciò anch’essa la classe. Luca Gava e la Sfiga scartarono le loro merende, piegati come vecchi ingobbiti, sulle loro cartelle. Ci mangiavano dentro. Matteo era seduto al suo posto e stava mangiando un panino. Improvvisamente, il ragazzo negro ritornò in classe, gli si avvicinò e senza preavviso gli disse, “Viene.” In quel momento Matteo s’accorse che il ragazzo negro gli stringeva il polso. Lo guardò bene in faccia, un istante. Aveva il naso camuso, la fronte alta, i capelli corti, le labbra piene. Lo sguardo non era quello solito, inflessibile e duro, gli parve invece spaurito ed infantile, visto così da vicino. Matteo pensò che non voleva andare fuori. Poi, il ragazzo negro gli diede uno strattone e lo costrinse a seguirlo, tenendolo per il polso. Non premeva troppo con le dita e Matteo ebbe una strana sensazione, paura, e al tempo stesso calore, come se fosse stato un suo protetto. Avevano un segreto comune ormai, quello che era successo nello spogliatoio. Percorsero il corridoio, salirono le scale e finirono nei gabinetti. C’erano un paio di ragazzi di quinta e quarta che cazzeggiavano e fumavano, e

uno che impiastricciava i muri con un pennarello nero. Era entrata anche una matricola. Dopo essersi chiusa in bagno e pisciato, s’era defilata rasente al muro. Uno dei ragazzi più grandi chiamò il ragazzo negro in parte. Matteo si accorse che si erano scambiati qualcosa e che il ragazzo negro si era infilato in tasca dei soldi. Ma nessuno gli dette fastidio. Poi il ragazzo negro ritornò da Matteo. “Non ho detto a nessuno dei soldi rubati. Nello spogliatoio.” gli disse subito Matteo “Non sono ladro, mi servivano solo... Tu fuma?” Il ragazzo negro gli tese una sigaretta che Matteo non riconobbe in nessun tipo di sigaretta normale. Era arrotolata manualmente e neanche tanto bene. “Dai fuma!” insistette. Era serio. Matteo la prese e tirò. “Ma come fuma?!” Quando mollò il bocchino prese a tossire e a maledire e a raschiarsi la gola. Il ragazzo negro scoppiò a ridere e si riprese lo spinello. Tirava, rideva e a volte tossiva anche lui per prenderlo in giro. Ora i suoi occhi brillavano come due stelle nere. Fu strano, ma a Matteo sembrò di sentirsi felice e se non lo ammise a se stesso era perché tutto gli sembrava così strano e forse, di quella felicità, aveva un po’ paura. Per la prima volta in vita sua aveva un amico. Pensò ai dieci euro che il ragazzo negro aveva rubato nello spogliatoio. Era il loro segreto. “Ti chiami Tamba, vero?” “Sì.” “E cosa vuol dire Tamba?”

“Tamba vuole dire così.” Il ragazzo negro mostrò le mani raccolte, come i poveri che chiedono la carità. “Come quando cade pioggia. Prendere pioggia e acqua. Così. Tamba.” “...” “Tu chiami Matteo, vero?” “Sì.” “Cosa significa?” “Non so. Non significa niente credo.” Tamba lo guardò e rise. 6. “Tamba!” ... “Tamba, tirati su che devi andare a scuola. Cerca di muoverti, la colazione è già pronta.” Il ragazzino era sveglio. Aprì gli occhi. La stanza era ancora buia. Sentì dei etti corti e frettolosi, poi la porta della camera aprirsi, poi i etti vicini al letto. Richiuse immediatamente gli occhi. La luce del sole, accompagnata dal rumore delle serrande che si alzavano, invase la sua camera da letto, che divenne di un rosso fuoco. “Forza che la colazione si fredda.” Il ragazzino aprì un occhio, poi un altro, si levò di dosso le lenzuola e si mise seduto sul letto. Con le mani si stropicciò le palpebre. Era ancora stanco. Dalla finestra vedeva i grattacieli della sua città scintillare al sole. Ce n’erano alcuni in costruzione, che giorno dopo giorno si alzavano verso le nuvole. Palazzi, alberghi di lusso. La città migliorerà, diceva suo papà.

C’era rumore di automobili sotto casa sua. Gli venne subito a mente che doveva ricordarsi i soldi. Si alzò dal letto e scese di sotto. La tavola era apparecchiata per la colazione. “Ti ho comprato quei cereali che ti piacciono tanto. Fa veloce sennò arrivi a scuola in ritardo anche stamattina.” Sua madre diceva che l’istruzione era indispensabile nella vita. Era in bagno. Stava finendo di truccarsi. La borsetta la lasciava sul tavolo come ogni mattina. Tamba aspettò il momento giusto, ci infilò una mano dentro, prese il portafogli, lo aprì, estrasse una banconota e se la infilò in tasca. Poi rimise il portafogli nella borsetta. L’occhio gli cadde sulla prima pagina del giornale, piegato, vicino alla borsetta. Come si può propagandare questi enormi palazzi considerandoli come il nostro balzo nella modernità, pensare ad uno sviluppo economico, quando viviamo in un paese dove le malattie uccidono come le mosche, l’educazione pubblica è inesistente, la criminalità dilaga e la corruzione impera? Mio padre non è un corrotto, pensò il ragazzino. “Oddio a forza di parlarti sono in ritardo anch’io. Dov’è la borsetta? Tamba dov'è? Ah eccola!” Sua madre afferrò la borsetta. Poi, si fermò a guardare suo figlio. Era una donna giovane e desiderabile. Indossava un tailleur blu, comperato in uno stock di roba occidentale in centro. Tamba s’infilò una mano in tasca e strinse la banconota. “I pantaloni te li ho appena stirati.” “Sì mamma.” “A pranzo ci sono hamburger, ok?” “Sì mamma.” “Stasera torna tuo padre.” “Sì.”

Suo padre faceva un lavoro importante e ogni tanto per conto dell’azienda andava distante a lavorare. Ultimamente, per via del lavoro è preoccupato, diceva sua madre. Ma quel fine settimana, Tamba lo avrebbe reso felice, dicendogli che finalmente aveva deciso di iscriversi nella squadra di calcio della città. La sala giochi stava da tutt’altra parte rispetto a casa sua. Tamba prese appena in tempo il pulmino della scuola. Il suo amico Paul era salito la fermata prima. I due amici si salutarono. Paul indossava la maglia originale del Milan di Weah. Tamba avrebbe voluto quella del più gran centrocampista d’Africa, quella della Nigeria di Okocha. “Quanti soldi hai preso?” gli chiese Paul “50.” “Anch’io.” Paul aveva la sua stessa età. Erano in classe insieme e le loro famiglie si conoscevano da sempre. La madre di Tamba andava a tagliarsi i capelli da quella di Paul. Il negozio della madre di Paul era il più prestigioso di tutta la città. Quando il pulmino si fermò vicino alla scuola, tutti i ragazzini scesero. Tamba e Paul deviarono per una strada laterale e salirono sul primo matatu. Le strade erano affollatissime. Tamba e Paul tenevano tutti e due le mani in tasca. Si fecero lasciare al primo ingorgo, appena ato il centro. Avevano deciso che era meglio camminare. La strada dopo il centro non era più d’asfalto, ma di terra battuta. Gli edifici ai lati erano degradati; vetrine rotte, distributori automatici della coca cola sboldati, insegne scolorite. I due ragazzini camminavano a testa bassa guardandosi l’un l’altro di sottecchi, quando s’accorgevano che qualche individuo li stava guardando, così aumentavano il o, finché non se ne distanziavano del tutto. Ad un tratto ci furono degli spari a raffica, fracasso e polvere rossa che intorpidiva l’aria, e un fiume di gente che correva, riparandosi la testa come poteva, tirandosi dietro il figlio o la moglie, come asini imbizzarriti. Tamba e

Paul corsero pure loro, spinti dalla gente. Tamba vide due miliziani andare controcorrente, aprendosi a forza un varco tra la folla, spingendo la gente fino a farla cadere per terra. Uno dei due sparò un colpo in aria. La gente si spostò lasciando loro piede libero. Senza accorgersene, Tamba venne travolto e si ritrovò per terra. Guardò indietro e vide un altro miliziano, quello che lo aveva spinto, voltarsi verso di lui ed imprecare. Il suo viso era giovane, bislungo, con le orecchie a sventola. Un mendicante senza gambe si era riversato con la carrozzina sulla strada, a pochi i da lui, e si lamentava come un cane azzoppato. Tre ragazzi di corsa, raccolsero i soldi che dal piattino dell’elemosina erano sparsi per terra e se li misero in tasca. Uno di loro per are calpestò il vecchio mendicante, guardò Tamba e sorrise. Altra gente poi, correndo calpestò il vecchio infermo, che da terra non si mosse più TAMBA! Paul lo afferrò sottobraccio, aiutandolo ad alzarsi. Tamba rinvenne. “SEI SCEMO?” gli urlò dietro, finché correvano “VUOI MORIRE?!” Poi la fiumana si placò e ripresero tutti a camminare normalmente. “I soldi ce li hai ancora?” disse Paul Tamba trasalì. Infilò le mani in tasca di soprassalto. Ce li aveva ancora. Alla fine Tamba e Paul arrivarono nel luogo stabilito per l’incontro. Entrarono, guardandosi bene intorno. La sala giochi sarà stata grande come un ripostiglio. Il banco era tutto unto. Dietro c’erano uno scaffale con delle bottiglie di alcolici e vicino un frigo, (la cosa più nuova che c’era lì), con la coca cola e la birra. Il proprietario era un bianco, emaciato, con la barba riccia e rossastra, il naso adunco e lo sguardo stralunato. “Una coca cola. Con due cubetti di ghiaccio.” “Un’altra coca cola uguale.” L’uomo allungò loro le due coche. JOHN!, lo aveva chiamato una voce femminile da dietro una porta-tenda, fatta di pietruzze scintillanti.

“Un attimo!” Poi, l’uomo scomparve dietro la porta- tenda. Tamba e Paul si guardarono intimoriti. Dovevano aspettare per forza in quel posto?! BUONDI’. Una voce alle loro spalle aveva rotto quel silenzio inquietante. Si voltarono. Un ragazzo con un giubbetto in pelle, nero, tutto rattoppato e sdrucito, seguito dai suoi due scagnozzi con le magliette logore e le ciabatte, si avvicinò a Paul e a Tamba e li agguantò per le spalle. “Buondì cacasotto, avete portato i soldi.” I due ragazzi annuirono con la testa. “Anche noi!” il ragazzo mostrò il palmo della mano, con un paio di monete “mi spiace, ma quel vecchiaccio in sedia a rotelle non aveva altro.” Sogghignò. Si chiamava Doe. Era più grande di loro. Nessuno sapeva dove abitasse, lui abitava dappertutto. Non aveva mamma, ne papà, ne fratelli. Aveva un capo che gli aveva regalato una mitraglietta e gli aveva insegnato ad usarla. Doe in cambio, gli dava l’80% di quello che guadagnava, rubando o facendo l’elemosina, e ubbidiva ai suoi ordini. Il capo gli diceva che quei soldi servivano per comprare altre mitragliette da regalare ad altri ragazzini come lui. “JOHN!!!” urlò Doe. “Che vuoi?” rispose l’uomo da dietro la porta- tenda. “Mi prendo un paio di gettoni.” “Sono al solito posto. E lascia giù i soldi!” “See.” ...

“Forza.” disse Doe, rivolgendosi a Tamba e Paul “fatemi vedere.” Paul si sbottonò i pantaloni. OOH! CHE SCHIFO! “Bleah!” esclamò Doe Il ragazzino ravanò dentro le mutande. “Ma non potevi metterli da qualche altra parte quei soldi.” Paul gli allungò la banconota. “Adesso sanno l’odore del tuo pisello.” Tamba non ci poteva credere. Avevano perso tutto. E adesso? “Ok cacasotto, quando volete la rivincita fatemi sapere.” sghignazzò Doe. 7. Tu sei venuto fino a qui con la barca?... Come fanno vedere in televisione No. Io venuto con aereo. A Parigi. Come mai a Parigi? Ho zii lì È bella Parigi? Mmmh E perché sei venuto qua? Per lavoro di mia mamma Io vorrei andare a Parigi. Ma ci vuole un sacco di soldi. Vorrei andare anche in Africa

... È bella l’Africa? Sì. Molto bella. Lì, la vita è bella. Ma ci tornerai nel tuo paese? Non so. Non hai voglia di rivedere il tuo paese?! Sì. Se io andassi via da qui mi mancherebbe un po’. Ma vorrei anche vedere tanti posti. A me manca mio paese. Qui non c’è niente di quello che c’è là. Io non sta bene qua. Posso venire anch’io quando vai nel tuo paese? Va bene, così io mostra mio paese. Mi mostri un leone? Hai mai visto un leone? Sì. Una volta. Ma leoni sta in campagna E un elefante? Si, elefante. Anche serpenti? Nooo serpenti. Io ho paura. ... Ma tu andavi a scuola nel tuo paese? Sì Abitavi in un villaggio?

No, io abitare in grande città. Grande, molto più grande di questa. Io non conoscevo tutta mia città. Tanto grande. Mia mamma venire di villaggio. Mio nonno era guerriero. Un guerriero?! Ma è ancora vivo tuo nonno? No. Villaggio viene distrutto da guerra. ... Io ho foto di mio nonno quando andare a trovare. Io fare danza nel suo villaggio. Con maschere di bue e leopardo. Mio fratello diventare uomo. Lui ha tagliato collo di bue e ato il suo corpo con sangue di bue. Poi per tradizione lui marchiato sul braccio con simbolo di forza Bleah! Che schifo! Eh eh, schifo Eh eh 8. La giornata autogestita era organizzata da quelli di quinta e molte altre scuole del Centro Studi vi aderivano, così veniva fuori che si mescolavano tutti gli studenti di tutte le scuole del Centro Studi. In palestra un gruppetto di punkettoni parlava della politica di Bush e di quello che stava succedendo in Iraq e in Afganistan, a quelli che stavano seduti davanti a loro. Uno degli oratori, in particolare, aveva la barba lunga e la kefiah che gli fasciava il collo, simpatizzava per i talebani sebbene fossero dei terroristi. Al muro era appesa la bandiera arcobaleno della PACE. Davanti alla porta d’ingresso c’era una ragazza che distribuiva volantini con scritto, la PACE si fa con la PACE non con la guerra. Quelli che stavano in palestra erano tutti comunisti. Avevano letto Marx, sapevano tutto del ‘68 e avevano le magliette di Che Guevara. Il padre di Matteo diceva che i comunisti non sarebbero mai arrivati a niente. Matteo pensava che i comunisti e i fascisti esistevano solo nei libri di storia e che era stupido continuare a chiamarsi così. In cortile si giocava a calcio e a pallavolo e appena mettevi fuori il naso c’era

qualcuno, munito di carta e penna, che cercava di inserirti nella lista dei partecipanti al gioco comune. Alcune aule, poi, erano state utilizzate come spazi ricreativi, altre invece erano occupate dai cazzeggiatori, che dentro ci fumavano gli spinelli. Queste aule si riconoscevano perché avevano sempre la porta chiusa. Matteo e Tamba si stavano annoiando a morte. “Andiamo in classe dai!” disse ad un certo punto Tamba Fecero le scale ed arrivarono al corridoio che portava alla loro aula. C’era un gran casino. Melissa e le loro compagne di classe stavano civettando con un gruppetto di ragazzi. Tamba ava velocemente tra i ragazzi che affollavano il corridoio, facendosi strada con i gomiti, e aveva leggermente distanziato Matteo. EHI FROCETTO. Matteo si fermò d’istinto a quel richiamo. “Ehi frocetto!” Si girò appena e, come uno spettro davanti a lui, trovò la Pantegana, più scarno di come lo ricordava e con i capelli platinati. Indossava una maglia con scritto COCAINA. Le avevano tutti in quel periodo. Di fianco ci stava un altro, che Matteo non conosceva per niente. Questo era grosso, aveva un aria da tonto ed era brutto forte. “Ehi frocetto, cosa ci fai qui?” Poi rivolgendosi al suo amico “Tu non lo conosci il frocetto, vero? Adesso che lo sai, quando ti pieghi guardati alle spalle, che questo t’incula subito.” Quello grosso e brutto forte, rise come fosse stata la battuta più esilarante del mondo. Tamba improvvisamente ricomparve al fianco di Matteo. Si guardò intorno spazientito. Non aveva capito niente della situazione. Io vado in classe, disse a Matteo “Hai visto?! Il frocetto ha trovato un suo amichetto .” disse la Pantegana a voce alta “Gli piace il cazzone lungo.”

Il grosso e brutto forte rise ancora. Anche Melissa e le altre ragazze risero, coprendosi con la mano o voltandosi dall’altra parte Tamba guardò dritto in faccia la Pantegana. “Cosa tu hai detto?” ringhiò Matteo voleva prenderlo per un braccio e dirgli di lasciar perdere e andiamo via, ma rimase immobile. “Che cazzo vuoi?” disse la Pantegana “Vuto ciaparle negro?!” gli fece eco quello grosso e brutto forte. Matteo stava esplodendo di rabbia e gli avrebbe tirato un pugno in faccia alla Pantegana da tramortirlo, vedergli uscire il sangue dappertutto e le ossa spezzate, ma al tempo stesso sperò che se ne andassero via. Dietro della Pantegana e dell’altro, Melissa e le ragazze che stavano assistendo alla scena, si scambiarono qualche sguardo. Tamba aveva il volto serissimo. Si voltò e si diresse verso la classe. Matteo lo seguì, mentre la Pantegana stava facendo ancora battute e Melissa e le altre ridevano e commentavano. COME SI CHIAMA IL NEGRO? TAMBA. TAMPAX?! EHI TAMPAX. TAMPAX VIENI QUA. TAMPAX ! Matteo li odiò, li odiò tantissimo, ma al tempo stesso gli ritornò la paura. Sapeva che quel momento sarebbe stato soltanto l’inizio di qualcosa e che quella storia non sarebbe finita lì. “Sono tuoi amici?” gli disse Tamba, quando furono in classe “No.” ... “Tu sei frocio?” “No... Io odio i froci.” “Allora perché dice che tu sei frocio?”

“Boh!” “Loro sono stupidi. Loro ha mamma e papà che da sempre soldi. Loro non capire niente.” “Io li odio.” “Lui quando è con gruppo è forte, ma da solo no. Io vede lui ha paura.” “Dobbiamo incontrarlo da solo, io e te, vedrai!” “Io volevo dare un pugno lui, ma c’era troppa persone.” ... “È brutto, ha quella faccia come topo. Ha i baffi.” “Sono peli matti, non baffi.” “Peli matti?!” “Peli matti.” “Ah peli matti, ah ah!” 9. “Papà, lasciami provare!” “Prima me.” “Sono io il più grande. Tocca a me per primo.” “Uno alla volta. Comincia tu Fode.” Fode diede una spinta a suo fratello minore senza che suo padre lo vedesse. Impugnò la mazza da golf. La fece oscillare un paio di volte, tenendo gli occhi fissi sulla pallina. Le gambe e le braccia sembravano elastici pronti a scattare. Diede un’occhiata fugace all’orizzonte verde davanti a lui, dove doveva stare la bandierina che segnalava la buca.

D’improvviso sferrò il colpo. La pallina sfuggì allo sguardo dei presenti. Era andata lontanissima. “Bel colpo, Fode!” L’uomo bianco, amico di loro padre, diede un paio di pacche leggere sulle spalle del ragazzo. Sudava sotto le maniche della camicia e l’odore si mescolava con il profumo che aveva addosso e l’odore del tabacco. Stava fumando una sigaretta e teneva il pacchetto nel taschino della camicia. Fode si stava vantando e gli occhi gli brillavano di fierezza. “Posso diventare un vero giocatore, dici?” “Hai buone capacità ragazzo. E poi non devi chiedere a nessuno se puoi farlo, se una cosa ti piace, prenditela.” disse l’uomo bianco. “Stando a quello che dici, mio figlio dovrebbe diventare il nuovo Tiger Wood.” “Beh, non so se diventerà il nuovo Tiger Wood, però quando comincerà ad allenarsi in America, avrà l’occasione di dimostrare il suo talento. Non avevi intenzione di farlo studiare in America?” “IN AMERICA PAPÀ?!” esclamò Fode “Sì volevo farvi frequentare il college là, a te e a tuo fratello.” “Potrò giocare a golf sui campi americani!” “Non c’è solo il golf.” disse l’uomo bianco “sei agile. Ti vedrei forte anche nel baseball.” Fode era euforico e menava per aria la mazza come se avesse vinto la coppa del mondo. “E tu Tamba, non sei contento?” Suo padre lo guardò con espressione sorniona. Poi gli fece l’occhiolino. “Mandiamo solo tuo fratello che sembra morir dalla voglia di lasciarci. Tu rimarrai qua con tuo padre, vero?”

L’uomo bianco e Fode erano saltati sulla golf-mobile. “Noi andiamo. O salite, o perdete il treno.” fece l’uomo bianco ridendo “Io e Tamba vi raggiungiamo a piedi.” Suo padre l’aveva preso sottobraccio e, finché la golf-mobile procedeva lentamente sul manto verde e perfetto del campo, si incamminarono insieme a piedi. L’uomo si chiedeva come mai Tamba fosse un ragazzino così moscio, mentre suo fratello Fode era così energico e grintoso. Fode primeggiava nello studio e nello sport, mentre Tamba nello studio portava a casa la sufficienza appena e a calcio ci giocava sì, ma non aveva voluto iscriversi nella squadra della città e partecipare ad un campionato vero. “Vediamo chi arriva ultimo.” fece suo padre ad un tratto, quando erano quasi arrivati dove stavano Fode e l’uomo bianco. Tamba partì in vantaggio, ma suo padre presto lo sorò. Quando vide suo padre troppo avanti per lui, rallentò e smise di correre, arrivando dove erano suo padre, suo fratello Fode e l’uomo bianco, camminando. La strada di ritorno dal campo di golf ava sopra la periferia della città. Baracche di legno, con i tetti di lamiera arrugginita, si stendevano a perdita d’occhio fino a toccare il sole che dietro s’appiattiva al tramonto. La periferia pareva un inferno e bruciava, oltre sfocava la campagna, arsa e deserta. Rosso, come un totem di terracotta, si ergeva sopra la corazza rutilante delle baracche, un traliccio della corrente. Uno, più in là, si distingueva appena, come una macchia scura nella luce folgorante del sole. La periferia formicolava di gente, il mercato stava chiudendo. Tamba pensava che suo padre preferiva il fratello, che non c’era spazio per lui in quella famiglia, che era un debole. Neanche al calcio sapeva giocare come Fode. In verità, lui era più abile con il pallone, ma suo fratello ci metteva l’anima e questo faceva la differenza. Tamba avrebbe voluto diventare un grande calciatore e un giorno giocare in nazionale; essere qualcuno di quelli che ce l’ha fatta. Il ragazzo era appoggiato con la testa al finestrino per metà aperto. L’aria gli entrava negli occhi. Come poteva essere un amico di suo padre quel bianco americano, poi?! Gli stava sulle balle, con quel suo sorriso magnifico che

poteva andare bene per uno spot pubblicitario di dentifricio. Tira su il finestrino, gli aveva detto suo padre, ma il ragazzo non lo fece per ripicca. Oltre la periferia la campagna si baciava con il cielo che stava imbrunendo. Sul filo dell’orizzonte si stagliavano leggeri come fantasmi alcuni alberi. Tamba abbassò lo sguardo sulle prime baracche. Ad un tratto, da lì, una falange di ragazzini si staccò come uno sciame di mosche imbizzarrite e corse verso la strada. I ragazzini erano uniti, compatti e pian piano salivano il pendio, descrivendo un’ampia curva. Tamba distinse dal finestrino dell’auto le loro magliette logore, i calzoncini della nazionale di calcio; alcuni erano a torso nudo e mostravano i loro muscoli acerbi; alcuni scalzi, altri con le ciabatte mezze sfasciate. Quelli che stavano davanti cominciarono a lanciare sassi in direzione delle automobili. Urlavano inferociti e Tamba vide che stavano venendo verso di loro. Un sasso colpì l’auto. Sentì suo padre dir qualcosa tra i denti e lo vide con le mani strette saldamente al volante, gli occhi severi e spaventati. Poi, Tamba distinse degli spari. Alcuni bambini che venivano dopo imbracciavano fucili. Vide un ragazzino che teneva sottobraccio una mitraglietta. Era a torso nudo, pelle ossa, il capo rasato. Si muoveva agilmente come una lucertola. Ci fu uno scossone all’auto e Tamba chiuse gli occhi. Gli riaprì. L’auto era ferma. Aveva il sedile di suo fratello davanti. Si muoveva. Suo padre gli urlava qualcosa. Anche Fode urlava. Sentì strillare dal finestrino e qualcosa di viscido che tentava di afferrargli il braccio. Era una mano. Sentì le unghie, una, due volte, graffiarlo. Tamba mollò un urlo di terrore e si allontanò di scatto dal finestrino. Un ragazzino di quelli stava cercando di entrare dal finestrino mezzo aperto. Si dimenava come una scimmia impazzita. Aveva gli occhi tristi e schiumava dalla bocca. Strillava, continuava a strillare, strillava più forte e forte. Tamba gridò, forte anche lui, e con la mano gli spinse la faccia, poi la tirò via per paura che il ragazzino gli mordesse le dita. Il ragazzino gridava ancora. Si dimenava, cercando di aggrapparsi ovunque. Il sedile di suo fratello si muoveva bruscamente avanti indietro, lo soffocava, suo padre aveva mollato il volante e urlava TAMBA! IL FINESTRINO! TIRALO SU!. Tamba non capiva. Chiuse quasi gli occhi, perché non vide più niente e senza rendersene conto colpì il ragazzino in faccia, più volte, a raffica, finché non s’accorse che il ragazzino non era più aggrappato al finestrino, che non c’era più.

Suo padre aveva accelerato di colpo e si era buttato sulla sinistra, infilandosi tra due automobili. Ci fu rumore di clacson e qualcosa simile ad un schianto, poi ancora degli spari. Si voltò per guardare dal finestrino dietro. La maggior parte dei ragazzini si era distesa per terra. Uno di loro, in piedi, continuava a sparare come un folle. Era quello che somigliava ad una lucertola. Sparava verso un’automobile, nera, di lusso, messa di traverso. L’uomo alla guida dell’automobile era riverso in avanti con la testa sul volante. Il vetro davanti dell’auto era in frantumi. Pezzi di vetro erano sparsi per la strada. Dietro c’era un’auto della milizia. Tamba vide un paio di miliziani nascosti dietro la loro macchina. Girò la testa, per vedere il ragazzino che sparava, e non lo vide più. Non vide nemmeno quello che lo aveva aggredito attraverso il finestrino. Vide solamente altre automobili dietro di lui. Suonarono ancora i clacson, ancora qualche sparo e alla fine le automobili ritornarono a correre, sulla grande tangenziale.

10. Il crocifisso era di nuovo sopra la porta della classe. Il prof di religione aveva detto che avrebbe parlato lui con quella d’italiano, che la religione fa parte della nostra cultura e che lo Stato che tutela i cittadini di un paese deve tutelare anche la loro cultura e la loro identità, che non c’è stato senza identità. Il prof di religione era un uomo sulla trentina. Era un mezzo prete. Matteo non riusciva più a guardarli con gli stessi occhi, ne i preti, ne le suore, dopo che aveva saputo che le suore si infilano le zucchine e le carote nella loro cosa e che alcuni preti avevano fatto cose indecenti con ragazzi come lui o addirittura più giovani. Il prete, ormai, gli sapeva da sporcaccione, infido e viscido. Ma per il prof di religione era tutta un’altra cosa. Lui era un mezzo prete, un indottrinato, ma non un prete prete. Era normale insomma, gli piacevano le femmine e della sua età. Stava ando in mezzo ai banchi, con il solito o cadenzato, e con voce rassicurante e soave stava parlando ai suoi alunni. Mancavano dieci minuti al termine della lezione. Di solito, in quegli ultimi dieci minuti prediligeva, piuttosto che assegnare i compiti o altro, parlare di valori comuni.

“Ragazzi, vorrei che mi diceste cos’è il perdono? Cosa significa per voi?” “Quello che ha fatto Gesù quando venne crocifisso per gli uomini. Li ha perdonati e salvati. Perdonare significa amare davvero.” rispose immediatamente Luca Gava. Luca Gava era il lecchino del mezzo prete e anche un chierichetto. Matteo provò raccapriccio all’idea che Luca Gava fe cose sporche con il parroco del paese. Inoltre pensò che erano risposte banali, che non stava lì la verità. A Matteo gli sarebbe piaciuto essere stato come Gesù, ma non in croce, piuttosto furioso al tempio. “Amare e perdonare sono la stessa cosa dunque.” rincalzò il mezzo prete “Siete d’accordo ragazzi? Tamba, cosa pensi? Tu che sei anche di un’altra religione. Come vede il perdono la tua cultura?” Tamba rimaneva nelle lezioni di religione, perché in fin dei conti non era tanto musulmano. Inoltre quando avrebbero fatto l’Islam, la sua esperienza sarebbe stata utile a tutta la classe, aveva detto il prof. Per non parlare della tragedia dei bambini soldato. Tamba ne aveva visti parecchi. Il prof di religione si commuoveva al solo sentirli nominare, mentre Matteo e quasi tutti i ragazzi della classe ne ignoravano l’esistenza. “Il perdono è bugia.” rispose Tamba “La tua religione sostiene questo Tamba?” “No, penso io. Il perdono è di deboli, di chi non sa fare valere.” “Io penso che perdonare sia da persone forti e coraggiose.” intervenne Luca Gava “Dici così, perché sei debole. Tu non sai di reagire a chi ti fa male. Lasci che il male ti viene dentro, ti brucia e tu stai zito, hai paura. Così è il perdono. Solo perché tu paura di fare male.” “Anch’io penso che nel perdono si dimostri una maggiore consapevolezza e comprensione.” sottolineò severamente il mezzo prete “questo dovrebbero fare tra di loro i popoli e le religioni. Non credi Tamba?” Matteo pensò che Gesù con il suo perdono aveva castigato l’uomo della vergogna del delitto; non se n’era vendicato apertamente, ma l’aveva umiliato il

che era peggio, e questo rendeva così grande Gesù. “Con la vendetta, cosa credete di risolvere Tamba? Occhio per occhio, dente per dente, credi sia tanto giusto. Cosa credi possa risolvere?! Il perdono è un atteggiamento che si eleva dai bassi istinti umani, che ci permette di non essere contagiati dalla furia e dalla violenza, perché dalla violenza viene solamente violenza.” Il ragazzo negro rimase un secondo ammutolito. Alla fine i preti ti vogliono portare dalla loro parte. Ne aveva visto qualcuno nel suo paese, di prete missionario. Sono gentili, generosi, ma alla fine ti vogliono convertire al cristianesimo. Almeno il male non mente. Gli occhi gli divennero duri ed inflessibili. Abbaiò forte. “Lei parla così perché è prete.” “Io non sono un prete, Tamba.” “Chi sbaglia deve pagare.” “Chi sbaglia paga comunque. Non occorre per forza una punizione esemplare. Ad ogni nostra azione avremo comunque un tornaconto. Non credere che l’umiliazione, il disonore, la solitudine, siano migliori della morte o delle punizioni carnali.” “Se uno uccidere suo padre, come dovrebbe pagare il assassino?” “La giustizia ha molti modi di rivelarsi, non è la nostra mano che la rende.” “Se uccidere suo padre o suo fratello come pensare di risolvere quella ingiustizia, allora?” “Possiamo affidarci solo a noi stessi, alla comprensione, al perdono, alla preghiera, alla fede, a Dio. Cosa pensi di risolvere se uccidi un assassino? Credimi, non t’interesserebbe. La tua rabbia non è per l’assassino, ma perché tuo padre non c’è più.”

“Non dire così se le avesse ucciso suo padre.” “Il perdono....” “Il perdono è bugia.” disse Tamba “non è natura di uomo.” “Non è un atteggiamento attivo, è ivo.” intervenne improvvisamente Matteo. Il prof di religione guardò tutti i ragazzi della classe in modo serio. “Pensate di poter mettere a tacere la vostra rabbia con la vendetta? Pensate di riuscire a colmare il vuoto di un torto subito punendo la persona che ve l’ha fatto? Pensate di rendere giustizia di una perdita con un’altra perdita? Riempire un vuoto con il vuoto?” Il prof di religione aveva parlato dolcemente eppure con tono greve. Matteo pensò che forse aveva ragione, ma che il discorso rimaneva comunque vago. Il ragazzo negro irrigidì la faccia in una smorfia di scherno e si mise a scribacchiare sul suo astuccio. Matteo guardò l’amico con un mezzo sorriso, scrollando le spalle. “Va bene, ma allora non è giusto niente.” sbottò Tamba. Non aveva ragione. Parlava così solamente perché era prete.

11. A Paul erano rimasti in tasca alcuni spiccioli. L’aveva fregato Doe, con la storia che i soldi li aveva messi solo dentro le mutande, almeno con i rimanenti si sarebbe potuto prendere un sandwich per lui e uno per Tamba. Mangiarono il sandwich e poi salirono tutti e due sul pulmino della scuola che ritornava a casa. I due ragazzini si salutarono alla fermata di Tamba, dandosi appuntamento per il giorno seguente. Poi, Tamba proseguì a piedi, pensando che quel giorno avevano perso tanti soldi e a quando sua madre avrebbe scoperto che i soldi erano spariti dal portafogli avrebbe sospettato di lui, così doveva trovare una scusa decente.

Era ormai arrivato a casa, quando vide un gruppo di persone fuori dalla sua abitazione. Era insolito. C’era anche la sua vicina. Parlavano forte e la sua vicina singhiozzava, coprendosi il volto con le mani. Gli corse incontro. Lei lo vide e lo avvicinò, cercando di abbracciarlo. Tamba si divincolò dal suo abbraccio e guardò per terra. Un’ondata di rabbia e odio lo assalì, un’ondata che sapeva il gusto del sangue e delle budella, prima di lasciar posto alla disperazione e al pianto. Odio, odio puro. Riverso a pancia in giù, in una pozza di sangue, suo padre lo fissava con occhi vitrei.

12. Matteo e Tamba un sabato sera avevano deciso di uscire assieme. Matteo aveva convinto sua madre a poter uscire. Anche grazie all’aiuto di Alice. Non ava più tanto tempo con lei, nonostante questo gli dispie. Era maturato, e poi, si era accorto di non aver smarrito del tutto con la sorella, quell’innata complicità che caratterizzava il loro rapporto. L’orario di rientro previsto era per mezzanotte. Come Cenerentola, pensò. Già parecchi dei suoi compagni di classe uscivano il sabato sera. Adesso anche lui era come loro. La serata era umida. Matteo doveva are a prendere Tamba a casa sua. Gli aveva spiegato più o meno la strada, lui conosceva la zona, non era distante. Pedalava leggero, curva dopo curva, rettilineo. I lampioni erano accesi. La luce formava dei cerchi sull’asfalto. Matteo ci ava sopra, furtivamente, come un’ombra. Le auto gli scorrevano di fianco, dopo avergli puntato i fari addosso, e lasciavano una scia di morbida luce diafana. Anche l’aria pareva diversa, più frizzante, elettrica. Con il buio il mondo si trasforma. Era come se di notte l’ordine fosse soppiantato; non esistevano le leggi del giorno, bensì leggi più istintive, di sopravvivenza. Da quella notte anche lui sarebbe stato un animale notturno e questo lo gasava terribilmente. Tamba abitava in un quartiere vicino alla campagna, in via Quadri. Da ciò che ne sapeva, via Quadri era considerato il Bronx. Una delle quattro palazzine popolari era la sua. Le palazzine erano scatoloni grigi. Davanti c’era un parchetto, con

una piattaforma di cemento. Quando Matteo ò di lì, s’accorse di due marocchini che stavano con un gruppetto di ragazzi fighetti, che avevano lasciato l’automobile sul ciglio della strada, vicino ad una panchina di cemento. Questi si voltarono mentre Matteo ò in bici. I loro volti erano coperti in parte dall’ombra. Matteo scorse appena i tratti duri della mascella e del naso dei due marocchini, l’espressione imprevedibile dei loro occhi. Il ragazzo arrivò fino al portone d’ingresso di una delle quattro palazzine. C’erano una dozzina camli e sulle etichette i nomi non sempre comparivano. Matteo suonò quello che Tamba gli aveva indicato. Vicino al portone, il cassone dell’immondizia era stracolmo e puzzava di marcio. Dei sacchi mezzi aperti erano addossati al muro o al cassone, della roba era fuoriuscita e stagnava per terra, accerchiata da un nugolo di moscerini e mosche grosse e pelose. Il portone si aprì di scatto, clang! Matteo lo spinse un po’, per entrare, e subito una rampa di scale saliva ai piani superiori. Era malandata, sciatta e squallida. Qua e là c’erano anche qualche scritte. Alcune lattine erano state lasciate sugli scalini. Improvvisamente, la voce dell’amico gli arrivò da sopra, rimbombante nel vuoto delle scale, e gli diceva di aspettare di sotto. In quella direzione Matteo sentiva anche il rumore di una televisione accesa. I muri maleodoravano; un odore tipo quello di cavolfiore lesso. Nel sottoscala c’era un mucchio di roba, sedie con le gambe piegate, rotte o arrugginite, eggini sfasciati, palloni da calcio bucati, aperti con il coltello, un lavandino rotto, calcinaccio e bottiglie di vetro e di plastica, alcune ancora piene. Il puzzo era fortissimo e gli stava venendo da vomitare, quando nel suo campo ottico ebbe la sensazione di un rapido guizzo, d’istinto, poi il guizzo divenne una chiazza nera che zigzagava tra le gambe delle vecchie sedie fino al eggino. Lo scarafaggio si mostrò nitidamente e arrivò ad una spanna dalla punta dei suoi piedi. Matteo inorridì, fece un salto indietro, poi lo pestò. CHI ZE? gracchiò una voce. Alzò gli occhi e affacciata dallo scorrimano del pianerottolo del primo piano una vecchia lo stava guardando. Pensò che quella vecchia poteva essere una strega, ma pensò anche che se avesse provato ad aggredirlo con un colpo secco l’avrebbe accoppata, tanto era scheletrica. CHI ZE? Ripeté. La sua voce catarrosa rimbombava all’interno dell’edificio come l’eco del diavolo. “...Sono un amico di Tamba.” La vecchia fece un o scendendo al secondo gradino. La penombra

deformava il suo volto arcigno, tratteggiando con forza le rughe che le increspavano la fronte, gli zigomi e le guance scarne. CHE LAVORO FAEO TO PAPA’? “...Lavora in fabbrica.” NO LAVORA MIA IN COMUNE? “...No.” CONOSITO MIA QUALCUN CHE LAVORA IN COMUNE? “N-no.” NON LI VIEN PIU’ A TORSE L’IMMONDISIA, CHEI MAIALI SCHIFOSI. GO CIAMÀ IN COMUNE L’ALTRO IERI, VIGNI A TORVE L’IMMONDISIA, MA CHEI MAIALI SCHIFOSI NO LI VIEN PI. LADRI, INFAMI. Improvvisamente, Tamba comparve dietro la vecchia. “Taci. Ssst.” le sibilò nelle orecchie, spaventandola. ECOLO QUA QUEO CHE SPORCA IN GIRO. LU E I SO AMICHETTI. A VIALTRI VE VA BEN COSI’, VERO? “Zitta.” STA SITO TI, MALEDUCATO CHE NO TE SI ALTRO “Zitta. Vai dentro.” la minacciò Tamba La vecchia adesso sembrava spaventata, perché la sua voce rauca e stridente era diventata lamentosa e grave. NON LÈ MIA TO AMICO, VERO? Tamba scese trotterellando le scale. “Vai dentro, ti ho detto!” “Andiamo.” disse poi, riferendosi a Matteo. Tamba certe volte gli faceva paura. arono per il retro della palazzina perché Tamba doveva prendersi la bicicletta. Un gruppo tra negri e marocchini, chi seduti su un muretto, chi in piedi, stavano bevendo e discutendo animatamente. Uno di loro si portò

l’accendino vicino al volto, per accendersi una sigaretta, e la fiamma gli illuminò il viso smunto e gli occhi gialli. Si voltarono tutti a guardare Matteo. Il ragazzo negro prese la sua bicicletta e se ne andarono in paese. Davanti alla gelateria li aspettava Vincenzo. La madre di Vincenzo aveva telefonato alla madre di Matteo, chiedendole se Matteo poteva diventare amico di suo figlio, visto che avevano fatto le medie assieme. Tutti e tre fecero un paio di vasche per la via centrale. Tamba si stava annoiando. Matteo era stufo di avere Vincenzo tra i piedi. “Andiamo in sala giochi.” propose Vincenzo ad un certo punto. “Io non ho voglia.” rispose Matteo voltandosi dalla parte opposta “Eddai!” “A me non va, andate voi.” “Io non vuole andare.” disse Tamba, dopo aver sputato per terra. Fecero ancora una vasca, poi entrarono in un bar. Era quasi vuoto e si presero da bere tre coche. “Io vado a casa.” disse Tamba di punto in bianco “Vado a casa anch’io.” disse Matteo “mia madre mi ha detto per le undici.” “Andate già a casa?!” fece sbalordito Vincenzo Pagarono e uscirono dal bar, dirigendosi alle biciclette. “Sabato prossimo, facciamo lo stesso?” fece Vincenzo “Vediamo.” “Però, dillo a tua mamma se puoi stare fuori come me. Fino alle undici e mezza.” “Va bene.”

“Ci vediamo Tamba.” salutò Vincenzo prima di andarsene. Matteo e Tamba fecero finta di andarsene pure loro. Tutto era filato liscio. “E adesso? Cosa facciamo con mia madre? Di sicuro Vincenzo dirà alla sua, che mia mamma non mi lascia star fuori fino a tardi.” disse Matteo “Dici a tua madre che Vincenzo è stupido.” “Lei mi dirà che Vincenzo è in cerca di compagnia e che con sua madre è amica.” ... “Dove andiamo? Guarda che devo tornare a casa per mezzanotte.” “Viene.” Erano le undici, buio pesto e stava calando un po’ di nebbia. Succedeva sempre, nelle stagioni fredde, dove abitavano. Non ava anima viva per le scorciatoie che conosceva Tamba. Stavano andando in bicicletta in piena campagna, di notte, con il freddo e la nebbia. Matteo si sentiva profondamente a disagio e non avrebbe voluto seguire più il ragazzo negro, ma non poteva dirglielo. “Dove andiamo?” Ci fu il prolungato abbaio di un cane. Poi un altro, più corto. ò un automobile, la luce dei fari li investì. Si stavano per cacciare nei guai. Tamba pedalava spedito, era difficile stargli dietro. arono un paio di casolari di campagna. Matteo pedalava in centro strada, lontano dal fosso. La nebbia si stava infittendo sempre di più, Matteo distingueva appena la sagoma dell’amico e il ronzio delle ruote della sua bicicletta. Con quella mountain bike non sarebbe andato da nessuna parte. “Aspetta.” sospirò. Tamba con qualche pedalata l’aveva lasciato indietro. Arrivarono alla tangenziale. Ne percorsero un pezzo ed era pericoloso con le macchine che li sfrecciavano di fianco. I lampioni illuminavano appena i due

ragazzi e alcune macchine ando suonavano il clacson o li illuminavano la schiena con gli abbaglianti. DOVE ANDIAMO, ripeteva continuamente Matteo e pensava che si sarebbe girato e sarebbe tornato a casa sua. ADESSO VEDE, gli rispondeva Tamba, adesso vede. Tamba ogni tanto rideva come se ci fosse stato qualcosa da ridere. Matteo da dietro pregava che le macchine non lo prendessero in pieno. Pensava che il ragazzo negro era un pazzo, poco di buono e sarebbe stato meglio non vederlo più. Arrivarono ad un distributore dell’Agip. Aveva già sentito parlare delle lucciole, ma non ne aveva mai vista una. Tamba si fermò. Trascinò la bici oltre il ciglio della strada, giù nel campo. Matteo fece lo stesso. Aveva le mani gelate. Se le infilò in tasca. Sperava di andare in fretta a casa. Ritornarono sul ciglio della strada e s’avvicinarono a piedi al distributore. Tre erano le lucciole. Indossavano tutte minigonne cortissime, calze autoreggenti e stivali neri. Una, negra, parlava animatamente con una di pelle bianca. Un’altra, con una parrucca rosa, stava piegata sul finestrino di una macchina. Era anche questa di colore. Matteo guardò dentro il finestrino dell’automobile. L’automobile ad un certo punto partì e la lasciò là impalata. Quando le tre lucciole rimasero sole, Tamba andò loro incontro. “Quanto mi fate per un pompino?” Le lucciole si guardarono e scoppiarono a ridere. “Troppo piccolo per noi tu.” fece la negra. Aveva due tette enormi, e la pancia afflosciata, che trasbordavano dal top bianco. “Che cazzo dici. Ho venti anni io.” Risero nuovamente. “Di dove sei?” fece Tamba alla negra “Nigeria.”

La ragazza di colore con la parrucca rosa era molto giovane. Avrà avuto su per giù la sua età, pensava sconvolto Matteo. Le sue labbra erano sensuali e gli occhi grandi, scuri, avevano un taglio orientale. Forse le ciglia, o le sopracciglia, le davano però un’aria triste e capricciosa. Era come se la sua bellezza, fosse una bellezza così dolorosa. Matteo la stava fissando e quando lei se ne accorse, se ne vergognò a morte. “Tu hai soldi?” fece la negra a Tamba Tamba cavò dalla tasca cinquanta euro e li sventolò. “Voglio lei.” disse indicando la ragazza bianca. Aveva capelli castani, lunghi, con la frangetta, portava un top maculato e una minigonna in jeans. Sembrava più grande, ma diceva di avere solo diciassette anni. “Viene.” disse la ragazza Tamba guardò Matteo ridendo. Gliela avrebbe fatta vedere lui. La ragazza lo portò dietro la casetta del benzinaio, tra i risolini delle sue colleghe. La negra e l’altra con i capelli rosa, iniziarono a parlare tra di loro. Matteo continuava a guardare di sottecchi la ragazza con la parrucca rosa. Ad un certo punto, lei prese dalla tasca del giubbino un pacchetto di sigarette. Diede una sigaretta alla collega e voltandosi notò la presenza di Matteo. Sorrise. “Tu non hai soldi?” “No.” rispose Matteo. “Tu non vuoi vedere.” disse la ragazza, che apri il giubbino e gli mostrò, sotto, una fascia nera che gli teneva su un bel seno. La ragazza con le mani se lo toccò, se lo tirò su e poi si scoprì una tetta. Era piena, come quella di una madre mentre allatta, e il capezzolo era scuro, grosso, lievemente inturgidito. “Tu non vuole scopare?” Il ragazzo abbassò lo sguardo. Non aveva mai visto un seno scoperto, tranne quello di sua madre e per televisione. Quando meno te lo aspetti. Pensando a sua mamma si ricordò di guardare l’orologio. Meno cinque a

mezzanotte. Era tardi, doveva tornare a casa assolutamente. Quanto ci metteva Tamba?! Quello che era accaduto lo aveva completamente scombussolato. Alla fine il ragazzo negro comparve da dietro la casetta. Veniva avanti fiero. “Viene ancora.” disse la lucciola bianca a Tamba “Puttana.” borbottò lui “Ma dove li prendi quei soldi?” gli domandò Matteo, mentre si allontanavano dal distributore “Sono uomo di affari io.” ... “Tu non hai mai scopato?” “...N-no.” rispose Matteo, vergognandosi del fatto che non era mai successo, come se l’avesse saputo solo allora. “Come mai?” “Non ho mai... trovato la ragazza giusta. Voglio farlo per amore, la prima volta.” “Aah! Ah ah, amore!” Arrivarono dove avevano lasciato le biciclette. Era mezzanotte ata e ognuno prese la strada più corta per tornare a casa. Matteo sapeva che l’indomani sua madre l’avrebbe sgridato, ma non riusciva a non pensare alla ragazza con i capelli rosa e a quello che gli era successo. Aveva lo stomaco sottosopra dalla paura e si sentiva come felice. Pensò a quello che gli aveva detto sua madre in proposito all’amore e non smise di chiedersi se il suo stato d’animo fosse stato giusto o sbagliato. 13. Il sabato dopo Matteo andò da Tamba e il ragazzo negro lo fece salire nel suo appartamento. L’appartamento era angusto, arredato poveramente, ma comunque

tenuto con ordine. La madre di Tamba lavorava a casa del padrone quella sera, per questo motivo Tamba l’aveva invitato. Da un mobile il ragazzo negro tirò fuori una bottiglia di vodka e due bicchieri. “Questa, l’ho rubata in supermercato.” Matteo non sapeva se doveva bere quella roba o no. “Poco però.” Tamba iniziò a versarne per lui. “Basta basta.” Non si interruppe finché il bicchiere non fu pieno quasi fino a metà. “Non vuole non vuole. Adesso beve.” Matteo guardò il bicchiere con rifiuto. Tanto lo doveva bere, non aveva scampo. Tamba s’era già scolato il suo, tutto d’un fiato. Lo doveva fare pure lui. “Giù tutto.” Via! Quasi chiudendo gli occhi. Giù. Fatto, e all’apparenza, a parte il gusto non troppo prelibato, non sembrava esser successo niente. Matteo sorrise. Anche Tamba sorrise. Una manciata di secondi ed una vampata gli bruciò lo stomaco. Dopo il bicchiere di vodka, Tamba aveva preso due lattine di birra dal congelatore. Matteo era riuscito a berne solamente un po’. Il gusto amaro della birra, mischiato a quello della vodka, gli dava il senso di vomito. Era come se avesse un sasso in fondo allo stomaco, continuava a ruttare e ad ogni rutto aveva l’impressione di essere sul punto di gettar fuori tutto quello che aveva dentro. La testa gli girava e la sentiva pesante. Non riusciva a pensare a nulla di concreto o razionale, sentiva una specie d’ansia che contagiava ogni suo pensiero. Non lo disse a Tamba, ma ebbe molta paura di finire all’ospedale.

Ad un certo punto, senza un preciso motivo, si ritrovò solo, poi Tamba ritornò con dei giornaletti in mano. Sembrava eccitato per l’idea dei giornaletti. Ne lanciò uno a Matteo. Malamente. Matteo non era riuscito ad afferrarlo al volo. Era caduto per terra. Lo raccolse dal pavimento, senza ancora bene focalizzare di cosa si trattasse, ma quando se lo mise sotto gli occhi, capì dalla copertina, perché Tamba rideva come se fosse il più furbo della terra. Era un giornaletto porno. In stazione dei bus, sotto le panchine, c’erano dei giornaletti porno, mezzi strappati o sgualciti, ci aveva lanciato un’occhiata furtiva, ma non ne aveva mai avuto uno sottomano. Alzò gli occhi, Tamba era sparito di nuovo. Sarà stato l’effetto dell’alcool, ma gli sembrava di avere una febbre da cavallo. Gli occhi gli bruciavano e continuava a grattarseli, sfogliando le pagine del giornaletto. Osservò a lungo una donna con le gambe divaricate, le cosce bianche e piene che si stringevano su un triangolo di pelo. Voltò pagina. Una donna a carponi, con il culo alto, che gli si vedeva sotto. Ad un certo punto, si accorse che il suo coso era mezzo molliccio e non reagiva. Gli venne da ruttare e mando giù. Un gusto dolciastro gli attraversò la gola. D’improvvisò gli girò forte la testa e sentì che stava per vomitare. Chiuse il giornaletto e tenendosi per la sedia si alzò in piedi. Sudava freddo. Mosse qualche o, uno, due, tre. Pericolanti. In quel momento entrò un negro sconosciuto. Il ragazzo si spaventò, fece un salto indietro. Si scrutarono a fondo. Ciao, disse Matteo, facendo il bonaccione. Il negro gli sorrise, esibendo la sua dentatura gialla e malandata. Ci ava una trave in mezzo ai due incisivi superiori. Il negro era brutto, ma, di primo acchito, sembrava simpatico. I suoi occhi erano teneri e luminosi. Abbassò lo sguardo sul giornaletto. “Tu cosa guardare?!” disse “Tu vuole scopare questa?” e fece un gesto scomposto, menando braccia e gambe, che stava probabilmente per l’atto sessuale. Andò fino al congelatore. Lo aprì e si prese una birra. “È ultima. Non dire niente a nessuno.” ...

“Come ti chiami?” gli chiese Matteo “Amadou. E tu?” “Matteo.” “Sei amico di Tamba?” “Sì. Tu, vieni dal suo paese?” “No io venire da Burkina Faso.” Il negro rise di nuovo. I suoi denti erano proprio storti. Aprì la birra e un po’ di schiuma fuoriuscì. Per evitare di spandere, sorseggiò la schiuma sul bordo della lattina, facendo molto rumore. Rise ancora. “Io deve andare. Tu guardare femmine e poi... (rifece il gesto che stava per scopare) Ciao.” Matteo lo salutò e il negro uscì dalla stanza. Con sorpresa si rese conto di star meglio. Si sentiva più leggero. Parlare con Amadou gli aveva fatto bene. Improvvisamente, s’accorse che c’erano due foto appiccicate al congelatore. Guardò meglio. In entrambe, comparivano Tamba ed un altro ragazzo negro, che gli somigliava. Una era un primo piano dei due ragazzi, sembrava recente; nell’altra erano ritratti per intero, in questa sembravano più giovani e alle loro spalle compariva un adulto, negro pure lui. Erano ordinati e puliti, come una di quelle famiglie di colore dei telefilm americani. Soffermò lo sguardo sul negro vicino a Tamba, che compariva in tutte e due le fotografie. Gli venne freddo e quasi gli sembrò, per un momento, di non essere più ubriaco, bensì di poter ragionare come mai aveva fatto e di comprendere oltre la ragione, il caos. Era come paralizzato e gli arrivavano immediatamente in testa pensieri terrificanti, paure spaventose. Matteo non ne aveva la prova, ma l’intuizione, con irruenza si era fatta spazio nel labirinto della sua mente, nello stesso momento in cui aveva visto quelle due foto. In un attimo il collegamento gli riportò alla

memoria l’erba alta, il sole, come una palla di fuoco, il cerchio dei cipressi, alti e severi, il cerchio dei pini, misterioso ed inquietante, e quella cosa che lo guardava ininterrottamente, prima che lui la vedesse. La torre. Il bosco che scendeva ripido, gli alberi fitti e la sensazione di essere spiato; anche in quel momento, in quella stanza, se la risentì addosso. Si guardò intorno inghiottito dalla paura. L’appartamento era avvolto dal silenzio. I tre negri. Il rumore dello sparo. Il negro con la cicatrice dalla forma strana. Il simbolo della forza. Il negro con la cicatrice della foto era lo stesso ucciso su al monte Torta, l’estate scorsa. In una delle due fotografie (quella da solo con Tamba) aveva pure la divisa dei Lakers. La coincidenza era straordinaria, devastante, diabolica. Impossibile. Chi era? Un amico di Tamba? Un parente? Il fratello? No no nooo! Matteo era sconvolto. Voleva andare via subito da lì. Aprì la porta della cucina. “Tamba.” sussurrò. Il corridoio era al buio, le altre stanze erano al buio. Si sentì in trappola e osservato da tutte le parti, come se avesse avuto un occhio continuamente puntato addosso. Avrebbe voluto chiamare Tamba, ma non ci riuscì. Tamba, pensò. Non abbiamo fatto niente. Non abbiamo visto niente. Non sappiamo niente. Tamba. “TAMBAAA!” Il ragazzo negro spuntò di soprassalto, dal breve corridoio, ancora avvolto nell’oscurità. Si fece anticipare dalla sua voce. Squillante. Aggressiva. Matteo trasalì. Non gli parve neanche sua. “Sei matto! Cosa ha di urlare?!” Matteo lo guardò in faccia e, nella semioscurità della casa, gli sembrò di vedere il viso di quel negro, morto, e ricomparso come un incubo, in quella foto appiccicata al congelatore. 14. La camera da letto era buia e umida. La gamba ciondolava dal lato destro della branda. La pianta del piede si posava sul pavimento per qualche secondo, poi la gamba riprendeva a dondolare. Il pavimento era più fresco, solo per qualche istante, poi ridiventava caldo.

Tamba in dormiveglia aveva sentito la voce di suo fratello e del suo amico Achak in cucina. Si era svegliato apposta per ascoltare. Appoggiò nuovamente il piede per terra. La stanza non era completamente buia, per via della serranda rotta e della porta socchiusa, un po’ di luce filtrava e gli permetteva di vedere i contorni bluastri dell’armadio e della branda di suo fratello. Suo fratello buttava tutte le sue robe sopra la branda. Quando erano nel loro paese era molto ordinato suo fratello. Ma, da quando avevano messo piede in Europa, lentamente era cambiato. Lo ricordava sempre sua madre. Sempre. Un ragazzo ordinato. Il cuscino era bagnato di sudore intorno alla testa, Tamba aveva il collo e le spalle madide. Si tirò su con la schiena e rivoltò il cuscino sottosopra. Poi si lasciò cadere, roba da non spaccare la branda in due. Era una branda di merda, ma in compenso adesso il cuscino era fresco come nuovo. Riprese a dondolare con la gamba. Era completamente nudo. Il busto asciutto, solido e lievemente scolpito. Gli piaceva incrociare le braccia e stringersi i bicipiti ben torniti. Gli dava un senso di forza. Nel cassetto del comò che condivideva con suo fratello aveva un giornaletto porno. L’aveva guardato un centinaio di volte e si ricordava bene tante immagini. Suo fratello aveva strappato anche alcune pagine dalla voglia. Si prese con la mano il pisello. Era già caldo e duro. Se lo carezzò un po’. Lo sentiva potente e sapeva che ad una ragazza avrebbe potuto far male adesso; questo lo rendeva entusiasta. Scopare è la prima parola che ha imparato in italiano. Scopare, scopare. Ma nessuna ragazza italiana si fa scopare da un negro. In cucina i toni si alzarono. Quando sua madre e suo fratello parlavano di quell’amico di suo fratello, Achak, e lui compariva, si ammutolivano e avano a parlare di altro. Lui aveva provato qualche volta a chiedere a sua madre di cosa confabulassero suo fratello e quell’altro, ma sua madre si irritava e gli rispondeva di farsi gli affari suoi. Di Achak sapeva solo che era giovane e aveva già due figli nel suo paese. Che come tutti spediva ogni mese dei soldi a casa. E che si era scopato qualche ragazza in Italia. Il ragazzo si tirò a sedere sul letto. Raccolse le mutande che aveva lasciato sul

pavimento e se le infilò. Era tutto sudato intorno al collo, sulle spalle e aveva i capelli stopposi. Si alzò in piedi e mosse con cautela alcuni i verso la porta della camera da letto. La aprì senza far rumore. La luce del corridoio lo accecò per un momento e gli venne mal di testa, tanto si era abituato al buio, poi quando rivide, zampettò scaltramente verso la cucina, badando che suo fratello e Achak continuassero a parlare. La porta della cucina era chiusa. Riusciva a sentire comunque qualcosa. NON VOGLIO PIÙ FARE QUESTA VITA, NON MI VA PIÙ. MA CHE CAZZO DICI?! TI RICORDI QUANDO ERI NEL TUO PAESE CHE VITA FACEVI? NON MI INTERESSA. IO VOGLIO I MIEI SOLDI E BASTA. NON VOGLIO FARCI PIÙ PARTE. ... OH, METTI VIA! ... DOBBIAMO ANDARE SU ALLA BASE NEL MONTE, A PRENDERE LA ROBA. OGGI NO. Tamba era immobile davanti alla porta chiusa della cucina, quando sua madre entrò dall’ingresso principale dell’appartamento. Tuonò. “Cosa ti ho detto mille volte?!” “Lasciami in pace mamma.” “Vai in camera tua. Non devi impicciarti degli affari di tuo fratello.” “Che cazzo vuoi! Stavo andando solo a prendermi da bere.” “Non rispondere così a tua madre. Stai diventando come tuo fratello anche tu.” Suo fratello aprì la porta della cucina. Era arrabbiato. Si capiva da come li aveva guardati

“Cosa avete da gridare?” “Fammi entrare.” fece Tamba e scansando suo fratello entrò in cucina “Cosa vuoi?” “Che cazzo volete! Mi prendo da bere.” Tamba andò al lavandino. Prese un bicchiere, si versò dell’acqua e rimase lì in piedi a bere. “Non puoi andare via da questa casa a parlare dei tuoi affari. Non voglio che contagi tuo fratello.” disse sua madre rivolgendosi a suo fratello Fode. “Dovresti insegnare a tuo figlio di farsi i cazzi suoi e di starsene in camera sua.” “Non rivolgerti così a me. Adesso prendiamo e torniamo in Francia.” “In Francia è una merda peggio che qua e lo sai bene anche tu. Hai visto come stavano gli zii?!” “Lì almeno lavoravi ogni tanto.” “Anche qui. E poi, che cazzo dici! Lo sai bene che non mi facevano lavorare. Massimo per due settimane. E poi lavoro anche qui.” “Un lavoro normale, Fode!” “È un lavoro e basta.” “Finirai nella merda tu.” “Mamma non mi frega un cazzo, non mi frega un cazzo dell’Italia, della Francia, del nostro paese e di niente. Loro mi pagano meglio di altri lavori e faccio poca fatica.” La donna guardò Tamba, che non aveva ancora finito di bere. “Allora?” Il ragazzo mandò giù tutto d’un fiato l’ultimo sorso d’acqua. “Ecco, sei contenta?” disse “Non posso neanche più bere adesso?!”

Tamba guardò Achak e gli sorrise. Un’anomala protuberanza gli gonfiava la maglietta all’altezza del fianco sinistro. Lui teneva una mano proprio in quel punto, come per nascondere quello che ci stava sotto. Tamba ò davanti a sua madre e a suo fratello e ritornò in camera da letto. 15. L’odore di piscio alla stazione di Duroc era forte. Qualche accattone, come un sacco per terra, mugolava nell’andirivieni indifferente dei pendolari. Avevano occhi rossi quegli accattoni, rossi come il sangue, e ti maledicevano. Quando si alzavano in piedi caracollavano e poi ripiombavano a terra, come se qualcuno avesse loro falciato le gambe. Il metrò arrivò. Per qualche istante la gente si mischiava come un mazzo di carte. Fode perse di vista suo zio. Un negro a posto, con un giubbetto in pelle e una valigetta lo guardò e andò per la sua strada. Volse la testa a destra, poi a sinistra. Alla fine lo vide. Alla fermata di Invalides salirono da sottoterra. L’aria fuori era pungente, il cielo slavato. Attraversarono la Senna. Dal ponte comparve la punta della Tour Eiffel. Un auto blu sfrecciò con le sirene spiegate. C’erano i soliti turisti che scattavano foto, in qualsiasi periodo dell’anno. Fode e suo zio camminarono oltre i palazzi per decidere poi di svoltare a sinistra per gli Champs Elysées. L’arco comparve in fondo. Ingoiava la strada e le automobili che ci avano sotto. A Parigi le costruzioni si mangiano gli uomini. Da un lato all’altro del corso, le vetrine dei palazzi commerciali accoglievano clienti ben vestiti e famiglie sorridenti. I cinema erano bombardati di locandine gigantesche. Due scimmioni in giacca e cravatta fuori da un negozio guardarono da capo a piedi Fode e suo zio. Uno dei due scimmioni era un nero a posto. “Ciucciami i coglioni, brutto leccapiedi di merda!” esclamò suo zio. Lo scimmione fece finta di niente. “Hai sentito?!”

Fode prese sottobraccio suo zio e lo tirò in parte. Una ragazza bianca ò loro di fianco spargendo per aria il suo buon profumo. Portava una giacca nera, sopra una camicetta e la gonna che le arrivava al ginocchio e le fasciava bene i fianchi e le gambe. Fode si girò d’impulso, dopo che fu ata, e le lanciò un complimento, ma la ragazza fece finta di niente. “Mettitela via, ci vogliono i soldi per quelle là. Dove la porti a ballare? Nelle discoteche da negri, perché nelle sue non ti lasciano entrare!” esclamò suo zio Poi guardò di là della strada, il Mc Donald. “La settimana scorsa ci hanno preso Ahmed là dentro. Lo sai chi è Ahmed, no?” “Ahmed?” disse Fode “Ahmed, il professore.” “Non so.” “Dai! È del nostro stesso quartiere.” “Non lo conosco.” “Beh, la stampa ha messo in allarme la città, perché è sospettato di avere legami con qualche cellula terroristica legata ad Al-Qaeda.” “...” “È entrato nel Mc Donald con un taglierino. Ah! Cellula terroristica, Al-Qaeda, ah.” “...” “...C’era anche un altro con lui.” “Chi?” “Non lo conosco. In teoria aveva cominciato la settimana scorsa a pulire i cessi là dentro. Un suo connazionale, credo.”

Fode guardò l’edificio del Mc Donald e le molte persone che si vedevano dai finestroni, sedute ai tavolini, a mangiare i loro hamburger. “Al-Qaeda, ah!... Ha perso la testa, Fode, te lo dico io. Qui tutti perdiamo la testa prima o poi. Non puoi mandare giù, mandare giù, finché muoriamo tutti. Ascolta. L’ultima volta, un ragazzo giovane dopo tre mesi è stato assunto, solo perché se. Io che sono arrivato prima, che ho insegnato al ragazzo giovane a lavorare, niente. Capisci, no?”

“Sì.” “Io non sono trattato come un uomo, come un se. Io so lavorare, ma non lavoro. Capisci Fode?” “Sì.” “Sono quindici anni che sto in Francia. Io sono un se. Ma loro dicono che io devo imparare a lavorare. Secondo loro io non posso essere bravo, perché io sono straniero, capisci? Io devo solo stare buono e imparare... Allora penso che qualcosa deve succedere sennò per i miei figli sarà così e sempre così.” “Mmh.” Fode guardò una donna che spingeva il eggino dentro il Mc Donald, mentre il figlio maggiore le teneva la porta. Il ragazzino aveva i capelli castano chiaro tagliati a caschetto, stava dicendo qualcosa a sua madre, probabilmente che voleva una montagna di patatine fritte o una coca cola grande. Ahmed la settimana scorsa aveva puntato un taglierino alla gola di una mamma e preso per i capelli suo figlio, mentre urlava che li avrebbe ammazzati tutti. 16. Tamba era arrivato sul posto dove si dovevano incontrare con uno scooter. Glielo avevano prestato, aveva detto. Un suo amico. Matteo sapeva che non si poteva starci in due per legge, e senza casco, ma Tamba disse che lui conosceva le scorciatoie, dove non c’era la polizia. Matteo non era mai salito su uno scooter. Tamba alla partenza accelerò di colpo.

Il ragazzo sentì l’aria scendergli in gola e il sangue salire su. S’aggrappò forte all’amico per il giubbetto. Tamba correva ed anche le curve le faceva a manetta. Matteo ci aveva riflettuto. Pensava che ormai non gliel’avrebbe più detto di quello che aveva visto al monte Torta l’estate scorsa. In fin dei conti, adesso, non era nemmeno completamente sicuro che quello della foto coincidesse con quello ucciso, non sapeva cosa centrasse con Tamba, e poi lui non aveva fatto niente. Era come se lì non ci fosse mai stato. Quella sera andarono al paese vicino, dove c’era la festa del beato e per questo motivo anche le giostre. Tamba lasciò lo scooter in un posto che gli sembrava sicuro. Fecero un paio di giri sui boris e Tamba insistette per una partita a Virtual Striker. Mentre stava giocando un ragazzo gli si avvicinò e gli disse a bassa voce: “Ehi! Hai un po’ di fumo?” Tamba senza voltarsi “Quanto?” “Dieci.” “MERDA. HO PERSO! BASTARDI.” Tamba, senza dire nulla, lasciò il box di Virtual Striker e prese a camminare. Non si capiva bene in che direzione. L’altro si accese una sigaretta e lo seguì. Matteo, senza capire dove volessero dirigersi e non potendo fare diversamente, fu dietro a tutti e due. Dopo aver girovagato in mezzo alla folla che animava il lunapark, Tamba individuò un posto che poteva andare bene ed il ragazzo e Matteo lo seguirono. Si misero dietro l’angolo di una casa. Per un vicolo. Il ragazzo tirò fuori i dieci euro. Tamba cavò dalle tasche il pezzo di fumo. Ne diede quanto doveva dargliene, avvolto in una fascetta di celofan “È roba buona?”. Tamba annuì. “Non mi vuoi fregare?” “Tu prova e poi vede che avere ragione.”. Tamba aveva intascato i dieci euro. Matteo si guardava intorno, su, lungo il vicolo, colto da continui presentimenti. Era elettrico, ma stava bene. Non sono cattivi gli spacciatori di droga, perché non è cattivo Tamba. Fece un salto quando vide che alle spalle, dietro le sbarre del cancello di una casa, ci stava un cane. Un cane lupo che lo fissava. Saltò come una molla. Il cane lupo allora, cominciò ad abbaiare e a mostrare i denti.

“Bastardo.” fece Tamba, menando calci alle sbarre del cancello “Cane di merda.” Matteo scoppiò a ridere. Si sentì improvvisamente leggero. Il ragazzo con il fumo era già sparito. Loro due corsero a perdifiato su per il vicolo. Matteo si sentiva furbo e l’avrebbe fatto un’altra volta. Il vicolo era buio. Ad un certo punto si fermarono. Gli occhi di Tamba risaltavano come due stelle nere. Avevano tutti e due il fiatone. “Mia mamma... dice che è sbagliato... fare quello che fai tu... ma alla fine... sono loro che te lo chiedono.” “Legge dice che non si può... ma tanti uomini... che dicono altri di rispettare legge... non rispettano loro... legge no vuole pace... vuole di controllo... Io vuole di libertà.” “....” “...Io faccio solo lavoro... loro viene da me... no io.” “Mia mamma dice, ah!... che alle feste... nei bicchieri ci mettono la droga, ah!... e te la fanno bere, ah ah!... senza che lo sai... ah ah!” Tamba rise. Matteo si slacciò dal polso il braccialettino colorato che gli aveva regalato il vu’ cumpra, al mare, per due euro. “Tieni. Porta fortuna.” Tamba lo prese e se lo allacciò al polso. Rise ancora e i suoi denti erano bellissimi. Matteo avrebbe voluto dargli un bacio, ma non poteva rovinare tutto anche questa volta. Erano le undici e mezza. Ancora mezz’ora di tempo, pensò Matteo. Non poteva rincasare in ritardo un’altra volta. Tamba conosceva un posto nei paraggi dove si poteva andare. Il ragazzo negro faceva filare lo scooter per le strade di campagna, attraverso la nebbia che li ingoiava, mentre Matteo aggrappato dietro, pativa un freddo cane e pensava che non poteva assolutamente arrivare a casa in ritardo. Alla fine, giunsero dove c’era un parcheggio e un basso edificio illuminato, con una grande insegna che lampeggiava, prima BOMBA, poi LATINA, poi BOMBA LATINA. Quella era una discoteca. Matteo pensò che era la prima

volta che andava in una discoteca. Non sapeva nemmeno come era fatta una discoteca, dentro. Alcune automobili occupavano il parcheggio. Certe erano da ricchi. All’ingresso del locale, due tizi gridavano in faccia ad un omone in giacca, cravatta e occhiali da sole. Tamba parcheggiò lo scooter dietro il locale. Smontò. S’infilò tra le labbra una sigaretta. L’accese. La fiamma dell’accendino rimbalzò sui suoi occhi. Fece un tiro, buttò fuori il fumo, che s’arricciò e svanì. ò una sigaretta a Matteo, che se la mise dietro l’orecchio. Voi non sapete chi siamo noi. I due tizi di prima stavano ancora discutendo con il buttafuori. “Lassa stare Gas, questo non vole lassarci entrare.” Il buttafuori non parlava nemmeno. Teneva le braccia incrociate al petto e lo sguardo rivolto dalla parte opposta. “Ghe va solo le fichette e i pien de schei. Nialtri no i ne vole!” “Lassalo il slavo. Fa sto lavoro del cazzo.” “Ciò slavo. No ze che te poi dirme se posso entrare o no, perché non go la tessera. Mi conosso el proprietario da una vita, capio, GLI HO FATTI IO, gli anni migliori di questo locale.” I due sputavano saliva quando parlavano. Uno si sorreggeva sull’altro e ogni tanto poggiava la testa sulla sua spalla. Questo non riusciva nemmeno a controllare le palpebre, che gli si chiudevano e aprivano automaticamente. Tamba e Matteo fecero finta di niente e proseguirono, ma quando furono lì per entrare, il buttafuori allungò il braccio e fermò il ragazzo negro. “Non potete entrare.” “Ciò, negro no te pol mia ndare dentro!” disse il tizio che si appoggiava sull’altro, improvvisamente ridestato.

Tamba lo fulminò con un’occhiataccia. Lo trattenne un non nulla dal menar le mani. “Come, non posso entrare?” “Fatemi vedere i documenti, ragazzi.” disse il buttafuori “Io ho diciotto anni.” “Fammi vedere la carta d’identità.” “Ho lasciata a casa, ma ho diciotto anni.” “I minorenni qui non entrano.” “Ma io ho diciotto anni.” “Tamba andiamo via.” gli sussurrò Matteo all’orecchio Tamba non si diede per vinto ed aspettò davanti al buttafuori, ma quello non voleva farli entrare. Matteo si tolse la cicca da dietro l’orecchio. Tutto ad un tratto, non si riconosceva più. Le luci lo spaventavano, la discoteca lo spaventava, i due tizi anche. Voleva tornare a casa, fare le scenette con sua sorella, voleva che tornasse nuovamente l’estate scorsa. CIO’ SLAVO. DESSO CIAMO EL PARON DEL POSTO E TE VEDI... ENCIOOO! Alla fine Tamba e Matteo se ne andarono. Tornarono dove avevano lasciato lo scooter. Tamba aveva i nervi a fior di pelle. Afferrò lo scooter per il manubrio. Diede un calcio al cavalletto laterale e montò in sella. Improvvisamente, una porta, sul retro della discoteca si aprì. Un tappeto di luce azzurra si riversò sull’asfalto. Uscirono due uomini, che parlavano e discutevano tra di loro, poi venne una ragazza, poco vestita per il freddo che faceva. Tamba e Matteo non erano poi molto vicini e probabilmente quegli individui manco si erano accorti della loro presenza. Matteo sentì il cuore in gola. Aveva nuovamente fatto una scoperta strana; uno dei due uomini era il padre di Marcello. Intanto Tamba, dava gas al motore. Matteo voleva dirgli se aveva visto e spiegargli la faccenda, ma rimase zitto. Montò in sella allo scooter.

La ragazza sembrò guardare nella loro direzione per un momento. Nella stessa direzione girò lo sguardo anche il padre di Marcello. Matteo pensò che lo avesse riconosciuto. Tamba accelerò. Matteo rimase con gli occhi puntati sulla ragazza finché non la nascose il muro, poi l’ingresso della discoteca con i due tizi e il buttafuori che litigavano, infine l’insegna BOMBA, poi LATINA, poi BOMBA LATINA che si rimpiccioliva, mentre filavano per la campagna deserta e il freddo ricominciava a penetrargli nelle ossa. Al primo incrocio svoltarono a destra. Prima di ripartire Matteo vide un auto che veniva verso di loro. Si girò a guardarla; l’automobile stava svoltando per la strada dalla quale erano usciti. Era scura, con una lunga fascia bianca dal muso al culo, e sul tettuccio dei lampeggianti. Spenti.

17. Un pomeriggio Matteo e Tamba s’incontrarono alla stazione dei bus del paese. Tamba a scuola gli aveva detto che gli avrebbe fatto vedere un posto nuovo. Presero la strada per andare a casa di Matteo. Tamba non era mai stato a casa sua e non gli aveva mai chiesto dove abitasse, ma Matteo non gli disse che quella strada portava da lui. Fu sorpreso, invece, da un profondo senso d’imbarazzo; non voleva farsi vedere dai suoi vicini con Tamba. Quella sensazione l’aveva già provata in qualche occasione; era sbagliato, ma Tamba era pur sempre Tamba. Il ragazzo negro si fermò davanti alla strada sterrata che portava in cima al monte Torta. Matteo omise anche il fatto che ci aveva trascorso l’estate precedente lassù. Continuava piuttosto a guardarsi intorno, guardingo. Nel frattempo anche un nuovo sospetto si stava facendo largo nella sua mente, un sospetto terribile, che lo faceva rabbrividire. Lasciarono le biciclette all’inizio del sentiero e continuarono a piedi. Tamba aveva leve lunghe e atletiche e anche a piedi lo lasciava indietro. Sopra loro, il cielo era grigio, invernale. C’era il solito silenzio. Matteo si sentiva osservato, come quel primo giorno che aveva salito il monte, e il fatto che adesso con lui ci fosse stato Tamba non alleviava l’inquietudine, anzi. Arrivarono fino al cerchio dei cipressi. Era rimasto tutto uguale come l’estate

scorsa. Lanciò uno sguardo in direzione del cerchio dei pini, se ne intravedevano appena le chiome immobili. Tamba scavalcò la staccionata ed andò a sedersi sulla panchina. Matteo fece uguale. Erano vicini e nessuno dei due parlava. Matteo ogni tanto guardava le mani del ragazzo negro; erano veraci e nervose. Erano mani da uomo. Potevano soffocare, stritolare. Tamba infilò una mano nella tasca destra, poi nell’altra, come in cerca di qualcosa. “Merda.” Allora, si alzò in piedi e diede un paio di occhiate alle sue spalle. Matteo non si girò a guardare tanto sapeva cosa ci stava dietro: il monte, il cerchio dei pini e la torre. Quello che avrebbe dovuto dirgli continuava a ronzargli in testa vorticosamente, ma non riusciva a parlare, piuttosto pregava di andare via il più presto possibile. Un momento pensava di dirglielo e il momento successivo ci ripensava. Voleva mostrare a Tamba la torre, dirgli che la Pantegana e Alex avevano scoperto delle armi lì, sperare che così avrebbe capito, ma non disse nulla per non rischiare di essere scoperto. Piuttosto sperò che fosse lui a confidarglielo, così finalmente si sarebbe sentito sollevato del peso di un segreto. Tamba invece non disse nulla. Ad un certo punto, Matteo mandò giù. Non ci pensò neanche e parlò: “Tuo fratello non vive con te e tua mamma?” Tamba assunse improvvisamente una strana espressione. Matteo si pentì già di quel che aveva detto. “È tuo fratello, no, quello nella foto sul congelatore?” disse a fil di voce. Si sentiva caldissimo e sudava. Sapeva di essere tutto rosso e che Tamba doveva aver capito qualcosa. Ancora uno sforzo e sarebbe scoppiato. “No. È mio cugino.” Tornò il silenzio per un po’. Matteo aveva ancora il batticuore, ma si sentiva anche leggermente sollevato. Poi, Tamba disse:

“Si è mio fratello, ma non c’è più. Lui è scomparso.” “...Come è scomparso?” “...Non deve dire nessuno!” “Giuro.” Matteo si baciò due volte le dita, incrociandole. “Promesso.” “Mio fratello è scomparso. Io sono in cerca di lui. Ma non so se scomparso o altro, perché non so perché lui deve andare via. Nessuno sa niente.” “....” Tamba non sapeva che suo fratello era stato ucciso. In fin dei conti, non ne era certo nemmeno Matteo che l’identità di suo fratello corrispondesse con quella del negro assassinato. Si somigliavano e basta. Si somigliano tutti, i negri. Sì, si somigliano tutti. Rimasero in silenzio un po’. Poi, Tamba disse ancora; “Si sta bene qui. La prima volta mi ha portato mio amico Achak, dopo che mio fratello scomparso. Lui vuole bene me. Lui voleva bene anche mio fratello. Qui è l’unico posto di questo paese che non odio. Odio questo paese .” “...Perché?” “Io non sono italiano, non sono come te. Io sono straniero sempre.” “...Non devi pensare alla gente che ti tratta da straniero.” “Io non posso essere quello che voglio qui. È come se io non posso avere sogni, capito?” “Maddai, non è così... Tutti hanno dei sogni.” Tacquero nuovamente. Tamba guardò ancora in direzione del cerchio dei pini. “Viene.” Si alzò dalla panchina. Matteo fece lo stesso. Camminarono a testa bassa fino al cancelletto. I pini del cerchio dei pini, si stagliavano nitidamente contro il cielo slavato. Non si muoveva un filo d’aria. Matteo camminava dietro Tamba e

percepiva nel ripercorrere quel sentiero assieme a lui un significato ancora sconosciuto, ma diabolico, che lo riconduceva alla verità e al segreto che custodiva. Era quella la paura che lo aveva fatto rabbrividire, quando stavano ancora all’inizio del sentiero. Era come se a loro insaputa, quell’amicizia fosse già stata partorita l’estate ata per uno scopo terribile. Matteo guardò bene il ragazzo negro e lo vide per quello che era, un estraneo. Un estraneo. Arrivarono al cerchio dei pini. Il cielo cominciava a imbrunirsi. Matteo guardò giù, verso il cerchio dei cipressi ed il sentiero. Che nessuno li stesse seguendo. “VIENE.”. Matteo seguì il ragazzo negro ancora ed ecco la torre. Sembrava si fosse spostata da dove ricordava. Sembrava anche più grande. Man mano che avanzava, cercava di capire se era veramente quella la torre dell’estate scorsa. Era intatta, ma diversa. Una luce fosca avviluppava quella maledetta costruzione. Si stava facendo buio davvero. “Cos’è?” disse Matteo additando la torre “È qui che mi porta Achak una volta. È sua base.” Tamba si avvicinò alla porta, fece per aprirla. Matteo si mantenne distante. Il bosco era fitto e non si vedeva oltre i primi alberi. Lì in mezzo alla vegetazione era nascosto il cadavere del fratello di Tamba, lì a pochi i da loro c’era il suo corpo. Matteo tremò. “Io devo andare.” Tamba fece rumore aprendo la porta, poi ricadde il silenzio. “Qui Achak tiene suo tesoro.” Entrò. “Andiamo via.” lo implorò nuovamente Matteo con la voce spezzata. Il ragazzo negro uscì. “Hai paura?” “N-no... È che è buio e devo andare a casa.” Matteo aveva guardato Tamba e gli sembrò di aver visto suo fratello. Era negro. Negro come la notte. Il bianco degli occhi sfavillava; sembravano due fanali che ti venivano addosso a velocità scellerata nell’oscurità. Lo spaventarono a morte. “Andiamo ti prego.” “Va bene.” Tamba richiuse la porta della torre, ò davanti a Matteo e insieme ridiscesero il sentiero. Si lasciarono alle spalle la torre, poi il cerchio dei pini, il cancelletto,

poi il cerchio dei cipressi. La luce stava venendo meno, il bosco rumoreggiava nel profondo, fruscii, scricchiolii, squittii, e la sensazione di essere in pericolo continuò a turbare Matteo, ad ossessionarlo. Tamba lo precedeva e il silenzio tra di loro si era appesantito, era divenuto imperturbabile. Il fantasma del fratello li seguiva, mentre scendevano il sentiero, spiandoli tra il fitto della vegetazione, sussurrando parole mostruose alle orecchie di Matteo. Il monte gli suggeriva di non tornare mai più; assoggettato da una maledizione, celava nel cuore della sua terra, quel bubbone, quella malformazione della campagna veneta, un incubo infernale. S’affrettarono a scendere. Gli ultimi metri li fecero di corsa. Era buio e faceva freddo quando arrivarono. Matteo levò uno sguardo di terrore verso quell’ammasso di terra sopra di lui, scura e zitta. Chiuse gli occhi per un po’ e si convinse di poter dimenticare. Tamba sembrava tornato normale, solamente un po’ turbato. Alla fine, Matteo sapeva che era molto fragile e aveva comunque bisogno di lui. Provò pena per il suo amico. Una pena che lo faceva piangere ed arrabbiare al tempo stesso. Si salutarono. Matteo stava pedalando verso casa, quando improvvisamente gli balenò in testa l’idea, irruenta ed irrefrenabile, che doveva seguire Tamba. Si voltò e vide la sagoma del suo amico filare veloce giù per la strada, così girò la bici e prese ad inseguirlo. Tamba tagliava la nebbia come fosse burro. Matteo arrancava dietro di lui, (le ginocchia sbatacchiavano sul manubrio) senza farsi notare. Di sera in campagna non è sicuro girar da soli. Il sudore gli correva lungo la schiena ed aveva freddo. Se non si prendeva l’influenza. Per strada arono poche automobili. La luce dei fari illuminava la schiena di Tamba. Nell’attimo in cui veniva illuminato, Tamba pareva rallentato, le sue feroci pedalate erano come ammansite e Matteo vedeva corto il tratto che li separava. Poi, tornava il buio e la nebbia e l’amico rischizzava come un proiettile, nuovamente lontano da lui. La corsa di Tamba finì davanti a due bifamiliari in costruzione, in una zona di confine con l’altro paese, oltre la tangenziale. Il ragazzo negro appoggiò la bicicletta alla rete di recinzione rossa. Le bifamiliari, Matteo le aveva viste così

anche l’estate scorsa, che era ato di lì in uno dei suoi giretti solitari. C’era un grande cancello, all’altezza del giardino della prima bifamiliare, chiuso con un catenaccio. Appeso alla rete di recinzione c’era un cartellone di lamiera da cantiere, con in testa il nome dell’azienda edile che si occupava della costruzione delle bifamiliari. GIRARDI Costruzioni. Matteo guardò Tamba da una considerevole distanza. Il ragazzo negro percorse il lato che faceva angolo alla prima casa. Improvvisamente si accucciò. C’era un aggio nella rete. Strisciò sotto ed entrò nel giardino. Matteo lasciò la bicicletta per terra e lo seguì. Alzò la rete, dove c’era il aggio, e strisciò sotto. La terra era dura e umida. Una rampa di cemento scendeva tra le due case. Tamba stava davanti al portone di uno dei quattro garage. Matteo lo chiamò a fil di voce. Tamba. Tamba si voltò di scatto, come una bestia. “So-sono io, Matteo.” “Cosa ci fai tu qui?!” “...Ti... volevo dire una cosa.” Improvvisamente, uno stridore prolungato troncò la conversazione sul nascere e un tappeto di luce gialla si distese sul cemento, salì il portone del garage di fronte, e come un’onda arrivata al bagnasciuga, si placò e si ritrasse un pochetto, arrivata alla fine del muro opposto. “Djeneba.” bisbigliò Tamba La lucciola di colore, con la parrucca rosa, stava seduta su un materasso, vestita come l’avevano vista la prima volta al distributore dell’Agip, e guardava verso di loro. Non aveva più i capelli rosa, aveva quelli suoi, naturali, neri e ricci. Di fianco teneva una radio, non troppo grande. Era accesa; Miele che si attacca al sole. Altri due materassi erano sparsi per il garage. C’era un lavandino e uno specchio in un angolo. Un filo metallico, teso da due ganci, allacciava una parete con l’altra. Sul filo erano appesi alcuni asciugamano e abiti. All’altro angolo c’era un fornellino alimentato da una bombola a gas, una cassetta rossa, di quelle per la frutta e verdura, con sopra una mocca, una confezione di caffè quasi consumata e dei bicchieri di plastica. “Cosa vuoi? Vai via!” disse la lucciola negra, quella con le tette enormi.

“Devo parlare con Djeneba.” ordinò Tamba “Vai via o chiamare nostro padrone.” “Devo parlare con Djeneba.” La lucciola di colore aveva un’espressione di raccapriccio impressa in volto. Alzò gli occhi verso Tamba. Lo sguardo sfiorò anche Matteo, ed era velato di una smelensa tristezza. L’avrebbe protetta lui da tutti i mali del mondo. La canzone alla radio stava finendo. Miele e poi diventa sale se siamo in riva al mare e un’onda ci accarezzeràaaaaa Miele questo è il tuo sapore quando devi andare quando non ci seeei Miele sei bella da morire mi hai fatto innamorare col gusto che c’è in teee csss La lucciola spense la radio, si tirò su dal materasso e si avvicinò a Tamba. Sapeva un cattivo odore. Sapeva un cattivo odore quel garage. “Cosa volere?” “Tu sai dove è mio fratello?!” “Chi è tuo fratello? Io non so.” “Fode.”

La ragazza ammutolì un attimo. “...Tu sbagli.” “No.” “Io non conoscere.” “Vai via.” intervenne quella negra “STAI ZITTA!” l’aggredì Tamba, poi rivolgendosi all’altra, disse “Mio fratello Fode era tuo ragazzo.” “Fode chiama me sua ragazza, ma io non vuole.” “Chi è lui?” disse quella negra, riferendosi a Matteo “È un mio amico.” “Andate via, sennò arriva nostro padrone.” “Vai su.” disse Tamba a Matteo “Guarda se arriva.” Matteo salì la rampa di corsa. C’era silenzio. La campagna era immobile, inghiottita dalla nebbia. Stava farneticando, quando avvertì un rumore improvviso. Si accucciò. Subito dopo un cane si era messo ad abbaiare da qualche parte. Era troppo buio per vedere, ma il verso sembrava provenire da lontano. I cani non abbaiano per niente. Si avvisano. A conferma di quel che pensava, Matteo sentì indistintamente il ruggito del motore di un’ automobile. Si stava avvicinando. S’appiattì per terra. Ecco, i fari illuminarono la strada, il fosso di là della strada e uno, due, tre e così via, gli alberi spogli che la costeggiavano. Fu un attimo. Il ragazzo schiacciò la faccia contro il suolo duro e gelido. Chiuse gli occhi. Poteva essere il padrone delle lucciole o la polizia. La luce dei fari penetrò nelle sue palpebre abbassate. Da nero, divenne tutto rosso, come il fuoco, come un incendio. Dopo una manciata di istanti, il rosso si dissolse, il buio tornò di nuovo ed il rumore dell’automobile gradatamente andò affievolendosi. Matteo aprì gli occhi, guardò verso dove era andata la vettura. Non riuscì a vederla. Il rumore si era estinto. Si alzò in piedi.

VAI VIA. NO VENIRE PIU’ QUA. MIO FRATELLO DOVE È? TU DEVE DIRE ME COSA È SUCCESSO. IO NON SO, NON SO. IO VOLEVO BENE LUI, MA IO DICE SBAGLIA LUI FARE COSI, MA LUI VUOLE DENUNCIARE. LUI VUOLE FARE EROE. LO HANNO UCCISO, ALLORA? NON SO IO GIURO, IO NON VEDO PIÙ... ADESSO VA VIA, PER FAVORE Matteo sentì il portone del garage chiudersi e contemporaneamente vide Tamba risalire la rampa. “È ata una macchina prima.” Tamba sembrò non curarsene. Andò verso dove aveva lasciato la bicicletta e non disse nulla. Matteo ne rimase offeso. Dopo quello che aveva fatto per lui; Tamba non pensava alla sua incolumità, badava solamente ai suoi scopi. Era un egoista. Mentre pedalava per le strade di campagna, Matteo pensava che tutto sarebbe terminato quella sera. Sperò che la notte asse in fretta e arrivasse subito il giorno. Gli faceva paura la campagna. Gli faceva paura il silenzio. Gli faceva paura ogni rumore sommesso. Gli facevano paura i segreti. Gli faceva paura Tamba. Aveva deciso che si sarebbe liberato di tutto ciò. E così avrebbe fatto.

Nella nebbia

1. Marcello una mattina alla fermata degli autobus in Centro Studi, per l’ennesima volta aveva chiamato Tamba, Tampax. I presenti rimasero a bocca aperta, quando il ragazzo negro gli saltò addosso. Si erano menati un po’, prima di essere divisi da alcuni ragazzi e prof. La Pantegana e Alex bestemmiavano e aizzavano la folla contro Tamba. Durante l’intervallo Marcello, la Pantegana e Alex fecero irruzione nel liceo e colsero Tamba di sorpresa, rincorrendolo fino a costringerlo a scappare da scuola. Nessuno dei suoi compagni di classe intervenne. Il padre di Marcello venne il giorno dopo al liceo a chiedere alla preside la sospensione del ragazzo negro, per aver malmenato suo figlio. Erano tutti e tre dalla preside, Tamba, Marcello e suo padre. Tamba tornò in classe raccolse lo zaino e se ne andò. Era stato sospeso per tre giorni. “Io fare di pagare.” disse a Matteo, prima di abbandonare l’aula.

2. I carabinieri hanno trovato anche un paio di ragazze, tra rumene, slovene e croate, senza regolare permesso di soggiorno. Il proprietario del locale Bomba Latina è accusato per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione... Il commissario sta inseguendo una pista che porterebbe a dei collegamenti tra il proprietario del locale notturno, dei complici locali e una rete criminale, probabilmente dell’Est Europa, che si occupa di traffico illecito di clandestini. “Qual è il Bomba Latina?” esclamò suo padre, mentre ripiegava il giornale, dopo aver smesso di leggere.

Sua madre appoggiò un piatto di pennette al ragù davanti agli occhi del marito. “È quello per andare a casa della Marti, prima, svolti a sinistra, poi sempre dritto, la biforcazione a destra.” rispose sua sorella “Ma tu, ci sei mai andata?!” “No papà, è un posto per ragazzi più grandi, quello.” “Ma cos’è che è successo?” intervenne sua madre, mentre s’accomodava sulla sua sedia “Ah! Matteo, prendi il vino. Mi sono dimenticata.” “Praticamente.” continuò suo padre con il boccone ancora tra i denti “In questa discoteca c’erano delle prostitute. E lavorava come cubiste e poi si prostituivano con i clienti. La voce ga da essere uscia, te se come che ze?!” “Puttanieri.” disse sua madre, addentando la prima forchettata di pasta “Anche zente del paese ghe sarà ndata.” “Poverette! Dovaria prendersela anche con chei maiali che ghe va insieme. Invese i omini i a sempre impuniti, come se no i gavesse nessuna responsabilità. I se tira su le braghe e ze tutto a posto.” “Eeevabbé! Bisogna dire però che se lo fanno, vol dire che ghe va anca ben farlo. No penso che le ciape queo che te ciapi ti in fabbrica a fine mese.” “Ghe sarà anche prostitute che lo fa per mestiere, ma gheto sentio ultimamente cosa dicono? Sono tutte ragazze giovani, tosette, convinte a vigner in Italia a lavorare e dopo e se ritrova sotto un lampion come dee schiave.” “Schiave?! Non savemo ben come che le sia le storie, poi.” “A TREDICI ANNI PENSI CHE UNA RAGAZZINA SCELGA DI FARE LA PUTTANA, eh scusame!” “Ecco, questo ze naltro discorso.” “No, non ze un altro discorso. Maiali. Ze giusto che vengano puniti anca lori. Se uno favorisce qualcosa di illegale o ne ze complice vien punio, perché uno che

va con lore non lo ga da essere?... Che i stae casa co so moier, o se i voe un’amante che i sea serche.” Matteo aveva posato la bottiglia di vino al centro del tavolo. Suo padre aveva allungato il braccio, afferrato la bottiglia e se ne era versato, fino a riempire metà bicchiere. “A puttana ze el lavoro pi vecio del mondo. Ghe ze sempre stato e sempre ghe sarà.” Suo padre bevve un sorso, poi si portò alla bocca un’altra forchettata di pennette al ragù. Matteo si sentì pronto. “Mamma.” “Eh?”. Dallo sguardo preoccupato sua madre doveva aver già capito tutto. Vostra mamma vi legge nel pensiero. Doveva essere sempre per colpa dell’anima che si specchia negli occhi. “Oggi posso andare in biblioteca?” “Dov’è che vuoi andare?! Così torni a casa come l’altra sera.” “Mamma dobbiamo fare un compito.” “Anche l’altro giorno era un compito.” “Ma poi ti ho detto che sono restato a casa sua. Torno presto.” “Con chi vai? Sempre il solito?” “Sì.” “Come si chiama?” “Mirko.” “Cerca di non arrivare tardi anche stavolta, sennò non esci più.”

3.

Tamba non è più venuto a scuola. Matteo stava andando a casa sua. Dai capannoni industriali pipava lento il fumo, che abbracciava il basso e pallido cielo autunnale, i camion, con le loro ruote enormi, scorrevano numerosi lungo la tangenziale. Dove c’erano le vecchie gru ora spuntavano palazzine e case a schiera, mentre nuove gru s’innalzavano verso il cielo. Il paese si era trasformato. Arrivò alle quattro palazzine dove abitava Tamba. Nella piattaforma una dozzina, tra uomini e ragazzi, negri e marocchini, stavano giocando a calcio, avevano messo delle maglie o dei giubbotti per terra al posto dei pali della porta. Con uno sguardo fugace, Matteo cercò tra i giocatori Amadou. Ma lui non c’era. Più in là, alcuni bambini giocavano a rincorrersi, ruzzolavano per terra, si faceva i dispetti e frignavano, sotto l’occhio vigile di una giovane donna negra, fasciata da un abito cangiante. Senza farsi troppo notare, Matteo raggiunse la porta d’ingresso della palazzina di Tamba. Nutriva ancora un profondo disagio in quel quartiere, anche se ci era stato diverse volte. Suonò al camlo. Gli uomini rumoreggiavano mentre giocavano a calcio. Un marocchino aveva alzato la voce e le braccia. Niente, il portone non si apriva. Matteo risuonò il camlo. Sentì delle tapparelle alzarsì e levò lo sguardo in direzione di queste, che si fermarono a metà. Qualcuno stava girando la maniglia della finestra dell’appartamento di Tamba. La finestra si aprì e fece capolino la faccia smunta di una donna negra. Disse qualcosa, ma Matteo non capì, ebbe un momento di esitazione e si guardò a destra. Un negro aveva smesso di giocare a calcio e veniva verso di lui. “C’è Tamba?” chiese alla donna “No, non c’è.” ... “...Quando torna?” “Chi sei tu?” “Un suo amico di scuola.” Matteo abbassò lo sguardo, poi diede un’occhiata ancora a destra. Il negro era

sempre più vicino e lo guardava. Portava dei jeans scuri, stretti in vita da una cintura beige, sporchi di terra ed erba all’altezza delle ginocchia. Il suo fisico gladiatorio era esaltato da una maglietta a maniche corte, visibilmente bagnata di sudore “...Tamba non è venire a scuola?” disse la donna negra “Sono due giorni che non viene a scuola. Volevo portargli i compiti.” “Sale!” La donna richiuse la finestra. In quel momento il negro lo sorò; Matteo gli fece un cenno con la testa e un mezzo sorriso, come per salutarlo. Aveva la fronte imperlinata di sudore, che gli scendeva dietro le orecchie e lungo il collo tarchiato. Un paio di istanti dopo la porta da basso si aprì con uno scatto, clang. Matteo salì velocemente le scale; c’era il solito cattivo odore nell’aria. Sui primi scalini del pianerottolo al primo piano, tre negri erano seduti l’uno accanto all’altro. Di là, non si ava. Stavano tutti e tre fumando e tracannando birra. Avevano le palpebre gonfie e gli occhi lucidi. Quando Matteo giunse sul pianerottolo, uno dei tre gli disse qualcosa che lui non capi, mostrandogli la dentatura, gialla e irregolare, e ciondolando con la testa. Matteo avvertì un tuffo al cuore e un’intuizione fulminea squarciò la sua memoria, delineandosi un corridoio in essa; il ragazzo abbassò lo sguardo e scavalcò le loro gambe, salendo con calma i gradini successivi, per evitare di mostrare la paura che aveva addosso. Di lasciarne l’odore, come ai cani. Una porta si aprì alle sue spalle, sgretolando come sabbia la tensione. NDÈ VIA A BERE, SCHIFOSI. Si girò; era la solita vecchia. Quella si accorse della sua presenza. ‘NCORA TI! TE PIASE STAR QUA? SE TE VOI TE DO EL ME POSTO... LI BEVE FIN A ESSERE IMBRIAGHI CIUCHI E DOPO LI PISA SULLE SCALE, I ZE COME GLI ANIMAI. NO, GLI ANIMAI I ZE MEIO. GLI ANIMAI I ZE COME I CRISTIANI. Matteo risalì velocemente le scale. I tre negri ridevano ed insultavano la vecchia,che a sua volta aveva ancora il coraggio di maledirli. La porta dell’appartamento di Tamba era aperta. La donna negra lo aspettava dentro. Portava un paio di jeans e una camicia a fiori, sbiadita, con un gilet blu scuro, sopra. Teneva collane colorate e strane, e alle dita qualche anello. Stava fumando una sigaretta. Per pura coincidenza Diana anche lei, come il nonno. Se la portò alle labbra, nere e morbide.

“Viene.” “Permesso.” Il breve corridoio era in penombra. Le porte delle altre stanze ermeticamente chiuse. “Io sono mamma di Tamba.” disse. Matteo entrò in cucina. “Siede pure.” gli disse la donna, porgendogli una sedia e facendone stridere i piedini sul pavimento. Poi, si strofinò le mani, andò al congelatore e lo aprì. Matteo guardò le fotografie di Tamba e suo fratello attaccate al congelatore. Gli fecero male e staccò subito lo sguardo. La donna tirò fuori una bottiglia di Ben Cola. La posò sul tavolo, poi raccattò due bicchieri di plastica da un mobiletto scollato. Versò la Ben Cola su uno dei due bicchieri di plastica e lo avvicinò a Matteo. “Non ascolta mai me, mio figlio.” Matteo bevve un sorso e poi riposò il bicchiere. La Ben Cola è troppo dolce e le bollicine non si sentono neanche. La Ben Cola la vendono al Prix. La madre di Tamba si accese un’altra sigaretta. Aveva mani affusolate, dita lunghe e le unghie smaltate di color vinaccia. Gesticolava molto mentre parlava e le sue mani, tracciavano per aria cerchi e linee sinuose. Aveva gli occhi grandi come suo figlio, ma appesantiti dalle piccole rughe che si erano formate attorno. Tamba aveva detto che era nata in un villaggio e quell’aria indomabile, indigena dopo tutti quegli anni trapelava ancora. “Non si comportare male mio figlio a scuola, vero?” “...No signora.” “Io conosco molto bene mio figlio. Quando suo fratello non c’è più, è diventato nervoso. Era suo esempio capisci. Era capofamiglia per noi dopo che mio marito morto.” La donna versò la Ben Cola anche nell’altro bicchiere. “Mio figlio Fode è scomparso e nessuno sa di niente. Qui nessuno dice verità. Qui nessuno può di denunciare, perché morto. Immigrati si uccidono per droga o bevuto una sera, capisci? Tamba non acetta questa cosa. Lui non può vedere noi stare così. Lui ragazzo pulito.”

“...Mi spiace.” “Mio figlio Fode aveva sbagliato, io diceva sempre non fare così. Lui credeva giusto fare così solo perché arrabiato. Lui invece doveva studiare. Era bravo di studiare Fode. Era tanto inteligente, doveva andare in America. Io ho sempre detto di smettere, e lui ultime volte aveva deciso sì. Sono sicura... Non voglio che Tamba diventare come suo fratello. Tu, che sei suo amico, devi dire.” “...Glielo dirò, signora. Anche Tamba è intelligente. Io cercherò qualcuno che vi possa aiutare.” “...Mmh. NESSUNO HA MAI FATTO DI NIENTE. VEDE COME VIVIAMO, COSÌ, MA NESSUNO CI AIUTA “....” “...Scusa per sfogo. Tu ha buon cuore, io sento.” “Non si preoccupi. La aiuterò io.” La donna guardò la fotografia con i suoi figli, appiccicata al congelatore. La rabbia le deformò il viso e i suo occhi s’accesero di una luce violenta. “Siamo scappati di nostro paese per guera e adesso siamo delinquenti in vostro paese. Non abbiamo più una casa, una tera. Siamo stranieri dapertuto. Io pensavo che anche fuori di nostro paese noi non siamo stranieri, invece non è così.” “Ma che lavoro fa, signora?” “Lavoro in casa di padrone di questa palazzina, quando sa che io brava cucinare. Io cucino, lavo, accudire bambini. Il più piccolo ha cinque anni. Lui è furbo, attento. Io chiamo lui come dice qui... lazzarone.” “Sì, lazzarone.” “Lui vuole molto bene me. Lui cerca sempre me. Chiama mio nome. Io come mamma, lui una volta dice me che io come sua mamma.” “....”

“Tu sei un bravo ragazzo. Io capisce. Ogni persona in proprio destino riceve un regalo. Tamba riceve tua amicizia.” A Matteo gli si riempì il cuore. Si sentì importante per Tamba, per sua mamma, per i negri, per gli immigrati di quella palazzina, per tutti gli extracomunitari e i deboli. La madre di Tamba si alzò in piedi e si ò le mani sulle cosce. Sembrava stanca. Gli occhi, prima guizzanti e vivi, ora parevano grevi e gonfi, un velo di disperazione ed ansia li offuscava. Matteo si alzò. La donna fece per andare verso la porta d’ingresso e Matteo capì che doveva andarsene e le ò davanti. “Se Tamba torna le dica che sono ato.” disse Matteo “Va bene.” Quando si voltò per salutarla, le vide ancora gli occhi neri, annacquati, rivolti verso terra, e vide il viso molle di una donna anziana. Si salutarono in maniera sbrigativa, ma lui avrebbe voluto che non fosse stato così. Con un gesto della mano, la donna negra lo incitò ad uscire e, senza più guardarlo, appoggiò la porta dolcemente allo stipite e con colpo deciso, chiuse. Appena sul pianerottolo, Matteo si ritrovò avvolto dalla penombra. Il silenzio solenne dell’edificio, gli portò subito alla mente i tre negri che stavano sulle scale. Dei brividi agghiaccianti lo percossero e Matteo non riuscì più a muovere un o. Ma doveva. Scese la rampa affannosamente e arrivò al portone d’ingresso. Cercò l’interruttore, lo premette, clang. Afferrò la maniglia, quando improvvisamente una voce da dietro lo chiamò. Era vicina. Diceva cose che lui non capiva, in una lingua sconosciuta, ma era chiaro che si stava rivolgendo a lui. Si voltò e sulle scale ci stava uno dei tre negri che prima stavano sul pianerottolo. Barcollava scendendo i gradini, gli occhi gialli gli si chiudevano e respirava rumorosamente dalla bocca. Matteo gli fece cenni con le mani e con la testa. Non capiamo, noi non capiamo. Aprì la porta, uscì, senza guardare indietro la chiuse, salì in sella alla sua mountain bike, pedalando, con il cuore in gola, nella stretta maglia della nebbia, che si allargava ovunque. 4.

Il cancello elettrico cominciò ad aprirsi, preceduto dal suo scattino caratteristico, una frazione di secondo, dopo che il lampeggiante arancione aveva cominciato a pulsare. L’auto arrivò dolcemente dentro la nebbia e si arrestò davanti al cancello che si stava aprendo. L’uomo al volante stava pensando a quel casino del Bomba Latina, delle troie, e che bisognava in fretta mettere a tacere la stampa perché non venisse scoperchiato anche l’affare delle quattro palazzine e tutto il resto. Scese dall’auto ed imprecò ad alta voce, un cassonetto dell’immondizia era stato messo di traverso davanti al cancello. Ci avrebbe pensato lui alle pene da far scontare a quei ragazzi che si divertono a fare i teppistelli. Continuando a bestemmiare, urtò il cassonetto fino a toglierlo di mezzo. Ragazzi rammolliti, altro che ribelli e giù di lì, manco se le sognano le vere rivoluzione, quelle che si facevano quando era giovane lui. Già lavorava a sedici anni. Un lampo e l’uomo s’accasciò sul cassonetto come un sacco di farina. I ripetuti colpi che riceveva scuotevano il suo corpo addossato al bidone, mentre con le braccia cercava di aggrapparvisi vanamente per tenersi in piedi. L’uomo sentiva male dappertutto e ad ogni pedata, alla schiena e ai fianchi, le sue braccia cedevano, scivolando in basso, finché non si inginocchiò e chiuse gli occhi. I colpi non sembravano cessare più. L’uomo crollò su un fianco. Cercò di voltarsi per guardare, ma non ne fu capace. Sentiva solamente la voce dell’aggressore, gli insulti, il suo accento straniero e i ripetuti colpi. Sua moglie lo trovò in strada che si lamentava e mugolava il suo nome. Era ferito e teneva ancora gli occhi chiusi. 5. Tamba aveva detto che non aveva tanta paura di morire. Mavvà! Tutti hanno paura di morire. Io muore e poi non sa più, aveva detto. Matteo non avrebbe mai potuto immaginare di pensare alla morte in modo così eroico. È che non poteva fare altrimenti, lui doveva in qualche maniera aiutarli. L’aveva promesso alla madre di Tamba. Non che non avesse paura, tutt’altro, ma aveva anche coraggio. Nessuno ha di coragio, coragio è come perdono, c’è solo paura, aveva detto Tamba. Da dove allora, fosse venuta tutta quella forza d’animo, non riusciva proprio a spiegarselo. Lui la chiamava coraggio. Alla fine le cose si sistemano. Sarebbe diventato un uomo e sarebbe ato tutto.

Macinando in fretta centinaia di metri sotto i pedali, arrivò al distributore dell’Agip. Era ancora indeciso sul come agire; conosceva esclusivamente il suo scopo. Le tre lucciole erano al solito posto. Si scambiavano qualche battuta, ammiccavano in direzione delle automobili che avano o semplicemente aspettavano con le braccia conserte. Matteo rimase a spiarle, dove avevano lasciato le biciclette la prima volta lui e Tamba. Le automobili che percorrevano la tangenziale, quando gli sfrecciavano di fianco lo accecavano, lo raggelavano e le sferzate d’aria, violente come ceffoni, gli muovevano dubbi e vergogne. Ad un tratto un’automobile si fermò vicino ad una delle tre lucciole, quella bianca, con i capelli castani, che stava più affacciata sulla strada rispetto alle altre. La ragazza si piegò sul finestrino dell’auto. Era il momento. Matteo corse verso le due lucciole rimaste libere, la negra e quella di colore di nome Djeneba. Il cuore gli era salito in bocca, insieme ad un gusto ripugnante, e la saliva gli legava la lingua. Mandò giù, ma il gusto gli rimase lo stesso nel palato. Le due lucciole si accorsero della sua presenza. Non avrebbe più potuto tornare indietro giunto a quel punto. Quando fu loro davanti, Matteo non seppe quasi più cosa dire. Guardava Djeneba e sentiva lo stomaco in subbuglio, la lingua nuovamente legata dalla saliva e l’ordine delle parole che aveva in mente confondersi e scambiarsi. Non c’era niente di male in quello che voleva fare. “Cosa vuole tu ancora?! Non c’è tuo amico oggi?” disse la negra “Posso parlare con lei... È importante.” Le due lucciole si guardarono perplesse. “Ho i soldi.” Matteo tirò fuori dalla tasca cinque euro accartocciati e qualche spicciolo di rame. Era tutto quello che aveva. Li aveva tenuti ben stretti in tasca, per tutto il tragitto, come la cosa più preziosa del mondo. La negra rise smodatamente “Solo quelli?!” “....” “Viene.” disse improvvisamente Djeneba “Poco tempo però.”

La lucciola s’incamminò verso la casetta del benzinaio. Matteo la seguì. Aveva gambe snelle e il culo piccolo, la schiena delicata e sottile. Finché la guardava in quei vestiti inadatti alla sua età, procedere con un po’ di goffaggine sui tacchi alti delle scarpe, Matteo provò molta pena per lei. Si sistemarono sull’erba, dietro la casetta del benzinaio. Si stava parecchio scomodi. Lei fece molta attenzione a come si sedette, a non sporcarsi la minigonna. Furono faccia a faccia. “Tu dice?” disse Matteo procedette d’istinto. “...Perché fai questo lavoro?” “Perché sì.” “Ma non devi andare a scuola?” “Io deve lavorare.” “...Io ti posso aiutare se vuoi. Tu puoi ritornare a scuola come tutti quelli che hanno la tua età.” “....” “Non devi più fare questo lavoro.” “....” “....” “È impossibile. Io non posso andare a scuola. Come fare? Io deve fare questo lavoro.” Matteo posò lo sguardo a terra. Non gli ava nessuna frase per la testa per ribattere. Vuoto. Si sentiva confuso, non sapeva più che fare. Andare via, parlarle ancora? Non sarebbe cambiato niente, lei sembrava cocciuta. Gli stava davanti a pochi centimetri e poteva sentire il suo alito, che sapeva di sigaretta, e il suo profumo, dolce, che si mischiavano, mentre di sottecchi

guardava le sue cosce nere, sode e scoperte, che si incontravano laddove la minigonna, nascondeva appena quello che c’era sotto. Fu senza pensarci, che il ragazzo le prese la mano e se la portò sul suo coso. Lei lo guardò spaurita e la ritrasse. Allora lui si vergognò a morte e ributtò lo sguardo a terra. Fu in quello stato d’animo, dopo un paio d’attimi di panico, che sentì le dita di lei sbottonargli la patta dei pantaloni e la sua mano, per intero, infilarsi bruscamente dentro e abbassargli l’elastico delle mutande. La sua testa era pesante e non riusciva a pensare a niente. Provò una strana sensazione, di gioia e paura assieme, che qualcuno che non fosse stato lui avesse potuto così deliberatamente toccare il suo pisello. La fermò. “Ti fare male?” disse lei “...No no, non voglio” “Allora cosa vuole?” “Voglio sapere dov’è Tamba, il mio amico, tu l’hai visto?” “No.” “Cosa sai di lui? Cosa vi siete detti quella sera che siamo venuti a casa tua?” “… Io non so di nulla.” “Ti prego….” “… Basta! Io non so niente, io non conosco.” La ragazza si alzò in piedi e sbrigativamente si riaggiustò la gonna. Matteo non riuscì a dire altro che un paio di ma, ma. Lei rimase in piedi davanti a lui, come in attesa di qualcosa, allora Matteo si ricordò quel che doveva fare; tirò fuori dalla tasca i cinque euro e gli spiccioli che aveva e glieli porse. La ragazza li prese e li mise nella borsetta. Ciao, disse, e svoltò l’angolo della casetta del benzinaio. Matteo restò una manciata di secondi seduto, stordito dall’inspiegabilità di tutto quello che stava succedendo, che mai e poi mai avrebbe previsto solo un paio di mesi prima.

Poi di scatto si alzò in piedi, svoltò l’angolo della casetta. “Aspetta.” Djeneba era china sul finestrino di un’automobile, vicino alla pompa della benzina. Intravide l’uomo seduto al volante. Matteo provò indefinito disgusto e vergogna, per se stesso, per la ragazza e per quell’uomo al volante; quel sentimento lo accompagnò per tutto il tragitto di ritorno, senza che fosse mai stato in grado di espellerlo dal proprio cuore. Arrivò dove aveva lasciato la bicicletta. L’automobile era ancora lì. I lampioni, lungo la tangenziale, disegnavano cerchi sull’asfalto, inumidito dalla condensa. La luce dei fari della macchine che avano, sbattevano sul vetro scuro della casetta del benzinaio. La stazione dell’Agip era avvolta dalla nebbia, che confondeva le lucciole appostate vicino alla strada, per adescare i clienti. Djeneba, adesso, era la più vicina alla carreggiata; l’automobile era ripartita. Faceva un freddo cane. Con le mani, quella ragazzina nera, si stringeva il giubbino al petto, e le gambe scoperte, attraversate dall’aria gelida, sembravano essersi pietrificate. Vedendola così, gli sembrò solo stupida e falsa. 6. “Alessi Marco.” “Presente.” “Battaglin Valeria.” “Presente.” “Binga Tamba.” ... “Tamba?!” NON C’È “Ma non doveva ritornare a scuola oggi. Era terminato, mi sembra, il periodo di sospensione. Qualcuno sa qualcosa?”

NO NO PROF MATTEO È SUO AMICO. CHIEDA A LUI! “Matteo sai qualcosa?” Il ragazzo alzò gli occhi sulla prof di lettere; aveva uno sguardo inquisitore, come se qualcuno avesse fatto una soffiata, come se fosse un affare ormai pubblico la loro amicizia. “...No.” rispose Matteo, come se lui e Tamba non fossero amici per niente. La classe intera lo guardò di sbieco. Devi dirci qualcosa? La prof ripiegò il capo sul registro. “Boschiero Andrea.” “Presente.” Al termine dell’appello, la prof si portò sulle gambe la borsa. Sfilò il giornale e lo appoggiò sulla cattedra. Allora disse; “Avete sentito di quel che è successo ieri sera?!” COSA? IO SI’. MA HO SENTITO CHE È ALL’OSPEDALE SOLO PER ACCERTAMENTI. “Sua moglie era una mia compagna di liceo.” MARCELLO MI HA DETTO CHE È STATO UN EXTRACOMUNITARIO “Marcello è suo figlio?” ANCH’IO L’HO VISTO IN AUTOBUS STAMATTINA. ERA MOLTO ARRABBIATO. “Posso immaginare.”

SE FOSSE SUCCESSO A MIO PADRE, GUARDA… “Calma ragazzi, calma.” Matteo era frastornato, non ci capiva niente. Si voltò verso Melissa. Quella si allungò verso di lui e gli disse “Non sai niente?” Matteo scosse la testa. “No.” Nel frattempo la prof aveva sfogliato le prime pagine de Il Gazzettino, poi s’era delicatamente posata gli occhiali sul naso ed aveva cominciato a leggere, soffocando il brusio generale della classe. È stato aggredito da un malvivente, ieri sera di rientro da lavoro, l’imprenditore edile Giacomo Girardi. La moglie, che lo ha trovato accasciato ad un cassonetto della spazzatura, si dice sconvolta e chiama in causa le autorità a maggior impegno per la sicurezza dei cittadini... I sospetti ricadono su un extracomunitario. “Non aveva un accento locale”, afferma Girardi, nonostante non abbia visto in faccia il suo aggressore... l’assessore Farronato, amico dell’imprenditore è stato intervistato stamattina fuori dall’ospedale... fa riferimento agli immigrati che spesso si consolidano con la piccola criminalità locale, anche se quest’ultima nettamente in calo... non si vogliono integrare, arrivano in Italia illegalmente e considerata l’elasticità della nostra politica nei loro riguardi... stanno rovinando il nostro paese, dice Liliana Rigo, una vicina di casa, l’imprenditore Girardi era un uomo per bene. Terminato di leggere la prof ripiegò il giornale e lo ripose sulla cattedra. Muoveva la bocca come se qualcosa gli prudesse le labbra. Lo faceva sempre, quando aveva qualcosa di importante da dire. “Cosa ne pensate ragazzi?” La classe rimase in silenzio. I ragazzi si guardarono l’un l’altro, qualcuno abbassò lo sguardo sul libro; alla fine alcuni commenti, uscirono tentennanti dalle bocche dei soliti. “Secondo te, Melissa, è un articolo fatto bene?” insistette la prof “Sì.” “Cosa dice?” “Dice che il signor Girardi è stato aggredito da un extracomunitario, e che il problema degli extracomunitari sta diventando un pericolo per tutti.”

“Chi sono gli extracomunitari, Melissa?” “Tipo i marocchini, gli albanesi....” “Un americano è un extracomunitario?” Melissa si guardò intorno attonita “...S-sì.” “Perché?” “Perché un americano... Perché un americano non è un cittadino... Non è un cittadino della comunità europea.” “Ma vallo a dire extracomunitario a Bush!” “Prof, alla fine cosa importa, il problema è che il signor Girardi è stato aggredito da un extracomunitario.” intervenne Massimiliano “Massimiliano, secondo te è più importante sapere che il signor Girardi è stato aggredito oppure chi ha aggredito il signor Girardi.” “Che è stato aggredito.” rispose il ragazzo “Appunto. Ragazzi, io non voglio giustificare certo l’attentatore, ma in questo articolo il dito è puntato su un presunto immigrato, poiché non è stato ancora del tutto provato, e di rimando sul problema immigrazione. La nazionalità è l’ingrediente principale, quando invece lo dovrebbe essere la violenza.” “Ma prof, è normale.” ribatté Massimiliano “si dice sempre il colpevole di un reato!” “È normale sì, ma non è normale mettere i puntini sulla provenienza di un criminale, a tal punto da sovrapporla al crimine stesso. Al solo fine di spaventare la gente o di aizzarla. Dobbiamo combattere la criminalità, mica l’immigrazione.” “Secondo me è normale.” Matteo era confuso, non sapeva che pensare. Una volta avrebbe detto che chi trasgredisce la legge deve essere punito. Adesso gli sembrava tutto così

complicato. Troppi intrecci, troppe sfumature. Certo che la prof, la prof parlava, ma alla fine cosa aveva risolto? Dice che siamo tutti uguali e abbiamo tutti gli stessi diritti, ma continua comunque, così facendo, a trattarli per diversi. Una soluzione pratica è quello che ci vuole. A malincuore, perché il confronto pratico in tutto quel tempo l’aveva sempre evitato, comprese che l’azione era l’unica strada per il cambiamento. 7. Tamba non era più venuto a scuola. La faccenda iniziava a complicarsi. Matteo un pomeriggio andò dove abitava per avere notizie da sua madre. Fece molta attenzione a non farsi vedere da nessuno e si fermò più di una volta lungo il tragitto. Quando arrivò nel quartiere di via Quadri, lo trovò, seduto sulla panchina vicino alla piattaforma di cemento con un negro e un ragazzino mulatto con i capelli rasta. Fu felice di rivederlo, felice come non mai; mollò la bicicletta per terra e correndo gli andò incontro. Tamba aveva un’espressione strana. Sembrava cambiato; i capelli gli erano cresciuti un po’, puzzava più di prima, ma non era per quello. Lo aveva guardato con sufficienza. “Come stai?” “Bene.” Matteo si sentì fortemente a disagio e probabilmente lo dava a vedere. Quella recente sensazione di sentirsi estraneo a lui, in quel momento parve amplificarsi. “Lui è Achak.” disse Tamba, presentando il negro alle sue spalle. Un sussulto, poi un fremito che lo scosse da capo a piedi ed infine un’esitazione un po’ troppo lunga prima di tendere la mano per stringerla al negro. Lo riconobbe. Achak era l’assassino. Era l’assassino del fratello di Tamba. Achak, l’amico.

Matteo rimase un paio di secondi totalmente disorientato, lo sguardo vacuo, la testa satura di impulsi d’ogni genere che gli avevano mandato il cervello in corto circuito. Quasi perdette l’equilibrio. “Stare bene?” gli chiese Tamba Il ragazzo bofonchiò qualcosa, il negro lo guardava incuriosito. Nonostante i baffi e la calvizia, da vicino dimostrava di essere più giovane di quello che appariva. I suoi occhi scuri erano gioviali e fanciulleschi. Non può essere un assassino, pensò Matteo, non può essere, ci stiamo sbagliando. Trattenne il fiato. Voleva scappare, ma non riusciva a muovere un solo o; era come impietrito. Il ragazzino mulatto, d’un tratto, sollevò il sedere e piegandosi a destra scoreggiò rumorosamente. Rise. Aveva gli occhi rossi e annacquati, si coprì la faccia con le mani. Erano rovinate da troppe cicatrici. Poi, si fece dare una sigaretta dal negro e se l’accese. Matteo assisteva alla scena, indeciso sul da farsi, completamente impotente sull’evolversi della situazione. Ad un certo punto il ragazzino mulatto disse che voleva giocare a calcio. Avevano le squadre già fatte. Tamba e Matteo contro Achak e lui. Il ragazzino lo chiamavano Ronaldhino. Il negro e Ronaldhino non si avano mai il pallone e correvano poco. Ronaldhino partiva dalla difesa e si avventurava in un estenuante tentativo di dribbling, alla fine perdeva il pallone e si beccava gli insulti del suo compagno di squadra. Era tutto sudato, sudava dai capelli e da dietro le orecchie e puzzava come un cane. Dopo un contrasto con Tamba si lasciò cadere sul cemento e ci rimase rantolante, finché Achak per scherzo, non gli tirò una pallonata addosso. Tamba segnò due goal, poi su un aggio a mezz’altezza di Matteo, si coordinò per tirare al volo, ma calciò la palla malamente, spedendola più in là della prima palazzina. “Merda! Che cazzo di piede hai?!” esclamò il negro, poi si rivolse a Ronaldhino e gli parlò nella loro lingua. Si scambiarono qualche battuta. Alla fine Ronaldhino andò a recuperare il pallone. “Andiamo su in monte?” disse improvvisamente Tamba a Matteo, prendendolo in parte. Matteo fu sollevato all’idea che se ne sarebbero andati da là. “Aspetta qua. Vado a prendere una cosa che devo mostrare.”

Cercò di trattenerlo, ma alla fine rimase da solo con Achak. Ogni tanto lo guardava di sottecchi, a debita distanza; era curvo, affaticato, sembrava pensoso; improvvisamente si girò versò di lui, tu piace qui? Esclamò sorridendo. Andò a sedersi sulla panchina. Matteo non lo fece, piuttosto guardò sotto i suoi piedi. C’era della stagnola bruciata e qualcosa un po’ più in là, che non si vedeva bene. Il negro lo guardava, a tratti incuriosito, a tratti perplesso, a volte scrutandolo a fondo, come se avesse carpito qualcosa. Lo aveva riconosciuto?! Si accarezzava i baffi con le dita e lo fissava, ma poi il suo sguardo feroce allentava la morsa, da quelli di spietato assassino diventavano gli occhi di un uomo mite e normale (simpatico avrebbe detto). Matteo non osò aprir bocca, ne muovere un dito. Rimase in quei minuti eterni, i più lunghi della sua vita, come in apnea. Tamba tornò con una bicicletta e, dopo aver salutato il negro e Ronaldhino, che stravaccati sulla panchina scherzavano tirandosi addosso il pallone, lui e Matteo lasciarono il quartiere. Ma non lavora Achak? Aveva trovato un lavoro, ma era troppo da negri. Poi lui lavora con cervello. E Amadou dov’è? Ha fermato polizia. Aveva permesso di soggiorno scaduto. E adesso? Boh. Lo metteranno in prigione?! Nooo! Non succede niente lui. Polizia italiana non è forte. ... ... Sei stato tu a fare quello che è successo? ... Al padre di Marcello?

Io non pensavo che tu volessi fare così. Non è giusto. Giusto sarebbe se ci fosse mio fratello e mio padre e Paul e fossimo tutti in nostro paese ... Ma non puoi tornare indietro. Non può pensare così. Devi guardare avanti. Di avanti non c’è niente, c’è solo dietro e qui. Così è vita. Io avanti cercare il giusto, ma giusto non c’è più e altri non sanno. Ma gli altri non hanno colpa se tuo padre e tuo fratello non sono qui. E chi è colpa? ... TU STAI DALLA PARTE DI PADRE DI MARCELLO DOPO CHE LORO TRATTARE ME COSÌ?! No, io sono dalla tua parte, ma con la vendetta farai peggio. Cosa deve? Parlare?! Parlare non porta a niente. ...Ma se non hai neanche provato a farlo Sembra mia mamma... e prete! ... ... ... Mi piace un sacco vedere le luci dei lampioni e delle automobili e delle case, con il buio. ... Anche se mi fa stare un po’ male. Un po’ male qui. Anche andare in auto con il buio mi fa la stessa cosa. Io ho viaggiato in aereo di notte per venire in Parigi e vedere tutto nero fuori e anche me ha fatto un po’ male qui. Qui in pancia.

... Tu sei mai stato in nave? No. Mai. Io voglio andare in nave Questa estate andiamo in nave? Wauuu. Eddove? In vacanza Si. Ma dove? Corfù Eddové Corfù? È isola in Grecia, ma sopra, vicino di Albania. Andare mia madre e mio padre una volta Sarebbe bello andare con una piccola barca. Tipo quella dei pescatori. Facciamo bianca e blu, con tanta gente sopra, che non conosciamo. ... Sarebbe molto avventuroso. Facciamo che partiamo di notte, con una piccola barca. ... E nessuno saprà che siamo partiti. Sarà un viaggio segreto ... Non avremo tanto da mangiare e condivideremo tutto. E il mare sarà nero e sarà notte, con poche stelle, e sentiremo un po’ di male qui. In fondo alla pancia. ... ... Ah! Cos’è che dovevi mostrarmi?

Niente. Dire prossima volta.

8. Un sabato sera, appena usciti da messa, Vincenzo propose a Matteo di andare a bersi una coca cola. Vincenzo disse che voleva andare in salagiochi, per fare una partitina a Tekken. Matteo gli disse che potevano andare in un bar che avevano aperto da poco, dove c’era anche quel videogioco, piuttosto che in salagiochi. Vincenzo insistette un po’, ma alla fine dovette cedere. Almeno in quel bar non c’era il rischio che Marcello e gli altri venissero a dargli fastidio, pensava Matteo. Tamba non era più venuto a scuola. Adesso che non ava più tutto il tempo insieme a lui, gli sembrava che fosse tornato tutto come prima. Quando era da solo si sentiva nuovamente vulnerabile, come se le persone avessero potuto capire, al solo guardarlo, il suo punto più debole e segretto. A rincuorarlo, c’era solo il pensiero costante, che l’estate prossima lui e Tamba avrebbero fatto quella vacanza a Corfù. Era una speranza che gli accendeva una fiamma dentro, ma così labile da baluginare nel sospetto, angosciante, che sarebbe rimasta solamente una vana speranza. Vincenzo voleva il doppio a Tekken, ma Matteo si rifiutò. Rimase piuttosto a guardarlo giocare, sperando finisse al più presto. Maledetta sua madre che insisteva perché uscissero insieme. Poco più tardi, quando nel bar entrò la Jenny, ebbe un fremito. “Ciao.” gli disse, civettuola “Come stai?” “...Bene.”. Matteo la guardò, mentre andava a sedersi. Era insieme ai soliti ragazzi, che lo squadrarono sempre nel solito modo. La Jenny si era imbruttita rispetto all’ultima volta che l’aveva vista. “Toh! Maledet.” Vincenzo si dimenava sopra lo sgabello, come se fosse stato lui a battersi al posto del personaggio. Da invasato, picchiava violentemente i tasti “Non funzionanooo!? Eddaiii!”

Matteo si vergognava da morire, poi, l’arrivo della Jenny lo aveva preso in contropiede. “Io devo andare Vincenzo.” Improvvisamente, gli scappava anche da pisciare, ma voleva farla a casa. Strinse forte le gambe, per soffocare un po’ la vescica che gli stava scoppiando La porta della salagiochi si aprì nuovamente. “Guarda che io vado Vincenzo.” EHI FROCETTO, DOVE VAI? Era Marcello. La Pantegana, che lo precedeva, si sedette subito sullo sgabello di fianco a Vincenzo. “Dammi due gettoni.” “Poi me li ripaghi, però.” “Dammi.” La Pantegana prese i due gettoni avanzati da Vincenzo e lì inserì dalla sua parte. “Adesso ti do una ratta di botte.” detto questo, la Pantegana mollò un bel rutto nelle orecchie di Vincenzo. “Frocetto, come stai?” disse a voce alta Marcello, rivolgendosi a Matteo. Lo prese sottocollo “Cosa ci fate voi sfigati qua?” La Pantegana le stava prendendo da Vincenzo, così cominciò ad importunarlo premendo anche i suoi tasti. “Stai fermo. Eddai! Smettila.” piagnucolava Vincenzo. Marcello si girò verso di lui. Afferrò con le mani lo sgabello, dove Vincenzo stava seduto, e di colpo lo tirò verso se stesso e anche Vincenzo venne verso di lui, rischiando di cappottarsi. “BASTARDO, HO VINTO.” gridò trionfante la Pantegana. “Adesso mi paghi i gettoni.” si lamentò Vincenzo. La Pantegana gli mollò un altro rutto nelle orecchie, poi disse di NO ruttando e STRONZO ruttando. “Che cazzo hai?” gli fece Marcello ridendo “È tutta la birra che ho bevuto prima.” e ruttò ancora La Pantegana era ubriaco. Aveva gli occhi rossi; si diceva in giro che prendesse le pasticche di ecstasy in discoteca e che fe parte di quelli di Forza Nuova. Una ragazza carina si avvicinò alla Pantegana e lo baciò sulla guancia. Noi non abbiamo mai avuto nessuna ragazza. Marcello cominciò a ridere. Matteo non riusciva a muoversi e non parlava. Era tutto come una volta. Tutto uguale. Non è cambiato niente. Non cambierà mai niente. Le persone non ti danno la possibilità di cambiare, perché a loro fa comodo così. Il cambiamento fa paura, poiché inverte l’origine delle cose. La

diversità fa paura, perché minaccia un cambiamento. Allora è meglio che siamo tutti uguali e che quelli diversi vengano scartati. E noi siamo uno scarto. Un gruppo di ragazzi amici di Marcello e della Pantegana facevano baccano al primo tavolino, dove era seduta anche la Jenny. “Hai un sigaretta?” fece Marcello a Matteo. Matteo non rispose. Marcello gli premette la faccia con le mani, poi gli dette qualche pacca sulla mascella. Matteo si divincolò dalla sua presa, allontanandolo. Alla fine, Marcello andò a sedersi di fianco alla Jenny. La Pantegana prese per i fianchi la ragazza carina e gli palpò il sedere. Lei si scostò ridendo, poi lo abbracciò e gli schioccò un bacio in bocca. Quando Marcello e la Pantegana non lo badarono più, Matteo, senza pensare a Vincenzo, uscì dal bar, raggiunse la sua cara mountain bike, con la gola che gli e lo stomaco sottosopra, non era cambiato niente, sarebbe stato sempre così, e finché pedalava verso casa, sebbene cercasse di trattenerle, molte lacrime di rabbia gli rigarono il viso accaldato. 9. “Corriere del Veneto” Secondo i carabinieri l’imprenditore Girardi è coinvolto nel caso Bomba Latina. “Il Gazzettino” Messe sotto indagine le quattro palazzine di via Quadri, abitate tutte da extracomunitari. Si trovavano in condizioni fatiscenti, l’imprenditore Girardi dovrà anche rispondere di accuse di speculazione edilizia. "Rete Veneta" L’assessore Farronato, accusato di corruzione e favoreggiamento della prostituzione. “Se non sei un codardo verrai da solo. P.S. Non dire niente a nessuno, è una questione solo nostra. Matteo” Erano quasi le cinque di pomeriggio, Marcello saliva il monte Torta con una pila in tasca. C’era silenzio e l’oscurità s’insinuava nello scheletro del bosco, come la paura nella mente del ragazzo.

Si fermò al cerchio dei cipressi, come riferito dal bigliettino. Niente si muoveva ed era buio quasi del tutto. Marcello cercava di non pensarci; aveva sempre avuto paura del buio, ma le sue paure, lui era abituato a spaventarle. Un rumore lo colse alle spalle. Un rumore simile ad un fruscio. Si voltò. Il prato era immobile. Si era mosso qualcosa nell’erba, magari semplicemente una lucertola o una biscia. Un alito di vento gelido gli carezzò le guance asciutte. Sul filo del vento, l’erba s’era distesa come un’onda sul bagnasciuga e poi per un contro colpo s’era raddrizzata, e ancheggiava ancora in direzione opposta. In cielo, la luna era quasi del tutto coperta. Marcello guardò di nuovo il prato. Immobile. Una massa scura. Uniforme. Cavò dalla tasca del giubbotto la pila. L’accese. Un fascio di luce fendette l’oscurità, rivelando il prato sotto l’involucro della notte. “TI HO VISTO.” urlò “TI HO VISTO, VIENI FUORI.” urlò nuovamente, illuminando là, poi più su, poi più su ancora. Spense la torcia. Di nuovo buio. Di nuovo una massa scura. Uniforme. Quei cipressi erano altissimi e dritti. Non lo spaventavano, sebbene il cielo, oltre, fosse nero nero, come il fondo di un pozzo. Si volse verso il sentiero, seguendone la traccia delineata dai ciliegi spogli, fino a che non si distinguevano più, e gli alberi si stringevano, s’aggrovigliavano e il sentiero veniva inghiottito dal bosco. Ci abitavano alcune famiglie su per quel monte. Avevano belle case, in mezzo al verde, un panorama magnifico. In fondo era bello lì. Non c’era niente di cui aver paura. Improvvisamente, uno strillo squarciò il silenzio. Acuto, stridulo, come quello di una gallinaccia, dirompente come un tuono che partiva dalla terra, si diramava negli spazi infiniti del cielo, fino a scuotere l’inferno. Marcello tremò tutto. Come una foglia. Tremava ancora, quando lo strillo ricadde a terra e il silenzio riassorbì il prato, il bosco e il cielo. Marcello si voltava ora a destra, ora a sinistra, illuminando il prato con la sua torcia. Ma era tornato di nuovo il silenzio. Un silenzio così intenso che poteva sentire il proprio respiro. Inspira, butta fuori. Inspira, butta fuori. Aveva freddo e gli scappava da

pisciare. Sentiva l’odore di urina sparso nell’aria mischiarsi con quello della terra umida. Con una mano si strinse il pisello. “TI HO VISTO!” esplose di rabbia “FROCETTO, VIENI FUORI O TI SPACCO IL CULO! .” Il ragazzo negro imitò il verso di un uccello. Gracchiò, gracchiò due volte e un uccello, vero (sembrava un film), si staccò da un ramo per spostarsi su un altro. Marcello lo vide confusamente, con le ali frullare, si voltò in direzione dell’altro ramo; era immobile, non riusciva a vedere l’animale, poi il frullio cessò. Ancora un rumore sommesso. “IO VADO VIA!” urlò Marcello con tutta l’aria che aveva nei polmoni “Si stare cagando addosso... Adesso mettersi a frignare... Stare andando via sul serio.” Il ragazzo negro saltò fuori dal suo nascondiglio. Saltellava un po’ a destra, un po’ a sinistra, battendo le mani a ritmo e facendo dei versi strani. Poi si fermava. Un paio di secondi, e riprendeva la danza. Era la danza del guerriero, che i giovani facevano nel villaggio dove era nata sua madre. Gliela aveva insegnata suo nonno. Matteo gli stava dietro cercando di imitarlo, ma trovava quell’idea ridicola e sperava si smettesse subito. A scrivere quel bigliettino era stato lui, voleva mettere tutto a posto, una volta per tutte. Così, quel pomeriggio Matteo era uscito di casa presto, dopo scuola. D’accordo con Tamba, lo aveva raggiunto al cerchio dei cipressi per preparare il piano che lui aveva in mente. Ma poi, le cose si erano complicate, perché Tamba voleva fare di testa sua. Alla fine, il piano doveva consistere nel fare prigioniero Marcello o una cosa del genere. Dovevano fargli paura, ma tanta. Insomma, volevano spaventarlo un po’, per rifarsi di tutto quello che Marcello aveva fatto a loro. Insomma era giusto. Adesso però, Matteo avrebbe voluto parlare a Tamba a proposito del piano, per rivederne alcuni aspetti, ma l’imperturbabilità dell’amico lo soggiogava. Si ricordò poi, che doveva ancora mostrargli quella cosa che gli aveva detto. E tutto quel mistero non faceva che accrescere la sua preoccupazione Nel frattempo, Marcello aveva cominciato a distinguere la figura di Tamba che gli veniva incontro in quello strano modo. Riaccese la torcia, un cono di luce

illuminò il prato, a destra, su, poi per un attimo il ragazzo negro. “CHE CAZZO FAI?” urlò Marcello, cercando di seguire con la luce i lesti movimenti del ragazzo negro. Tamba non rispose, continuò a muoversi secondo quella danza ipnotica, colto da una specie di trance. Matteo era stufo di quella messinscena. Guardava basso e stava attento a dove metteva i piedi, cercando di non distanziarsi troppo dal compagno. La luce lo colpì in pieno viso e lo accecò, costringendolo a fermarsi. “NEL BIGLIETTO C’ERA SCRITTO CHE DOVEVO ESSERE SOLO, MA PENSAVO CHE ANCHE TU, FROCETTO, FOSSI DA SOLO.” urlò Marcello Tamba non disse niente, continuò la sua danza fino ad arrivare a pochi i da Marcello. “Viene.” gli disse, facendo cenno con la testa di proseguire per il sentiero. Marcello inveì. “MA CHE CAZZO VUOI, SEI DEFICIENTE?! PRIMA FAI... (imitò la danza di Tamba) FAI QUELLA ROBA INSULSA E ADESSO MI DICI VIENE.” “....” “COSA CREDI CHE SONO STUPIDO?! LO SO CHE MI VOLETE FREGARE.” “...Noi vogliamo solamente parlarti.” disse Matteo, sopraggiungendo “Allora restiamo qui. Cosa cazzo cambia?!” “Andiamo in posto migliore. Io mostro una cosa.” “OH, MA CHE CAZZO VOLETE!SIETE RINCOGLIONITI?!” “Viene.” Tamba s’avviò per il sentiero. Matteo gli fu dietro, cercando di non farsi distanziare troppo. Marcello sbuffò, borbottò ancora qualcosa, ma poi s’incamminò dietro loro. Ogni tanto Matteo si girava a guardarlo. Marcello continuava a borbottare a mezza voce, atteggiandosi da gradasso, e procedeva con il suo classico o sciolto, eppure il suo sguardo era incerto. Non aveva

più nessuna voglia di umiliarlo. Al cancelletto Tamba si fermò e lasciò che Marcello asse davanti. “Che cazzo volete, non sono mica un prigioniero. Voi due siete fuori, sfigati e fuori.”. “Viene.”. “VIENE UN CAZZO!”. Lo portarono fino al cerchio dei pini. Gli alberi, chiari come fantasmi, si stagliavano su un cielo cupo. Quando arrivarono in cima, Matteo pensò che sarebbe finito tutto molto presto. Camminarono fino alla torre. Era spettrale. “Mbé! Non era uguale rimanere dove eravamo prima?” Tamba spalancò la porta della torre. Non si vedeva niente dentro. Il piano consisteva nel rinchiuderlo dentro la torre. Marcello prese di colpo la pila, dalla tasca del giubbetto, ed illuminò l’interno. “Mette via!” gli ordinò Tamba. L’altro continuava ad illuminare. “METTE VIA, TI HO DETTO!” “Che cazzo, sei scemo negro?” Tutto d’un colpo, Tamba aveva assunto uno sguardo terribile. Anche Marcello se n’era accorto e sembrava impaurito. “Adesso me ne vado. Mi avete rotto i coglioni!” Marcello spense la pila. Era il segnale. Adesso o mai più. Matteo si piazzò a gambe divaricate e braccia allargate (tipo lottatore di wrestling) davanti a Marcello, che lo guardò e sul suo viso s’impresse un sorrisetto spontaneo. “Voi siete fuori.” “...Entra qua, sei nostro prigioniero.” proclamò Matteo

Marcello rimase fermo, continuando a sorridere, poi leggendo l’incertezza nella goffaggine di Matteo, s’avventò contro di lui. Lo aggredì come un cane rabbioso e lo colpì forte, in pieno petto, facendolo cadere. Tamba, alle spalle, si scaraventò su Marcello, buttandolo faccia a terra. Con le mani gli afferrò i polsi, stringendoglieli e girandoglieli. Tamba gli era sopra e con il peso del corpo lo premeva a terra, aiutandosi con il ginocchio destro ben piantato nella coscia di Marcello, che gridava e bestemmiava per il dolore. In quella posizione, Tamba, con la mano destra, cercò di prendere la pistola, che neanche Matteo sapeva, infilata nella cinta dei jeans. Marcello continuava a dimenarsi nel tentativo di liberarsi dalla presa del ragazzo negro. Tamba impugnò la pistola. Ce l’aveva. Ma per quell’attimo che aveva mollato la presa, Marcello con un paio di colpi secchi, sul fianco destro del ragazzo negro, era riuscito a liberarsi e ad invertire le posizioni. Tamba teneva ancora la pistola nella mano destra. La mano sudava e il calcio dell’arma sembrava slittargli via. Marcello gli diede un pugno vicino all’occhio e per un attimo il ragazzo negro sentì soltanto un dolore fitto, spandersi dalle tempie alla fronte, e poi giù, fino alla mandibola. Chiuse gli occhi, che si erano fatti improvvisamente pesantissimi. Le forze gli mancarono come sotto il solleone; l’odore di umido della terra, l’odore del corpo di Marcello, l’odore asfissiante di sigaretta e fiato, ed ancora la terra. Umida. Sentiva la voce di Marcello. I colpi. Sentiva le sue mani, come liquefarsi, le braccia dolenti ed inermi. Riuscì a stringere la pistola, puntò la canna verso l’interno, dove pensava fosse il corpo di Marcello, sparò. Il colpo sembrò di cannone. Poi, si sentì leggero, libero. L’aria gelida sulla faccia sudata; sembrava che si potesse sollevare da terra, così. Gli ava attraverso la pelle. Gli solleticava le palpebre chiuse. Aprì gli occhi; il corpo di Marcello non c’era più. Giaceva a un metro da lui in posizione fetale. Il ragazzo gemeva, poi gridava papà, poi gemeva ancora e rigridava papà. Con una mano si toccava la coscia sinistra. Gli aveva sparato alla gamba. Marcello respirò profondamente, cavando dal petto un rumore simile al raglio di un asino. Allora cominciò a singhiozzare. Papà. Schiacciò la faccia contro la

terra dura. PAPÀ. Lo sguardo di Tamba si perse, come quello di un animale in trappola. Ritornò a sentire la testa pesante, le tempie picchiare ed improvvisamente fu travolto dall’ansia e dal disgusto, dalla paura pura, dall’orrore indicibile, dalla disperazione, da un vortice perverso e violento che lo stava risucchiando. Matteo non riusciva a credere a quello che era successo. Non ci riusciva proprio. Tamba gli venne appresso. Matteo si rialzò di scatto. “DOBIAMO ANDARE VIA.” Matteo guardò Marcello, che si lamentava, riverso su un fianco, rannicchiato, come un bambino. “Non possiamo lasciarlo qua... Dobbiamo andare all’ospedale.” “NON CREDERÀ MAI NOI!” “Diremo che è stato un incidente.” “NON CREDERÀ.” “Vedrai che andrà bene.” “NON CREDERÀ. NON CREDERÀ.” “...Non possiamo lasciarlo qua.” “....” Tamba era ammattito, si vedeva. Chissà a cosa stava pensando. Il solo sospetto lo terrorizzava. Avrebbe ucciso anche lui? Più in là, sentiva i rantoli e le soffocate implorazioni d’aiuto di Marcello. Nonostante tutto, Matteo si sentiva più forte di Tamba. “Fidati di me.” “... .” “Tu resterai a casa mia. Promesso... E nessuno ti farà niente.”

Non è successo niente. È stato solo un incidente. Non è successo niente. È stato solo un incidente. Marcello ogni tanto si lamentava. Papà. Non è successo niente. Andrà tutto bene. Alla fine era stato più forte di Tamba. Non è difficile uccidere. Non stiamo male. Non cambia niente a uccidere, è una cosa facile come fare un salto, mangiare una mela, cogliere un fiore. È facile uccidere. Non abbiamo paura. Noi siamo forti. Noi siamo più forti della paura. Non è successo niente. È stato solo un incidente. Un incidente mamma. Un incidente signor Girardi. Un incidente dottore. Un incidente signor poliziotto. Solo un incidente. Come è successo? È successo che non volevamo. È cominciato che stavamo così, perché noi non siamo innocenti, nessuno è innocente e poi è successo che non volevamo. Doveva essere solo una punizione. Doveva essere giusto. NON VOLEVAMO NOI, DAVVERO! “Vedrai che mia mamma ci crederà.” disse improvvisamente Matteo a Tamba “Nessuno crede noi.” “Non l’abbiamo fatto apposta. È stato un incidente.” “LASCIAMO LUI QUA!” Tamba si levò il braccio destro di Marcello dal collo e lo lasciò andare. Tutto il peso di Marcello crollò verso destra e Matteo che sosteneva l’altra parte fece

fatica a tenerlo in piedi. “Dammi una mano a portarlo giù... ti prego.” “Tu non dire niente a tua mamma.” “Aiutami ti prego, poi basta... Poi ti dirò una cosa importante.” “Cosa?” “Dammi una mano prima.” Tamba si riportò attorno al collo il braccio di Marcello e ripresero a scendere. Matteo sentiva il suo cuore galoppare all’impazzata. Cercava di frenare l’ansia che lo inghiottiva, con lunghi respiri. “Promettimi di non arrabbiarti.” disse “Tu dici me cosa importante.” “...Poi ti dico.” “NO!” “....” “Adesso mi dire cosa.” Tamba fece di nuovo per togliersi il braccio di Marcello dalle spalle. Batte forte. Lo sentiamo in gola, per tutto il petto, per le braccia, per le gambe. Fa male. Fa morire. Sembra una creatura che risale dalla pancia il busto, triturando, sconquassando, morsi, punture . È il segreto che ci ha mangiato dentro. La paura di dirlo. Marcello mormora qualcosa. È vivo. “Marcello ce la fai?” “....”

“Dici quello che volere dire.” insistette il ragazzo negro “...Dopo te lo dico non preoccuparti. Promesso.” “O lo dici subito o io basta aiutare.” La creatura gli è in gola. Spinge, batte, stordisce. La voce gli esce strozzata, come se quella dannata creatura, gli stesse mordendo la bocca, le labbra, la lingua. “...Ho visto chi ha ucciso tuo fratello.” “....” “NON C’ENTRO NIENTE, ERO LI PER SBAGLIO, E NON ERO SICURO, AVEVO PAURA CHE MI FERO DEL MALE, CAPISCI?!” “Chi ha ucciso mio fratello?” “...Achak.” “... No tu dici bugia.” “SONO SICURO, È STATO LUI, QUANDO L’HO VISTO L’HO RICONOSCIUTO.” “PERCHÉ NON HAI DETTO SUBITO ME?” “Avevo paura, ma te l’avrei detto, infatti te l’ho detto.” “...” “Aspetta adesso.” “...” “Non sei arrabbiato con me, vero? Poi non ero sicuro subito.” “...” Il ragazzo negro si rimise attorno al collo il braccio di Marcello.

Matteo non disse altro. Avrebbe salvato Marcello, poi Tamba, in qualche modo ce l’avrebbero fatta. Coraggio era un’emozione fortissima che gli stava spappolando il cuore e non sapeva se era veramente coraggio o di nuovo paura. MAMMA SONO IO. Sei qui! Guarda che vado via un attimo, ma cosa ci fanno loro qui? COSA È SUCCESSO?! Mamma non importa devi portarmi all’ospedale con Marcello Oh Madonna Gesù cosa hai fatto?! Non posso mai stare tranquilla. Tuo padre... dov’è vostro padre? COSA È SUCCESSO? Dopo ti dico mamma, dopo ti dico. Sempre dopo, vostra madre viene sempre dopo. ALICEEE! Madonna Gesù. Vostro padre non c’è mai quando serve. ...Matteo cosa hai fatto? Portatemi all’ospedale. Ti prego mamma. Mamma portalo all’ospedale non vedi che sta male Alice... Io non ho niente resto qua COME LUI STA QUA! MATTEO?! Può rimanere qua? Resto io a casa mamma Resta Alice (Alice e Matteo si scambiarono uno sguardo d’intesa, sorridendosi a vicenda, solidali come non capitava da tanto tanto tempo) MA VOI SIETE PAZZI! ADESSO IN MACCHINA MI SPIEGHI TUTTO!

10. Potrei parlare da solo col ragazzo? Ehm, sì. Matteo! Eh... Il signore vuole parlare con te Vieni Matteo (L’uomo lo accompagnò in una stanzetta dell’ospedale, dove rimasero soli). Marcello ha detto che non sei stato tu a ferirlo. Ha detto che gli avevate teso un agguato... Che stavate litigando ...Sì. Come mai? ...È una storia lunga. Raccontamela Lui mi prendeva in giro. Sempre. Perché? Dice che sono frocio. Matteo, Tamba tu lo conosci? Marcello dice che è stato lui a ferirlo. Sì... È un mio compagno di classe Diceva frocio anche a lui? No. Ma lo ha sempre trattato male.

Sappiamo che era stato sospeso, per un’accesa lite con Marcello e altri suoi amici. Lo sai no? Sì Conosci gli amici di Marcello? Sì. Erano in classe mia alle scuole medie. La Pantegana. Alex Anche loro ti prendevano in giro, suppongo. Sì E come mai, voi tre eravate a quell’ora su al monte Torta? ...Volevamo solo spaventare Marcello, per come si era comportato con noi due. Ma allora, tu e Tamba non eravate solo compagni di classe, eravate amici? ...Sì Volevate solo spaventarlo e poi è finita come sappiamo?! Io volevo solo spaventare Marcello per vendicarmi di quello che mi aveva fatto are e Tamba lo stesso... Posso andare? Ancora un minuto. ... Tu sapevi che Tamba aveva una pistola? NO, lo giuro. L’ho saputo quando era già tutto successo... Quando lui ha sparato. Sapevi che Tamba spacciava droga? ...Lo avevo capito da poco. Gli dicevo di non farlo più Tu lo sai che non è un gioco spacciare droga?!

Sì ... ... Come mai Tamba è un tuo amico? ...Lui è buono in verità, e intelligente e sensibile Era solo una curiosità. ...Io devo dirle una cosa Cosa? Io so chi ha ucciso il fratello a Tamba... Perché a Tamba è stato ucciso il fratello. Come fai a saperlo? ...Io l’ho visto Quando? ...Al monte Torta, l’estate scorsa. Io ero lì e ho visto. Come mai eri lì? ...Andavo in giro da solo, perché non avevo molti amici. Allora, avo tutto il tempo da solo lassù. ... Si chiama Achak quello che ha ucciso il fratello di Tamba. Vive nella palazzina dove abita Tamba. Va bene. Ce ne occuperemo noi. Sai dov’è Tamba, adesso? A casa mia... Ma non... Non fategli del male. Lui non voleva

Va bene. ... Non frequentare più ragazzi come Tamba, però. E non andare in giro da solo per i monti. È un consiglio. Tamba non è cattivo Non ho detto che è cattivo, ma Tamba è un ragazzo aggressivo, con dei problemi non da poco alle spalle, e che va rieducato ... (Si sbagliava. Non avrebbe mai capito) ... Sa cosa vuol dire Tamba? No Vuol dire così! ... Me l’ha detto lui 11. Posso andarmi a fumare una sigaretta, fuori? Sì, fa pure Giusto sarebbe se fossi nel mio paese e ci fosse mio padre, mia madre, mio fratello e Paul. Giusto è quello che ci si lascia alle spalle nel momento in cui qualcosa si spacca, e nel proseguo della vita, tra il dare e l’avere si cerca di rimettere in pari il torto e il favore. La vendetta non libera. Il perdono non rimargina. Al tavolo delle trattative due sono le persone. Uno è un se. L’altro un ma. Siamo noi due. Sono me stesso. Se il tavolo delle trattative si riempisse di altre persone, i torti e i favori si scambierebbero. Non si annullerebbero. L’uomo renderebbe giustizia all’uomo se avesse un po’ di lungimiranza, se

nell’atto di compiere un’azione pensasse a quali conseguenze essa potrebbe portare. Se si fe carico della giustizia altrui. Troppo spesso del giusto se ne fa un favore, un diritto, un’autorizzazione, una questione d’impulsività o di egoismo. Se, se. Il se è così effimero, evanescente. Della stessa fibra sembra fatto l’uomo. Allora perché un uomo e un se possono fare questo? Forse aveva ragione Matteo. O forse no. Achak stava seduto vicino al tavolo. Trangugiava birra da una lattina e guardava la TV. Tamba entrò. Voleva vedere che faccia avrebbe fatto, quando gli avrebbe spiattellato tutta la verità. Lui sapeva chi aveva ucciso suo fratello. Voleva vedere se avrebbe provato a difendersi oppure se avrebbe implorato perdono. L’odio, è il sapore del sangue in bocca. Appena entrato, Achak gli lanciò un’occhiata poi, ripose lo sguardo sulla TV. Tamba tirò fuori la pistola e la puntò contro di lui. “CHE CAZZO FAI!” esclamò l’altro “STAI FERMO.” “MA SEI MATTO METTI GIÙ!” Tamba sentiva che l’avrebbe messa giù. Doveva resistere. Aveva ancora in bocca il gusto del sangue. Se l’avesse messa giù lo avrebbe ucciso lui. È così che funziona. Mise il dito sul grilletto “OH CHE CAZZO VUOI!” “Tu hai ucciso mio fratello.” “NO.” Gli occhi di Achak tremavano, gli occhi sono lo specchio dell’anima.

“Non dire di no lo so che è così.” “...NO.” Iniziò a premere con il dito il grilletto. Sentiva che stava cedendo, allora tutto sarebbe stato vano, avrebbe fallito. Il gusto del sangue sembrava essere defluito giù per la gola e nel palato niente. Achak lo avrebbe ucciso. Improvvisamente, dalle scale venne un rumore. “Metti via.” Achak era in piedi. “...Metti via.” lo intimò con un gesto della mano “...Tuo fratello.” Achak mosse un o in avanti. Uno schizzo di sangue in bocca. Tamba sparò.