Stefano Lanciotti
L'Oceano di Sangue
ISBN: 9788890777240
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Indice dei contenuti
Premessa Prologo Parte Prima Uno Due Tre Quattro Cinque Sei Sette Otto Nove Dieci Undici Dodici Tredici Quattordici
Quindici Sedici Diciassette Diciotto Diciannove Venti Ventuno Interludio Parte Seconda Ventidue Ventitre Ventiquattro Venticinque Ventisei Ventisette Parte Terza Ventotto Ventinove Trenta Trentuno
Trentadue Trentatre Personaggi Creature Luoghi e popoli Altro
Premessa
“L'Oceano di Sangue” é il quinto romanzo della Saga di Nocturnia. Se non hai letto i precedenti ti consiglio di farlo, cominciando dal primo, intitolato "Ex Tenebris", che viene distribuito in forma gratuita nel mio sito http://www.stefanolanciotti.it/fantasy.html per permettere a chi non mi conosce di valutare la qualità della mia scrittura e l'interesse della storia. I romanzi successivi, qualora ti interessasse proseguire nella lettura, sono disponibili in formato ebook su qualsiasi ebookstore e in qualsiasi formato. La Saga di Nocturnia è uno dei più clamorosi successi di autopubblicazione in Italia. "Ex Tenebris", è stato scaricato gratuitamente da più di 70.000 persone e i successivi romanzi sono stati acquistati da oltre 15.000 lettori. Se ti piacerà questo romanzo, ti chiedo la cortesia di mettere in condivisione la mia home page www.stefanolanciotti.it sul tuo profilo Facebook o su Twitter, in alternativa semplicemente di parlarne con i tuoi amici e colleghi. Per rimanere in contatto con me e conoscere le ultime novità sulla mia produzione letteraria, ti consiglio di mettere "mi piace" sulla mia pagina Facebook https://www.facebook.com/stefanolanciottiscrittore. Buona Lettura! Stefano Lanciotti
Prologo
Sono stato vivo e lo sarò di nuovo. Il mio nome era Thaugoth e, ora che quello che resta del mio corpo è stato esposto alla Breccia, i ricordi cominciano a riaffiorare. Lenti, sfocati, spezzati dal dolore e dal tempo. Ma tornano e la mia coscienza si ricostruisce pezzo dopo minuscolo pezzo. Brandelli di immagini, suoni lontani, desideri remoti. Tutto rifluisce e il rivolo della memoria si fa torrente, poi fiume. Infine ricordo. Ero un Mago della Parola, in una vita che è talmente lontana da non sembrare neppure mi appartenga. Appresi l’uso del Potere della Terra dai più grandi Maghi della mia epoca, ma esso non ha mai saziato la mia brama di conoscenza. Troppi limiti e vincoli. Troppo tempo per padroneggiarlo e responsabilità nell’usarlo. Una volta che ebbi imparato quanto i miei maestri avevano da insegnarmi, me ne andai. Le mie ricerche mi spingevano oltre, verso mete che spaventavano gli altri e che mi allontanarono progressivamente dalla strada tracciata. Bandito dai miei pari, vagai a lungo alla vana ricerca di altro, qualcosa che non ero neppure certo esistesse. Il mio peregrinare mi portò lontano, verso terre e popoli dei quali ignoravo l’esistenza. Imparai incantesimi sconosciuti e magie diverse, ma nulla che soddisfe il mio desiderio di andare oltre, che si era fatto insostenibile. Giunsi infine sulle rive di una grande distesa d’acqua, all’apparenza infinita, che si estendeva a occidente delle terre che avevo percorso in lungo e in largo. Era in piena tempesta, onde alte quanto quattro uomini che si abbattevano furibonde sulle grandi guglie di roccia nera, bastioni che ne impedivano l’avanzata. Fu una vista sconvolgente e rimasi lì giorni interi a osservarla. Ero affascinato dalla potenza sprigionata dallo scontro tra acqua e pietra e una sensazione andava crescendo in me, attimo dopo attimo. Qualcosa mi attendeva al di là dell’oceano e chiamava il mio nome.
Attesi che la furia degli elementi si acquietasse, poi presi la decisione che avrebbe cambiato le mie sorti assieme a quelle di questo mondo: vagai lungo la costa alla ricerca di un mezzo per attraversare l’oceano, che mi separava da quella che ormai ero certo rappresentasse la meta finale di tutte le mie peregrinazioni. Alla fine usai i miei poteri per schiantare degli alberi, che crescevano su una spiaggia di sabbia scura, per farne una rudimentale imbarcazione. Imbrigliai al mio comando venti favorevoli e mi avventurai verso ovest. Diretto dove, non lo sapevo. arono giorni, poi settimane. Solo la Magia della Parola poteva farmi sopravvivere, senza cibo né acqua potabile. E, sì, la convinzione che la risposta a tutte le domande fosse avanti a me. Approdai su una terra in apparenza simile a quella dalla quale ero partito, ma in realtà quanto mai diversa. Il Potere della Terra sembrava più debole lì, meno pervasivo e oppressivo. Esplorai le coste, poi l’interno. Il continente sconosciuto non era abitato e vi incontrai solo strani animali, deformi e aggressivi. Sembrava ci fosse qualcosa che li aveva trasformati. Qualcosa che irradiava un potere diverso da quello che conoscevo. Ben presto ne scoprii l’origine, posta nelle profondità di una montagna aspra e brulla, devastata dall’energia che trasudava dalle sue profondità. La scalai finché non mi trovai di fronte a una spaccatura, dalla quale fuoriusciva qualcosa che potrei definire come una luce, se la luce potesse essere nera come la notte più profonda. O ancora di più. Mi infilai nella crepa, consapevole che ne sarei venuto fuori - seppure ci fossi riuscito - diverso da come vi ero entrato. L’oscurità mi avvolse e fui colto dal panico, ma la sensazione durò solo fintanto che non sentii la forza che quella luce nera infondeva in me. Qualcosa di inaudito e doloroso, ma allo stesso tempo talmente piacevole, che mi resi conto che non avrei più saputo rinunciarvi. Camminai nelle tenebre - cieco eppure dotato di una vista, che mai come in quel momento era stata acuta - fino alla fonte del potere che irradiava su tutto il continente. Lo chiamai Potere Oscuro e giurai a me stesso che ne avrei compreso l’essenza e l’avrei padroneggiato fino a piegarlo ai miei voleri. Scoprii che esso filtrava da uno strappo al tessuto della nostra realtà. Era
minuscolo, specie se paragonato all’energia che riusciva a fuoriuscirne: non più lungo del palmo della mia mano e sottile come il taglio di un coltello. Una lotta sembrava essere in atto: lungo i suoi margini, il Potere della Terra stava agendo in modo febbrile per ricucirlo, per chiudere quella ferita che si era creata. Allo stesso tempo il Potere Oscuro spingeva e lottava per allargare il pertugio e dilagare. Ma senza successo. Il Potere della Terra non cedeva e anzi avrei giurato che in ato lo strappo fosse stato più grande, forse molto più grande. Non ebbi bisogno di pensarci su neppure un istante. Il Potere Oscuro era la risposta a tutte le mie domande, l’acqua che avrebbe finalmente appagato la mia sete. Non potevo permettere che la fessura si richiudesse, confinando quell’energia all’esterno del nostro mondo. Usai tutte le conoscenze che avevo accumulato in quegli anni, piegando la Magia della Parola contro la sua stessa natura. Il Potere della Terra si ritrasse da quell’abominio, come sconcertato, e io ebbi buon gioco nell’allargare di nuovo la fessura. Mentre si ampliava, i due Poteri dapprima si equilibrarono, infine il Potere Oscuro prese il sopravvento. Fu così che, grazie a me, si creò la Breccia. Fui investito da quell’energia tenebrosa e il mio corpo ne fu intriso fino all’essenza. Pensai di essere morto e che la mia anima fosse stata trasportata in un universo di sofferenza e orrore. Vidi esseri deformi agitarsi nel buio e li percepii bramosi di attraversare quel confine fra due realtà così differenti tra loro. ai un periodo indefinito sospeso tra l’esistenza e il nulla, incerto se fossi vivo in un mondo che non era mio o morente e ottenebrato dal delirio. Sopravvissi. Non ho idea di quanto rimasi in contemplazione di ciò che era al di là della Breccia, so solo che, quando riemersi dalle profondità della montagna, avevo un potere che mi poneva al di sopra di chiunque altro. Rimasi in eremitaggio per un tempo pari alla durata di una vita mortale, e poi ancora. Studiai e osservai. Infine compresi che avrei dovuto tornare da dove ero venuto e reclamare ciò che era mio di diritto. Il Potere Oscuro, nel frattempo, aveva preso possesso del mondo che si sarebbe chiamato, di lì in poi, Nocturnia. Il sole era stato inghiottito dal cielo, le stelle annegate nell’inchiostro. Le terre che avevo scoperto non avrebbero mai più
conosciuto la luce, dunque le chiamai Lande della Notte. Lo stesso oceano, che dovevo attraversare di nuovo, aveva assunto una tonalità cremisi ed era divenuto l’Oceano di Sangue, sconvolto da una tempesta che non si sarebbe mai più placata. Evocai un demone alato dagli Abissi e attraversai l’oceano in volo. Da quel momento - e per tutti gli anni che seguirono - mi prodigai a raccogliere attorno a me Maghi della Parola che bramavano il Potere Oscuro. Mi resi conto che solo chi, come me, era stato a contatto con la Breccia, era in grado di manipolarlo senza limiti. Gli altri potevano apprendere solo una delle tre branche in cui si suddivideva e solo accettando un Marchio di deformità. Creai così le Confraternite, collegi di Magia Oscura nell’ambito dei quali i miei accoliti avrebbero potuto trovare la via che più si confaceva alle loro attitudini. Le mie file si ingrandirono e i popoli di Nocturnia impararono a temermi. I miei eserciti di creature delle Tenebre ottenevano una vittoria dopo l’altra e presto avrei raggiunto il controllo di tutte le terre abitate, quando avvenne l’imprevedibile. Una giovane di nome Sybel capì di essere in grado di controllare il Potere Oscuro, pur non avendo accettato il Marchio e senza essere stata esposta alla Breccia. La chiamarono Nera. Sotto i suoi cenciosi vessilli si raccolsero i popoli che non si erano ancora arresi e il potere che cresceva in lei diede loro coraggio. Le creature delle Tenebre conobbero le prime sconfitte e le file degli adepti, che si erano raccolti attorno a me, cominciarono a sfilacciarsi. Compresi che non avrei potuto sconfiggere Sybel e decisi che sarei dovuto tornare alla Breccia per aumentare il mio potere e la mia conoscenza mistica. Non feci in tempo. Le mie truppe, dirette verso l’Oceano di Sangue, furono intercettate dall’esercito dei Silvani e la nostra strada tagliata. Non avevo scampo e decisi che non era in quella vita che avrei potuto ottenere la vittoria. Convocai i tre Maghi Oscuri più potenti e a ciascuno di loro affidai la guida di una Confraternita. Vatu sarebbe stato a capo dei Negromanti, Yissa dei Maghi Neri e Shugor degli Evocatori. Ordinai loro di fuggire, per non rimanere intrappolati nel cerchio che si stava chiudendo attorno a noi, ma prima di farlo avrebbero dovuto aiutarmi a dare vita a un rituale, che permettesse alla mia anima di staccarsi dal corpo. Sapevo che dopo la cattura sarei stato ucciso ed era necessario fare in modo che
questo non accadesse. Dovevamo affrettarci, il tempo non era dalla nostra parte. Tracciammo sul terreno un elaborato schema di rune, a forma di corona circolare. Fu diviso in tre parti, lasciando il cerchio interno vuoto. Ognuno di loro si occupò di disegnare i simboli dell’Arte Oscura nella quale era più versato, mentre io sedevo al centro con le gambe conserte, impegnato a purificarmi. Ci volle la notte intera per completare l’opera. Quando finimmo, ognuno di loro cominciò a cantilenare un diverso incantesimo ed entrò nello spazio che aveva preparato. Cercammo di non farci distrarre dalle grida delle creature delle Tenebre, che avevano formato una barriera protettiva intorno a noi, e dai suoni della battaglia imminente. Una sola esitazione e la mia anima sarebbe stata dilaniata e persa per sempre, assieme a ogni speranza che io potessi, un giorno, tornare. Sentii una mano invisibile penetrare nel mio petto e rovistare all’interno, poi stringersi come ad afferrare qualcosa, infine risalire su per il collo e puntare alla testa. Il dolore si fece insopportabile e la mia schiena si inarcò mentre la bocca si spalancava, tanto da disarticolarmi la mandibola. Ma non ne uscì un suono, solo una specie di nebbiolina semitrasparente, che esitò appena un attimo prima di essere assorbita dal Cuore di Drago, l’amuleto che portavo sempre al collo. L’anima si era separata dal mio corpo. Fui preso dall’angoscia di quella separazione, che aveva fatto di me una grottesca macchina di ossa, carne e sangue. Ma un’esplosione non lontana mi riportò alla realtà, ricordandomi che era necessario che io divenissi una macchina, altrimenti sarei morto assieme al mio corpo. Feci un gesto di assenso ai miei tre fedeli discepoli. Tutto era andato per il giusto verso. Il rituale, oltre a separare l’anima e rinchiuderla nel Cuore di Drago, avrebbe reso indistruttibili tre parti del mio corpo, indispensabili perché prima o poi io potessi tornare nella mia forma mortale. La Nera e i suoi generali avrebbero probabilmente celato al mondo il cuore, la testa e il sangue, visto che non sarebbero stati in grado di distruggerli. Vatu, Yissa, Shugor e le loro Confraternite avrebbero avuto il compito di ritrovare i miei resti e di fare in modo di riunirli, in modo da darmi di nuovo vita.
Affidai ai tre il Cuore di Drago e mi raccomandai che lo celassero dove la Linea di Sangue non lo avrebbe mai potuto trovare. Si allontanarono appena prima che la battaglia avesse inizio. Come avevo previsto, la Nera era troppo forte e i suoi eserciti si battevano con ardore e ferocia inauditi. I miei accoliti e le creature delle Tenebre mi difesero senza tregua, sino a soccombere. Tutti, senza eccezioni. Era giunta l’ora di morire. Dentro di me albergava la certezza di chi sapeva che il seme che aveva gettato sarebbe cresciuto forte e che le Confraternite non avrebbero avuto pace finché non avessero trovato il modo di riunire l’anima a quello che sarebbe rimasto del mio corpo. Per rendere credibile la mia morte, doveva sembrare che fossi stato ucciso in combattimento: chiamai uno dei demoni che combatteva nelle mie file. Caracollò verso di me sulle sue zampe possenti, trascinando un’ascia lunga il doppio di un uomo. Gli ordinai di togliermi la vita e, quando comprese che avrebbe potuto uccidere colui che l’aveva evocato, sogghignò di crudele piacere. L’ultimo ricordo che ho di quella vita è il cielo plumbeo sopra la mia testa e lo scintillio della lama dell’ascia che calava verso di me. Poi nulla. Fino a ora.
Parte Prima
Uno
Era stato un lungo, lunghissimo viaggio. Nonostante l’energia sovrannaturale che le reliquie infondevano in lui, quando Inroth posò il piede sulle sabbie plumbee delle Lande della Notte era stremato. Altrettanto forse si poteva dire di Rordu e Saasee, ma non lo sapeva e non se ne curava. L’Ombra era una creatura negromantica, le cui forze provenivano dalla magia e dal Potere Oscuro. Il rettile si rifugiava spesso in una sorta di letargo - o catalessi - che gli permetteva di resistere meglio alla fatica e alle privazioni. No, Inroth non se ne curava. Era concentrato su se stesso e sulle reliquie del Sire Oscuro, che erano ormai divenute l’unica preoccupazione e l’intero orizzonte dei suoi pensieri. Erano ati mesi da quando aveva trovato la testa nelle profondità della Cittadella. Il suo peregrinare alla ricerca del cuore e del sangue gli sembravano un sogno e al momento era impossibile per lui distinguere oggi da ieri e persino da domani. Viveva in un eterno presente confuso e nebuloso, in cui l’unica certezza era che dovevano procedere nella direzione che gli indicava il suo Padrone. Ricordava vagamente di essere giunto sulle rive dell’oceano e dello sgomento che l’aveva colto quando aveva visto le gigantesche onde cremisi abbattersi con violenza sulle scogliere aguzze. L’acqua nebulizzata che gli schizzava il volto e le vesti stracciate gli era parsa sangue gelido e a lungo si era domandato come sarebbe stato possibile attraversare quell’inferno in tempesta. Rordu e Saasee erano rimasti immobili, come ipnotizzati da quello spettacolo terribile, ma non era in quelle occasioni che la loro utilità si doveva palesare. L’Ombra si era fin lì sbarazzata di tutti quelli che si erano parati di fronte a loro, mentre il rettile li rendeva inermi con la forza ipnotica della Magia Nera. Ma entrambi delegavano a lui le decisioni, forse consci della sua mente più pronta e acuta. O forse perché Inroth era stato il primo a sentire il richiamo del Sire Oscuro e sembrava essere il tramite con cui il Padrone comunicava. Non era sicuro che la voce che sentiva nella testa fosse sempre e soltanto la Sua.
Qualche volta tuonava così forte da portarlo al limite della pazzia, altre sussurrava appena udibile. Forse non era neppure il suo Signore a parlargli, forse si limitava a instillare dentro la mente pensieri che germogliavano spontanei fino a sembrare suggerimenti, oppure ordini. In qualsiasi caso, lo aveva udito ancora una volta. Erano rimasti immobili per giorni interi a scrutare la superficie dell’Oceano di Sangue abbattersi nella loro direzione, infrangersi sugli spigoli vivi della roccia e ritrarsi lenta, quasi nel tentativo di rimanervi avvinghiata e strisciare verso di loro. Poi la voce aveva superato il tuono delle onde. Seguendo le sue indicazioni, Inroth aveva ordinato a Rordu di costruire una zattera e si erano avventurati in acqua come aveva fatto Thaugoth, in un’altra era. Sfruttando il Potere Oscuro, che le reliquie irradiavano senza sosta, Saasee aveva intrecciato un incantesimo e, per un raggio di qualche metro attorno a loro, la superficie dell’acqua aveva assunto il colore e la consistenza del catrame. Per quanto fragile potesse sembrare, la sostanza aveva il potere di impedire alle onde di raggiungerli. Il guscio di legno prese così il largo, protetto dalla furia degli elementi. La traversata durò un tempo lunghissimo: senza cibo, né acqua, né riposo, il corpo e la mente di Inroth giunsero al limite estremo, fino a superarlo. Quando posò il piede sulla spiaggia di sabbia nera l’ometto era l’ombra di se stesso e borbottava parole senza senso. Non fu in grado di sollevare le reliquie e lo sforzo lo fece quasi accasciare a terra. Rordu lo osservò senza mostrare emozioni sul suo viso grigio e afferrò la sacca con la mano destra, accingendosi a sorreggere Inroth con l’altra. Ma dove non arrivavano più le forze del suo corpo umano, giungeva il Potere Oscuro, che irradiava dall’interno delle Lande della Notte. L’origine del nome di quelle terre era facilmente comprensibile: bastava alzare lo sguardo verso il cielo, perennemente nero e screziato da una specie di aurora boreale dalle tonalità antracite e acciaio, effetto visibile dell’energia tenebrosa che filtrava dalla Breccia. La voce che aveva nella testa si fece talmente potente da impedirgli di udire qualsiasi altra cosa. «Ai tuoi ordini, Padrone…», mormorava agitandosi e tentando inutilmente di affrettare il o. «Siamo quasi giunti, Padrone…». Ci vollero ancora giorni prima che arrivassero alle pendici della montagna che
aveva scalato, secoli addietro, il Mago della Parola Thaugoth. Prima che la Breccia fosse aperta. Prima che il sole fosse oscurato per sempre. Prima che il mondo dove vivevano fosse chiamato Nocturnia. La risalirono con immensa fatica, poi si infilarono nella rete di caverne che portava al cuore nero del monte. Giunsero di fronte alla Breccia che Inroth era allo stremo. Rordu lo appoggiò a terra e l’ometto si accasciò senza riuscire a mantenersi in piedi per un istante. Ma non se ne accorse neppure. Sguardo e attenzione erano rivolti alla fenditura dalla quale fuoriusciva l’energia tenebrosa che aveva piegato il loro mondo. Allungò le mani per afferrare le reliquie, quasi strappandole da quelle di Rordu. L’Ombra lo lasciò fare, a sua volta quasi ipnotizzata dall’energia, che era alla base stessa della sua esistenza negromantica. Inroth le trasse dagli scrigni che le contenevano, allineandole a terra di fronte alla Breccia. Gli occhi della testa mozza si spalancarono, mentre il cuore cominciava a pulsare lento e il sangue sobbolliva. «Abbiamo obbedito al tuo volere, Sire Oscuro», sussurrò con la poca voce rimastagli. «Comanda ora cosa dobbiamo fare per riportarti in vita». Scrutate nella Breccia! La voce esplose nelle teste dei tre, talmente potente che sembrò squarciarle come un colpo di mazza. Si avvicinarono cauti alla spaccatura, socchiudendo gli occhi per meglio sopportare la vista del Potere Oscuro che irraggiava possente. Più vicini! Il dolore causato dalla voce che echeggiava loro nella mente fu più forte del terrore che albergava nei loro animi. Per quanto fossero avvezzi al Potere Oscuro - e addirittura Rordu e Saasee fossero loro stessi creature delle Tenebre - la Breccia li lasciava sgomenti. Si avvicinarono ancora, tanto da esserne investiti in pieno e riuscire a guardare oltre. Rimasero paralizzati, come imprigionati in una gabbia di dolore e follia. Fu in quel momento che le reliquie di Thaugoth presero a tremare e si sollevarono da terra. L’ondata di Potere Oscuro si piegò fino a formare un vortice, al cui centro c’erano i suoi resti mortali e gli schiavi che li avevano recati fin lì, resi immobili dall’orrenda visione che si parava loro di fronte. Quello era il momento che aveva atteso da così lungo tempo.
Il primo fu Inroth: indebolito dal lungo cammino non fu in grado di opporre la minima resistenza. Il suo corpo sembrò evaporare e venne portato via dal vortice. Volteggiò furiosamente per qualche secondo, poi venne aspirato dalla bocca spalancata di Thaugoth. Il secondo fu Rordu. Nonostante la sua forza e la sua agilità, che il viaggio non aveva neppure scalfito, le sue carni nere non furono in grado di sopportare il potere che si scatenò loro contro. Venne ridotto in polvere e vorticò a lungo attorno al cuore, prendendo lentamente la forma di un nuovo corpo. Poi toccò a Saasee. Il rettile si avvolse su se stesso quando si rese conto di quanto stava per accadere, ma la sua resistenza fu vana. Si sciolse come neve al sole e di lui rimase solo un liquido verde marcio, che fu sollevato a sua volta dal vortice. Dopo qualche istante cadde sul corpo immobile e venne subito assorbito. La tempesta di Potere Oscuro si acquietò all’improvviso. Solo una figura semitrasparente rimase di fronte alla Breccia. Era come se il corpo fosse sospeso in uno stadio a metà tra il materiale e l’immateriale. Nonostante il male puro che ne emanava, sembrava che la possibilità che si solidificasse fosse appesa a un filo sottile. Rimase lì a galleggiare eterea proprio in mezzo al flusso di Potere Oscuro che eruttava dalla fenditura, quasi cibandosene e abbeverandosene assieme. La parte principale del rituale era stata compiuta, le sue reliquie erano state unite di nuovo ed esposte alla breccia. Nuova linfa le aveva nutrite, assieme di potere Negromantico, Evocatorio e di Magia Nera. Non sarebbe stato sufficiente, se tutto ciò non fosse avvenuto lì, alla fonte del Potere che lo aveva reso grande tra i grandi. Il Potere che aveva piegato quel mondo, facendo sparire il sole che lo illuminava. Ora doveva permettere che esso lo compenetrasse fino a rendere vivo ciò che non lo era più, se non nella volontà indomita e nell’odio inestinguibile con cui era rimasto avvinghiato al mondo materiale. C’era solo da attendere. Ma per lui il tempo non aveva alcun significato.
Due
Herd Punta-d’Arpione era un uomo coraggioso e amava la propria famiglia: sua moglie e i suoi quattro figli, il più grande dei quali in quel momento era in barca con lui. Per vivere pescava, come avevano fatto suo padre e il padre di suo padre. Sapeva che i suoi lontani antenati erano dei guerrieri, temuti lungo tutta la Costa della Tempesta. Navigavano su grandi navi veloci - spinte da enormi vele e decine di remi - e piombavano sui nemici spargendo il terrore tra le loro file. Ma era successo tanto tempo prima, quando Nocturnia aveva un altro nome, il sole splendeva in cielo e l’acqua dell’oceano non era color sangue. Il momento di massimo fulgore lo avevano raggiunto durante l’epico scontro tra Thaugoth e gli eserciti dei popoli liberi, guidati dalla Nera Sybel. La flotta della Gente della Costa aveva affrontato le creature marine evocate dagli adepti del Potere Oscuro e le aveva sconfitte. In seguito erano giunti tempi meno burrascosi, ma molto più grami. Anche sotto la guida della Linea di Sangue, Nocturnia era preda del Potere Oscuro, che la rendeva arida e sterile. Dopo la congiura che aveva portato alla caduta della Rocca delle Tenebre, la Gente della Costa era riuscita a rimanere fuori dalla guerra infinita che si combatteva a Est delle montagne Dorso di Drago, la Guerra del Buio. Ma aveva pagato comunque un grande prezzo: da popolo guerriero, che viveva combattendo e depredando, si era dovuto trasformare in un popolo di pescatori, alla mercé di un mare sempre più avaro. All’inizio davano la caccia a enormi cetacei con le stesse imbarcazioni che in precedenza venivano usate per combattere. La carne e il grasso di quelle grandi bestie marine riuscivano a sfamare tutto il loro popolo, ma con il are del tempo esse si erano allontanate dalle coste, rendendo sempre più difficoltosa la loro caccia, sino a scomparire del tutto. L’Oceano di Sangue si era fatto progressivamente meno pescoso, fin quando una carestia non si era portata via quasi la metà della loro popolazione. I superstiti avevano cominciato a pescare usando piccole imbarcazioni e reti come quelle che ora erano ammassate ai suoi piedi. Mano a mano avevano perso capacità e
interesse a costruire grandi navi da guerra e l’unico loro obiettivo era stato quello di procurare il cibo per le loro famiglie e sopravvivere fino al giorno successivo. Così aveva fatto suo padre prima di lui e così stava facendo Herd. L’uomo si ò sovrappensiero l’indice della mano sinistra sulla cicatrice, che gli solcava la guancia fino all’occhio. Quella vecchia ferita conferiva al suo volto squadrato e coronato da un cespuglio di capelli rossicci un aspetto duro. Così come duro appariva il suo fisico, muscoli irrobustiti da una vita ata a confrontarsi con un mondo ostile e un oceano avaro. Ma era anche il suo orgoglio, il motivo per cui aveva guadagnato l’appellativo Punta-d’Arpione. Era stato appunto un arpione, quando aveva circa l’età di suo figlio Olfer, a sfregiarlo durante una durissima giornata di pesca in pieno oceano, a due giorni di navigazione dalla costa. Ma quel giorno, oltre alla ferita al viso, era tornato con due pesci del peso di un uomo. Da allora era stato chiamato Herd Puntad’Arpione, suo padre lo aveva considerato un adulto e gli aveva dato la benedizione per sposarsi. Riprese il timone della sua imbarcazione con entrambe le mani, osservando Olfer. Era un ragazzone sveglio e coraggioso, di sicuro aveva preso da lui e dai suoi antenati, guerrieri dei mari. Era certo che lo avrebbe dimostrato presto e che si sarebbe guadagnato il soprannome, che lo avrebbe accompagnato per il resto dei suoi giorni. Così avrebbe sposato una brava ragazza, formando la propria famiglia. L’ombra di un sorriso gli tagliò il volto reso di cuoio dagli anni e dalla salsedine. Abbandonò il pensiero e si concentrò sul timone, stringendolo tra le grandi mani, salde come una morsa. Non aveva mai visto l’oceano così, eppure era una vita che lo navigava. Erano giorni che gli altri pescatori gli raccontavano di strane tempeste, inquietanti avvistamenti e incidenti. Incidenti mortali: due imbarcazioni non erano tornate nell’ultima settimana e, seppure morire durante le battute di pesca fosse tutt’altro che infrequente, quella media era molto alta. Troppo. Ma Herd Punta-d’Arpione era un uomo coraggioso e amava la propria famiglia. La pesca sotto costa era andata male, negli ultimi tempi, e le reti erano rimaste desolatamente vuote. I suoi stavano soffrendo la fame e lui non poteva permetterlo, dunque si era allontanato con suo figlio Olfer dalle rotte battute dagli altri pescatori. Ignorando gli avvertimenti, erano andati a cercare dei
banchi di pesce allontanandosi più del solito dalla Costa della Tempesta. Vedendo le immense onde che scuotevano la loro imbarcazione come un guscio di noce, però, Herd si domandò se non avesse fatto un errore. Era abituato alla rabbia dell’oceano, ma quelle onde avevano qualcosa di strano e inquietante. Non si trattava solo dell’immane dimensione. La sua barca e il suo braccio si erano dimostrati in grado di superare prove di quel genere. No, si trattava del colore e dell’aspetto. L’Oceano di Sangue, come suggeriva il nome stesso, era color ruggine e Herd era abituato a vederlo così. Ma in quel momento le montagne d’acqua che li sovrastavano erano nere come la notte e la loro stessa consistenza sembrava essere cambiata. Pareva che fossero finiti in mezzo a un mare di olio nero, che puzzava di morte. «Olfer, ritira la vela prima che il vento se la porti via!», gridò, per farsi sentire nella furia della tempesta, che infieriva su di loro. Il vento. Non sembrava aria, ma una mano crudele che li schiaffeggiava con forza e si aggrappava alle loro vesti sino a strappargliele di dosso. Impregnato di sale com’era, graffiava la pelle come artigli scheggiati. Herd osservò con apprensione il figlio, che avvolgeva la vela tenendosi aggrappato con una mano all’albero. Questo ondeggiava quasi a toccare la superficie del mare, prima da un lato poi da quello opposto. Il ragazzo riuscì nell’impresa senza farsi sbalzare fuori bordo. Ma Herd stava perdendo il controllo. Anche se le sue mani - i cui palmi erano cosparsi di pece per aumentare la presa - rimanevano saldamente incollate al timone, le braccia non riuscivano più a resistere alla forza delle correnti. I calli gli erano scoppiati e il sangue si era mescolato alla pece, ma invano. Erano in balia del mare e lo rimasero per l’intera notte. Quando le forze stavano per abbandonarli e le acque per inghiottirli, le onde si placarono all’improvviso. Increduli e stremati, i due si guardarono in giro, poi l’un l’altro. Al timido sorriso di speranza di Olfer, però, Herd oppose la sua espressione di pietra. L’istinto gli gridava che il pericolo non era diminuito, semmai era vero il contrario. Abbandonò il timone, lasciandoci sopra pelle e sangue, e raccolse l’arpione di cui portava il nome, guardingo. «Cosa temi padre?», gli chiese Olfer, andosi una mano tra i capelli irrigiditi
dalla salsedine. «L’oceano ci ha risparmiato anche quest…». Non fece in tempo a terminare la frase. Un tentacolo lungo come tre o quattro uomini emerse dalle acque a poca distanza dalla barca, violento come un’esplosione. Grigio scuro da un lato e violaceo dall’altro, ricoperto di ventose rossastre, sembrava il tentacolo di un polpo come quelli che Herd pescava con le mani da ragazzo, tuffandosi dalle scogliere vicino la casa dei genitori. Solo infinitamente più grande. Appena terminata la parabola ascendente, il tentacolo si gettò verso il basso, come guidato da un istinto omicida. «Attento!», urlò disperato Herd alzando l’arpione e frapponendosi tra esso e suo figlio. La mossa ebbe successo: Olfer si gettò di lato, il tentacolo scheggiò il bordo della barca e scivolò nell’acqua nera, sparendo dalla vista. I due non fecero in tempo a rallegrarsene, che dalle onde attorno a loro ne emersero un’altra mezza dozzina, circondandoli. Era un Kraken, una delle creature leggendarie che si narrava avessero dimora nel profondo dell’oceano. Doveva trovarsi proprio sotto la chiglia. Olfer prese in mano l’unica altra arma che avevano - una piccola ascia con cui mozzavano le teste dei pesci - e la brandì contro i tentacoli che si stavano dimenando dal suo lato. Herd fece altrettanto con l’arpione, consapevoli entrambi che una creatura del genere con ogni probabilità avrebbe fagocitato la barca intera. Dopo che i tentacoli ebbero provato ad avvicinarsi uno alla volta per afferrare i due pescatori e che essi li ebbero scacciati con il frenetico agitare delle armi improvvisate, il Kraken optò per una nuova strategia. Il suo corpo emerse all’improvviso colpendo la chiglia della barca e nell’urto Olfer venne sbalzato lontano, finendo sotto la superficie dell’acqua. Herd urlò disperato, senza avere la possibilità di intervenire a causa di tre tentacoli che continuavano ad avventarsi contro di lui. Quando vide il figlio riemergere e colpire un quarto tentacolo con l’ascia, Herd per un singolo istante si illuse. Da quel giorno lo avrebbero chiamato Olfer Uccisore-di-Kraken: il nome del suo ragazzo avrebbe riecheggiato nelle leggende della Gente della Costa per le generazioni a venire. Il giovane eroe che
aveva sconfitto la creatura degli abissi oceanici e salvato suo padre. Sì, Olfer Uccisore-di-Kraken: suo figlio. Ma l’illusione svanì assieme alla testa del ragazzo. Qualcosa lo trascinò con sé sott’acqua, urlante, e Herd non lo rivide più. In quello stesso istante le onde ripresero, come per un misterioso incantesimo, a rovesciarsi sulla barca. Colto da una crisi isterica, il pescatore cominciò ad agitarsi come un ossesso e a urlare parole senza senso, continuando a roteare l’arpione. La sua punta acuminata incontrò più di una volta la carne del mostro sottomarino e aprì ferite profonde dalle quali sgorgò sangue nero. Quando la punta di uno dei tentacoli venne troncata di netto dal metallo, il Kraken cominciò a ruotare tutti gli altri come tanti giganteschi mulini, finché non colpì Herd in pieno petto sbalzandolo lontano, in mezzo alla collera dell’Oceano di Sangue, di nuovo in tempesta. L’uomo trattene il respiro in maniera istintiva e cominciò a nuotare verso l’alto per raggiungere la superficie dell’acqua. Ma ben presto comprese che sarebbe stato impossibile e si preparò a raggiungere il figlio nel regno dell’Ultima Madre.
Tre
Herd Punta-d’Arpione sentì un dolore insopportabile attraversargli il corpo da capo a piedi e non riuscì a muoversi né ad aprire gli occhi. Era dunque quello il regno dell’Ultima Madre? Non poté fare a meno di chiedersi cosa avesse fatto per meritarsi un tormento così atroce dopo la morte. Aveva cercato di vivere la propria vita come un uomo retto, procurando il cibo alla sua famiglia con il sudore della fronte e coprendosi le mani di calli. E aveva cercato di insegnare ai propri figli a fare altrettanto. Quel pensiero gliene fece riaffiorare un altro, molto più angoscioso. Olfer. Il ricordo della testa del suo figlio maggiore che scompariva, inghiottita dalle acque nere e oleose sotto la cui superficie si nascondeva la creatura che li aveva aggrediti, gli esplose in testa. Sentì un lamento sommesso e ci mise un po’ a rendersi conto che era il suo. In quell’istante capì che non era morto. Con uno sforzo enorme - che gli costò una fitta sul collo, simile a una coltellata - spostò la testa di qualche millimetro e si accorse che era poggiata a terra. Non riusciva ad aprire gli occhi, però. Pian piano avvicinò la mano destra al viso e ò le dita fredde e insensibili sulle palpebre incrostate di sabbia. La raschiò via con le unghie e finalmente riuscì ad aprire gli occhi. Si trovava su una spiaggia nera, una delle tante della Costa della Tempesta. Finché non fosse riuscito ad alzarsi, sarebbe stato impossibile capire con esattezza dove fosse. Non era escluso che la corrente lo avesse portato a mille miglia di distanza dal suo villaggio. Ci volle parecchio tempo perché il suo corpo dolente riuscisse a sollevarsi e a rimanere in piedi. Pur essendo coperto di lividi, avendo almeno due o tre costole incrinate e decine di ferite superficiali, l’oceano l’aveva restituito illeso. Si domandò come fosse possibile e se non fosse per caso una crudele forma di punizione, terribile ben più della morte: vivere per ricordare la morte di suo figlio.
Si trascinò per qualche o, cercando di trovare l’equilibrio. Si guardò attorno alla ricerca di punti di riferimento e riconobbe un promontorio, a sud. Scoprire che era stato spinto dalle onde a poche ore di cammino da casa gli scatenò in mente una serie di pensieri. Cosa sarebbe successo se il Kraken, che aveva ucciso Olfer e distrutto la loro barca, si fosse diretto verso il suo villaggio e la sua famiglia? Il panico gli fece dimenticare il dolore e cominciò a correre senza quasi rendersene conto. Si inerpicò scalzo sulla scogliera che dominava la spiaggia, con le rocce che gli ferivano i piedi. L’unico pensiero erano i suoi cari e le altre famiglie di pescatori che vivevano accanto alla sua. Le case distavano solo poche decine di i dalle acque, insufficienti a metterli al riparo dai tentacoli della creatura. Corse fintanto che le gambe glielo permisero, poi rallentò, con il fiato mozzo, senza però mai fermarsi. Gli ci volle l’intera giornata per giungere in vista delle capanne di pietra e malta, dai tetti di paglia. Neppure una torcia era accesa, pur essendo calata la notte. Pessimo presagio. Non era abbastanza tardi perché le luci nelle abitazioni fossero spente e, comunque, quando era buio quelle che delimitavano i confini dell’abitato non lo erano mai. I suoi timori vennero confermati dal silenzio di tomba che accompagnò i suoi i mentre si avvicinava. Udiva solo il vento carico di salsedine che ululava come un animale ferito e l’infrangersi delle onde sulle scogliere. Niente altro. Il buio era talmente fitto da impedirgli di camminare senza rischiare di inciampare e cadere a ogni o. Allungò le braccia come un cieco e avanzò con cautela, fino a che i suoi piedi non urtarono qualcosa di morbido e pesante riverso a terra. Un cadavere. Preso dal panico, usò il tatto per cercare di capire di chi si trattasse. Un uomo, ma chi? Rovistò fra le sue cose e a poca distanza da lui trovò una torcia che doveva essersi spenta quando era caduto. In tasca gli trovò un acciarino, che sfregò frenetico ottenendo una cascata di scintille. La torcia si accese dopo vari tentativi, creando uno stretto cono di luce. L’alzò e i suoi occhi si posarono sulla devastazione. No! No! pensò Herd, disperato al pensiero della sorte dei suoi cari. Le capanne attorno a lui erano state sventrate, come se fossero state colpite da un tifone. Cadaveri di uomini, donne e bambini erano gettati qua e là, come stracci vecchi. Riconobbe solo
quelli che ancora avevano un volto. Gli altri corpi erano talmente straziati da rendere impossibile l’operazione. Si lanciò verso la sua capanna, già presagendo il peggio. L’unica speranza era che la famiglia si fosse salvata fuggendo in tempo, grazie alla maggiore distanza dalla riva. Il sogno disperato si infranse alla vista dei cadaveri riversi tra le macerie di quella che era stata la sua casa. Con le lacrime che gli rigavano il viso indurito dagli elementi, raccolse l’uno accanto all’altro i corpi senza vita della moglie e dei tre figli più piccoli. Rimase in ginocchio singhiozzante fino al mattino, quando i suoi occhi si inaridirono. Cercò un badile tra le rovine delle capanne e cominciò a scavare delle fosse. Cinque, una accanto all’altra, cui pose sopra una pietra e un fiore selvatico. La quinta, quella di Olfer, rimase vuota. Ma aveva bisogno di un posto dove piangere anche il figlio maggiore. Si guardò in giro. Era l’unico superstite e, come tale, aveva dei doveri nei confronti di chi era morto. Il primo era dare una degna sepoltura a tutti. Si accinse a farlo di buona lena, scavando più tombe di quante non volesse contare o ricordare. Una volta che ebbe finito, si domandò che senso avesse essere sopravvissuto a quella tragedia. Non faticò a comprenderlo, perché era il secondo obbligo che sentiva di avere nei confronti dei morti. Vendetta. Doveva andare dal Governatore e avvertire gli altri villaggi. Grum GambaMozza era cugino di sua madre: avrebbe ascoltato il richiamo del proprio sangue e radunato un piccolo esercito, se necessario. Prima di andare da lui, però, doveva raccogliere informazioni. Era stato il Kraken, che aveva ucciso Olfer e distrutto la sua barca, ad attaccare il villaggio? Molto improbabile. Tornò indietro e cominciò a osservare i resti del massacro. Sulla spiaggia trovò almeno sei diverse tracce che risalivano dall’acqua. Corpi oblunghi, con pinne che terminavano in lunghi artigli. No, non si trattava della creatura che l’aveva assalito in mezzo all’oceano, né di una simile. Questo, semmai, rendeva la minaccia ancora più grave. Le acque che avevano sempre - seppur in maniera avara - provveduto al loro sostentamento, ora vomitavano mostri sterminatori. Le capanne erano state distrutte da colpi terribili, che ne avevano disperso i pezzi a dozzine di i di distanza. Herd immaginò che le creature avessero usato le
lunghe code per operare una tale devastazione. Ora che la visibilità era buona, però, notò qualcosa che gli era sfuggito sia all’inizio, sia nel secondo sopralluogo. Qua e là c’erano macchie di un liquido di consistenza sierosa e di colore verde scuro. Sembrava essere trasudato da un’alga putrida. Lo toccò con un polpastrello e subito ritrasse la mano. La pelle aveva assorbito il liquido in un istante e ora bruciava come il fuoco. Prima che riuscisse a raggiungere l’acqua per sciacquare la mano e riceverne sollievo, il bruciore scomparve e l’intero avambraccio perse la sensibilità. Herd lo osservò, sconvolto. Ora pendeva inerte come un oggetto inanimato e al tatto le dita sembravano appendici morte. L’effetto ò in una decina di minuti, assieme a parte dello spavento. Ma questo spiegava come le creature emerse dalle acque avessero potuto uccidere tutti gli abitanti del villaggio, apparentemente senza che nessuno di loro avesse opposto alcuna resistenza. Fino a quel momento si era domandato come fosse possibile che nessuno degli uomini, che pure erano avvezzi all’uso delle armi, avesse reagito in alcun modo. Il liquido secreto dalle creature, forse addirittura schizzato da lunga distanza, era in grado di rendere inoffensivo chiunque. Il massacro era avvenuto dopo, con tutta calma. Rabbrividì. Le tracce non uscivano dal perimetro del villaggio e questa era una buona notizia. La prima in quella terribile giornata. Doveva andare da Grum Gamba-Mozza. Tutti i villaggi della Gente della Costa sorgevano nei pressi della riva dell’oceano e dunque erano potenzialmente in pericolo. Solo i centri più grandi come Porto Nascosto, dove viveva il Governatore, erano al sicuro da attacchi del genere. Ma non era detto che sarebbero continuati ad avvenire in questa maniera. Stava succedendo qualcosa nelle profondità dell’Oceano di Sangue e, se avesse continuato a vomitare mostri, presto o tardi anche le città fortificate sarebbero state in pericolo. Herd Punta-d’Arpione si avviò verso Porto Nascosto senza voltarsi.
Quattro
Diana rallentò il o fino a fermarsi. Sfilò il cappuccio dalla testa e sollevò la veste per accomodarsi su una roccia coperta di muschio. I quattro guerrieri Silvani della sua scorta si fermarono a qualche o di distanza, senza avvicinarsi. La ragazza fu silenziosamente grata della loro discrezione: aveva voglia di stare sola con i suoi pensieri. Si aggiustò sovrappensiero la ciocca di capelli candidi sulla fronte e lasciò vagare lo sguardo tra le chiome degli alberi. La Selva era molto cambiata dalla prima volta che l’aveva attraversata, insieme a Tom. Le Creature delle Tenebre l’avevano abbandonata sin dal termine della battaglia sotto le mura della Rocca o, se ancora c’erano, si nascondevano impaurite. Ma era dal momento in cui erano state celebrate le Cerimonie di Sangue, ormai qualche mese prima, che era avvenuto il vero cambiamento. Pur non essendo del tutto scomparso - sarebbe stato chiedere troppo, visto che la Breccia era ancora aperta - il Potere Oscuro sembrava aver perso il controllo sulla Selva. La stessa cosa, le avevano riferito, era successa nelle altre terre che in precedenza erano state sotto il dominio delle Confraternite. Come aveva letto negli antichi scritti, dopo la loro eliminazione la morsa del Potere Oscuro si era allentata. L’avvenimento non poteva che farle piacere, anche se era andato di pari o con la scomparsa dei suoi poteri. Era una stranissima sensazione - alla quale ancora non aveva fatto l’abitudine - simile alla perdita di un braccio. “L’arto fantasma”, l’aveva sentita definire quando era solo un’adolescente sulla Terra. Le sembrava che i suoi poteri fossero lì, ma quando li andava a usare scopriva che in realtà non c’erano più. Non che questo la preoccue. In fondo la distruzione delle Confraternite sembrava aver reso inutile l’esistenza stessa della Linea di Sangue. Finché i seguaci di Thaugoth l’avevano infestata, Nocturnia aveva avuto bisogno di qualcuno che la proteggesse e questi panni erano sempre stati indossati dalle Nere. Ma ora che gli accoliti delle tre Confraternite erano stati tutti uccisi e le Cerimonie di Sangue avevano spezzato il legame tramite il quale il Potere
Oscuro aveva strangolato la Madre Terra, sembrava non esserci più bisogno di lei. Tanto meno di una sua discendente, che mai sarebbe potuta arrivare. C’era stato un momento in cui aveva dubitato di aver fatto la scelta giusta: quando aveva sentito quel grido ultraterreno, nell’attimo in cui i pugnali di Arcanio erano penetrati nei petti di Shaltul, Vama e Shiar. Un urlo terribile, che aveva squarciato il silenzio calato su tutta Nocturnia e che grondava di odio e di pazza felicità insieme. Aveva temuto di aver scatenato un potere ancora peggiore di quello che stava bandendo. Poi il grido si era spento e la paura si era andata sopendo: non esisteva un male peggiore delle Confraternite, che permettevano con la loro stessa esistenza al Potere Oscuro di rimanere ancorato alla Madre Terra, azzannandola senza pietà. Stanchezza e tensione dovevano averle giocato un brutto scherzo e il grido era stato presto dimenticato. Un unico pensiero tormentava i lunghi periodi di solitudine, da quando tutto era finito. La mancanza di Eliel rendeva insonni le sue notti e angosciose le lunghe giornate solitarie. La misteriosa sparizione le aveva aperto una ferita nell’anima, che con il tempo andava peggiorando. Non aveva capito perché il suo amato fosse andato via senza una parola e, in apparenza, senza un motivo. Dopo aver ucciso Shaltul nella Cerimonia di Sangue degli Evocatori sarebbe dovuto tornare da lei, finalmente libero dal pensiero della vendetta e sereno per la scomparsa delle Confraternite. E invece si era allontanato senza lasciare tracce. Neppure qualche riga per giustificare il suo gesto o, se non altro, inviarle un ultimo saluto. Ora Diana si sentiva la Principessa del Nulla, il suo ruolo di protettrice di Nocturnia svuotato dal rituale che lei stessa aveva celebrato. Se per molti versi viveva quel fatto come una liberazione dal peso oppressivo della responsabilità e come un sollievo dalla paura che il Potere Oscuro prendesse il sopravvento su di lei, per altri si sentiva all’improvviso inutile. E sola. Terribilmente sola. Con Lynerus morto ed Eliel sparito, gli unici amici veri che le rimanevano erano Arla e Tom. Gli altri - tutti gli altri - le avevano dimostrato rispetto e affetto, ma nessuno era riuscito a superare la barriera invisibile, che il suo ruolo di Nera le cingeva intorno. Non avendola conosciuta quando era priva di poteri, debole e malata, per loro era difficile, se non impossibile, considerarla altro che la
Principessa delle Tenebre, ultima della Linea di Sangue. Più che mai dopo la terribile dimostrazione di forza che le aveva permesso di sterminare le Confraternite e riuscire dove chiunque, prima di lei, aveva fallito: riportare Nocturnia al momento in cui nessuno sapeva manipolare il Potere Oscuro. Un improvviso bruciore al collo la distrasse dai suoi pensieri. Si sfiorò con le dita della mano destra, conscia dell’impossibilità di fare alcunché: sapeva di cosa si trattava e sapeva anche che stava peggiorando. Una macchia scura, apparsa settimane prima, che si era andata estendendo sul busto, sul petto e ora anche sul collo. La copriva come poteva, ma comprendeva che nasconderla non sarebbe bastato. Quello era il vero motivo per cui si era allontanata dalla Rocca, abbandonando il torpore dell’attesa, che si protraeva giorno dopo giorno e che sarebbe potuta durare per sempre. Aveva riflettuto a lungo ed era giunta alla conclusione che se si fosse limitata ad attendere, alla fine sarebbe stato troppo tardi. Scosse la testa: in quel momento non voleva pensarci. «Avvicinati, Erlen», disse, quando vide che il più anziano dei guerrieri della sua guardia personale la osservava preoccupato. «Perdonami, mia signora», si scusò lui, quando le fu accanto. «Siamo in pensiero per la tua salute. Da quando ci siamo allontanati dalla Rocca delle Tenebre sei sempre così silenziosa e non mangi mai nulla di quello che cuciniamo. Se mi dici cosa gradisci, potrei cacciare qualcosa per te». «Ti ringrazio, ma il mio appetito non dipende da ciò che mi offrite», gli rispose. Poi distolse lo sguardo senza aggiungere altro. «Ti auguro che la visita al Clan della Rugiada d’Autunno ti possa portare un po’ di serenità», disse Erlen. «Ne sono certa». Gli sorrise di rimando, tentando di rassicurarlo. Erano in viaggio da tre giorni ed erano quasi giunti ai confini della zona di Selva dove sorgeva il villaggio del Clan. Aveva veramente voglia di are un po’ di tempo in compagnia di Arla e Tom, per lasciarsi alle spalle i pensieri e le preoccupazioni, almeno per un breve periodo. Poi sarebbe arrivato il momento della verità. Si alzò con un sospiro.
«Riprendiamo la marcia», disse. «Se ci affrettiamo, questa sera mangeremo e berremo attorno ai fuochi del Clan». Gli uomini della guardia presero alla lettera le sue parole e la marcia si fece decisamente più spedita. Giunsero in prossimità del villaggio del Clan che ancora la notte non era calata e vennero accolti con gioia, ancora più grande perché l’arrivo di Diana non era stato annunciato. La ragazza ebbe un sorriso e una buona parola per tutti, ma i suoi occhi dardeggiavano tra la folla, che la circondava, alla ricerca di Arla e Tom. Alla fine li vide. La guardavano da lontano, con espressione felice, in attesa che la calca attorno a lei si diradasse. Si tenevano per mano e quel gesto, tanto insolito per una guerriera come Arla, rese per qualche istante ancora più arido l’animo di Diana. Si sentì gretta nell’invidiare la serenità dei due amici, ma non riuscì a evitare di farlo. Le sembrava di essere l’unica persona triste e sofferente, in un mondo che si stava sforzando di dimenticare dolore e lutti. Si costrinse a scacciare quei sentimenti, per i quali provava vergogna, e a fare il vuoto dentro di sé. Dopo quelle che le parvero infinite mani strette, carezze date, parole di conforto e benedizione pronunciate, i due la raggiunsero. Si strinsero in un abbraccio sincero, dal quale Diana a lungo sembrò non volersi sciogliere. «Mi siete mancati», mormorò soltanto. La ragazza sembrava stanca e svuotata, pallida più del solito e con la pelle del viso insolitamente opaca. Aveva gli occhi cerchiati e qualcosa che sembrava una tumefazione, che le partiva dal collo e continuava sotto la camicia. Arla e Tom si scambiarono un’occhiata, ma non dissero nulla. La donna prese Diana per una mano e la condusse alla loro capanna, mentre Tom rimaneva qualche o indietro e tentava di spiegare ai Silvani, increduli, che la Principessa non avrebbe partecipato al banchetto, che stavano preparando di fretta e furia in suo onore. Non quella sera, in ogni caso. La capanna dove viveva la coppia era su un olmo secolare, costruita poggiando su due grandi rami che fuoriuscivano quasi ad angolo retto dal tronco, a una dozzina di metri da terra. L’interno era reso tiepido da molte pellicce d’animale, che ne tappezzavano le pareti. C’erano in giro un’infinità di oggetti intagliati e ninnoli, forse omaggi che Arla aveva ricevuto come comandante vittorioso dei
Silvani in battaglia. L’armatura e l’arco di Eldan campeggiavano in un angolo della grande stanza principale, esposti lì come se la donna non prevedesse più di usarli e li considerasse solo oggetti da mostrare a chi le faceva visita. Diana dedicò scarsa attenzione a ciò che la circondava e si accomodò su una panca ricoperta di pelli. «Nessuna notizia?», le chiese Arla, anche se conosceva già la risposta. Era solo un modo per introdurre l’argomento, visto che c’erano pochi dubbi che fosse proprio quello il motivo dello stato di prostrazione di Diana. «No», scosse la testa, senza neppure alzare lo sguardo. «E a questo punto non mi aspetto più che ce ne siano ». «Diana, io…». La ragazza la interruppe con un gesto della mano. «Arla ti ringrazio, ma non voglio parlarne». La frase di Diana, pronunciata forse più bruscamente di quanto lei stessa avrebbe voluto, chiuse l’argomento lasciando Arla e Tom interdetti, ma pronti ad accontentarla. Entrambi avrebbero voluto chiederle come stava, perché avesse quell’aria stanca e cosa causasse l’esteso livido sul suo collo, ma si trattennero. Temevano che la risposta avrebbe in qualche modo evocato di nuovo il fantasma di Eliel, che invece desideravano si allontanasse dalla mente di Diana, almeno nel periodo in cui era ospite da loro. L’atmosfera si distese con il are del tempo. Dopo aver mangiato un po’ di carne e di frutta che alcuni Silvani si erano premurati di portare loro, chiacchierarono a lungo. Tom, in maniera particolare, era l’unico a condividere con lei ricordi che abbracciavano due mondi, uno dei quali non era mai stato visto da altri che loro. Parlarono fino a notte fonda, assecondando il desiderio di Diana. Ma entrambi avevano la sensazione che la ragazza volesse affrontare un argomento, al quale continuava a girare attorno senza mai giungervi. Sembrava che la loro conversazione dovesse andare avanti per sempre, quando Diana si decise: «La cosa che contribuisce a rendere ancora più tristi le mie giornate», disse infine, «è il pensiero di essere diventata inutile da un giorno all’altro. Intendiamoci, non rimpiango affatto il tempo in cui ero l’unica a potersi opporre
alle Confraternite e il peso della difesa dei popoli liberi di Nocturnia gravava per intero sulle mie spalle. Però, così come stanno le cose, la mia esistenza si è svuotata all’improvviso». Tom e Arla annuirono. In effetti, nel giro di pochi mesi, Diana aveva perso il Potere Oscuro, il suo ruolo di Nera, la speranza di avere figli e il compagno che amava. Un colpo che avrebbe distrutto chiunque. «Tu rimani la Principessa delle Tenebre, o forse solo la Principessa, dato che le Confraternite sono state sconfitte e hai perso i poteri. Hai visto con quanto affetto ti hanno accolto stasera», le disse Arla, prendendole una mano. «Questo non rende meno vuota e inutile la mia vita», mormorò la ragazza. «La figura della Nera è sempre stata quella di garante di un precario equilibrio, più che di regnante vera e propria. I popoli di Nocturnia hanno già chi li guida. Io voglio poter fare di più». «Cosa puoi fare di più, bambina mia?», gli chiese Tom. «Hai già sconfitto le Confraternite e bandito il Potere Oscuro…». «Voglio restaurare il Potere della Terra e far tornare a splendere il sole su Nocturnia!».
Cinque
Le parole di Diana lasciarono Arla e Tom attoniti. Per la donna, in special modo, immaginare che la ragazza potesse far tornare il Potere della Terra agli antichi fasti era difficile e, in qualche maniera, persino blasfemo. Le Nere erano state da sempre le paladine dei popoli liberi, ma le loro armi erano le stesse delle Confraternite. L’uso da parte della Linea di Sangue delle Arti Proibite - anche se si era rivelato l’unico deterrente efficace e aveva consentito la vittoria finale - era quanto di più lontano si potesse accostare alla purezza del Potere della Terra. Per quanto Diana fosse una ragazza adorabile, che aveva sofferto in prima persona dell’uso e dello studio del Potere Oscuro, pensare che fosse lei a far rivivere quello della Terra pareva eresia. Arla la osservò, ma l’unica cosa che lesse nella sua espressione fu risolutezza. «La tua intenzione è lodevole», le disse, cauta. «Ma temo che la natura stessa di una Nera le impedisca anche solo di entrare in contatto con il Potere della Terra. E tu sei la Nera più potente che sia mai esistita, colei che ha sconfitto le Confraternite e bandito il Potere Oscuro». «Non è così», rispose Diana, mentre l’espressione, se possibile, si faceva ancora più determinata. «Non credo affatto di essere più potente delle mie antenate, è semmai vero il contrario. Entrambi sapete bene che l’esplosione di potenza, che ha determinato la vittoria nella battaglia della Rocca delle Tenebre, è stata causata dal fatto che Tom aveva riportato gli ultimi due Sigilli dalla Terra. Riuniti al terzo, essi hanno scatenato un’energia inaudita, che mi ha svegliato dalla catalessi e ha armato i miei poteri. Allo stesso modo è stata la disperazione e non la potenza che mi ha spinto a celebrare le Cerimonie di Sangue». «Non capisco dove vuoi arrivare», le chiese Tom. «In questi mesi ho riflettuto e ho studiato molto». Le gote di Diana, sempre molto pallide, si colorarono mentre i suoi occhi scintillavano. «Sin da quando la Falce è apparsa sul mio collo, mi sono domandata in cosa consistesse questo dono - o maledizione - che ho ricevuto. Mi chiedevo se ci fosse una differenza
interiore tra chi manipola il Potere della Terra e chi quello Oscuro. Ebbene sono giunta alla conclusione che no, tale differenza non esiste. Thaugoth e i suoi seguaci erano stati Maghi della Parola, prima di convertirsi. Io stessa sono stata in grado di interagire con il Cerchio di Pietra e innescarne la magia». «Quindi ritieni di poter usare la Magia della Parola?», chiese Arla, interdetta. «Non lo so, ma devo tentare. Sento che il Potere Oscuro ha allentato la sua morsa ferrea su questo mondo, ma non è svanito. D’altra parte, bandendo le Confraternite e distruggendo i Sigilli, ne ho perso il controllo, dunque di fatto non sono più la Nera. Ripensando a quello che mi ha detto Lynerus, durante il lungo periodo che abbiamo ato insieme, mi sono fatta l’idea che la Falce non sia altro che un Marchio che appare spontaneamente su chi possiede alcune capacità innate, trasmesse di madre in figlia. Per le Nere l’uso del Potere Oscuro non era solo un obbligo, ma una scelta e soprattutto una necessità, in un mondo in cui il Potere della Terra si era inaridito. Ma se, ora che il Potere Oscuro è meno forte, riuscissi a far rivivere la Magia della Parola?». Il silenzio accolse le sue parole. Arla non riusciva neppure a immaginare un mondo dove il Potere della Terra fosse di nuovo talmente forte da permettere al sole di illuminarlo, alle messi di crescere abbondanti, alla stessa Taumaturgia, della quale lei era forse l’ultima portatrice, di rinascere. Quanto a Tom, il suo cruccio era di tutt’altra natura. Guardando Diana, vedeva di nuovo la ragazza fragile che aveva conosciuto sulla Terra e che aveva soccorso e accompagnato nel suo errare per Nocturnia. Ora che non possedeva più i suoi terribili - per quanto salvifici - poteri, desiderava solo che il dolore non la devastasse di nuovo. L’illusione che stava cullando, invece, sembrava destinata a stracciarle l’animo una volta che fosse, inevitabilmente, svanita come bruma all’alba. «Ma il Potere della Terra è quasi scomparso», provò a dire Arla, «e non esiste più un Mago della Parola da quando Lynerus è morto senza discepoli». «È il motivo per cui sono qui, oltre che per il piacere di trascorrere del tempo con voi. Ho avuto modo e tempo di riflettere su quanto è successo prima che la cerimonia con i Simulacri fe di me la nuova Nera. E anche su quanto mi ha detto Lynerus nei giorni successivi, quando mi ha dato i primi rudimenti sull’uso dei miei poteri. Sul momento avevo troppi pensieri e molte delle sue parole sono
scivolate via senza che vi ponessi attenzione, ma ora credo di riuscire a scorgervi un filo conduttore. I Cerchi di Pietra sono la chiave». Arla e Tom la guardarono senza replicare, in attesa. «Lynerus mi disse un giorno che erano gli ultimi baluardi della Magia della Parola. Lì per lì non ci feci caso ma, ripensandoci dopo tanto tempo, mi domando perché non abbia detto che erano gli ultimi baluardi del Potere della Terra. Credo che ci sia qualcosa, nei Cerchi di Pietra, che perpetua la conoscenza che sembrerebbe andata perduta con la sua morte e con la distruzione di tutti i testi di incantesimi di Magia della Parola». «Come pensi di fare?», chiese Tom. «Il Cerchio dove è avvenuta la cerimonia con i Simulacri è probabilmente stato distrutto dalle Ossessioni e mi sembra di capire che quello nelle Paludi fosse in pessimo stato». «Lynerus mi disse a suo tempo che ne esistevano vari, in diversi punti di Nocturnia», rispose la ragazza, pensierosa. «Mi domandavo se non ce ne fosse uno anche qui, nella Selva Atra». «Sì, ce n’è uno non lontano da qui, a Nordest», disse Arla, cercando di scavare nei ricordi. «Ma è in condizioni forse peggiori degli altri. È completamente sommerso dalla vegetazione che lo circonda e i monoliti che lo formavano giacciono riversi a terra. Non so cosa ne potresti ricavare». «Comincerò da quello e se necessario li visiterò tutti». «Dunque sei decisa a percorrere questa strada?», le chiese Tom. «Sei conscia del fatto che questo potrebbe costarti la salute, se non addirittura la vita?». «Sì», annuì Diana, con un’espressione che si era fatta di nuovo risoluta. «È l’unica cosa che potrebbe dare senso alla mia vita futura. Non c’è più bisogno di me qui, almeno per il momento, e io non posso continuare a vivere tra i fantasmi di chi non è più accanto a me. In più vorrei essere ricordata, dalle generazioni dopo la nostra, come qualcuno che ha cominciato a ricostruire e non solo come una distruttrice». Si guardarono e, sia Arla che Tom, non poterono fare a meno di notare come le dita affusolate della mano destra di Diana continuassero ad accarezzare la macchia scura sul suo collo. Lo faceva senza sosta, come se in maniera inconscia
tentasse di rimuoverla. Anche i suoi occhi si muovevano agitati e non si fermavano mai sui loro. Alla fine Tom annuì e l’abbracciò in silenzio. Per lui, in fondo, non era mai cambiato nulla. Diana era e rimaneva sempre la sua bambina, che aveva salvato dal letto di morte e accompagnato nel lungo viaggio fin lì. I poteri che aveva ottenuto e gli onori che le erano stati tributati erano successivi e non cambiavano di una virgola i suoi sentimenti per lei. La ragazza gli restituì l’abbraccio, nascondendo il viso nel suo petto. Poi cominciò a singhiozzare, lasciandosi andare a un pianto che aveva del liberatorio. Sorpreso, Tom non commentò, limitandosi ad accarezzarle i capelli con dolcezza. ò qualche minuto prima che il respiro regolare di Diana gli fece capire che si era addormentata. Arla la guardò e gli fece cenno di accomodarla nella piccola stanza accanto alla loro. «Cosa ne pensi?», le chiese Tom, quando furono di nuovo soli. «In principio è una cosa buona», rispose pensierosa. «Sono la prima a ritenere che, ora che il Potere Oscuro si è indebolito, si debba trovare il modo di far rifiorire il Potere della Terra e la Magia della Parola. Credo, però, che Diana non sia la persona giusta e non vorrei che questo tentativo le possa fare del male». «Non hai avuto anche tu l’impressione che ci abbia taciuto qualcosa?», chiese lui. «La macchia sul collo? Sì, credo che non ce ne abbia parlato di proposito». «Pensi che sia collegata con il suo aspetto malato e con la decisione di recarsi presso il Cerchio di Pietra?». «Non so cosa dirti», rispose Arla, pensierosa. «Mi domando perché non si sia rivolta a me, piuttosto. Sono l’unica che forse può aiutarla». «Ho paura che abbia a che fare con il Potere Oscuro e con la perdita delle sue capacità magiche. Forse pensa che la Taumaturgia non possa fare nulla per lei». «E un mucchio di pietre abbandonate da secoli, invece? Può aiutare una ragazza che ha padroneggiato il Potere Oscuro più di chiunque altro?».
«C’eri anche tu alla cerimonia con i Simulacri. È stata lei a riattivare la magia del Cerchio di Pietra, dopo chissà quanto tempo». «Diana è cambiata da allora, Tom. Molto più di quanto tu riesca ad ammettere». Arla scosse la testa, come se lei stessa tentasse di allontanare quel pensiero. «Da quando ha iniziato lo studio dei Sigilli, la purezza che era in lei si è cominciata a corrompere. Ne ho avuto la certezza quando le ho visto officiare la Cerimonia di Sangue dei Negromanti». «Quella notte anche io mi sono spaventato», concordò a malincuore Tom. «Ma ricordo anche le parole con le quali ci ha accoratamente pregato di convincere i popoli liberi a combattere l’ultima battaglia sotto i suoi vessilli. Contenevano un dolore e una disperazione, che mi fanno pensare che quanto c’era di puro dentro di lei sia rimasto intatto. Forse si è solo nascosto per non farsi contaminare dal Potere Oscuro». «Spero che tu abbia ragione, altrimenti Diana potrebbe rischiare molto di più che rimanere delusa».
Sei
Grum Gamba-Mozza si avvicinò claudicando alla finestra della piccola Sala del Consiglio di Porto Nascosto. La gamba gli faceva male come quando stava per cambiare il tempo, ma uno sguardo verso il cielo lo convinse che la meteorologia non c’entrava nulla. Il dolore si presentava, a volte, senza ragione apparente, sotto forma di sesto senso o presagio. In genere di eventi dolorosi quando non addirittura luttuosi. Si piegò e massaggiò il moncherino che era a contatto con la protesi di legno, poco sotto il ginocchio. Quando tanti anni prima un Pescedrago l’aveva aggredito e quasi ucciso, strappandogli l’arto a morsi, aveva pensato che la sua vita stesse finendo lì. Invece nei lunghi mesi di convalescenza aveva trovato una grande e insospettata forza dentro di sé. Era giunto alla conclusione che Grum Gamba-Mozza fosse molto meglio di Grum Senza-Gambe, o più semplicemente del povero Grum sepolto nel cimitero di Porto Nascosto. Una volta guarito aveva smesso di fare il pescatore e aveva cominciato a dedicarsi alla vita pubblica della cittadina, i cui tetti ora si stendevano sotto di lui. La sua era una piccola comunità, qualche migliaio di anime, compresi vecchi e bambini. Ma parecchi abitanti dei villaggi lungo la Costa della Tempesta venivano nei giorni di mercato e si rivolgevano al Consiglio per avere giustizia nelle dispute. In pratica almeno la metà di ciò che rimaneva della Gente della Costa, stimava. Si ò la mano tra i capelli rossicci sempre più radi, che coronavano il suo viso tondo, su cui spiccavano il naso rubizzo e gli occhi verdi. Il dolore alla gamba non era l’unico segnale. Che quella fosse una giornata foriera di sventura, lo aveva annusato nel vento sin da quando si era alzato. E difficilmente si era sbagliato, in quasi vent’anni di governo della città. Guardò con rinnovata attenzione fuori dalla finestra: le case di Porto Nascosto erano tutte costruite nella stessa pietra delle scogliere che circondavano la cittadina, dunque essa ne condivideva l’aspetto grigio e lugubre. Ma le rocce che fronteggiavano il mare avevano fermato la sua azione feroce nei millenni ati e le case e le mura di cinta possedevano la loro stessa solidità.
Le avevano erette i loro antenati quando predavano i mari e avevano resistito in più di un’occasione all’assedio dei nemici. Il suo popolo non aveva più avversari, se si escludeva la cronica carenza di cibo, ma Grum si sentiva ugualmente grato ai loro padri per aver protetto così bene la città. Il suo sguardo giunse fino alla darsena, nella quale trovavano riparo le piccole imbarcazioni dei pescatori. Su di esse incombeva lo scheletro di una grande nave da combattimento, ultimo esemplare della flotta dei loro avi. Era stata portata in secco ed esposta come una statua commemorativa alle loro gesta di un tempo, ma i secoli e la salsedine l’avevano consumata asse dopo asse, lasciandone la sola struttura interna. Grum aveva sempre pensato che la nave fosse una metafora del destino della Gente della Costa. Dovette abbandonare la finestra e rimettersi seduto su una delle pesanti sedie poste attorno al tavolo, al centro della Sala. Maledetto dolore, quel giorno non ne voleva sapere di andarsene. Prese un bicchiere e vi versò un goccio dalla fiaschetta che portava sempre in tasca: estratto di erbe dalle proprietà analgesiche. Lo trangugiò, senza allontanare la sensazione che questa volta non gli sarebbe servito a nulla. Circolavano delle voci, negli ultimi tempi. Uomini esperti, cui il mare scorreva nelle vene, usciti a pesca e mai tornati. Anche le loro barche erano scomparse, per poi venir ritrovate in pezzi sulla spiaggia molti giorni dopo. La sua gente aveva paura da generazioni. Anche se non erano stati coinvolti in modo diretto dalla guerra dei maghi, a Est, le loro creature erano giunte a portare la devastazione fino lì. Il Dorso di Drago, l’alta catena montuosa che li separava dalle Catacombe dei Negromanti, li aveva tenuti al riparo dalla loro minaccia, mentre altrettanto non era accaduto per le città della Costa della Tempesta che si trovavano più a Nord, rase al suolo secoli prima da orde di esseri negromantici. Poi l’attenzione della Confraternita si era rivolta altrove, alla Guerra del Buio, ma la Gente della Costa non aveva dimenticato l’orrore. Quando girava una voce, dunque, la paura si materializzava. La scomparsa di una barca non era sufficiente: la morte in mare era una possibilità concreta, accettata in primo luogo dagli stessi pescatori. Ma quando le sparizioni aumentavano, come in quel periodo, le voci di un ritorno delle creature delle Tenebre si facevano di nuovo insistenti.
Grum Gamba-Mozza non sapeva cosa pensare. Era un uomo razionale, che in genere si fidava del suo buon senso. Le orde di non morti, che avevano devastato il Nord della Costa della Tempesta e minacciato anche il Sud, venivano dalle Catacombe. L’Oceano di Sangue era sempre stato minaccioso ma, a dispetto del macabro nome, negli ultimi secoli non aveva provocato loro più lutti di quanti fosse lecito attendersene. Mentre era immerso nelle sue riflessioni, bussarono alla porta della Sala e una delle guardie fece ingresso. «Herd Punta-d’Arpione chiede udienza», disse questi, esitando. Sembrava che volesse aggiungere qualcosa, invece tacque. «Fallo entrare», rispose Grum. Attese l’ingresso del suo nipote di secondo grado, domandandosi se fosse il momento della verità. Quello in cui avrebbe capito il perché del dolore alla gamba e il senso di tragedia imminente. Herd non amava venire a Porto Nascosto e, quando lo faceva, non si fermava mai al Palazzo del Consiglio. Era un uomo coraggioso e un ottimo padre di famiglia, ma non si poteva dire che coltivasse le amicizie o i vincoli di parentela. Quando lo vide scalzo, ferito e quasi allo stremo delle forze, ebbe la certezza che il suo sesto senso, purtroppo, si era rivelato ancora una volta infallibile. E l’aspetto dell’uomo era nulla, rispetto all’espressione stravolta del suo viso. Dolore, angoscia, paura e incredulità sembravano combattere per avere la meglio sui suoi poveri tratti. Doveva essere accaduto qualcosa di tremendo, per ridurlo così. «Siediti Herd», gli disse indicando una sedia. «Cosa è successo?». «Mio figlio Olfer… e mia moglie e gli altri tre figli…», singhiozzò l’uomo, come incapace di articolare una frase di senso compiuto. «Cosa è successo a Olfer e alla tua famiglia?», insistette Grum. «Creature mai viste, che provengono dagli abissi dell’oceano. Un Kraken ha assalito la nostra barca e trascinato sott’acqua Olfer con i suoi tentacoli lunghi come quattro uomini. Non so come ho fatto a sopravvivere!». Grum lo osservò in silenzio. Nessuno aveva mai visto un Kraken e della loro esistenza si favoleggiava solo a causa di antiche leggende. In un’altra occasione
avrebbe pensato che Herd fosse sconvolto e non sapesse quello che stava dicendo. Ma il dolore alla gamba gli suggeriva che fosse proprio quella la causa degli ultimi avvenimenti. Si alzò e si diresse verso la libreria, che copriva per intero una delle pareti della Sala del Consiglio. Si inerpicò su una precaria scaletta di legno e cominciò a cercare tra i libri impilati sugli scaffali più in alto. Dopo qualche minuto discese e si sedette di nuovo di fronte al pescatore. Poggiò sul tavolo un libro coperto di polvere, dalle pagine ingiallite e mezzo mangiate dal tempo, quasi illeggibili. La copertina recitava: “Cronache di Porto Nascosto, anno…”. La parte finale del titolo era stata strappata via, ma era facile immaginare che risalisse a molti secoli prima. Grum cominciò a sfogliare le pagine con delicatezza, nel giustificato timore che potessero disfarsi tra le sue mani. «Ah, ecco!», disse infine, puntando l’indice su un disegno sbiadito. «È questa la creatura che hai visto?». Sulla pagina c’erano varie illustrazioni, tutte piuttosto accurate, di mostri marini. Quello che indicava Grum era una piovra di dimensioni titaniche, cui per comparazione era stata disegnata una nave accanto. Sotto, vergato in caratteri molto elaborati, c’era il nome: Kraken. Herd trattenne il fiato e si limitò ad annuire. «Eravate lontani dalla Costa?». «Sì», rispose Herd, poi come a giustificarsi: «sono giorni che non si pesca più nulla…». «E la tua famiglia?» «Morti, assieme a tutti gli abitanti del villaggio…», mormorò il pescatore, ai limiti dell’udibilità. «Dopo che Olfer è stato trascinato sott’acqua dalla creatura, ho pensato che avrei fatto la stessa fine. Invece il fato è stato crudele e ha voluto che io mi risvegliassi sulla riva e che, tornato al villaggio, dovessi seppellire il resto della mia famiglia, accanto ai miei amici e vicini…». «Pensi che sia stato il Kraken?». Il dolore per la morte di tante persone non appannava la lucidità di Grum. La
risposta a quella domanda avrebbe marcato una enorme differenza. Trattenne il fiato nell’attesa. «No, ne sono certo», rispose Herd, scuotendo la testa. «I mostri che hanno assalito il villaggio erano una mezza dozzina, più piccoli. Credo che si tratti di esseri di altro tipo, anche se partoriti dallo stesso inferno!». Tra un sospiro e l’altro il pescatore riferì delle tracce che aveva trovato sulla sabbia, del liquido che paralizzava, dei cadaveri scempiati. Mentre lo ascoltava lo sguardo di Grum studiò le altre creature disegnate sulla pagina, molte delle quali non aveva sentito nominare neppure nelle storie udite da ragazzo. «Guarda qui!», esclamò a un tratto, indicando una creatura indicata come Schizzafiele. «Sembra corrispondere alla tua descrizione!». Herd osservò il disegno sbiadito. Sembrava una grande lucertola, dalla lunga coda e dalla bocca sproporzionata irta di lunghi denti, intenta nello schizzare un liquido dalla lingua a forma di tubo. Annuì di nuovo. Grum Gamba-Mozza non aggiunse nulla. La sensazione che quella sarebbe stata una giornata funesta si era rivelata, purtroppo, più che fondata. Cercò di riordinare le idee, perché il Consiglio doveva riunirsi di corsa per valutare i fatti e decidere le azioni da intraprendere. Ma il Consiglio si affidava al suo giudizio, per gli eventi più gravi. E questo, in venti anni di governo, era in assoluto il più grave di tutti. Cosa poteva fare, la Gente della Costa, se la minaccia veniva dallo stesso oceano dal quale traeva sostentamento? Se vicino alla riva le reti rimanevano vuote e appena più in là le barche venivano assalite e distrutte? Se i villaggi più piccoli e isolati venivano attaccati e i loro abitanti sterminati senza pietà e senza che avessero la possibilità di difendersi? Forse la guerra era già persa prima di iniziarla, ma certo lui non avrebbe esitato un attimo - o lesinato neppure uno sforzo - per combatterla fino all’ultimo respiro. Si alzò in piedi, ignorando il dolore alla gamba. Aprì la porta della Sala e chiamò le guardie che la presidiavano. Ordinò loro di convocare gli altri consiglieri e di portare Herd Punta-d’Arpione nelle cucine per rifocillarlo. Doveva rimettersi in forze per testimoniare di fronte al Consiglio.
Sette
Herd Punta-d’Arpione si sedette di fronte al Consiglio di Porto Nascosto solo poche ore dopo aver parlato con Grum Gamba-Mozza. Nel frattempo aveva mangiato e si era riposato, ma il gelo che gli aveva avvinto l’animo non accennava a sciogliersi. Aveva ancora davanti agli occhi il viso di Olfer stravolto dal terrore mentre scompariva tra i flutti - e quello mezzo divorato degli altri tre figli e della moglie. Non c’era destino peggiore di quello del padre costretto a seppellire il sangue del proprio sangue. Scrutò gli uomini che aveva di fronte. Il Consiglio di Porto Nascosto era composto di sole tre persone, oltre a Grum che lo presiedeva. Fray Pelle-diRospo era un uomo di mezz’età, dai capelli rossicci e radi, leggermente soprappeso. La sua caratteristica principale era un viso dalle tonalità vagamente verdognole e molto butterato, da cui il soprannome. Ern Il-Calvo era il più giovane dei quattro e aveva il fisico possente di un guerriero, impressione confermata dalla mascella squadrata e dallo sguardo torvo. Haimir Il-Navigatore era invece il più anziano, dalla chioma bianca come la neve e il viso scavato dal tempo e dalla salsedine. Erano tutte persone delle quali Herd aveva stima, entrate nel Consiglio con il consenso della gran parte dei cittadini di Porto Nascosto e dei villaggi lungo la Costa della Tempesta. Negli anni precedenti avevano dimostrato saggezza nelle decisioni ed equilibrio nell’amministrare la giustizia. Si domandava però cosa avrebbero potuto dire - e soprattutto fare - in una situazione come quella di cui stava per riferire. «Sono settimane che circolano voci strane a Porto Nascosto e molte di esse sono giunte anche alle orecchie di tutti noi», esordì Grum Gamba-Mozza. «Imbarcazioni scomparse, pescatori che non sono tornati dalle loro famiglie. Sapete meglio di me che quando le voci si moltiplicano e si fanno incontrollate, un incidente di pesca può diventare un evento molto più misterioso. Ora però abbiamo la testimonianza di Herd Punta-d’Arpione, che ha visto in prima persona accadimenti che non esito a definire gravissimi e inquietanti».
Cedette la parola a Herd, il quale si alzò per rispetto agli uomini che aveva davanti. I Consiglieri annuirono, scrutandolo attenti. Il pescatore raccontò della sua scelta di allontanarsi dalla Costa a causa delle reti sempre più vuote. Della tempesta di inaudita violenza, che li aveva colti in mare aperto e dell’improvvisa calma che ne era seguita. Dell’acqua nera e densa come l’olio. Dei tentacoli che li avevano aggrediti, emergendo da sotto la loro barca. Della scomparsa di Olfer tra i flutti e dell’urto che lo aveva scagliato lontano, dove aveva pensato di morire. Con la voce tremante e gli occhi umidi proseguì con il racconto del suo ritorno al villaggio, la scoperta dei cadaveri di tutti i suoi abitanti, le tracce che provenivano dal mare e il liquido verde che provocava dolore e paralisi. Infine tacque. Rispose alle domande dei Consiglieri con precisione e rimase ad ascoltare la discussione che si aprì subito dopo, seppure la sua mente avesse preso a vagare lontano. Si domandava cosa avrebbe fatto ora. Che senso avrebbe avuto la vita senza la famiglia e la casa. Le parole di Grum lo riscossero dai suoi pensieri. «La tua testimonianza ci è stata preziosa, Herd Punta-d’Arpione, e ti siamo tutti vicini per i lutti che hai subito», disse chinando leggermente il capo. «Finché vorrai, potrai rimanere mio ospite e ti aiuteremo a costruire una nuova barca e una nuova casa, quando deciderai di farlo. Ti prego solo di non fare parola con nessuno di quanto hai visto. Non voglio che il panico dilaghi tra i nostri cittadini». Herd annuì, mettendosi a sedere. Non aveva alcuna intenzione di parlare con nessuno, a prescindere dalle reazioni che avrebbe potuto scatenare. Il dolore che provava nel rievocare quei fatti gli dilaniava il cuore. «Cosa pensi di fare, Grum?», chiese Fray Pelle-di-Rospo, mentre gli altri due Consiglieri lo guardavano a loro volta in silenzio. Come al solito, per le decisioni importanti, si appellavano al suo giudizio. In genere non era una cosa che lo disturbava, anzi lo rendeva orgoglioso e ancora più attento - semmai fosse stato necessario - per la responsabilità che gli era assegnata. Ma quella volta era preoccupato di non avere la soluzione giusta se, come temeva, quello non fosse stato che il primo di una serie di attacchi. «Rafforzeremo le guardie sulle mura della città e dovrà essere raddoppiato il numero di imbarcazioni che pattuglieranno le acque della baia. Invieremo dei
messaggeri verso ogni villaggio, avvertendo del pericolo di pescare lontano dalla Costa e chiedendo di istituire a loro volta una forma di guardia notturna», disse, dopo aver riflettuto a lungo. «Cosa diremo loro se ci chiederanno qual è il motivo di tali misure?», chiese Ern Il-Calvo scuotendo la testa. «Se vogliamo evitare che si diffonda il panico…» «Non si può fare una frittata senza rompere le uova», tagliò corto Grum, con un gesto della mano. «Diremo che abbiamo sentito le voci che circolano da settimane e che vogliamo che la popolazione dorma tranquilla. E poi, detto tra noi, meglio un cittadino spaventato, ma vivo, che sereno e morto!». La decisione era presa. Il Consiglio si sciolse e Herd fu congedato. Grum gli suggerì di andare a casa, da sua moglie Eyda, per riposare e il pescatore seguì il consiglio. Camminando tra le strette vie del centro di Porto Nascosto, con nelle narici l’odore di salsedine e di pesce, non poté fare a meno di chiedersi se le mura e le case della cittadina, in solida pietra grigia, fossero in grado di fermare l’orrore che veniva dal mare. Si fermò davanti al portoncino di un’abitazione a due piani e bussò. Gli aprì Eyda: una donna tonda e rubizza, di età indefinibile. Gli sorrise e lo abbracciò senza mostrare alcuna sorpresa. Il marito doveva averla avvertita del suo arrivo e dei lutti che aveva subito, perché non fece domande. Lo guidò in cucina e lo fece accomodare al tavolo. Herd inspirò i buoni odori che giungevano dal fuoco e si godette il tepore. Chiudendo gli occhi, per un attimo, gli parve di essere tornato a casa sua. Eyda gli diede una scodella colma di zuppa di pesce, una pagnotta e un boccale di birra. Herd mangiò in silenzio, grato alla donna perché rispettava il suo desiderio di non parlare. Alla fine la moglie di Grum lo guidò verso una stanza, al primo piano: la camera di uno dei figli della coppia, ora adulto. Anche qui si respirava un profumo di famiglia e di casa. Annuì. Ci si sarebbe trovato bene. I giorni successivi li trascorse eggiando per il porto e osservando le attività degli altri pescatori. Ne conosceva ogni gesto e ne comprendeva lo stato d’animo. Le reti erano desolatamente vuote e le loro espressioni avvilite. Ora che il Consiglio aveva diramato l’ordinanza di non allontanarsi dalla Costa, le loro famiglie avrebbero sofferto la fame ed essi non avrebbero avuto nulla da vendere al mercato. Scosse la testa: l’alternativa era peggiore, nessuno lo poteva sapere
meglio di lui. Col are dei giorni Herd cominciò a coltivare la speranza che le paure di un attacco a Porto Nascosto fossero esagerate, in fondo la città era fortificata e le sue mura avrebbero scoraggiato chiunque. Non era così. La sesta notte che era ospite nella casa di Grum, un grido strozzato lo destò all’improvviso. Aprendo la finestrella, fu catapultato bruscamente dal tepore della stanza al freddo umido del vento che soffiava dall’oceano. E che trasportava urla terrorizzate. «Allarmi! Allarmi! Siamo att…». Il rantolo che interruppe il grido fu ancora più agghiacciante della paura che ne colorava la voce. Herd si rivestì in pochi attimi e si lanciò giù per le scale e poi in strada. Tutti gli altri abitanti di Porto Nascosto sembravano aver fatto altrettanto, affollando le viuzze e rendendo difficile percorrerle. Il pescatore si fece largo a fatica e giunse ai pontili, dove c’era una grande agitazione di uomini armati e imbarcazioni. «Cosa succede?», chiese afferrando per il braccio una guardia che correva verso una barca attraccata in fondo al molo. «Delle creature mai viste stanno emergendo dalle acque e hanno attaccato le barche di pattuglia!», rispose questi, divincolandosi dalla presa. «Se la nostra linea di difesa cede, saranno qui prima che la notte finisca!». Herd non esitò neppure un attimo. Si guardò attorno e vide un lungo arpione, poggiato su un’imbarcazione da pesca ormeggiata a uno dei pali di sostegno del pontile. Gli sembrò un segno del destino. Scese a prenderlo e poi corse assieme agli altri uomini in armi che si affannavano verso le barche in partenza. Saltò sulla più vicina e si mise a prua, scrutando le tenebre che aveva di fronte. Il ricordo dello scontro, che era costato la vita a Olfer, gli afferrò lo stomaco come un maglio d’acciaio. Usciti dalla piccola rada antistante la città, i rematori si aspettavano la resistenza delle onde, che normalmente si scagliavano senza sosta sulle grandi rocce frangiflutti. Invece si ritrovarono in quello che sembrava un lago d’olio. Le acque erano nere e dense come inchiostro e il vento immobile, tanto da rendere inutile l’utilizzo della vela. Il combattimento che stava infuriando rese vana ogni domanda sui motivi di tale fenomeno.
Una ventina di barche stavano fronteggiando un mare brulicante di creature dalle forme più disparate, confuse nelle pieghe della notte. Herd individuò in lontananza i lunghi tentacoli che ben conosceva, ma più vicino a lui vide forme rozzamente cilindriche, che galleggiavano indolenti e apparentemente immobili a pelo d’acqua, come tronchi. Appena giunte a contatto con le barche, però, esse vi si inerpicavano con l’aiuto di corte zampe artigliate e spalancavano bocche enormi ricolme di denti triangolari, lanciandosi ad azzannare chiunque capitasse loro a tiro. Una si avvicinò alla sua imbarcazione e il pescatore fece appena in tempo a colpirne, con la punta dell’arpione, l’estremità sulla quale si aprivano le spropositate fauci. La creatura si arrampicò a bordo, noncurante della ferita e tentò di mordergli una gamba. Herd la schivò, colpendola ancora e ancora. Una guardia venne in suo aiuto con una pesante ascia bipenne. La lama tagliò in due la creatura, che scivolò in acqua dibattendosi. Ma la battaglia stava rapidamente volgendo al peggio. Già una decina di barche era stata affondata e gli uomini caduti in acqua erano stati aggrediti e trascinati sotto, tra agghiaccianti urla di sofferenza e terrore. Anche l’imbarcazione di Herd era stata circondata da creature che tentavano di rovesciarla. Mentre lui mulinava l’arpione senza sosta vide l’uomo, che era giunto in suo soccorso con l’ascia, irrigidirsi all’improvviso. Rimase immobile per un istante, con gli occhi sgranati, poi crollò a faccia avanti. Vide sulla sua schiena una macchia verde, che veniva rapidamente assorbita dalla pelle, per scomparire in pochi istanti. Il liquido paralizzante! Herd si lanciò a soccorrerlo. Mentre si avvicinava, un tentacolo fuoriuscì rapido e si avvinghiò alla caviglia dell’uomo. Lo trascinò verso l’acqua con uno strattone. Il pescatore abbandonò l’arpione e afferrò l’ascia. Raggiunse il tentacolo con un balzo e lo tranciò di netto. Non aveva paura, in quel momento ciò che sentiva nel suo animo era solo odio. Non gli importava di morire, anzi ne provava quasi il desiderio. Avrebbe raggiunto sua moglie e i suoi figli nel regno dell’Ultima Madre e li avrebbe riabbracciati. Tutto ciò che chiedeva era portare con sé il maggior numero di quegli schifosi mostri acquatici. Scrutò la superficie oleosa dell’acqua. Lo Schizzafiele che aveva spruzzato il liquido emerse di nuovo, con un gorgoglio. Aveva la lunghezza di un uomo e la forma di una lucertola acquatica,
con un muso a forma di triangolo e la bocca irta di denti. In quel momento era spalancata e proprio dal profondo delle sue fauci provenne un nuovo getto verde. Herd fece appena in tempo a evitarlo, abbassandosi. Appena si rialzò, calò un fendente sulla testa allungata. «Ritirata! Rientriamo nel porto, qui è un massacro!», sentì gridare. Era l’unica cosa da fare, Herd se ne rendeva conto. Ma a lui non importava. Sarebbe rimasto indietro a combattere fino a che non lo avessero sopraffatto. Nel frattempo, magari, sarebbe riuscito a tenerne impegnati alcuni e a favorire la fuga dei compagni. Si stava accingendo a vendere cara la pelle, quando sentì un gemito provenire dal fondo della barca. Si era dimenticato dell’uomo paralizzato! Non poteva condannare anche lui. Però era rimasto solo e avrebbe dovuto vogare con la forza di quattro uomini per riuscire ad avere una speranza. Afferrò i remi e li immerse in acqua, inarcando la schiena per lo sforzo. Si allontanò a velocità ridotta, che tuttavia andò aumentando mano a mano che l’imbarcazione prendeva abbrivio. La fortuna fu dalla sua parte perché, mentre rientravano nella baia, altre barche furono afferrate da lunghi tentacoli e rovesciate. Dalla sua parte, invece, sembravano esserci solo quei vermi dalle enormi fauci, che però riuscì a ricacciare fuori bordo a colpi di remo. Entrò nel porto mentre sulle banchine regnava una gran confusione e tutti correvano qua e là. Si accostò e afferrò una cima, ormeggiando la barca. Trascinò su di peso la guardia svenuta e la portò sulle spalle facendosi largo tra la ressa delle persone, che si accalcavano presso la porta che conduceva all’interno delle mura. Porto Nascosto si stava preparando all’assedio.
Otto
Diana dormì a lungo. Tom e Arla le fecero trovare frutta fresca e del pasticcio di carne per colazione. Al risveglio la ragazza sembrava non aver perso un briciolo della determinazione che aveva dimostrato la sera precedente. Mangiò di buon appetito, poi si prese del tempo per concedersi un bagno. Si infilò in una tinozza di legno riempita di acqua calda, la cui superficie era cosparsa di foglie che sprigionavano un profumo intenso e pungente. Arla le portò dei morbidi teli per asciugarsi e approfittò per sbirciare la tumefazione. Era peggiore di quanto lei e Tom avessero temuto: quella sul collo era solo una piccola parte dell’intera estensione, che copriva tutto il fianco fino all’anca, mezza schiena e il petto. Distolse lo sguardo a fatica e si allontanò. «Io e Arla abbiamo parlato a lungo, stanotte», le disse Tom, quando la ragazza si fu asciugata e rivestita. «Pensate che stia facendo una pazzia?», gli chiese lei, con un’espressione a metà tra il risoluto e l’imbronciato, che gli ricordò l’adolescente che aveva conosciuto sulla Terra. «Mentirei se ti dicessi che non siamo preoccupati per te. Ma ti capiamo e ti accompagneremo al Cerchio di Pietra». Diana lo gratificò con un lieve sorriso, che le accentuò le occhiaie. Si equipaggiarono per un viaggio di qualche giorno, portando con loro una bisaccia a testa e un piccolo orcio, che avrebbero riempito d’acqua lungo la strada. Diana comunicò a Erlen e agli altri uomini della sua guardia che avrebbero dovuto attenderla lì, al villaggio. Le proteste furono piuttosto tiepide: in fondo la ragazza sarebbe stata in compagnia dell’erede di Eldan e di Tom da un altro mondo, il portatore della spada magica Veleno. Durante il viaggio, lo stato d’animo di Diana sembrò rimanere tranquillo, nonostante un’ombra che ogni tanto le attraversava lo sguardo, per poi dissiparsi dopo qualche istante. Tom e Arla la osservavano di nascosto, però, e notavano
che il pallore sembrava aumentare, così come il livore al collo. Giunsero nei pressi del Cerchio senza che Diana e Tom se ne accorgessero. Si guardarono intorno, spaesati. Era quasi impossibile scorgere le pesanti forme delle pietre sotto lo strato di muschio e foglie. Nessuna di esse era rimasta in verticale e alcune sembravano addirittura essere state trascinate lontano dalla sede originale. Si avvicinarono a quello che sembrava essere il centro originario della struttura, almeno a guardare la disposizione attuale di ciò che ne rimaneva. Diana fece non più di due o tre i e si fermò, l’espressione sofferente. «Cosa c’è?», chiese Tom, quando se ne accorse. Vide che la ragazza barcollava e il suo viso venne velato da un’improvvisa preoccupazione. Diana era la Nera e la sua familiarità con il Potere Oscuro poteva scatenare una reazione violenta in un manufatto della Magia della Parola, anche se in quelle condizioni. «Mi sta… respingendo!», ansimò Diana serrando le labbra, senza che la sua espressione determinata mutasse di una virgola. «Forse dovresti…», provò a dire Arla. Venne fermata da un perentorio gesto con la mano di Diana. «So di cosa si tratta», rispose a mezza voce, socchiudendo gli occhi e portando una mano al collo, in corrispondenza del livore. «È già successo quando tentai di entrare nell’altro Cerchio di Pietra prima della Cerimonia con i Simulacri. Non vuole che entri, ma io… sono più forte!». Fece un o, con la lentezza di chi si trova immerso in una sostanza collosa. Poi un altro, mentre i suoi tratti si facevano tesi per lo sforzo. All’improvviso la resistenza dovette cedere, perché Diana cadde in avanti. Era dentro. «Tutto bene?», le chiese Arla, avvicinandosi e offrendole la mano per aiutarla a rialzarsi. «Il Cerchio è debole», rispose la ragazza, con espressione dolente, incerta se quel fatto fosse una buona notizia.
«Ma tu stai bene?», ripeté la domanda Tom. A guardarla non sembrava affatto. «Sì, credo di sì», annuì Diana il cui interesse era stato attirato dai monoliti. Si avvicinò al più vicino e cominciò a strappare via la pesante copertura vegetale a mani nude. «Datemi una spada», ordinò dopo qualche minuto, vedendo che i suoi sforzi si infrangevano su un intrico al quale erano stati concessi secoli per crescere. Arla non commentò e si limitò a scambiare uno sguardo preoccupato con Tom. Forse il Cerchio era troppo debole per impedirle di entrare all’interno del suo perimetro, ma l’aveva comunque riconosciuta e aveva cercato di fermarla. Cosa sarebbe successo se in qualche maniera lei avesse risvegliato anche solo parte dell’antico potere? Tom scosse le spalle: ne sapevano troppo poco e certo Diana non avrebbe rinunciato solo per le loro parole. Avrebbero dovuto limitarsi a essere guardinghi. La donna annuì e allungò la propria arma a Diana, che riprese la sua opera con rinnovato vigore. Dopo un’ora aveva riportato alla luce una porzione di colonna e cominciato a studiarla con attenzione. L’operazione continuò, con l’ausilio di Arla e Tom, per l’intero pomeriggio e riprese la mattina seguente, quando la ragazza si svegliò presto e continuò a lavorare fino a che non dovette cedere, esausta e affamata. «Stai trovando le risposte che cerchi?», le chiese Arla, allungandole un po’ di carne essiccata, mentre sedevano con la schiena appoggiata a un tronco. «È presto per dirlo», rispose Diana, scuotendo la testa. «Molte delle rune sono semicancellate, la disposizione dei monoliti non è più quella originale… ma la verità è che non sono sicura nemmeno io di cosa cercare. Penso che lo saprò solo quando lo troverò». Arla annuì e non disse altro. Tom si limitò a studiare il viso scavato di Diana e le pesanti occhiaie, che confermavano il peggiorare del suo stato di salute. Ma ogni volta che le chiedeva come stesse, le risposte tendevano a essere evasive. Non sapeva cosa pensare. Nei giorni successivi completarono l’opera, portando alla luce tutti i monoliti. Diana cominciò a studiare le rune che, almeno in parte, li ricoprivano ancora. Pur non comprendendone il significato, la ragazza tentava di ripetere quanto
aveva fatto tanto tempo prima, in compagnia di Lynerus. Era riuscita a innescare la Magia della Parola di quel Cerchio di Pietra, pur non conoscendola. In qualche modo sperava di fare altrettanto, risvegliando il potere che, seppure latente, percepiva fluire ancora all’interno dei monoliti. Si metteva in piedi di fronte a una delle colonne scolpite e allungava le mani. Chiudeva gli occhi e tentava di astrarsi da ciò che la circondava, mentre allo stesso tempo ampliava la sua percezione. Era così che era riuscita a usare il Potere Oscuro quando non lo conosceva, prima di entrare in possesso del Sigillo degli Evocatori, prima che Lynerus le insegnasse come leggerne il contenuto proibito e usarlo. Tom e Arla assistevano in silenzio a questi tentativi ripetuti, chiedendosi se avrebbero dovuto aiutarla in qualche modo, oppure fermarla. Diana sembrava ogni ora più stanca e meno lucida. Dopo ciascun tentativo la vedevano parlottare tra sé e sé, senza riuscire a comprendere cosa dicesse. Tentò, fallì e ritentò di nuovo. I giorni si susseguirono, in apparenza uguali gli uni agli altri, ma fu tutto inutile. «Niente», ammise Diana alla fine, accasciandosi esausta a terra e nascondendo il volto, rigato dalle lacrime, tra le mani. «O qui il Potere della Terra è troppo debole, oppure non sono in grado di raggiungerlo». Arla le si sedette vicino, abbracciandola e lasciando che si sfogasse. La ragazza si abbandonò, esausta per lo sforzo profuso, ma anche per gli innumerevoli dolori e frustrazioni che le si erano accumulati dentro. Nel frattempo Tom continuò a girovagare per i monoliti, alla ricerca di qualcosa che potesse costituire un appiglio per continuare a sperare, sempre che sperare fosse la cosa giusta da fare. Davvero non era facile. Più della metà delle rune era illeggibile e un’altra buona parte era incisa sul lato dei monoliti ora poggiato a terra, dunque irraggiungibile, a meno di non avere a disposizione un argano e una dozzina di uomini nerboruti. D’altra parte Tom non aveva idea di cosa si aspettasse Diana. Ricordava di aver sentito Lynerus ripetere, in più di un’occasione, che nella Magia della Parola era importante il suono e nessuno sapeva come leggere quelle rune. Scosse la testa. In quello stesso istante sentì una specie di tuono, seguito da una scossa che gli fece tremare la terra sotto i piedi. Infine la voce di Arla, disperata.
«Diana!», gridò la donna. «Diana!».
Nove
Tom si mise a correre e raggiunse le due donne in un attimo. Trovò Arla in ginocchio che stentava a trattenere Diana, in preda alle convulsioni. Si avvicinò e tentò di fermare le braccia della ragazza, che si agitavano colpendo con forza il terreno e il volto della donna. La tumefazione sul suo collo era divenuta quasi completamente nera e le arrivava a coprire ormai anche parte del viso. «Ma cosa è successo?», ansimò, faticando a frenare gli spasmi di Diana. «Non lo so, sembrava che fosse tranquilla. Era seduta accanto a me, poi si è alzata e si è avvicinata a quel monolite». «E poi?», chiese Tom, preoccupato. «Poi ha avuto un accesso di rabbia e ha colpito la pietra con i pugni. In quel momento è scattato qualcosa, un’energia che l’ha avvolta come una fiamma, che mi ha accecato e ha fatto tremare la terra. Ho tentato di raggiungerla, ma non ho fatto in tempo e lei è stata scagliata via». Tom alzò gli occhi. Ricordava perfettamente la grande pietra di forma cilindrica, poggiata di lato. Ora sembrava essere stata spostata di un paio di i e sulla sua superficie erano chiaramente visibili le impronte annerite di due mani. Ricordò di avere visto qualcosa di simile quando - tanto tempo prima sulla Terra - aveva cortocircuitato un apparecchio elettrico. Volontariamente o meno, la ragazza doveva aver scatenato l’energia latente nel Cerchio e questa doveva averla colpita, attraversando il suo corpo con violenza improvvisa. Le convulsioni di Diana sembravano non diminuire e ora erano accompagnate da rantoli e gorgoglii, come se la ragazza stesse per rigurgitare. Aprì la bocca e lui decise che avrebbe fatto bene ad agevolarla, spalancandogliela con le dita. Le ritrasse lorde di una bava nera che stava cominciando a colare fuori. «Cosa…?».
La sostanza era quasi solida, più simile a vomito che a saliva. Aveva un odore nauseante e in breve riempì la bocca di Diana, andandole per traverso e facendola tossire con forza. «Giriamola!», disse Tom, subito assecondato da Arla. Il rigurgito si fece ancora più intenso - somigliando a un’immonda fontana - e a terra in breve si formò una pozza, che macchiò i loro stivali quasi fino alle caviglie. Sembrava che Diana stesse per rigettare persino lo stomaco, per la violenza con cui lo stava facendo. E da dove proveniva quella sostanza? Ci vollero parecchi minuti perché il vomito rallentasse, per poi smettere del tutto. Diana era spossata, pallida come la camicia che indossava e priva di sensi. Attesero qualche attimo per vedere se fosse veramente finito, poi la posarono con delicatezza a terra, lontani dalla pozza il cui fetore era insopportabile, anche a quella distanza. «Cosa pensi che fosse?», chiese Tom, senza staccare gli occhi da Diana. «Ho già visto qualcosa di simile», rispose Arla, pensierosa. «Quando ci siamo incontrati, appena eravate arrivati su Nocturnia, ti ricorderai che io curavo Diana di notte in modo che non ve ne accorgeste». Tom annuì. «Per evitare che il Potere Oscuro la uccidesse prima che riuscisse a controllarlo, io estraevo da lei qualcosa di molto simile a quella sostanza che ha appena rigurgitato». «Ricordo, ti ho visto farlo dopo che Lynerus ci ha rivelato che eri una Taumaturga. Però aveva tutt’altra consistenza, era quasi etereo, incorporeo. Sembrava fumo. Come fai a dire che era simile a… quella cosa?». «So che sembra diverso», Arla scosse la testa. «Ma ti assicuro che si tratta della stessa sostanza. Ha il medesimo odore e lo stesso… non so come definirlo… ecco: lo stesso fremito». «È quello che penso?», chiese Tom. «Per quello che ne so, direi di sì», annuì la donna. «Se c’è una manifestazione
fisica del Potere Oscuro, quella è la cosa più simile che esista. E poi guarda: da quando ha vomitato quell’orrore, la macchia che aveva al collo è diventata molto meno scura. È come se stesse espellendolo». «Puoi aiutarla?». Era la cosa più importante, ora. «Non lo so». Scosse di nuovo la testa, senza alzare lo sguardo da Diana. «Il suo corpo ha rigettato quella… quella sostanza da solo, come se non ne sopportasse più il contatto. È qualcosa che ha a che fare con la magia, non con la malattia. Temo che le mie cure siano inutili, in questa situazione». Mentre parlava, comunque, Arla impose le mani sul petto della ragazza. Una pallida luminosità verdastra apparve tra le sue dita, mentre lei chiudeva gli occhi e tentava di entrare in contatto con la sua sofferenza. Rinunciò dopo qualche minuto, scuotendo la testa. «È come temevo», mormorò annuendo e fissandolo negli occhi. «Non c’è nulla da curare. Il suo corpo è sano e anche il dolore che prova non ha nessuna causa fisica. C’è una guerra in atto dentro di lei: Potere della Terra e Potere Oscuro stanno combattendo all’ultimo sangue per avere il sopravvento. Il risultato dipenderà anche dalla forza del suo fisico». «Mi domando se dovremmo farla uscire dall’interno del perimetro del Cerchio di Pietra. Forse al di fuori si sentirà meglio». «Non credo che sia una buona idea. Temo che, se interrompessimo il processo ora che è iniziato, potremmo farle del male. Ricorda che la tumefazione è continuata a peggiorare per tutto il periodo che ha preceduto il nostro arrivo qui». Le domande e le congetture rimasero sospese tra di loro. Diana era pallida come un lenzuolo e giaceva immobile, il respiro impercettibile e il battito del cuore lievissimo. Tom venne precipitato indietro nel tempo, quando la malia di Shiar l’aveva resa incosciente per settimane, fino a che i Sigilli, che lui aveva portato attraverso il Varco, non l’avevano risvegliata. Solo che adesso non c’era Lynerus a consigliarli e non avevano la più pallida idea di come aiutare la ragazza. Nonostante comprendesse l’inutilità dei suoi sforzi, Arla impose a lungo le mani su Diana, nella speranza che almeno la luminosità taumaturgica le desse del sollievo. Nervoso e con la sensazione di essere inutile, Tom si alzò e si aggirò a
lungo tra i monoliti. Se la ragazza stava così, era probabile che in qualche maniera fosse riuscita a innescare il loro potere. Li osservò, poi li sfiorò con le mani. Non percepiva nulla. Girovagò ancora a lungo, per pensare e scaricare la tensione, mentre Arla si era allontanata da Diana e si era sdraiata, esausta. Si fermò di fronte al monolite spostato dall’esplosione che aveva colpito Diana. Nel muoversi era anche parzialmente ruotato su se stesso, scoprendo una parte, che in precedenza era a contatto con il terreno. C’erano dei segni coperti da muschio e terra, indistinguibili nell’oscurità che stava calando. Ci ò una mano sopra, poi sospirò distogliendo l’attenzione. Avevano altri problemi di cui occuparsi. Tornò indietro e accese un fuoco per allontanare il freddo della notte. Prese l’ultimo pezzetto di carne secca dalla bisaccia e lo porse ad Arla. La donna ne aveva decisamente più bisogno di lui. La compagna allungò una mano e cominciò a sbocconcellare la carne in silenzio. Tom si avvicinò a Diana, che giaceva pallida e immobile, statua di cera nell’oscurità che li avvolgeva. Le accarezzò il volto mormorandole delle parole di conforto. Sarebbe stata una lunga notte.
Dieci
Quando la notte sbiadì, le viuzze di Porto Nascosto si erano quasi del tutto svuotate. Le donne, i vecchi e i bambini si erano barricati nelle case, mentre tutti gli uomini dai dodici anni in su avevano preso qualsiasi cosa potesse essere usata come arma e si erano posizionati lungo il perimetro delle mura. Le guardie con gli archi si erano piazzate in cima, in punti strategici, mentre tutti gli altri attendevano dietro i portoni, che li separavano dalle banchine e dall’acqua. Herd Punta-d’Arpione - dopo aver consegnato l’uomo, che portava a spalla, per farlo curare - era stato considerato dal capitano della Guardia il suo sostituto naturale. Gli era stato chiesto se preferiva usare l’ascia, la spada o l’arco e gli era stato ordinato di raggiungere il resto dei difensori all’interno delle mura. Il pescatore aveva optato per tenere l’ascia, visto che non aveva alcuna familiarità con le altre armi. Quella, invece, l’aveva usata per tagliare la legna e per costruire la sua barca e, tutto sommato, si sentiva a proprio agio nel maneggiarla. Dall’alto degli spalti, mano a mano che la notte schiariva e il cielo diveniva color grigio acciaio, si riusciva a spingere lo sguardo fino al limite della rada di fronte a Porto Nascosto e ai frangiflutti che la delimitavano. In apparenza nulla sembrava accadere e le acque della baia erano tranquille come al solito. Ma nel giro di meno di un’ora tutto cambiò. La superficie dell’oceano si scurì e sotto di essa qualcosa cominciò ad agitarsi. Pochi minuti ancora e apparvero delle forme, che Herd ormai conosceva sin troppo bene. Dozzine di tentacoli di Kraken emersero all’improvviso e cominciarono ad agitarsi in maniera parossistica. Innumerevoli Schizzafiele nuotavano esponendo il viscido dorso all’aria, per poi inabissarsi di nuovo. Come trasportati da una lunga onda invisibile le creature si avvicinarono alle banchine, dove li attendeva la Guardia della città. In prima fila erano stati piazzati uomini con lunghe picche, che entrarono in azione non appena le creature furono a portata. Infilzarono le punte nei corpi mollicci e in breve la superficie dell’acqua divenne nera come l’inchiostro, costellata qua e là di cadaveri galleggianti. Pochi minuti, però, e centinaia di
spruzzi di liquido verde piovvero su di loro. Con entrambe le mani impegnate a usare le picche, nessuno dei soldati poteva proteggere con lo scudo le parti del corpo esposte e la sostanza li abbatté come una falce. Crollarono svenuti all’istante. Alcuni a terra, e furono i più fortunati, gli altri in acqua. I primi in molti casi furono portati via dagli uomini della seconda fila, mentre i secondi vennero sbranati vivi. I pochi soldati armati di picca ancora in piedi vennero fatti indietreggiare, mentre quelli con spada e un piccolo scudo tondo rimasero a fronteggiare gli Schizzafiele, che cominciarono a emergere dalle acque e a trascinarsi fuori. Strisciarono e arrancarono lungo le banchine e sul molo, mentre dalle loro bocche cominciò a fuoriuscire un orribile mugghio, che ferì con la sua violenza le orecchie dei difensori. Sulle mura trattennero il fiato, mentre i soldati si lanciavano sulle creature. In un primo momento la maggiore mobilità degli uomini sulla terraferma, confrontata con la goffa lentezza dei mostri, sembrò poter garantire una rapida vittoria. Usando la spada con ampi fendenti e proteggendo il viso - unica parte scoperta del corpo - con lo scudo, li ricacciarono fino al limitare del molo. Ma la pioggia di liquido verde era incessante e inevitabilmente qualche schizzo colpiva il volto di uno dei difensori, che crollava senza che chi gli stava accanto potesse proteggerlo. Le braccia si facevano pesanti e gli Schizzafiele sembravano non avere fine, ondata dopo ondata. Dovettero indietreggiare, cedendo la banchina e avvicinandosi alle mura. La situazione stava diventando insostenibile. «Ritirata!», urlò alla fine il capitano delle guardie. La porta di ingresso alla città venne aperta e i soldati si ritirarono con ordine, protetti da una salva di frecce, che si abbatté sulle creature marine dalla cima delle mura. Quando tutti furono dentro e la porta fu di nuovo serrata, la pioggia di strali divenne tempesta, nel tentativo di impedire ai mostri di avvicinarsi oltre. Molte delle frecce si infransero sul selciato del molo, scagliate da mani meno che abili. Altri dardi si infilarono con disgustosi risucchi sui corpi dei mostri, senza che essi dessero neppure segno di avvedersene. I difensori scrutarono l’avanzata con preoccupazione crescente. Le mura erano
solide, ma Porto Nascosto non subiva un assedio da generazioni e nessuno di loro aveva la più pallida idea su come respingerla. Le creature strisciarono fino a sotto gli spalti con le loro movenze, che insinuavano negli animi degli spettatori un’agghiacciante sensazione di terrore, per nulla sminuita dalla goffaggine con la quale si spostavano sulla terraferma. La pioggia di frecce venne sostituita da una grandinata di pietre di ogni dimensione, che sembrò rallentare gli Schizzafiele. Ma fu una sensazione di breve, brevissima durata. Pur avendo zampette e pinne inadatte alla scalata, l’istinto - o forse, chissà, un’invisibile intelligenza superiore, in grado di coordinare l’attacco - li spinse a salire arrampicandosi l’uno sull’altro. Formarono così strati su strati, che assottigliarono sempre più la distanza tra quelli al vertice della piramide e la cima delle mura. Tra i difensori cominciò a diffondersi il panico. Un viavai frenetico sugli spalti testimoniava l’assoluta confusione che regnava tra le loro file. Herd, che non aveva mai smesso di scagliare verso il basso rocce delle dimensioni della testa di un uomo o anche più grandi, si rese conto che, se le creature li avessero raggiunti, la disfatta sarebbe stata inevitabile. Abbandonò la sua posizione, alla ricerca di un’idea. Mentre camminava alle spalle di soldati strenuamente impegnati nel lancio di pietre, vide uno di loro barcollare e perdere l’equilibrio. Era stato colpito da un getto del liquido verde che paralizzava e, se non fosse riuscito ad afferrarlo per un braccio, l’uomo sarebbe precipitato. Nel trattenerlo, colpì inavvertitamente il o di una torcia, che cadde. Fu una fortuna, perché Herd ebbe modo di vedere che il contatto con la fiamma apriva un varco tra gli assedianti, che si ritrassero emettendo grida stridule. «Il fuoco!», urlò con tutte le sue forze. «Dobbiamo usare il fuoco!». Le prime a essere utilizzate furono le torce sulle mura, anche se era ovvio che non sarebbero bastate. Fu portato sugli spalti qualsiasi oggetto infiammabile e venne gettato giù. La mossa fu efficace, ma non sufficiente. Ci voleva qualcosa di meglio. «Portate i barili di olio nero!», gridò qualcuno e Herd si chiese come poteva essere stato così stupido da non pensarci. Sperava che fossero ancora in tempo. I barili vennero spinti, con la forza della disperazione, in cima alle mura. Alcuni
venivano aperti e l’olio rovesciato sugli Schizzafiele, seguito da torce accese. In altri casi vi veniva praticata una stretta fessura, nella quale era inserito qualcosa che fungesse da miccia, spesso una camicia strappata e arrotolata su se stessa. Le veniva dato fuoco e il barile scagliato giù, dove esplodeva aprendo enormi vuoti tra le file nemiche. Dalle creature marine si alzarono grida di dolore e di rabbia ancora più assordanti e raccapriccianti delle precedenti. Mentre si inerpicavano, venivano investite dall’olio infuocato e ricadevano indietro, spesso schiantandosi a terra in fiamme, senza più rialzarsi. Grum Gamba-Mozza, posizionato sulla verticale esatta della porta, che separava il molo dal centro di Porto Nascosto, accolse quella notizia come la prima buona da parecchio tempo a quella parte. Le acque della rada ribollivano letteralmente dell’agitarsi di migliaia di quelle creature e, se fossero state in grado di scavalcare le mura, non ci sarebbe stato scampo per nessuno di loro. Ma era scritto che non dovesse succedere quel giorno. L’impeto dell’avanzata rallentò, per poi bloccarsi. Infine il silenzio calò improvviso, mentre tutto attorno grida di giubilo accoglievano la ritirata delle creature, che cominciarono a ripiegare verso le acque della baia. Nello stesso tempo, però, era chiaro che, se pure per il momento la popolazione non fosse in pericolo immediato di vita, la loro fine era solo rimandata. Le terre al di qua della catena montuosa Dorso di Drago erano avare di selvaggina da poter cacciare e brulle a sufficienza da non consentire coltivazioni estese, tali da sfamare la sua gente. Non era un caso se da secoli il suo popolo, per sopravvivere, aveva dapprima depredato e poi pescato. Forse allontanandosi verso l’interno avrebbero impedito alle creature di ucciderli, ma avrebbero anche abbandonato l’unica fonte, seppure scarsa, di cibo che conoscevano. «Non ce la fanno!», esclamò Ern Il-Calvo, accanto a lui, come gli altri Consiglieri. «Le mura dei nostri avi ci hanno salvato ancora una volta la vita!». «Vedo», rispose laconico Grum, sovrappensiero. «Perché sei così triste?», gli chiese Fray Pelle-di-Rospo, anch’esso visibilmente sollevato e sorridente. «Le nostre famiglie sono salve!». «Per ora». «Cosa temi?», insistette Fray. «Non ce la faranno mai a superare le mura!».
«Non ne hanno bisogno», mormorò Haimir Il-Viaggiatore, che sembrava essere l’unico del Consiglio a condividere il pessimo umore di Grum. «Saremo noi a dover andare loro contro, quando la sola alternativa sarà lasciar morire di fame i nostri figli». Quando la ritirata veloce e inaspettata si fu conclusa, Grum scese giù dalle mura e diede ordine che i cadaveri di due creature, scelti tra quelli risparmiati dal fuoco, fossero raccolti e portati nel sotterraneo del palazzo del Consiglio. Per combattere un nemico, bisogna conoscerlo. Mentre si avviava lui stesso, il suo sguardo cadde su Herd Punta-D’Arpione, che gli si stava avvicinando a rapidi i. «Grum, posso parlarti?», chiese questi, chinando leggermente il capo in segno di saluto. «Dimmi, Herd», annuì. «Fai con me un po’ di strada. Ti ho visto batterti valorosamente sulle mura». «Non basterà il coraggio. Sai meglio di me che il fatto che si siano ritirati non significa nulla. Sono là fuori che ci aspettano». Grum annuì, stanco, ma non disse nulla. «Ho avuto un’idea per costruire una barca che possa resistere a quelle creature», proseguì Herd. «Con fianchi inclinati e cosparsi di grasso per evitare che possano arrampicarsi e ricoperte di punte di metallo, a distanza di un palmo l’una dall’altra, così che i tentacoli non possano avvolgersi su di esse senza ferirsi!». «Non so…», rispose Grum, un po’ sorpreso dall’idea del nipote. «Credi che galleggerebbero?». «Farò in modo che sia così», rispose Herd, annuendo. «Hai detto che mi avreste aiutato a ricostruire la mia barca e la mia casa: non avrò mai più una casa, se non riuscirò a vendicare la mia famiglia, per cui ti chiedo di assegnarmi qualche uomo che mi aiuti a costruire tre o quattro barche così come le ho pensate. Se funzionerà come spero, potremmo costruirne altre e usarle per proteggere la pesca dei cittadini di Porto Nascosto». Grum acconsentì. L’iniziativa di Herd l’aveva colto di sorpresa, ma era anche
l’unica risposta concreta al problema, di cui aveva appena discusso con gli altri Consiglieri. Il pescatore si allontanò stringendogli la mano e assicurandogli che non avrebbe tradito la fiducia riposta nei suoi confronti. Nel frattempo era giunto al palazzo del Consiglio. Scese direttamente nel sotterraneo, dove le guardie avevano poggiato due corpi avvolti in teli cerati su tavolacci di legno. Grum si avvicinò al primo allungando la mano con un certo timore, poi si fece coraggio e scoprì il cadavere. Non aveva mai visto nulla del genere. Si trattava di una specie di lombrico delle dimensioni di un uomo, senza pinne né alcun mezzo apparente per muoversi in acqua. Solo due ridicole zampette, insufficienti per qualsiasi movimento. Da una delle due estremità una specie di troncone di coda, mentre dall’altra una bocca larga quanto il corpo stesso, con due corone concentriche di denti triangolari. Nient’altro. Né occhi, né branchie. ò al cadavere successivo. Lo scoprì gettando la ruvida tela a terra e lo osservò. Questo aveva l’aspetto di una grande lucertola, con le zampe palmate. Ma bastava un’occhiata alla testa per capire che era molto più simile alla creatura vermiforme che aveva osservato in precedenza, che all’animale cui somigliava. Anche questa aveva la testa priva di occhi o di altre cavità, che non fossero le fauci. Esse erano irte di zanne curve e al posto della lingua c’era una sorta di tubo, dal quale gocciava un po’ di liquido verde. Grum lo riconobbe. Aveva visto uomini forti come tori cadere dalle mura paralizzati, dopo esserne stati colpiti. Scosse la testa. Quelli non erano animali, non nel senso che lui attribuiva al termine. Per accertarsene sfilò un coltello dalla cintura e lo avvicinò al ventre del cadavere. Al contatto, la carne sembrava molle come una spugna. Quando affondò la lama, questa penetrò producendo un orrido risucchio. Tirò verso il basso, in modo da creare una fenditura attraverso la quale osservare le viscere. Un fiotto di liquido nero fuoriuscì e Grum fece appena in tempo a togliere la mano, perché a contatto con il terreno esso cominciò a frigolare spargendo un fumo acre e consumando la pietra. Un acido! Attese che il siero fosse colato via e, con estrema attenzione, usò il coltello per allargare i bordi dello squarcio e scrutare all’interno. Nulla. Solo quella disgustosa carne dalla consistenza gelatinosa e il liquido corrosivo, sorretti da uno scheletro grigio che pareva di metallo. Non un organo che potesse
farle somigliare a creature viventi. Con la pelle d’oca per il terrore soprannaturale e la sensazione di un pugno che gli serrava lo stomaco, ripeté l’operazione sull’altro cadavere, ottenendo l’identico risultato. «Potere Oscuro…», mormorò, spaventato dal suono stesso delle sue parole.
Undici
Herd Punta-d’Arpione si impegnò con estrema dedizione al compito che si era fatto assegnare. Il giorno stesso dell’assedio, quando la maggior parte degli uomini era impegnata a bruciare i corpi delle creature degli abissi marini rimaste ai piedi delle mura e le donne piangevano i difensori che erano morti nel fronteggiarle, lui riunì una piccola squadra. Forte dell’appoggio del Governatore, era entrato nelle botteghe di alcuni Maestri d’Ascia - che aveva osservato al lavoro nei giorni precedenti - e li aveva reclutati. In fondo la sua idea era semplice: aveva visto quali erano le elementari – anche se terribilmente efficaci – tattiche di attacco delle creature marine e aveva pensato a delle contromosse altrettanto elementari. Esse si arrampicavano sulle imbarcazioni, oppure le rovesciavano: avrebbero dovuto impedire entrambe le cose. Spiegò ai Maestri d’Ascia, che lo ascoltarono attenti, cosa voleva ottenere. «Dobbiamo rendere impossibile a quei mostri di risalire dalle acque», disse, quando si furono seduti a semicerchio attorno a lui, nel retro di una delle loro botteghe. «Potremmo fare barche con fiancate più alte», suggerì uno degli artigiani. «È una buona idea, ma temo che non basterà», annuì Herd. «Credo che dovremmo creare una specie di scivolo di materiale molto duro, senza appigli e ricoperto di grasso, per impedire a quelle loro strane pinne unghiute di avere presa». «Si potrebbe costruire in legno ricoperto di metallo», disse un altro di loro. «Se otteniamo una lamina abbastanza sottile, il peso della barca non dovrebbe aumentare in maniera eccessiva». «Il problema da risolvere è proprio quello del peso», riprese Herd. «Dobbiamo rendere l’intera struttura della barca più resistente e ricoprirla di punte come il dorso di un riccio, per fare in modo che i tentacoli non riescano ad avvolgersi».
«Una barca con tutto quel metallo non galleggerà mai», disse scuotendo la testa il più anziano tra i Maestri d’Ascia presenti. «A maggior ragione se deve trasportare molti uomini armati». «E se sfruttassimo lo spazio sotto questi scivoli laterali per rendere più voluminosa la chiglia?». La discussione proseguì per l’intero pomeriggio. Alla fine convennero tutti per una struttura di legno ricoperta da un sottile strato di metallo, il cui peso sarebbe stato controbilanciato da una parte immersa di volume maggiore. Le imbarcazioni costruite con queste caratteristiche non sarebbero state molto manovrabili e presto avrebbero avuto problemi di ruggine ma, nell’immediato, la speranza era che riuscissero a creare una barriera per proteggere le barche dei pescatori. Ci volle una giornata di lavoro ininterrotto, durante la quale nessuno uscì dal porto, per modificare una barca esistente e creare un prototipo. Di contro, le creature marine rimasero all’esterno della baia, quasi fossero in attesa di qualcosa. Messa in acqua, l’imbarcazione non solo galleggiò, ma si rivelò meno goffa nei movimenti di quanto Herd avesse temuto. L’albero della vela era stato eliminato, avendo optato per la sola spinta dei remi e quindi poteva trasportare una mezza dozzina di uomini armati, oltre ai vogatori. Grum, che aveva assistito alle prove di galleggiamento appena dentro il frangiflutti, annuì soddisfatto e diede l’autorizzazione a che ne fossero costruite altre, il più rapidamente possibile. Ormai i cittadini erano ridotti alla fame e se non avessero trovato il modo per tornare a pescare, garantendo il sostentamento delle famiglie, essere riusciti a respingere l’assedio delle creature del Potere Oscuro si sarebbe rivelato del tutto inutile. Dopo cinque giorni, durante i quali tutti i Maestri d’Ascia lavorarono seguendo le indicazioni di Herd, una piccola flotta di dieci imbarcazioni fu pronta a salpare verso l’esterno della baia, per creare una sorta di cordone protettivo. L’idea era quella di navigare lungo la Costa, verso sud, e di tenere le barche dei pescatori sempre tra loro e la terraferma. Era probabile che la pesca non sarebbe stata abbondante, ma sembrava l’unico modo per evitare che fossero affondate e gli uomini massacrati. Uscirono dal porto sotto lo sguardo preoccupato delle donne e dei bambini.
Anche Grum Gamba-Mozza e il resto del Consiglio li osservavano dall’alto delle mura, augurandosi che le imbarcazioni corazzate resistessero al probabile attacco da parte delle creature marine. Rimasero lì quasi l’intera giornata, nella spasmodica attesa di vedere i loro concittadini tornare sani e salvi. Stava quasi per calare il buio, quando una piccola processione fece ingresso in rada. Una, due, tre… Grum le contò istintivamente, chiedendosi quale percentuale di perdite sarebbe risultata accettabile. Ma le barche rientrarono tutte, tra il tripudio della gente assiepata sui moli e lungo le mura. Anche se le reti erano rimaste mezze vuote, il ritorno della piccola flotta era una splendida notizia. Significava che se avessero costruito altre imbarcazioni corazzate, avrebbero potuto far uscire un numero maggiore di barche da pesca. E forse avrebbero potuto osare allontanarsi dalla Costa della Tempesta in cerca di banchi di pesce più grandi. I Consiglieri si scambiarono un sorriso. Le cose continuarono così per varie settimane. I cantieri di Porto Nascosto continuavano a convertire barche da pesca in imbarcazioni corazzate, in grado di sostenere un combattimento in mare. La flotta ormai si componeva di quasi un centinaio di esse, tanto che il legno adatto a modificarne altre cominciò a scarseggiare. Prima o poi avrebbero dovuto provvedere ad approvvigionarsene. Herd era molto orgoglioso della sua intuizione e spesso accompagnava la flotta nelle battute di pesca. Erano ati due mesi dalla morte dei suoi familiari e, anche se il dolore era tutt’altro che sopito, almeno la sensazione di aiutare la Gente della Costa lo faceva sentire utile. E vivo. Ritto sulla prua di una delle imbarcazioni corazzate, si godeva la carezza del vento carico di salsedine. La flotta si diresse in mare aperto, incurante delle creature che nuotavano appena sotto la superficie delle onde cremisi. Sembravano aver rinunciato ad attaccarli, quasi una forma di intelligenza collettiva suggerisse loro che si trattava di prede troppo coriacee. Era una bella giornata di pesca e Herd era sicuro che le reti si sarebbero riempite più del solito. Fu dunque con grande sorpresa che udì delle grida provenire dall’altra estremità della formazione. Aguzzò lo sguardo e, dopo qualche momento di incredulità, vide l’oceano gonfiarsi come un’enorme pustola sotto le due barche più lontane. Esse schizzarono verso l’alto e si rovesciarono, mentre una forma titanica emergeva dai flutti. Era talmente grande che pareva un’isola, sorta dove fino a
quel momento c’era stata solo l’acqua. Però non era un’isola. Era una creatura delle dimensioni di una montagna. Herd aveva sentito parlare degli enormi cetacei cui davano la caccia i suoi antenati e quella era la cosa più simile ad essi che riuscisse a immaginare. Ma non era neanche una balena. Aveva riconosciuto il mostro marino tra quelli che aveva visto disegnati sul libro di Grum: era un Leviatano. Il fetore di decomposizione che giungeva fin lì era talmente forte da farlo svenire e le sue fauci erano enormi, tanto da ingoiare le barche rovesciate con tutti gli uomini che trasportavano. Coraggiosamente, le altre imbarcazioni si avvicinarono per attaccare la creatura tutte insieme. Ma erano come mosche che tentavano di colpire un gigante, minuscole e del tutto inermi. Si alzò una nuvola di frecce, che si conficcarono senza alcun effetto sulla sua pelle grinzosa. L’unico risultato che ottennero fu di renderla furiosa e di scatenare un colpo con l’immensa coda, che rovesciò almeno mezza dozzina di barche. «Indietro! Indietro!», gridarono dalle imbarcazioni più lontane dal Leviatano. «È un massacro!». Non poteva dar loro torto, anche se il suo istinto sarebbe stato quello di correre in soccorso dei dispersi. Il titano degli abissi li avrebbe uccisi tutti, tanto valeva che qualcuno sopravvivesse per riferire quanto aveva visto. Fu una fuga disperata, funestata dalla perdita di tutte le imbarcazioni che erano rimaste in retroguardia. Quando giunsero all’imboccatura della baia di fronte a Porto Nascosto, il loro numero era un terzo di quello iniziale. Un silenzio attonito li accolse sulle banchine, quando i loro concittadini ne videro i volti atterriti e pallidi. Grum Gamba-Mozza era l’unico del Consiglio presente sul molo. «Cosa è successo?», chiese a bassa voce avvicinandosi a Herd, quasi temesse che la risposta potesse far propagare il panico nella città. «Un Leviatano, grande come venti delle nostre barche!», ansimò Herd, ancora affaticato per aver remato con tutte le sue forze fin lì. «Seguimi».
Si allontanò dal porto e si diresse a o svelto, per quanto gli concedesse la gamba di legno, verso il palazzo del Consiglio. Là trovarono Ern Il-Calvo, Fray Pelle-di-Rospo e Haimir Il-Viaggiatore, che Grum aveva fatto convocare non appena aveva visto la flotta rientrare, decimata. Giunsero alla Sala e chio la porta dietro di loro. Quanto stavano per dire sarebbe dovuto rimanere sigillato tra quelle quattro mura. «Signori», esordì Grum, nel silenzio più totale. «La situazione è divenuta all’improvviso ancora più grave di quanto non fosse in precedenza. Herd Puntad’Arpione mi ha riferito di un Leviatano che ha affondato la nostra flotta quasi per intero. Pensi che ce ne siano altri, là fuori?» «Non ne ho visti, ma anche se non ce ne fossero…», rispose Herd, scuotendo la testa. «Da sola quella creatura ha distrutto tutte le barche che gli si sono avvicinate e non credo che siano riusciti neppure a ferirlo, traando la sua pellaccia». Una cappa di silenzio calò sulla sala. «Non è tutto. C’è una cosa che vi devo dire», mormorò Grum. «Finora ve l’ho taciuta perché ho, ingenuamente lo ammetto, pensato che la soluzione delle imbarcazioni corazzate avesse risolto i nostri problemi». «Vai avanti», lo sollecitò Haimir, quando vide che esitava. «Subito dopo aver respinto l’assedio, ho fatto portare un paio di quelle creature nei sotterranei di questo palazzo, per dar loro un’occhiata da vicino. Ebbene, pur non essendo un esperto in materia, sono quasi certo che siano state generate dal Potere Oscuro!». Le sue parole vennero accolte da un silenzio attonito. Porto Nascosto era riuscito a rimanere fuori dalla Guerra del Buio e, anche se la Gente della Costa aveva comunque dovuto patire a causa del Potere Oscuro, non aveva recente familiarità con le Creature delle Tenebre. Antiche leggende narravano di mostri orrendi celati nelle profondità dell’Oceano di Sangue e attribuivano alla loro attività predatoria la scarsità di pesce che da sempre li assillava. Ma nessuno di loro aveva mai pensato che tali creature potessero essere frutto dell’uso delle Arti Proibite. Anche ora che erano riapparse, tutti erano propensi a pensare che fossero giganteschi animali degli
abissi oceanici, tornati alla superficie in cerca di preda. Grum scosse la testa, rendendosi conto di aver sprecato tempo. Tanto, forse troppo. Gli altri Consiglieri non parlavano, ma sapeva cosa stavano pensando: se avesse detto loro che si trattava di Potere Oscuro, avrebbero votato all’unanimità per consultare l’unica persona che ne era avvezza, secondo quanto si mormorava a Porto Nascosto. «Andrò a chiedere consiglio a Dagar Vede-nel-Buio», disse infine.
Dodici
Diana aprì gli occhi e dovette richiuderli subito. Un’inusuale luce dorata avvolgeva la piccola radura dove giaceva sdraiata, donando agli alberi della Selva un colore caldo e piacevole. I raggi filtravano attraverso i rami, come ricordava aver visto soltanto sulla Terra, durante le belle giornate di sole. Non si domandò come potesse essere e si limitò a sorridere, compiaciuta. Nocturnia stava cambiando ed era anche merito suo. Si cullò per qualche istante sul morbido letto di erba e foglie, poi si stiracchiò. Chissà quanto aveva dormito. Il suo stomaco brontolava per la fame, aveva le braccia e le gambe intorpidite. Avvertì un fruscio, non molto lontano, e in quel momento le venne in mente che non avrebbe dovuto essere sola. Dov’erano Arla e Tom? Si guardò attorno, più curiosa che preoccupata. In una giornata come quella, non poteva che andare tutto per il verso giusto. I suoi amici forse si erano allontanati per cacciare e sarebbero tornati presto, portando qualcosa per pranzo. Osservò con più attenzione la radura, che non riconosceva. Si erano accampati per giorni all’interno delle rovine del Cerchio di Pietra, ma ora non si trovava più lì. Non scorgeva le masse imponenti dei monoliti riversi, ormai liberati dai rampicanti che li avevano nascosti per anni, se non per secoli. Appoggiò i gomiti a terra e lasciò spaziare lo sguardo, ma senza capire. Dove si trovava? Il filo dei suoi pensieri venne interrotto da un nuovo fruscio, questa volta molto più vicino. Si girò e vide una figura emergere dall’ombra di un grande olmo. Eliel! Quando lo riconobbe, il fiato le si mozzò all’improvviso e il cuore perse più di un battito. Ne scrutò il viso amato con la paura e l’incredulità di chi teme di essere beffato da un inganno dei propri occhi. Ma non c’erano dubbi: era proprio lui. Le sorrise e i suoi occhi lampeggiarono, luminosi come stelle. Diana sentì l’animo riscaldarsi, come accanto a un fuoco.
«Ti sei svegliata, finalmente», le disse, avvicinandosi e gettando a terra due o tre piccole prede, risultato di una mattina di caccia. «Ma tu… dove…», balbettò lei, interdetta. Mille domande le sovvenivano assieme, accavallandosi con altrettante emozioni. «Sono tornato da te, amore mio». Eliel si chinò su Diana, le prese delicatamente le mani per aiutarla ad alzarsi e la baciò. Rimasero abbracciati a lungo: la ragazza incredula di aver ritrovato il suo compagno e lui affettuoso e caldo come forse non era mai stato. Si accarezzarono, si baciarono e poi si accarezzarono di nuovo perdendo del tutto la nozione del tempo. Alla fine Eliel le sorrise, dolce. «Se non mangi, morirai di fame», disse, sciogliendosi delicatamente dall’abbraccio e cominciando a riattizzare il fuoco lì vicino, ormai spento da ore. Diana lo osservò mentre spellava gli animaletti, li tagliava in quarti e poi li cuoceva tenendoli infilati sulla punta di bastoncini appuntiti. Taceva, come temesse che il suono della sua voce potesse rompere l’incantesimo della riapparsa di Eliel. Ma era ovvio che non poteva limitarsi a rimanere in silenzio per sempre. Doveva sapere. «Dove sei stato tutto questo tempo?», chiese alla fine. «Ho pensato che tu fossi sparito. Ho temuto che fossi morto». «Mi sono dovuto allontanare da te per comprendere qualcosa sulla mia natura», le rispose lui, sempre sorridendo. «C’era una cosa che mi preoccupava e dovevo cercare delle risposte». «E le hai trovate?». Diana non capiva, ma sentiva che domande più inquisitorie avrebbero potuto rompere l’atmosfera magica che si era creata tra loro. «Certo, ho trovato questo». Eliel infilò una mano in tasca e ne trasse un libretto dalla rilegatura consumata ai bordi, che racchiudeva fogli di pergamena ingialliti. Diana lo osservò, senza però trovarvi la risposta alle domande, che non aveva avuto il coraggio di formulare.
Era chiaramente un manufatto magico: a giudicare dal titolo si trattava di un trattato di demonologia. Ma che risposte aveva trovato lì dentro? E a quali domande? Un brivido si insinuò nel suo animo. «Quando tu hai sciolto il mio legame con gli Abissi non eri diventata ancora la Nera, eri troppo inesperta per compiere il rito in maniera corretta». Gli occhi color turchese del ragazzo sembravano inchiodarla alle sue responsabilità, nonostante il sorriso che continuava a illuminargli il volto. Diana deglutì, attendendo che riprendesse parlare. «Ho trovato questo testo nella biblioteca della Confraternita degli Evocatori», continuò lui. «E leggendolo ho capito di essere divenuto un mezzodemone, cioè un essere a metà tra un demone e un uomo. Sono fuggito dalla Cittadella e volevo scomparire dalla tua vita, perché temevo che la mia natura sarebbe tornata prima o poi quella di una volta, feroce e demoniaca». «Ma io…». «So che hai sempre percepito una stranezza in me, anche se forse non riuscivi a comprendere da cosa fosse causata, e il nostro amore ne ha sofferto». Diana continuava a guardarlo, ma senza capire con esattezza di cosa parlasse e senza avere il coraggio di parlare. Notò appena che la gioiosa luminosità che avvolgeva la radura al suo risveglio era gradualmente scomparsa, sostituita da una grigia penombra. «Ma ho ato mesi interi a studiare questo libricino, a sviscerarne i segreti», riprese Eliel, nel cui sguardo adesso brillava una scintilla fredda. «Ora puoi usare i tuoi poteri di Nera per pronunciare i rituali che esso contiene. Così mi strapperai alla condizione di mezzodemone e farai di me un essere umano, rimediando al tuo errore». Il volto del ragazzo cambiò per un istante, prendendo delle orribili fattezze bestiali. Il mutamento fu quasi impercettibile, ma non sfuggì all’occhio di Diana, che inorridì. Il tempo di un battito di ciglia e il bel viso che amava era di nuovo lì, ma il suo animo si era colmato di dubbi e di paure. Aveva visto cosa era un mezzodemone.
«Io non posseggo più la capacità di usare il Potere Oscuro», mormorò la ragazza. Allungò la mano per accarezzare Eliel, che però gliel’afferrò e strinse il polso con forza. I lineamenti dolci del suo viso si contrassero in una smorfia che Diana non avrebbe esitato a definire di odio, se l’avesse vista su qualcun altro. «Tu… non… vuoi… aiutarmi!», rantolò con voce inumana, che sembrava davvero provenire dagli Abissi. La mano di Eliel ora stringeva con tale forza, da farle temere che le avrebbe spezzato il polso, come un ramo di legno secco. Sentì le unghie penetrarle nella carne e, quando chinò la testa per guardarla, vide una specie di zampa artigliata di colore verde marcio. «Non posso!», urlò Diana con quanta forza aveva in corpo, mentre tentava invano di divincolarsi. «Dopo le Cerimonie di Sangue il Potere Oscuro ha perso la forza che aveva in precedenza e le mie capacità magiche non sono più in grado di manipolarlo! Ti prego, mi stai facendo male!». Ma Eliel ormai non sembrava più lui. Mentre l’oscurità attorno a loro si faceva sempre più densa, il suo corpo stava mutando. Era alto almeno il doppio di lei, la schiena si era ingobbita, il collo era divenuto tozzo, il viso si era trasformato in un muso schiacciato, i capelli non c’erano più, gli occhi erano diventati gialli. Forse era l’aspetto originale di un demone cangiante, o forse una delle tante forme che poteva assumere. Non aveva importanza. Qualsiasi cosa fosse, terrorizzava Diana. La ragazza balbettò una richiesta di aiuto, poi svenne mentre le fauci del demone, che era stato Eliel, si spalancavano per ghermirla.
Tredici
Tom si svegliò all’improvviso. Diana accanto a lui si stava agitando, come in preda al più orribile degli incubi. Infilò l’estremità di una torcia nei tizzoni che rimanevano del fuoco e attese che ardesse, per meglio illuminare la scena. La ragazza era sudata e le pupille si muovevano veloci sotto le palpebre. Nell’osservarla, gli cadde lo sguardo sul suo collo. Si bloccò all’improvviso. La Falce era sbiadita assieme alla tumefazione e si vedeva appena, alla luce tremolante della torcia. Tom si avvicinò per guardare meglio, ma c’erano pochi dubbi. Il segno, che era apparso sul collo di Diana sulla Terra dando il via all’intera vicenda, adesso era quasi invisibile. Si era sempre domandato quale fosse la natura della Falce, senza mai giungere a una conclusione certa. La sua idea, più o meno, coincideva con quella di Diana e cioè che si trattasse di un Marchio del Potere Oscuro. Il fatto che fosse apparso in maniera spontanea - e non in seguito a un atto volontario di sottomissione non ne modificava la natura. La progressiva scomparsa del segno, che da sempre contraddistingueva la Linea di Sangue, non faceva altro che rafforzare la loro convinzione: il Potere della Terra, ancora presente tra le rovine del Cerchio di Pietra, stava scacciando il Potere Oscuro dal corpo di Diana. Restava da vedere se questa sorta di purificazione avrebbe lasciato in vita la ragazza o se il suo essere fosse troppo intrinsecamente legato all’energia tenebrosa, che ne aveva fatto la Nera. Allungò la mano e sfiorò la Falce sovrappensiero, seguendone con delicatezza la forma semicircolare con un dito. Fu come se avesse innescato una reazione della quale non era - non poteva essere - a conoscenza. Il corpo di Diana si irrigidì all’improvviso, inarcando la schiena in maniera innaturale. Sul volto della ragazza, sino a quel momento svuotato di qualsiasi espressione, apparve una smorfia di dolore intenso e di sorpresa. «Arla!», urlò Tom, gettandosi a corpo morto su Diana per paura che nei
movimenti scomposti potesse rompersi l’osso del collo. Arla ò dal torpore alla veglia vigile in meno di un istante. Si lanciò a sua volta sul corpo esile della ragazza, le cui convulsioni sembravano avere la meglio su Tom. La situazione non sembrò cambiare di molto. Dentro Diana sembrava esserci qualcosa che trascendeva le capacità umane. E che voleva uscire. Se ne accorsero quando la ragazza spalancò la bocca, reclinando la testa all’indietro con forza inaudita. Mascella e mandibola si aprirono tanto da strappare la carne agli angoli delle labbra, giungendo quasi a disarticolarle. La lingua uscì come se non trovasse più spazio all’interno, allungandosi fino a toccare la punta del mento. Il respiro di Diana si fece man mano più faticoso e raschiante e la ragazza cominciò a rantolare come se un’entità diversa - non umana - si fosse impadronita di lei. Tossì un denso fumo nero, che aleggiò su di loro prima di disperdersi a fatica. Tom e Arla si scambiarono un rapido sguardo preoccupato: stavano perdendo il controllo della situazione. Il corpo di Diana si inarcò di nuovo e questa volta non ci sarebbe stata forza al mondo in grado di trattenerlo. Si opposero, ma le mani della ragazza mulinarono come artigli, graffiandoli in volto, sulle braccia e scavando nella loro carne. Torcendo il collo in modo innaturale, Diana avvicinò la bocca spalancata e li morse come un cane rabbioso. Quando alla fine furono costretti ad allentare la presa, i due vennero sbalzati con violenza di lato. La giovane cominciò a urlare parole incomprensibili, il cui stesso suono faceva accapponare la pelle. Le pupille erano riverse all’indietro e gli occhi brillavano vuoti e bianchi come quelli di un fantasma. Le labbra erano illividite e macchiate del sangue, che continuava a sgorgare dalle ferite ai lati della bocca. Sempre senza smettere di agitarsi come un’ossessa, la ragazza cominciò a levitare. Prima si sollevò a un palmo dal terreno poi, pian piano, raggiunse l’altezza di un uomo e salì ancora. Sembrava che venisse tirata su da un gancio conficcatole nel petto, le braccia e le gambe tese verso terra, la testa reclinata all’indietro. Tom aveva visto quella postura solo negli animali squartati e appesi nelle macellerie e non poté fare a meno di rabbrividire. Rimase immobile, però: si rendeva conto che a quel punto non poteva fare più nulla per lei.
Si portò le mani sugli occhi e chinò la testa: la vista di Diana ridotta così gli spezzava il cuore e avvelenava l’animo. Le grida sconnesse della ragazza, con quella voce gutturale e raschiante, però, gli entravano nella testa e lo tormentavano, come gli incubi più terribili che avesse mai dovuto sopportare. Non avrebbe saputo dire quanto durò, solo che a un certo punto udì un suono attutito, di un peso morto che si abbatteva a terra, seguito da un silenzio spettrale, come doveva essere quello dell’OltreMondo. Alzò la testa e vide un fagotto scuro, immobile come un mucchio di foglie marce. Si precipitò verso Diana e la trovò pallida, sudata, sporca del suo stesso vomito nero, svuotata di peso e di forze, gelida come il marmo. Forse, ma solo forse, attaccata alla vita con un filo sottile come quello di una ragnatela. «È finita», mormorò ad Arla, che si era precipitata assieme a lui. La donna annuì, anche se non era sicura a cosa si riferisse Tom con esattezza. Per quanto aveva visto e per l’assenza di segni vitali che percepiva, finita poteva riferirsi a Diana stessa. Le impose le mani e mentre la luminosità taumaturgica le avvolgeva le dita, Tom si affrettò ad accendere di nuovo il fuoco. Era chiaro che la ragazza aveva dato fondo alle sue energie e che aveva bisogno di tutto il calore possibile. L’alba li colse ancora indaffarati, senza che Diana avesse dato alcun segno di aver ripreso coscienza. Respirava, il cuore batteva. La tumefazione e la Falce erano sparite. Ma era tutto lì. Il suo corpo era un guscio e loro non riuscivano a capire se contenesse ancora qualcosa. Poi, a metà mattinata, Diana aprì gli occhi. Non disse nulla, ma era chiaro che c’era stato un cambiamento. Così - come la prima volta che l’avevano vista uscire dall’altro Cerchio di Pietra, dopo la cerimonia con i Simulacri, avevano capito che il Potere Oscuro era divenuto parte di lei - allo stesso modo ora si percepiva che era avvenuta una nuova mutazione. Era la scintilla che illuminava i suoi occhi, la potenza della Nera, che traspariva come brillando appena sotto la sua pelle, a essere scomparsa. Finora Diana aveva soltanto perso i suoi poteri. Da quel momento non era più la Nera, con tutte le conseguenze che ciò comportava. Tom accolse quella notizia con sollievo: non aveva mai molto amato quel ruolo - pur fondamentale - che la ragazza aveva ereditato senza avere alcuna scelta.
I sentimenti di Arla, invece, erano molto più contrastanti. Pur essendo felice del peso che l’amica si era finalmente scrollata di dosso, non poteva evitare di essere angosciata, perché venendo meno la figura della Nera - nei secoli precedenti solo invocata, negli ultimi mesi seguita dai popoli liberi di Nocturnia fino alla vittoria trionfale ai piedi della Rocca - nulla sarebbe rimasto uguale a se stesso. Migliore o peggiore, era presto per dirlo. «Come stai?», le chiese Arla, pur rendendosi conto dell’assurdità della domanda. «Non lo so», rispose Diana rivolgendo loro un pallido sorriso. «Mi sento debole e vuota, ma anche… leggera. Credo di stare bene, alla fin fine». «Da quanto era che avevi quella macchia? Perché non ci hai detto niente?», chiese Tom. «Qualche settimana», ammise lei, chinando la testa. «Non vi ho detto nulla, perché temevo che Arla avrebbe fatto di tutto per curarmi e che saremmo morte entrambe nel tentativo. Ho capito che, non controllando più il Potere Oscuro, esso aveva ricominciato a divorarmi all’interno e ho pensato che l’avrei potuto scacciare solo con la Magia della Parola». Quello fu tutto ciò che disse per l’intera mattinata. Accettò di mangiare qualcosa, bevve molto, ma il suo umore rimase cupo e il suo viso inespressivo. Era come se, oltre al Potere Oscuro, fosse uscito da lei anche parte dello spirito vitale, svuotandola di forza e di volontà. Rimasero lì tutto il giorno, in attesa che Diana decidesse il da farsi. Ma la notte calò senza che la ragazza avesse proferito parola o fosse uscita da quello stato di torpore. I suoi occhi ogni tanto si riempivano di lacrime e il suo sguardo si perdeva in pensieri, che non condivideva con i compagni. La simbiosi con il Potere Oscuro era durata forse troppo a lungo, perché fosse veramente possibile liberarsene. Il giorno successivo trascorse nello stesso modo, con Arla e Tom che si interrogavano silenziosi su cosa dovessero fare e Diana che sembrava svuotata di volontà. Non si allontanavano mai contemporaneamente, per paura che potesse succederle qualcos’altro. In un paio di occasioni le avevano cautamente chiesto cosa desiderasse fare, ma avevano ricevuto risposte sconsolanti: Diana aveva perso ogni voglia di andare avanti.
Tom la osservava preoccupato. Ora che i timori per la sua vita erano venuti meno, altri li avevano sostituiti. Se, assieme al Potere Oscuro, Diana avesse perso anche la forza interiore, ciò ne avrebbe messo a rischio non solo la salute, ma anche l’equilibrio. Solo grazie a esso era riuscita a sopportare lutti e perdite, sforzi enormi e titaniche responsabilità. Senza, tornava a essere la ragazza fragile che aveva conosciuto sulla Terra, con molti dolori e disillusioni in più ad avvelenarle l’animo. Doveva aiutarla a trovare uno stimolo per credere che la sua esistenza avesse ancora senso. Ora che la Falce e la tumefazione erano scomparse e che, dunque, la transizione era completata, forse dedicarsi alla ricerca della Magia della Parola le avrebbe veramente ridato un obiettivo da perseguire, che avesse avuto successo o meno. Ma avevano studiato il Cerchio di Pietra con attenzione a lungo e non sembrava esserci alcuna indicazione utile. Molte rune, sì, ma delle quali non conoscevano né il significato, né il suono. Mentre girovagava pensieroso, si fermò di fronte alla colonna spostata dall’esplosione magica causata da Diana. I segni ora erano un po’ più chiari e non sembravano incomprensibili come gli altri. Strappò via il muschio e tolse la terra con il palmo della mano, via via più curioso. Alla fine osservò l’incisione che aveva portato alla luce. Gli ci volle qualche istante per capire che doveva osservarla inclinando la testa di lato. Ovvio, era stata fatta per essere letta su un monolite eretto, non rovesciato a terra. Disegni, scritte, sembrava… Restò a bocca spalancata per la sorpresa. «Guardate qui!», gridò alle due donne, colto da un improvviso senso di eccitazione. Diana non reagì e rimase avvolta dal suo torpore, mentre Arla si avvicinò, sgranando gli occhi: i segni incisi sulla pietra formavano una mappa. Essa rappresentava una porzione di Nocturnia molto più ampia di quella che conoscevano. La Selva Atra non era il centro dell’intero mondo, ma solo di un continente, più vasto di quanto non avessero mai sospettato. A nord della Piana Desolata e delle Alture Neglette si estendeva un ampio territorio, chiamato Terre degli Uomini Lupo e a sudest, rispetto alle Paludi dei Maghi Neri, un’enorme estensione desertica dal nome di Dune Riarse.
A ovest, oltre le Catacombe dei Negromanti, all’improvviso come fosse stata tagliata da un coltello, la terra terminava per lasciare spazio alla Costa della Tempesta, oltre la quale c’era l’ Oceano di Sangue. Ai bordi della mappa, sull’altro lato della distesa oceanica c’era quello che aveva tutta l’apparenza di un altro continente. Qui solo un nome campeggiava inquietante. Lande della Notte. «E questa cos’è?», chiese Arla, quando si fu ripresa dallo stupore che l’aveva ammutolita. «Un’antica mappa, probabilmente incisa prima dell’inizio della Guerra del Buio», rispose Tom. «Non ho mai sentito parlare di quei posti». Arla ò l’indice sui nomi sconosciuti che campeggiavano sull’incisione. «Nessuno ne ha sentito parlare, perlomeno in quest’era. La Guerra del Buio ha contribuito a cancellare la conoscenza di ogni tipo». L’entusiasmo che li aveva colti, però, ebbe vita breve. La mappa, in fondo, descriveva un mondo di cui gli importava poco e che sembrava non interessare affatto Diana. La ragazza si era limitata a lanciare un’occhiata al monolite riverso, senza neppure alzarsi. In effetti, era logico immaginare che esistessero luoghi, al di fuori del territorio sul quale era stata combattuta la Guerra del Buio, dove probabilmente vivevano altri popoli. Ma non era ciò che serviva loro. Diana aveva cercato il modo di riportare in vita la Magia della Parola e l’unica cosa che aveva ottenuto era una sorta di purificazione, che l’aveva quasi uccisa e l’aveva lasciata priva di forze e di volontà. Si allontanarono dal monolite riverso, relegando la mappa a una curiosità senza particolare interesse. La notte scese ancora e il silenzio continuò a regnare incontrastato su loro. Tom non ne aveva parlato con Arla, ma era deciso a riprendere il cammino verso il villaggio della Rugiada d’Autunno, la mattina seguente. Diana non poteva rimanere in quello stato: doveva essere accudita e curata. Sarebbe rimasta con loro fintanto che non avessero visto in lei decisi segni di miglioramento. Finirono di mangiare e attesero che il fuoco morisse piano piano, poi si addormentarono. Al mattino Tom fu il primo a svegliarsi e stava per riaccendere il fuoco, quando notò che la coperta di Diana era afflosciata a terra come se…
Si precipitò a sollevarla, ma sotto non c’era nessuno. Diana era sparita.
Quattordici
A Porto Nascosto tutti sapevano chi fosse Dagar Vede-nel-Buio, anche se la maggior parte degli abitanti non l’aveva mai incontrato. Dagar viveva lontano dal centro abitato, in una casa che sorgeva su una scogliera a picco sul mare. Non andava mai in città e non intratteneva rapporti con nessuno. Non si sapeva bene di cosa vivesse, visto che era anziano e cieco e di certo non pescava per sfamarsi. Ma nessuno si poneva questo tipo di domande, anzi nessuno parlava mai di lui, tranne coloro che avevano la malaugurata necessità di chiedergli consiglio. Dagar Vede-nel-Buio era un personaggio inquietante, con una storia ancora più inquietante. Da ragazzo era stato un pescatore come tanti altri e non aveva mai dato l’idea di possedere alcun dono particolare. Prima di raggiungere la maggiore età, la barca del padre aveva avuto un incidente e lui era caduto tra i flutti. Nonostante i disperati tentativi di salvarlo, però, Dagar si era inabissato ed era stato pianto per morto dalla sua famiglia. Erano ati mesi e le lacrime dei suoi si erano inaridite, quando Dagar si presentò di nuovo alla porta di casa. In apparenza era illeso, anche se aveva perso la vista. Il padre e la madre lo riabbracciarono con l’amore di chi ritrova una persona cara, che pensa di aver perso per sempre, ma non poterono fare a meno di notare che qualcosa di profondo era cambiato in lui. Il ragazzo aveva sostenuto di non ricordare bene cosa fosse successo durante quel lungo periodo di assenza, chi lo avesse curato, accudito, nutrito. Non se ne erano preoccupati più di tanto, felici di poterlo riabbracciare quando ogni speranza si era ormai spenta. Fino a che Dagar non cominciò a manifestare comportamenti sempre più strani e, soprattutto, misteriose doti profetiche. Fu così che Dagar venne soprannominato Vede-nel-Buio e cominciò a essere allontanato e temuto da tutti. Si mormorava che fosse stato salvato da sconosciuti esseri degli abissi, che riuscisse a respirare sott’acqua, ma il sospetto peggiore era che avesse ricevuto il suo potere profetico in seguito a un patto con il Potere Oscuro. Raggiunta la maggiore età, si era separato dalla famiglia ed era
andato a vivere nella casa in cima alla scogliera a picco sul mare e solo chi aveva l’improrogabile bisogno di chiedergli consiglio lo andava a trovare. Grum Gamba-Mozza alzò la testa, seguendo con lo sguardo gli scalini scavati nella roccia fino all’ingresso della casupola. Sbuffò e si fece coraggio. Essere Governatore di Porto Nascosto comportava anche quel tipo di responsabilità e la sua infermità non gli aveva mai impedito di arrivare da nessuna parte. Non lo avrebbe fatto neppure in quel momento. Aveva chiesto che nessuno del Consiglio lo accompagnasse e gli altri membri erano stati ben lieti di accontentarlo. L’ipotesi - ormai una certezza - che gli esseri che li avevano attaccati fossero creature delle Tenebre lo preoccupava quanto e più del recente assedio a Porto Nascosto e del blocco che impediva loro di pescare. Potevano combattere contro nemici terreni, ma erano impotenti nei confronti di quelli ultraterreni. I gradini scavati nella roccia erano larghi poco più di un palmo e la loro superficie era molto grezza. Le immense onde dell’Oceano di Sangue si infrangevano sotto i suoi piedi, tuonando e facendo tremare la parete. Quando fu a metà ascesa, Grum si rese conto all’improvviso che, se per caso avesse trovato la via sbarrata da un qualsiasi ostacolo, non avrebbe avuto neppure lo spazio necessario per girarsi e tornare indietro. Continuò a salire senza pensarci e senza mai guardare in basso. Giunse infine alla piattaforma infissa nella roccia, sulla la quale si trovava la casa di Dagar Vede-nel-Buio. Si trattava di una misera abitazione di legno, mezza mangiata dall’umidità e inclinata dal vento, che spirava incessante. L’intera struttura oscillava e cigolava in modo preoccupante. La porta, incardinata con approssimazione, era socchiusa. Grum si fece forza, la spinse ed entrò. Una folata fece sbattere la porta, che si serrò alle sue spalle, lasciandolo cieco nel buio più completo. Per qualche istante percepì solo l’ululato del vento, che si insinuava tra le assi sconnesse, un pungente odore di salsedine e di pesce andato a male. Poi i suoi occhi si adattarono all’oscurità e cominciò a distinguere delle forme. «Benvenuto nella mia casa, Grum detto Gamba-Mozza», disse una voce rauca, come di chi è abituato a lunghi silenzi, più che alla conversazione. Le parole furono seguite da un raschio che doveva essere una risata. Grum non
riusciva a capire con precisione da dove provenisse la voce e si era fermato a un paio di i dall’ingresso, in attesa di riuscire ad orientarsi. «Perdona il buio che regna attorno a me. Come puoi ben immaginare, non mi curo di accendere lampade quando sono da solo. Ne troverai comunque una appesa a un lato della porta». Grum si girò e cercò la lampada a tentoni, poi l’accese e finalmente la sua luce flebile illuminò l’interno della casupola. Dagar Vede-nel-Buio era seduto su una sedia di legno tarlato ed era rivolto verso una finestra sbarrata, dandogli le spalle. Un letto sfatto, un mobile storto e una stufa erano l’intero arredamento dell’unica stanza. «A cosa devo la visita del Governatore di Porto Nascosto?», chiese Dagar, senza girarsi. Grum esitò un attimo. Il vecchio sapeva chi fosse e anche la domanda sembrava posta in modo sarcastico, come se conoscesse già la risposta. Deglutì. Pur essendo colpito, non era certo con quei trucchi da saltimbanco che Dagar lo avrebbe messo in difficoltà. «Credo che tu sappia perché sono qui», rispose. «Anche se non scendi mai in città, non puoi ignorare la tragedia che ha colpito la Gente della Costa». «Il Male che viene da Ovest, certo», annuì Dagar, girandosi. Il suo volto era scavato come quello di un teschio. La pelle tesa sugli zigomi e sui denti e i pochi capelli giallastri gli conferivano un’aria spettrale, cui contribuiva anche l’azzurro opaco dei suoi occhi ciechi. Sorrise e Grum rabbrividì. Capiva perché nessuno voleva averci a che fare, se non in situazioni di grave necessità come quella. «Sai di cosa si tratta?», chiese, rimanendo impalato in piedi in mezzo alla stanza. «Io sospetto che si tratti di Potere Oscuro». «Potere Oscuro, certo che sì», annuì Dagar, andosi la lingua sulle labbra livide. «Come la Fenice delle leggende, ciò che è morto a Est, rinasce a Ovest». «Spiegati meglio, vecchio», lo incalzò spazientito Grum. «Non sono salito sin qui per ascoltare sciarade».
«Eppure è tutto quello che otterrai», sorrise il vecchio, scoprendo le gengive violacee. «La Guerra del Buio, che ha devastato i territori oltre il Dorso di Drago, è stata combattuta perché le Confraternite volevano impadronirsi delle spoglie di Thaugoth. Egli è stato ucciso dalla prima Nera, Sybel, ma nello stesso tempo non è mai veramente morto e loro desideravano farlo tornare in vita. Ma la Guerra del Buio è finita in modo inaspettato, con il ritorno di una nuova Nera da un mondo diverso dal nostro e la sconfitta delle Confraternite». Dagar Vede-nel-Buio tacque, con un sogghigno sul volto. Poi ò di nuovo la lingua sulle labbra. «Vai avanti. Conosco la storia e le antiche leggende». «Da qualche tempo un grande male è sorto a Ovest», riprese il vecchio, senza smettere di sogghignare. «La Breccia, dalla quale deriva tutto il Potere Oscuro che devasta Nocturnia, ha ripreso vigore e le creature delle Tenebre, che vivevano nelle profondità dell’Oceano di Sangue, sono state attirate in superficie». «Ma da cosa deriva questo grande male di cui parli?», chiese Grum. «Se le Confraternite sono state sconfitte e il Potere Oscuro allontanato…». «Il vento marino mi ha sussurrato all’orecchio che nel momento in cui il Potere Oscuro ha perso la sua presa sui territori dell’Est, qualcuno ha trovato il modo di riunire le spoglie di Thaugoth e di portarle alla Breccia per farlo rinascere con il nome di Sire Oscuro. Egli brama vendetta e le creature che assediano la Costa della Tempesta non sono che le prime schiere dell’esercito che invaderà il continente!». «Siamo perduti, allora…», mormorò Grum, scuotendo la testa. Era venuto per farsi suggerire come combattere un nemico terribile e ora gli veniva rivelato che un altro ancora peggiore sarebbe presto arrivato. «Credi che sia la prima volta che queste bestie immonde vengono risvegliate dagli abissi oceanici?», gli chiese brusco Dagar. «I nostri avi le combatterono già ai tempi di Sybel e Thaugoth. E le sconfissero». «Ma come, se anche le barche corazzate che abbiamo costruito sono impotenti di fronte a loro?».
«Barche corazzate?», chiese il vecchio, con un’espressione di disgusto dipinta sul volto rugoso. «Io parlo di navi, Grum, navi da guerra. Quelle costruite dai nostri antenati, che solcavano le acque dell’Oceano di Sangue spargendo il terrore». Ogni parola di Dagar aumentava lo sconforto di Grum. Navi da guerra? Forse il vecchio voleva prenderlo in giro? «Sai bene che sono ati secoli da quando è stata costruita l’ultima nave da guerra. Non abbiamo più le conoscenze necessarie né per realizzarle, né per farle navigare!». Scosse la testa e si voltò: forse alla fine arrivare fin lassù era stato uno sforzo inutile. Non aveva neppure la certezza che Dagar Vede-nel-Buio non si fosse preso gioco di lui sin dall’inizio. «La conoscenza non è perduta». Udendo le parole del vecchio, Grum si fermò. «È stata nascosta per preservarla dalla barbarie». «Esistono ancora i progetti delle navi da guerra?», chiese il Governatore, senza osare neppure sperarlo davvero. Non ottenne risposta, per cui si girò a guardare Dagar, immobile nella penombra come un cadavere mummificato. Ma qualcosa stava accadendo: il viso del vecchio sembrava trasfigurato, il collo teso quasi si stesse per staccare dalle spalle, la bocca spalancata, gli occhi azzurrastri sembravano irradiare una tenue luminosità. Spaventato, Grum portò la mano all’elsa della corta spada, che pendeva al suo fianco, pronto a sfoderarla. Ma Dagar rimase dov’era, solo un rantolo uscì dalla gola, mentre un’intensa sensazione di freddo avvolgeva il Governatore, che continuava a scrutarlo. La scena rimase immobile per lunghi istanti: il rantolo aumentava di volume e il suono del vento diveniva più lontano e indistinto. « Il segreto della Gente della Costa è celato tra le antiche ossa dei padri navigatori». Grum deglutì. Il rantolo si era fatto voce, che era riecheggiata sulle loro teste. Mentre si domandava se Dagar - o chiunque avesse parlato per lui - avesse finito, cominciò a riflettere sulla frase sibillina che aveva appena udito. Il segreto
della Gente della Costa era senz’altro quello della costruzione delle navi da guerra. Ma il resto… « Ma attento, uomo da una gamba sola: solo chi non teme nulla può reclamarlo!», riprese la voce oscura e graffiante. Dagar si accasciò sulla sedia, sfinito dallo sforzo, lasciando Grum con più dubbi di quanti ne aveva in precedenza.
Quindici
Grum Gamba-Mozza ripercorse sovrappensiero i propri i, scendendo la stretta scalinata scavata sulla parete di roccia che l’aveva portato alla capanna di Dagar. Era scosso da quanto aveva visto e sentito, incerto se si fosse trattato di un evento sovrannaturale o un gioco di prestigio ben congegnato. Dagar Vedenel-Buio era conosciuto per i suoi presunti poteri di chiaroveggenza, ed era in questo modo che poteva sopravvivere senza pescare. Chi andava a interpellarlo gli portava in dono cibo e quanto altro potesse necessitare per sopravvivere. Non era escluso che una messinscena potesse aiutarlo a impressionare i suoi ospiti. Nello stesso tempo, Grum si domandava perché avrebbe dovuto farlo con lui, che non solo non gli aveva portato alcun dono, ma che aveva il potere di farlo imprigionare o addirittura giustiziare, nel caso avesse tentato di ingannarlo. E poi, oltre alla voce, che sembrava provenire da un piano di esistenza diverso, il gelo che lo aveva ammantato non era una semplice illusione. Lui stava ghiacciando per davvero. E dunque si trovava a rimuginare sul significato delle parole di Dagar, sperando che contenessero la speranza che era andato cercando. La strada che il vecchio gli aveva indicato era la più logica, ma anche la più difficile da percorrere. Da stirpe di guerrieri dei mari, la Gente della Costa era divenuta nei secoli un popolo di pescatori. Anche l’arte di costruire potenti navi da guerra si era trasformata in quella di realizzare piccole barche da pesca. Dunque quelle parole non valevano nulla, se non riusciva a comprenderne il significato. Ci rifletté su per tutta la strada fino a Porto Nascosto e poi mentre percorreva lo stretto vicolo che portava al Palazzo del Consiglio. Invece di buone notizie, recava con sé una profezia oscura, partorita da un uomo cui, forse, l’esilio e la solitudine avevano offuscato la mente. Ern Il-Calvo, Fray Pelle-di-Rospo e Haimir Il-Viaggiatore lo attendevano nella Sala del Consiglio e Grum ebbe l’impressione che fossero rimasti lì tutto il giorno. Lo guardarono in trepida attesa e il Governatore si maledisse per non essere stato in grado di sciogliere l’enigma. Riferì le parole di Dagar e si
specchiò nei loro sguardi smarriti. Non si aspettava molto di più da loro. Erano brave persone, quando si trattava di risolvere i problemi quotidiani di Porto Nascosto, ma le grandi questioni le aveva sempre dovute affrontare da solo. La discussione si trascinò per un po’, ma Grum era troppo stanco e i Consiglieri troppo abbattuti per produrre qualche risultato positivo. Il Governatore aggiornò la seduta al giorno successivo. Si sarebbe preso qualche ora per rifletterci ancora. Uscì dal palazzo e si incamminò lungo i vicoli di Porto Nascosto, che erano insolitamente deserti. Le attività quotidiane sembravano essere state abbandonate e tutti gli abitanti dovevano essersi rinchiusi in casa, nella speranza che giungessero tempi migliori. Lui non poteva solo nascondersi e sperare, però. Entrò in casa e salutò distratto la moglie. Nella grande stanza, dove ardeva il focolare, vide Herd che intagliava nervosamente un pezzo di legno con un coltello. Il pescatore alzò gli occhi e lo guardò, interrogativo. Si avvicinò: forse parlarne con lui avrebbe aiutato. «Sembri inquieto, Grum», gli disse Herd, senza staccargli lo sguardo di dosso. «Dagar non ti ha dato risposte, dunque?». «Me ne ha date», sospirò il Governatore, sedendosi sulla sedia di fronte a lui. «Ma sembrano nuove domande, forse più difficili delle precedenti». Herd non replicò, attendendo in silenzio. «La strada che ci suggerisce di percorrere è quella che avevi cominciato a tracciare tu stesso, anche se non eri arrivato a tanto», disse infine Grum. «Per combattere un nemico così terribile, Dagar sostiene che dobbiamo costruire navi da guerra, come i nostri avi». «È stato anche il mio primo pensiero», replicò Herd, scuotendo la testa. «Ma l’ho tenuto per me, sapendo che era un sogno impossibile. Nessuno sa più come costruirne. Il vecchio pazzo non ti ha detto altro?». «Oh, sì. Ha detto che esistono ancora i progetti di costruzione delle navi e che sono sepolti “ tra le antiche ossa dei padri navigatori”». «Un cimitero?», chiese Herd, perplesso.
«Non so che dirti». Grum scosse la testa e alzò le spalle, versandosi della birra in un boccale di peltro. «Dobbiamo dare credito a quel lunatico? Non so veramente cosa pensare». Continuarono a discutere per un po’, sorseggiando birra. Quando arrivò l’ora di cena, la moglie di Grum portò due piatti di minestra di molluschi, in cui erano immersi pezzi di pane secco. I due si accinsero a mangiare in silenzio. Finita la magra cena, ripresero a parlare. Ormai Grum aveva raggiunto la triste certezza di dover riferire al Consiglio di non essere in grado di sciogliere l’enigma. «Antiche ossa dei padri navigatori, bah». Herd scosse la testa, parlando quasi più a se stesso che a Grum. «Ce ne sono sparse lungo tutta la Costa, ovunque si sia combattuta una battaglia! Come se potessimo andare a frugare in tutti i cimiteri della Costa della Tempesta!». «Mai quante nella Grotta degli Spiriti del Vento, mi raccontava mia nonna», disse Eyda, che era entrata nella saletta e stava raccogliendo le scodelle. «Pare che i comandanti e i marinai più valorosi venissero sepolti tutti lì, per proteggere i loro resti dal are dei secoli». Grum e Herd guardarono la donna allontanarsi senza dire nulla, con gli occhi sbarrati di chi ha appena ricevuto una rivelazione. Poi incrociarono i loro sguardi: stavano pensando entrambi la stessa cosa. Eyda aveva involontariamente dato loro un suggerimento che poteva rivelarsi prezioso. In effetti esisteva un luogo di sepoltura, la cui descrizione corrispondeva alle parole oscure di Dagar, chiamato Grotta degli Spiriti del Vento. Era una cavità naturale, che si apriva a metà altezza di una ripida scogliera, a qualche ora di navigazione da Porto Nascosto. Nei secoli che avevano preceduto la Guerra del Buio e la decadenza della loro stirpe di guerrieri dei mari, era stato un cimitero riservato a chi ne aveva meritato l’onore. Grandi comandanti, quindi, ma anche chi aveva perso la vita in battaglia distinguendosi per il proprio valore. Poi, finita l’era delle grandi navi da guerra, la Grotta era caduta in disuso e il suo nome appena sussurrato, visto che evocava entità misteriose poste a sua protezione. Era proprio per quel motivo che l’ipotesi che - oltre a ossa antiche potesse celare un segreto così prezioso, non era poi così peregrina.
«Corro a tirare i Consiglieri giù dai loro letti», disse Grum balzando in piedi. «Tu vai pure a riposare. Domani navigheremo verso Nord!».
Sedici
Diana socchiuse gli occhi per osservare la sconfinata distesa davanti a sé. Il nome di quel deserto di sabbia grigia, sollevata dal vento in mulinelli che si rincorrevano fino all’orizzonte, era Dune Riarse. Finalmente lo aveva raggiunto. Era stato un lungo viaggio, solitario. L’aveva deciso all’improvviso, in piena notte. Dopo che Arla e Tom si erano addormentati, aveva avuto un’illuminazione. Si era alzata senza far rumore e aveva una torcia sui tizzoni del fuoco. Si era avvicinata alla mappa, che Tom aveva scoperto sul fianco del monolite, e l’aveva osservata con attenzione. Alla fine aveva trovato quello che cercava. Un piccolo simbolo sotto la scritta “Dune Riarse”, nel bel mezzo di quello che aveva tutta l’aria di essere un deserto sabbioso: un Cerchio di Pietra. Forse era proprio ciò che cercava sin dall’inizio. Quando Arla le aveva chiesto se stesse trovando quello che cercava, lei le aveva risposto che, probabilmente, l’avrebbe capito solo quando l’avesse trovato. Ed era stato così: aveva sentito che si trattava di quella mappa e, in particolare, di quel Cerchio di Pietra. Sì, il Cerchio doveva essere la meta da raggiungere per continuare la sua ricerca. La Guerra del Buio era stata combattuta nei territori dominati dalle Confraternite. Se nessuno tra i popoli liberi ricordava l’esistenza di quel deserto a Sudest, probabilmente neppure gli adepti del Potere Oscuro ne erano al corrente. Se il Cerchio fosse stato ancora integro, forse la Magia della Parola sarebbe stata molto più potente lì che altrove e lei avrebbe trovato il modo di studiarla. Era rischioso, ovviamente. Aveva quasi perso la vita scatenando la Magia imprigionata in quel Cerchio di Pietra mezzo distrutto. Tentare la stessa strada in un Cerchio intatto, senza conoscerla né controllarla, poteva avere conseguenze inimmaginabili. Ma non le rimaneva altro che provarci e doveva farlo da sola. Dunque aveva silenziosamente raccolto le sue cose, assieme alla poca selvaggina cacciata da Arla e a tutti e tre gli otri. Considerò il fatto di essere riuscita ad allontanarsi, senza che i due si svegliassero, come un segnale che stava facendo
la cosa giusta. La ricerca della Magia della Parola era un viaggio lungo e pericoloso, che avrebbe dovuto compiere anche - e forse soprattutto - dentro di sé. Non c’erano compagni che avrebbero potuto condividere quel percorso, neppure chi le era stato vicino fin dal principio. La mappa incisa sul monolite era rimasta impressa nella sua memoria sin nei minimi particolari e aveva seguito per giorni la linea immaginaria verso le Dune Riarse, evitando di entrare nelle Paludi dei Negromanti. Ora che le creature delle Tenebre si nascondevano impaurite, anche per una ragazza armata solo di un coltello - e che non aveva più i poteri della Nera - era stato possibile sopravvivere a quel viaggio. Aveva raccolto frutta e bacche nella Selva, riempiendo una bisaccia, e colmato gli otri con acqua ogni volta che aveva potuto. Uscita da lì era sicura che sarebbe stato molto più difficile trovare cibo, anche se non aveva mai mangiato molto: il suo corpo minuto consumava poca energia e riusciva a sopravvivere con poco. Dopo qualche giorno di viaggio, aveva avvertito una sottile linea di forza, invisibile all’occhio. Sembrava una specie di meridiano energetico, seguendo il quale lo sforzo del cammino era minimo e il riposo sempre rigenerante. A volte lo perdeva ma, dopo aver proseguito per un giorno o due, tornava a percepirlo. Si era domandata cosa fosse e come mai non l’avesse mai sentito prima - quello o altri simili - ma poi aveva accantonato la questione. Era comunque un segnale positivo: sia se il Potere della Terra stava crescendo - e dunque diventando più avvertibile - sia se fossero le sue percezioni ad essersi affinate dopo la purificazione dal Potere Oscuro, il risultato era lo stesso. La sua essenza e quella della Madre Terra si stavano lentamente avvicinando. Ma ora tutte le sue energie e la sua attenzione erano concentrate verso un unico obiettivo: raggiungere il Cerchio di Pietra. Quanto tempo era ato, da quando era partita? Una decina di giorni, forse qualcuno in più. Non li aveva contati e le interessava poco, mai quanto sapere che ogni sera era più vicina alla sua meta. E finalmente, all’improvviso, era lì. Il deserto era iniziato con una grande duna, alta come quattro uomini, che le bloccava la vista. Una volta scalata, l’aveva colta una sensazione di vuoto. L’orizzonte era lontanissimo e gli occhi venivano feriti dal vento carico di sabbia fine e dal riverbero accecante. Alzò lo sguardo al cielo, che lì era grigio chiaro. Da qualche parte, là sopra, doveva esserci un sole.
Non era sparito - ne era sicura - non era stato inghiottito dalla Breccia. Era solo stato oscurato per un periodo talmente lungo da sembrare un’eternità. Scosse la testa. Ci sarebbe stato tempo per pensare anche a quello, una volta che il Potere della Terra fosse tornato agli antichi splendori e la Magia della Parola avesse avuto di nuovo degli adepti. Ora il problema era trovare il Cerchio di Pietra, in mezzo a un nulla rovente, privo di punti di riferimento. Scosse gli otri: due erano pieni, nel terzo c’era meno della metà del suo contenuto. L’acqua sarebbe durata per qualche giorno, quattro o cinque, stimava. Poi la sete l’avrebbe uccisa. Cercò di orientarsi, ma non era facile. Le dune le sembravano tutte molto simili e non era escluso che l’opera del vento potesse addirittura modificarle durante il tragitto. Si accoccolò a gambe incrociate e si lasciò carezzare dall’aria, chiudendo gli occhi. Cercò di focalizzare i pensieri, riflettendo su quanto sapeva e cercando di capire se, per caso, non stava tralasciando qualche particolare che poteva aiutarla. Ripensò alla mappa. Era molto dettagliata, per non essere stata disegnata su pergamena, ma incisa su pietra. Nomi e luoghi, alcuni a lei familiari e altri del tutto ignoti. La scala sembrava corretta, così come le distanze relative. Era abbastanza chiaro che con quella, o una sua copia, sarebbe stato facile raggiungere uno qualsiasi dei luoghi raffigurati. Ma non il Cerchio di Pietra. Il Cerchio era nel bel mezzo del deserto e nulla, sulla mappa, aiutava a trovare la strada per raggiungerlo. Rimase in quella posizione a lungo, aspettando un’intuizione che le aprisse la mente. Sentì il Meridiano Energetico attraversarla e il Potere della Terra scorrervi dentro come acqua in un canale. Tentò di trattenerne il più possibile, ma era proprio come fermare un liquido con le mani: per quanto si tenti, ne rimane solo qualche goccia. Poi, improvvisa, l’intuizione arrivò. Focalizzò la propria mente sul simbolo del Cerchio, inciso sulla pietra. Quello che aveva sempre ritenuto un graffio, un segno del tempo, lo attraversava sottile dall’alto al basso, proprio nel centro. Se non fosse stato un graffio, ma un’indicazione? In fondo la mappa era stata incisa in un luogo per iniziati e, con ogni probabilità, era diretta solo a loro. Se quel segno sottile fosse stato messo lì a segnalare non un oggetto fisico, ma proprio il Meridiano che in quel momento le fluiva attraverso? Era un preciso
richiamo, che solo chi percepiva il Potere della Terra avrebbe potuto seguire. Per gli adepti del Potere Oscuro sarebbe stato impossibile trovare il Cerchio di Pietra seguendo la linea di forza. Aprì gli occhi. Ora sapeva dove andare.
Diciassette
Diana conosceva molte cose sui deserti, pur non avendone mai attraversato uno a piedi da sola. Le aveva imparate quando era sulla Terra e immaginava che, tolto forse qualche particolare, valessero anche lì su Nocturnia. Non avrebbe dovuto viaggiare in pieno giorno, quando il caldo era massimo, ma non avrebbe potuto farlo neppure in piena notte, al buio assoluto. Assieme ai poteri di Nera, aveva perso infatti anche la capacità di vedere nell’oscurità. Era l’unica che rimpiangeva, in quel momento: viaggiare di notte le avrebbe consentito di percorrere molta più strada. In questo modo, invece, le ore utilizzabili per camminare si riducevano a quattro o cinque al giorno, attorno all’aurora e al crepuscolo. Attese dunque che il caldo calasse e poi si incamminò. Il Meridiano Energetico era facilmente percepibile, in quel punto. Seguirlo significava rimanere lungo la linea invisibile, sulla quale avvertiva meglio l’energia che irradiava. Non si girò mai a guardarsi indietro, per timore di farsi prendere dall’angoscia. Sapeva bene che già nell’avvallamento tra la prima e la seconda duna sarebbe stato impossibile vedere altro che sabbia. Doveva fidarsi della sua percezione e dimenticarsi che stava percorrendo una via che poteva non prevedere un ritorno. Si fermò quando non riusciva più a vedere oltre la punta dei suoi piedi e si sedette sulla sabbia. Manovrando alla cieca portò uno degli otri alla bocca e sorseggiò l’acqua con parsimonia. Poi rovistò nella bisaccia e sbocconcellò qualche bacca e un frutto. Finché non era entrata nel deserto, la sera le bastava qualche ramoscello o un po’ di erba secca per accendere un fuoco, che la riscaldava e le permetteva di creare un piccolo cono di luce, nel quale sentirsi meno a disagio. Ma arrivata ai margini delle Dune Riarse non aveva pensato di farne una scorta, né di portarsi qualche bastone a mo’ di torcia. Rabbrividì e si strinse le gambe piegate in un abbraccio: un tentativo di proteggersi dal freddo, ma anche dalla paura. Ci mise parecchio prima di lasciarsi andare a un sonno molto leggero e disturbato, che l’abbandonò all’alba quasi più stanca della sera precedente.
Riprese il cammino cercando di non perdere mai il contatto con il Meridiano, che sentiva sempre più debole. Camminò per qualche ora, fintanto che il caldo non la costrinse a fermarsi. Si guardò intorno, ma non vide alcun luogo adatto a ripararsi. Si accucciò ai piedi di una duna e bagnò il cappuccio, coprendosi il volto. Rimase immobile per ore, cercando di tenere il corpo il più possibile coperto e la testa fresca per evitare di collassare. Quando si avvicinò il crepuscolo, vide che circa un terzo della sua acqua era esaurita. Aveva sottostimato la ferocia del caldo e ora la sua possibilità di sopravvivenza si limitava a un paio di giorni. Non si fece intimorire e riprese il cammino. Si dovette fermare, però, prima che l’oscurità le rendesse impossibile avanzare. Aveva perso il Meridiano. Si preparò per la notte, molto più agitata rispetto alla sera precedente. Sperava che la stanchezza e il caldo le avessero giocato un brutto scherzo e che al mattino, un po’ più fresca, sarebbe stata in grado di percepire di nuovo la linea di forza. Ma il sonno tardò a venire, portò con sé incubi e presenze e la lasciò sudata e sfinita. La mattina faticò ad alzarsi e barcollò prima di trovare l’equilibrio. Cominciò a camminare a spirale, tentando di recuperare il flusso energetico del Meridiano, ma dopo qualche ora si ritrovò stravolta dalla stanchezza, con la bocca arida e la consapevolezza di aver perso tutti i riferimenti. Si gettò a terra e prese l’ultimo otre rimasto. Ingoiò un po’ d’acqua e ne versò con parsimonia altra sul velo per rendere più sopportabile la sosta prima dell’oscurità. Ma la debolezza, che l’aveva colta, aveva reso le sue mani torpide e allentato la sua attenzione. Mentre lo stava riponendo, l’otre le scivolò di mano e rotolò a terra. L’acqua uscì a fiotti sotto lo sguardo attonito di Diana. Si precipitò a raccoglierlo, ma il danno ormai era fatto: metà del prezioso contenuto si era versato sulla sabbia rovente. La ragazza si gettò a terra in preda alla disperazione e si abbandonò a un pianto dirotto. Quando i suoi occhi furono aridi come le sue labbra screpolate, scivolò in un sonno venato di incubi. Si svegliò che era già ata l’ora in cui poteva ricominciare a camminare e già il buio l’avvolgeva impenetrabile. Sentiva il corpo lamentarsi e la forza di volontà scivolare via. Era sola, aveva
perso ogni riferimento e l’acqua era quasi finita. Sarebbe morta lì, dimenticata da tutti. Presto le sue ossa avrebbero scintillato bianche tra le dune, poi sarebbe diventata sabbia anche lei. Aveva poi così tanta importanza? Il suo compito era stato svolto, le Confraternite cancellate da Nocturnia e il Potere Oscuro indebolito. Per lei, in fondo, non c’era più spazio su quel mondo martoriato, alla ricerca di pace. Era un relitto di un ato cupo, che nessuno voleva ricordare. Sarebbe stato compito di qualcun altro ridare vita alla Magia della Parola. Forse non era un caso che il Meridiano fosse scomparso abbandonandola in mezzo alle Dune Riarse. Forse era stata proprio la Madre Terra a guidarla fin lì e poi abbandonarla. Che presuntuosa era stata! Pensare che lei, l’ultima Nera di Nocturnia Principessa delle Tenebre - potesse ridare vita a quella Magia della Parola, che era stata l’unico baluardo contro le Arti Oscure. In fondo era giusto che morisse, scomparendo come Shaltul, Vama, Shiar e le loro Confraternite. Si addormentò di nuovo, dopo aver bevuto l’acqua che rimaneva nell’otre rovesciato e averlo gettato lontano. Sperava solo che la morte la cogliesse nel sonno, per risparmiarle sofferenza e stenti. L’oscurità che la tormentava dall’interno si fuse con quella che la circondava, trascinandola in un limbo senza sogni. Si svegliò che già faceva caldo. Non era morta durante la notte, ma non dubitava che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno. Non aveva la forza di alzarsi, per cui si limitò a mettersi seduta. La sua bocca era arida come la sabbia che la circondava. Erano almeno due giorni che non mangiava, ma non sarebbe riuscita a ingoiare nulla, priva di salivazione com’era. Osservò il coltello che portava alla cintola. Era affilato come un rasoio e lo scintillio che danzava sul suo filo prometteva una morte rapida, e forse indolore, se lo avesse usato per tagliarsi le vene dei polsi. Lo ò da una mano all’altra, più instupidita che indecisa. Poi sentì il suono. Era una specie di gorgoglio, un cupo rantolo che proveniva da sottoterra, facendo tremare la sabbia su cui era seduta. Il suo sesto senso, pur torpido come tutta la sua coscienza, reagì più veloce della mente razionale. Si gettò di lato nel
momento in cui il tremore divenne scossa e il rantolo si fece tuono. Appena in tempo. Nel punto dov’era seduta un istante prima si aprì una voragine del diametro di un braccio, sufficiente a farla precipitare, se non si fosse spostata all’ultimo. La curiosità ebbe la meglio sul torpore e l’adrenalina le conferì un po’ di forza, che caldo e stanchezza le avevano tolto. Si alzò in piedi e si sporse per comprendere cosa potesse aver creato una voragine nella sabbia. All’inizio non capì, sembrava solo una specie di grande foro le cui pareti interne erano di uno strano colore rosso fuoco. Poi, quando esso si richiuse di scatto, con un orrendo digrignare di zanne, comprese che si trattava di una enorme bocca. Si ritrasse quando la vide scomparire sotto la sabbia, ma intuì che era solo questione di attimi prima che essa si spalancasse di nuovo sotto i suoi piedi. Nonostante l’intenzione di togliersi la vita, non accettava di dover morire sbranata da una creatura delle Tenebre. Sentì il terreno tremare sotto i piedi e si gettò di nuovo di lato. Questa volta fu meno veloce, o forse fu la creatura a essere più rapida. Anche se riuscì a non farsi ingoiare, il suo piede venne ferito da uno degli innumerevoli dentacci che coronavano l’orrenda bocca. Cercò di allontanarsi a quattro zampe, anche se era certa che al successivo attacco la creatura l’avrebbe fagocitata. Si girò e vide che le fauci stavano per richiudersi. «No!», urlò imperiosa e allungando le mani, dimentica di non avere più i poteri della Nera. Eppure la creatura si immobilizzò e cominciò a dibattersi come un enorme pesce preso all’amo. Il terreno tremò, sconvolto da un sisma squassante. Diana, con gli occhi sbarrati per la paura e la sorpresa, mantenne le mani tese, sentendo che stava succedendo qualcosa. Cosa fosse e quanto sarebbe durato, non sarebbe stata in grado di dirlo. arono lunghi istanti prima che la creatura smettesse di agitarsi. Mentre il corpo di Diana si svuotava delle poche energie che le erano rimaste, un orribile schianto - come di vetro e ossa che si frantumano – le colpì le orecchie. L’ultima cosa che Diana vide fu la terra che si stringeva attorno alla creatura, la cui testa mozza schizzava fuori, cospargendo la sabbia di ributtante sangue bruno.
Poi svenne. Tutto rimase immobile per qualche minuto, poi una mezza dozzina di uomini avvolti da lunghe vesti bianche e i volti coperti da veli dello stesso colore uscirono da dietro le dune che circondavano i corpi di Diana e della creatura delle Tenebre che aveva ucciso, dirigendosi verso di loro.
Diciotto
La piccola flotta partì da Porto Nascosto alle prime luci dell’alba. Era composta da una dozzina di imbarcazioni corazzate: non di più, perché il Governatore non se la sentiva di lasciare sguarnita la città. La sua idea era quella di costeggiare la riva sino all’alta scogliera, nella quale si trovava la Grotta degli Spiriti del Vento. Non voleva avventurarsi dove le acque erano tanto profonde da permettere alle creature più grandi di assalirli. Procedettero in formazione compatta, con tutti gli uomini della Guardia all’erta, gli occhi fissi alla superficie delle acque e le armi in mano. Con Grum era venuto il solo Ern, mentre Fray e Haimir erano rimasti a Porto Nascosto. Non era saggio che l’intero Consiglio partecie a una missione dall’esito così incerto: non potevano rischiare di lasciare la città senza governo, in tempi così difficili. Navigarono per mezza giornata, diretti verso Nord. La costa si fece mano a mano più ripida e inaccessibile, con barriere di scogli, sommersi o a pelo d’acqua, che rendevano ardua la navigazione. Grum eggiava nervoso, mentre lo sguardo di Herd rimaneva fisso all’orizzonte, per individuare qualsiasi pericolo in arrivo. Ma la navigazione procedette senza intoppi e verso metà pomeriggio giunsero in vista della grotta. La scogliera era stata scelta dai loro avi tra le più inaccessibili dell’intera Costa della Tempesta. Uno sperone di roccia si innalzava dalle acque come la prua di un’immensa nave, a tagliare spavalda le onde che vi si infrangevano contro. A mezz’altezza, appena visibile tra la nebbia cremisi, c’era una stretta apertura. Non v’era via d’accesso dalla terraferma e l’unico modo per raggiungerla sembrava essere una scaletta formata da una serie di piccole nicchie, che salivano in verticale dalla superficie dell’acqua. Mentre si avvicinavano, una strana sensazione si impadronì di loro. L’ululato del vento, al quale la grotta doveva il nome, cominciò ad assomigliare a quello di un enorme branco di lupi impazziti per la fame. L’aria era impregnata dalle goccioline prodotte dal violento scontro tra le onde e le rocce. Grum rabbrividì e diede ordine ai rematori della sua imbarcazione di accostare alla scogliera e a
quelli delle altre di circondarli, per formare un cordone protettivo. Poi scrutò i suoi uomini. «Thait», disse, dopo averli valutati uno a uno. «Tu sei il più esperto e valoroso tra gli uomini della Guardia. Ti affido il compito di recarti nella Grotta degli Spiriti del Vento e tornare con i progetti delle navi da guerra dei nostri avi!». Thait Un-Occhio annuì. Era un colosso, alto di tutta la testa più di chiunque altro a Porto Nascosto. Con le braccia nerborute avrebbe potuto spezzare la schiena di un uomo senza mostrare il minimo sforzo. La benda, che gli copriva l’occhio cieco, gli conferiva un aspetto ancora più truce, se mai fosse stato possibile. Fece un cenno a altri tre uomini della Guardia, poi tutti e quattro si assicurarono spade e lampade alle cinture, in modo da avere le mani libere per la scalata. L’uno dopo l’altro infilarono le dita nella nicchia più bassa e si inerpicarono su per la scala scavata nella roccia. Gli altri li osservarono salire, senza nascondere l’apprensione. Un appiglio meno che sicuro o un piede poggiato male avrebbero significato una caduta sugli scogli aguzzi, che circondavano le imbarcazioni come gigantesche zanne di roccia. Le barche si allontanarono, per non essere sbattute dalla violenza delle onde contro la scogliera. Grum ed Herd si scambiarono uno sguardo carico di tensione e si accinsero ad aspettare. Non avevano idea di quanto fosse grande la grotta, ma ipotizzavano che i quattro uomini della Guardia potessero essere di ritorno in meno di un’ora. Invece il tempo ò, scandito dal fragore delle onde, che si abbattevano sugli scogli e sulla parete rocciosa. Quando calò il buio, accettarono finalmente l’idea che qualcosa non fosse andato per il verso giusto. Grum si era preparato all’eventualità che gli uomini tornassero a mani vuote o che il tempo e la salsedine avessero reso illeggibili le carte con i progetti, ma il loro mancato ritorno lo lasciava interdetto. Fece accendere le lampade. «Lascia andare me», gli disse Herd, all’improvviso. Aveva avuto una strana intuizione, che non sapeva spiegare e della quale ignorava l’origine. Non capiva neppure lui perché sarebbe dovuto salire un pescatore al posto di soldati addestrati, ma sapeva che era così. Lo sentiva. Grum scosse la testa.
«Andranno altri uomini della Guardia. Non solo quattro, però: ne voglio dieci lassù!». Si avvicinarono altre due imbarcazioni e il Governatore fece scegliere a Ern ilCalvo i componenti di questa seconda spedizione. Era stato a lungo capo della Guardia, prima di diventare Consigliere, e nessuno meglio di lui conosceva gli uomini che la componevano. I prescelti annuirono e una veloce ombra di preoccupazione ò sui loro volti. Il mancato ritorno dei compagni e la superstizione, che accompagnava da sempre la grotta, imponevano un tributo anche al loro coraggio. Li guardarono salire e infilarsi nell’apertura. Le luci delle loro torce sbiadirono fino a scomparire, lasciandoli in silenziosa attesa. Anche questa volta i minuti arono lenti, accumulandosi come pietre su una tomba. Il vento ululava come Herd non lo aveva mai sentito fare, alzando le onde che li spingevano contro gli scogli. «Non tornano», disse alla fine il pescatore, prendendo per un braccio Grum. «Ti prego, lascia che vada io!». Il Governatore lo guardò. Sul suo volto c’era solo determinazione, non la paura che leggeva negli sguardi di tutti gli altri intorno. Rammentò le parole di Dagar Vede-nel-Buio: “ solo chi non teme nulla può reclamarlo”. Di certo Herd stava dimostrando coraggio da vendere. Annuì. «Vai», disse infine. «Ma fai attenzione: lassù è all’opera qualcosa di oscuro». Il pescatore non rispose, gli occhi fissi sull’ingresso della grotta, fessura nera nell’oscurità della notte. Fissò una lampada alla cintura, sistemò l’ascia sulle spalle e si arrotolò una lunga cima attorno alla vita. Infilò le dita della mano destra nella più bassa della lunga serie di fessure e cominciò a inerpicarsi. Mentre saliva, tentò di concentrarsi solo sulle mani e sui piedi, ma non poté fare a meno di chiedersi cosa avrebbe trovato, una volta giunto alla fine della scalata. Arrivò all’ingresso della Grotta degli Spiriti del Vento senza essere riuscito a darsi una risposta. Davanti a sé l’oscurità era solida come un muro e nulla sembrava muoversi. Accese la lampada e la tenne alta con la mano sinistra, mentre con la destra impugnò l’ascia. All’improvviso sentì di aver perso le
certezze che aveva sulla barca e si chiese che senso avesse la sua presenza lì. Cosa poteva fare un pescatore, dove avevano fallito due gruppi di soldati? Si fece coraggio. Se fosse tornato indietro in quel momento, probabilmente nessun altro avrebbe avuto il coraggio di salire e la speranza di sconfiggere le creature delle Tenebre, che assediavano la Costa della Tempesta, sarebbe svanita per sempre. Non poteva permetterlo: aveva promesso vendetta ai suoi familiari, piangendo sulle loro tombe. E, per la Madre Terra, l’avrebbe ottenuta. Entrò nella grotta. L’ingresso era stretto e vuoto, ma, mano a mano che si inoltrava in profondità, le pareti si allargarono e il soffittò si alzò. Qualche decina di i ancora e si trovò in un grande ambiente, sulle cui pareti erano state scavate decine di nicchie della lunghezza di un uomo. All’interno di ciascuna di esse giaceva un cadavere mummificato, sdraiato sulla schiena con le mani incrociate sul petto. Un brivido percorse la schiena di Herd, che distolse lo sguardo, per evitare di farsi prendere dal panico. Sin da quando era entrato nella grotta, i suoi sensi erano all’erta. Non era paura o, meglio, non era soltanto quella. C’era qualcosa nell’aria che gli metteva la pelle d’oca. Qualcosa che aveva un odore di decomposizione e che vibrava d’odio. Cercò di non pensarci, era lì per una missione dalla quale dipendeva il destino del suo popolo. Doveva cercare un contenitore, o qualcosa in cui potessero essere riposte le carte con i progetti delle navi da guerra. Fece un o, ma inciampò e cadde. La lampada rotolò a terra e solo per miracolo non si frantumò, lasciandolo al buio. Un cadavere. Lo riconobbe: era Thait Un-Occhio. Giaceva in una pozza di sangue, il viso stravolto da un’indicibile espressione di terrore. Herd raccolse la lampada e si guardò intorno. Il pavimento era coperto di corpi. Tutti gli uomini che lo avevano preceduto erano riversi a terra, morti. Tremando, il pescatore si avvicinò a Thait per tentare di capire cosa li avesse uccisi. Aveva il corpetto forato e una profonda ferita al centro del petto. Sembrava quasi che gli avessero strappato… Si voltò, folgorato da una terribile intuizione. Osservò con più attenzione una
delle mummie, sdraiata nella nicchia sulla parete alla sua destra. Tra le sue grinfie incrociate c’era un cuore che ancora gocciava sangue.
Diciannove
Herd Punta-d’Arpione rimase immobile, gli occhi sgranati e i capelli ritti sulla testa. Come era possibile che quel cadavere mummificato avesse ucciso un uomo forte ed esperto come Thait e strappato il suo cuore? E non era il solo: tutti gli uomini della Guardia giacevano morti e i loro cuori erano stretti nelle mani vizze delle mummie degli antichi navigatori. L’istinto gli diceva di fuggire, ma le sue gambe sembravano scolpite nel legno. Trascorse qualche minuto e l’ululato del vento lo avvolse come un manto freddo. Le folate che si infilavano all’interno della grotta facevano oscillare la fiamma della lampada, creando sinistri giochi di ombre. Combatté la tentazione della fuga e scrutò invece negli angoli bui della grotta, per capire dove potevano essere le carte con i progetti. Alla fine vide un piccolo scrigno, seminascosto nell’angolo più lontano, tra due file di nicchie. Vinse la paura sovrannaturale e mosse un cauto o, poi un altro. Cercò di rassicurarsi, ripetendo tra sé e sé che lui era l’unico a muoversi in quell’ambiente lugubre. Ma al terzo o si accorse che non era vero. Una mummia si era spostata. Le dita incartapecorite si erano aperte con un crepitio sinistro e il cuore che stringeva tra le grinfie era caduto a terra, rotolando fino ai piedi di Herd, che si bloccò terrorizzato. Gli scricchiolii di ossa e giunture antiche si moltiplicarono, mentre tutti i cadaveri cominciavano a volgere le teste verso di lui. Il pescatore alzò l’ascia, a minacciarli, pur riconoscendo la vacuità della sfida. Come poteva pensare di fronteggiare un esercito di cadaveri, risvegliati da un potere tenebroso, se avevano fallito nella stessa impresa i quattordici uomini della Guardia, che giacevano senza cuore ai suoi piedi? Valutò l’ipotesi di abbandonare l’ascia, per avere una mano libera e correre fino allo scrigno. L’avrebbe aperto e ne avrebbe trafugato il contenuto, oppure l’avrebbe portato via integro. Ma era un sogno che non si sarebbe mai avverato. Le mummie degli antichi navigatori si erano alzate in piedi e ora gli sbarravano
la strada. Cominciò a sudare freddo e il suo corpo venne percorso da lunghi brividi mentre, immobile, li osservava avvicinarsi. Capì, quando ormai era troppo tardi, che lo avevano circondato chiudendogli l’unica via di fuga verso l’uscita della grotta. Sollevò l’ascia facendo forza sulle braccia, che parevano di ferro arrugginito, ma prima che potesse sferrare il colpo una voce gli esplose in testa. Perché disturbi il nostro sonno eterno? Gli avevano parlato, o stava impazzendo? E non è pazzo chi vede dei cadaveri mummificati alzarsi e circondarlo? Morirai come i tuoi compagni e rimarrai per sempre in questo luogo di dolore, che hai profanato! Una mano scheletrica gli afferrò un braccio, un’altra il collo e un’altra ancora gli strappò di mano l’ascia. Herd non aveva scampo, armato o disarmato che fosse. Gli Spiriti, che si erano impossessati dei cadaveri mummificati, avevano il potere di irretire la sua mente e la sua volontà, paralizzandolo anche più del terrore che ispiravano in lui. L’orribile abbraccio si strinse fino a divenire soffocante, la poca aria che riusciva a inalare ammorbata dal fetore di morte. Il pescatore si lasciò cadere a terra e la paura cominciò a scivolare via, per lasciare posto al rimpianto. Non temeva la morte, come non l’aveva temuta incontrando le creature delle Tenebre provenienti dagli abissi oceanici. L’aveva anzi invocata più di una volta, dopo la tragica scomparsa di tutta la sua famiglia. Rimpiangeva solo di non essere riuscito a compiere la missione, che gli avrebbe consentito di mantenere la propria promessa. I suoi cari sarebbero rimasti invendicati e il suo popolo probabilmente sterminato. No, non aveva più paura, solo un’infinita tristezza. Chiuse gli occhi e attese la morte, con la consolazione di avere la possibilità di rivedere presto moglie e figli. Ma la morte non giunse. Aprì di nuovo gli occhi per cercare di comprendere per quale crudele beffa le mummie non gli avessero ancora strappato via il cuore. Le vide ferme e semmai il loro volto avesse potuto esprimere un sentimento umano - perplesse.
Era come se all’improvviso non lo vedessero più. Ma era impossibile, lui era sotto i loro occhi grinzosi, a portata delle loro grinfie incartapecorite. Non capiva. Le mummie rimasero ferme per qualche istante, in attesa di qualcosa, poi si allontanarono di qualche o. Herd si alzò, sempre più stupefatto per non essere stato ucciso, come gli uomini riversi sul pavimento intorno a lui. Osò girare la testa verso l’uscita della grotta. Il percorso era libero, ora. Se avesse voluto, sarebbe potuto scappare fuori e, forse, non sarebbero riusciti a raggiungerlo. Scosse la testa. Non era quello che voleva. Era arrivato fin lì per prendere i progetti di costruzione delle navi da guerra e sarebbe uscito portandoli con sé, o non sarebbe uscito affatto. Guardò le mummie degli antichi navigatori, che gli restituirono lo sguardo, vuoto come i loro occhi. Attendevano immobili e Herd si domandò se non stesse per perdere l’ultima occasione per salvare la vita. Fece un o in direzione del piccolo scrigno, poi un altro, nell’immobilità assoluta. Si chiese ancora una volta come poteva essere che quegli esseri avessero aggredito e ucciso tanti uomini e invece ora lo lasciassero camminare indisturbato. Gli vennero in mente le parole di Dagar Vede-nel-Buio: “ solo chi non teme nulla può reclamarlo” e all’improvviso comprese perché lui sì e tutti gli altri no. Thait Un-Occhio era un soldato coraggioso, ma di certo aveva una famiglia, degli affetti che aveva paura di perdere. Così tutti i suoi compagni, che ora giacevano morti sul pavimento della grotta. Ma non lui. Aveva perso qualunque cosa a cui tenesse, dunque non aveva paura di nulla, neppure di morire. Anzi, prima aveva addirittura desiderato abbandonare quel mondo di sofferenza per entrare nel regno dell’Ultima Madre e riabbracciare la sua famiglia. C’era qualcosa, che si era impadronito dei corpi degli antichi navigatori. Una forza negromantica che era nata dal Potere Oscuro che permeava la Grotta, forse proprio quegli Spiriti del Vento, che le davano il nome. Questi Spiriti, se poi di loro si trattava, con ogni probabilità si nutrivano della paura, che instillavano in chi profanava quel luogo di sepoltura. Lo aggredivano per nutrirsene, fino a strappargli il cuore per portare il livello del terrore all’apice e satollarsene. Ma ora non sentivano l’odore della paura addosso a lui ed erano interdetti. Era
come se, ciechi, quello fosse l’unico modo che avevano per percepirlo. Dunque adesso poteva are indisturbato tra loro: camminò cauto per evitare di toccarli e di spezzare quello che gli sembrava un vero e proprio prodigio. Giunse allo scrigno. Era d’argento, inciso con simboli e disegni, che rappresentavano scene di combattimenti navali. La serratura, che ne bloccava lo sportello superiore, sembrava piuttosto leggera, come fosse lì per motivi estetici, più che per vere e proprie necessità di sicurezza. La colpì con un paio di calci ed essa si ruppe. Herd aprì con cautela, temendo di far scattare qualche trappola. Non accadde nulla. Alzò la lampada per illuminarne l’interno. Il riflesso del metallo quasi accecò i suoi occhi abituati alla semioscurità. Non c’erano libri o pergamene, ma decine di sottili fogli d’oro. Ognuno di essi era fittamente ricoperto di disegni e scritte. Riconobbe diagrammi di strutture - simili allo scheletro della nave che dominava la marina di Porto Nascosto - e capì che aveva trovato ciò che cercava. Abbracciò lo scrigno e fece forza sulle gambe piegate, provando ad alzarlo. Dopo un paio di tentativi, riuscì a sollevarlo e a trasportarlo a fatica verso l’uscita della grotta, sotto lo sguardo vacuo delle mummie degli antichi navigatori, che rimasero immobili al suo aggio. Giunto all’esterno diede una voce, agitando la lampada. Gli risposero le grida entusiaste dei suoi compagni. Herd sciolse la cima che aveva fissato alla vita e l’avvolse strettamente attorno allo scrigno. Guardò in basso, sperando che fosse abbastanza lunga da poterlo portare sano e salvo fin giù. La strinse, arrotolandola ai polsi - in modo da avere una presa più ferma - poi si mise di fianco, con le gambe piegate e allargate. Cominciò a calare lo scrigno con cautela, cercando di evitare che sbattesse contro la parete rocciosa. Se si fosse spezzata la corda o si fosse aperto lo sportello superiore, il prezioso contenuto sarebbe finito in fondo all’oceano. La violenza delle onde, unita alla forza delle correnti, ne avrebbero reso impossibile ogni tentativo di recupero. Si fermò in più di un’occasione, quando i muscoli dolenti iniziavano a tremare e le mani sudate non riuscivano più a trattenere la cima. Nel momento in cui pensava che non sarebbe più finita, sentì delle grida e la tensione della cima finalmente si allentò, fino a sparire. Cominciò a calarsi a sua volta, non senza lanciare un’ultima occhiata
all’ingresso della grotta. All’interno le ombre si ammassavano impenetrabili e tra esse le mummie degli antichi navigatori. Rabbrividì al pensiero della loro furia, quando si fossero accorte che qualcuno aveva trafugato il tesoro che custodivano. Non voleva pensarci. Negli ultimi tempi aveva dovuto assistere a sin troppi accadimenti sovrannaturali. Giunto a un paio di metri di altezza dalla barca si lasciò cadere tra le braccia dei soldati, che le avevano allungate per rendergli meno rischioso l’atterraggio. Le onde la sballottavano qua e là e il rischio di farsi male o di cadere in acqua era concreto. «Ben fatto!», si congratulò Grum, stringendogli la mano. Ern il-Calvo e gli altri lo guardarono con ammirazione mista a sollievo, mentre i rematori si dannavano per allontanare le imbarcazioni dagli scogli e metterle di nuovo in navigazione verso Porto Nascosto. Ma era destino che non vi giungessero mai. Un grido improvviso li fece girare verso l’ultima barca della piccola flotta. Quella che sembrava un’onda anomala la colpì, facendola oscillare fin quasi a rovesciarla. Ma il maroso conteneva ben altra insidia: una sorta di lumaca marina delle dimensioni di un bue cadde sulle teste degli uomini. Quelli che non morirono schiacciati sotto il suo peso si lanciarono contro di essa, solo per scoprire che trasudava e schizzava acido. Herd e Grum la riconobbero: l’avevano vista sulle pagine dell’antico libro, che avevano consultato nella Sala del Consiglio. Orrori Mangianavi era il nome che i loro antenati avevano dato a quelle creature. Bastarono un paio di minuti perché metallo e legno della struttura dell’imbarcazione venissero corrosi ed essa colasse a picco. Herd e Grum si guardarono attorno e videro che stavano arrivando loro addosso almeno tante onde quante erano le loro barche. Erano perduti.
Venti
«La strega si è svegliata!», urlò una voce, fluttuando nella nebbia che avvolgeva la mente di Diana. Alcune sagome indistinte si avvicinarono nella semioscurità e la ragazza si accorse che non poteva muoversi. Cercò di ritrovare un po’ di lucidità, perché non riusciva a capire dove si trovasse e chi fossero gli uomini che le erano attorno. L’ultima cosa che ricordava era di avere perso i sensi, dopo aver ucciso la creatura che l’aveva attaccata da sotto la sabbia. Dovevano essere ate varie ore, visto che le tenebre che li circondavano erano rischiarate solo dalla luce ondeggiante di un fuoco alimentato dal vento del deserto. Pur aguzzando la vista, non riusciva a vedere nulla, al di là delle figure degli uomini ammantati di bianco, che la tenevano prigioniera. Si domandava chi fossero e cosa volessero da lei. «Non… non sono una strega», mormorò, con la bocca asciutta come cuoio screpolato. «Un po’ d’acqua, vi prego…». Un uomo alto e dal mento appuntito si avvicinò a osservarla. Aveva gli occhi neri, le sopracciglia folte e i capelli scuri, brizzolati come se vi avesse brinato sopra all’improvviso. Annuì secco e un altro uomo si allontanò velocemente, andando a prendere una fiasca. Diana ebbe il tempo di osservarli: erano scuri di carnagione, ma non come il Popolo delle Paludi. La loro pelle non era marrone, ma quasi grigia, i loro lineamenti più fini e i nasi aquilini. Vestivano con delle tuniche bianche molto leggere e dei copricapi, che portavano avvolti sulla testa. Sembravano dei beduini, come ne aveva visti sulla Terra: immaginava che vestirsi di bianco e coprirsi la testa, in un luogo così caldo, non fosse poi così strano. Dunque dovevano essere abitanti del deserto. Il fatto che l’avessero erroneamente scambiata per una strega le faceva pensare che non ne avessero mai conosciuta una vera. Non era sicura che fosse una buona cosa. Afferrò la fiasca e bevve con ingordigia, mentre più della metà dell’acqua le
scivolava sulle guance e sul mento dalle labbra secche e ferite. Non allontanò la bocca fintanto che non sentì la pancia gonfia, fin quasi a farle male. Non sapeva se avrebbe avuto altre occasioni per dissetarsi, a breve. La restituì quasi con riluttanza. «Non sono una strega», ripeté, questa volta con voce meno debole. «Tu hai ucciso una Fauce delle Sabbie», rispose l’uomo che sembrava in comando, scuotendo la testa. «E lo hai fatto senza toccarla con le mani, solo con il pensiero. Se non è stregoneria, dimmi tu che cosa è». «È… è difficile da spiegare». Diana scosse la testa. La verità era che non lo sapeva neppure lei. Non era Potere Oscuro, perché il suo corpo lo aveva rigettato. Ma non poteva essere neppure Magia della Parola, visto che non aveva trovato il modo per impararla, né sapeva se ci sarebbe riuscita mai. Si trattava con ogni probabilità della stessa capacità innata e istintiva che l’aveva guidata quando non aveva ancora l’Eclissi e non era in possesso del Sigillo degli Evocatori. «Difficile o no, lo rifarai», le intimò l’uomo, puntandole contro l’indice della mano destra. «Hai distrutto una Fauce delle Sabbie, puoi farlo con le altre». «Altre? Ma…». Diana era ancora confusa, i suoi ragionamenti appannati. «Chi siete voi?». «Il mio nome è Naazi e questi uomini fanno parte della mia tribù», disse l’uomo. «Siamo Figli del Deserto e abitiamo qui da sempre, convivendo giorno dopo giorno con la durezza delle Dune Riarse». «E queste creature che chiamate Fauci? Cosa sono? Da dove vengono?». «Davvero non le conosci? Nessuno di noi è riuscito mai a fare quello che hai fatto tu e sostieni di non averne mai sentito parlare!». «Eppure è così, te lo giuro». «Non le avevamo mai viste», disse infine Naazi, dopo averla osservata a lungo, come a volerle leggere la mente. «Qualche mese fa è apparsa la prima, poi sono arrivate le altre. Fintanto che erano delle dimensioni di quella che hai distrutto
oggi, facevano qualche vittima qua e là, ma non più del caldo e della sete. Poi è apparsa la Bocca e tutto è cambiato!». «La Bocca? Ma cosa…?». Diana non fece in tempo a chiedere altro. Un rantolo sotterraneo come quello che aveva sentito prima dell’attacco della Fauce delle Sabbie, ma mille volte più forte, fece tremare la terra. Un uomo perse l’equilibrio e cadde, gli altri si mantennero in piedi a stento. «Ora vedrai», le disse Naazi con un tono che sapeva di minaccia. Fece un cenno ai suoi uomini e due di loro la presero sotto le braccia e la fecero alzare. Procuratisi qualche torcia, si avviarono tutti, costeggiando la grande duna che si ergeva alle loro spalle. Camminarono per una buona mezzora e, mano a mano che avanzavano, la terra tremava sempre di più. Alla fine salirono in cima a una duna dalla forma strana, più bassa delle altre. «Questa è la Bocca», disse Naazi quando furono giunti in cima. Diana all’inizio non capì. Non vedeva nulla, se non una profonda depressione, all’interno della quale regnava l’oscurità più assoluta. Una specie di vulcano spento in mezzo al deserto. Le scosse ripresero e la ragazza vide dei denti grandi come colonne d’avorio sbucare dalla sabbia. Poi le pareti interne della voragine iniziarono a muoversi e comprese. Era una Fauce delle Sabbie dalle dimensioni titaniche, la cui cavità orale aveva un diametro di venti metri o più. Non sorprendeva che le avessero dato quel nome. «Io non posso uccidere questo mostro!», esclamò Diana, ritraendosi terrorizzata. «Lo vedremo domattina», disse Naazi, mentre un’espressione terribile gli ava sul volto. Era a metà tra la sofferenza e l’odio e gli stravolse i tratti, tanto da spaventarla. Diede ordine di riportarla al campo, dove tornarono in silenzio. Qui l’uomo si allontanò a grandi i, superando il fuoco e risalendo il fianco della duna di fronte. Scomparve nella notte. Diana si guardò attorno, cercando nei volti degli altri Figli del Deserto la spiegazione che le sfuggiva. Ma la lasciarono legata e si allontanarono tutti, dirigendosi verso il fuoco, per scaldarsi dal freddo intenso della notte. Tutti,
tranne un ragazzo che rimase al suo fianco. Doveva essere il suo guardiano, immaginò. «Come ti chiami?», gli chiese. Il ragazzo esitò. Non doveva avere più di tredici o quattordici anni e sembrava essere più impaurito di lei. «Il mio nome è Diana e ti assicuro che non sono una strega». Cercò di usare il tono più rassicurante possibile. Se si fosse allontanato anche lui senza parlarle, avrebbe perso ogni possibilità di avere qualche informazione in più. «Se tu fossi una strega, forse me lo diresti?». La guardò con l’espressione furba di chi ha appena scoperto un trucco. «Se io fossi una strega non sarei qui legata e probabilmente voi sareste già tutti morti». Il ragionamento dovette cogliere il ragazzo di sorpresa, perché si girò a controllare i suoi compagni, che chiacchieravano attorno al fuoco. «Suhir», mormorò. «Il mio nome è Suhir». Doveva aver deciso che, in effetti, Diana non aveva tutti i torti. Nello stesso tempo teneva l’impugnatura della sua corta spada talmente stretta, da sbiancare le nocche della mano. «Perché Naazi vuole distruggere la Bocca? Nessuno può farlo. Non è meglio semplicemente starle lontano?». «La Bocca è come le altre Fauci: quando ha fame si sposta a cercare le sue prede. Ha inghiottito metà delle tende del nostro villaggio la scorsa settimana. C’erano solo donne, anziani e bambini e in un attimo sono precipitati dentro la sua gola senza fine, uccisi dalle sue enormi zanne. C’era anche la famiglia di Naazi. E la mia. Questo è il motivo per cui vuole… vogliamo vendicarci!». Diana annuì e non fece altre domande. In fondo non era difficile capire cosa fosse successo. Con la Cerimonia di Sangue le Confraternite erano state distrutte e le creature delle Tenebre erano state sterminate nei territori tra la Cittadella degli Evocatori, le Paludi dei Maghi Neri e le Catacombe dei Negromanti. Ma
quelle che erano sfuggite, si erano trovate all’improvviso libere di cercare vittime altrove. Cercò di riflettere sulla sua situazione e sulle possibili vie di fuga. Da una parte i Figli del Deserto l’avevano salvata dalla disidratazione, dall’altra la prospettiva di confrontarsi con questa creatura delle Tenebre chiamata Bocca era una forma di condanna a morte. Come poteva pensare di combatterla senza poteri? La morte della Fauce delle Sabbie che l’aveva aggredita era un crudele inganno. Un potere che non controllava e di cui sapeva poco o nulla. Se l’avessero costretta a scontrarsi con questa ciclopica Fauce delle Sabbie, non c’erano dubbi sul fatto che sarebbe morta. E con lei, probabilmente, la speranza che la Magia della Parola potesse essere ripristinata e il Potere della Terra potesse sopraffare, alla fine, quello Oscuro. Se solo fosse riuscita a raggiungere il Cerchio di Pietra prima di… Ebbe un’improvvisa illuminazione. Lei non sapeva come raggiungere il Cerchio e ora, prigioniera, non sarebbe mai neppure riuscita a liberarsi. Ma quegli uomini credevano che lei fosse una strega e dunque, pur tenendola legata, probabilmente la temevano e rispettavano nello stesso momento. Avrebbe dovuto giocare quella carta. «Naazi!», cominciò a gridare con quanto fiato aveva in corpo. «Naazi! Voglio parlare con te, capo dei Figli del Deserto!». Suhir era balzato in piedi e la guardava con occhi sgranati: Diana avrebbe giurato che la spada gli tremava in mano. Anche gli altri uomini si erano alzati e ora confabulavano a bassa voce, indicandola. Continuò a gridare finché uno di loro non si decise a risalire a larghe falcate il fianco della duna, dietro la quale era sparito Naazi. Il capo dei Figli del Deserto ò accanto al fuoco e la luce tremolante le permise di distinguerne l’espressione infuriata. Si fermò a un o da lei, portando le mani ai fianchi. «Cosa vuoi?», chiese con voce irata. «Perché disturbi le mie preghiere?». «Tu vuoi che combatta contro la Bocca». Naazi, colto di sorpresa dal tono imperioso di Diana annuì, anche se non era una domanda. «E io lo farò. Ma per compiere questo grande sortilegio ho bisogno di consultare le Pietre della
Magia». Naazi la guardò perplesso e Diana si augurò che lui o qualcuno dei suoi sapessero dove si trovava il Cerchio di Pietra, altrimenti per lei sarebbe stata la fine. «C’è un luogo di grande magia qui nelle Dune Riarse. Pietre alte come tre uomini erette a formare un cerchio. Ho bisogno di consultare le scritture incise su quelle pietre, altrimenti non sarò in grado di combattere contro la Bocca». «Il Cerchio, certo…», mormorò Naazi, guardandola adesso con occhi diversi. «Dunque sei tu la donna della magia che i Custodi stanno aspettando da tanto tempo?».
Ventuno
« Or è l’energia che ci circonda, Jodi il calore del fuoco, Kenrai il potere dell’acqua, Reis la solidità della pietra…», borbottò Bisahr, cominciando a ripetere la cantilena che aveva imparato a memoria tanti anni prima. Era un uomo anziano. I capelli, una volta neri come la notte, erano divenuti bianchi. Il suo volto dai lineamenti aguzzi si era scavato fino a farlo assomigliare ai teschi dei Custodi, che lo avevano preceduto nel suo compito e che sembravano osservarlo, ordinatamente impilati, dalla parete della caverna dove aveva vissuto sin da ragazzo. Le sue dita oramai faticavano ad afferrare le cose e nel farlo sembravano traate da chiodi. La schiena si era curvata e faticava ogni giorno di più a sopportare il suo peso. Si affacciò dall’ingresso della grotta, posta a mezz’altezza di una ripida parete di roccia rossa, e guardò fuori. Oltre gli imponenti monoliti, disposti in un Cerchio di una ventina di i di diametro, si estendeva il deserto. Le dune di sabbia arrivavano all’orizzonte e, per quanto ne sapeva Bisahr, non avevano termine. Intravide un movimento dietro la duna più vicina e un istante dopo spuntò la testa di Hamzi. All’alba il ragazzo era andato a prendere l’acqua e ora stava tornando con un pesante orcio in spalla. Lo osservò caracollare nel tentativo di non perdere l’equilibrio, mentre i suoi piedi affondavano nella sabbia. Ogni volta che sembrava che sarebbe ruzzolato giù dal crinale scosceso, però, Hamzi riusciva a spostare il peso e a mantenersi eretto. Sperava di non aver atteso troppo prima di scegliere colui che avrebbe dovuto prendere il suo posto. Purtroppo le carovane avano sempre più di rado da quelle parti e, nel tempo, le tribù dei Figli del Deserto avevano dimenticato il suo ruolo e il rispetto per la sua figura. In precedenza le madri consideravano un onore che un loro figlio venisse scelto dal Custode per perpetuarne il compito. Lui aveva invece spesso trovato indifferenza, quando non vero e proprio astio, nei suoi confronti. Rientrò nella caverna. « Or è l’energia che ci circonda, Jodi il calore del fuoco, Kenrai il potere
dell’acqua, Reis la solidità della pietra…», ricominciò, una volta che la nenia fu finita. Era il suo compito, ciò che aveva fatto per tutta la vita - dopo essere stato scelto dal Custode che lo aveva preceduto - ed era quello che avrebbe dovuto fare Hamzi dopo di lui. Aveva ato anni a imparare tutte le parole, i gesti e le sequenze scolpite nella pietra. Sapeva che si trattava di antica saggezza magica, anche se non la comprendeva e non ne conosceva l’uso. Le sue conoscenze erano quanto gli avevano tramandato i Custodi che l’avevano preceduto. Un potente mago era venuto dal Nord, tanti anni prima. Arrivato al Cerchio di Pietra, aveva preso un ragazzo come suo apprendista e gli aveva insegnato le parole che lui ora ripeteva ogni giorno. Poi gli aveva spiegato i segreti delle incisioni sui monoliti. Infine lo aveva nominato Custode e gli aveva chiesto di tramandare quanto aveva appreso, se necessario per secoli. Così era nata la tradizione che portava fino a lui e – un giorno - a Hamzi. Attese che il suo apprendista portasse l’orcio fino nella grotta, poi gli fece segno di avvicinarsi. «È il momento di ripetere, Hamzi». Il ragazzo si sedette a gambe incrociate di fronte a lui. Aveva nove anni, un ciuffo di capelli neri ribelli sulla testa e lo sguardo intelligente. Era pelle e ossa, nonostante il cibo non scarseggiasse. Ogni tanto si domandava se - oltre a insegnargli quanto il Custode precedente aveva insegnato lui - per caso non gli fe mancare qualcosa. Decise di no: se non fosse stato al suo fianco, ora sarebbe a pascolare le capre, come i suoi coetanei. « Or è l’energia che ci circonda, Jodi il calore del fuoco, Kenrai il potere dell’acqua, Rais la solidità della pietra…». « Reis, si pronuncia Reis», lo corresse Bisahr, con l’aria un po’ spazientita. Il ragazzo era intelligente, ma si distraeva. Se non si fosse impegnato di più, il rischio era che non avrebbe fatto in tempo a insegnargli tutto prima… prima che succedesse l’inevitabile. «Sì, maestro: Reis», annuì Hamzi, ma si vedeva che era distratto. Dopo un attimo di esitazione, azzardò la domanda che doveva covare dentro di sé da un po’ di tempo. «Mi piacerebbe che cominciassi a spiegarmi i segni nella pietra. Ogni volta che o accanto al Cerchio, mi domando come sia possibile che le
parole che ripeto ogni giorno siano… siano lì». «Va bene», sospirò Bisahr. «Immagino che tu abbia ragione. Forse è arrivato il tempo che cominci a capire il rapporto tra le parole della tradizione e i segni sulla pietra». Si alzò, immediatamente seguito dal ragazzo, i cui occhi sprizzavano scintille dall’eccitazione. «Ma, mentre andiamo, ricomincia», lo ammonì il vecchio. «E vedi di ripetere tutto bene, prima che io cambi idea». « Or è l’energia che ci circonda…». Si incamminarono verso il Cerchio di Pietra. Bisahr sogguardava il suo allievo, tentando di nascondere un sorriso di compiacimento. Era veramente un ragazzo sveglio e non avrebbe faticato a imparare i segni e ad associarli alle parole della tradizione. Fino a quel momento si era dovuto accontentare di mandare a memoria quelli che per lui erano termini incomprensibili, ma così doveva essere. Tutti i Custodi avevano imparato in quel modo, compreso il primo. Bisahr si fece aiutare, mentre scendeva giù per la parete di roccia su cui si affacciava la grotta, poi seguì claudicante Hamzi, appoggiandosi a un lungo bastone. Superarono le basse dune che li separavano dal Cerchio. I monoliti sembravano osservarli severi, come ogni volta. Erano testimoni di un tempo ormai ato e sentinelle di segreti che solo loro sembravano conoscere. Era questa la cosa più importante che il ragazzo doveva imparare quel giorno. Lui - e i Custodi che l’avevano preceduto - non sapevano nulla dei segreti del Cerchio. Quello che tramandavano era la conoscenza della chiave per accedervi, chiave che, però, non avevano alcuna speranza di poter usare. Loro erano lì in attesa che qualcuno venisse a reclamarla: questo era il loro compito. Il grande mago del Nord aveva detto che sulle loro spalle gravavano i destini dell’intera Nocturnia. E già quello era un fardello sin troppo pesante, per un ragazzo che sarebbe stato destinato a fare il pastore. Superarono la linea immaginaria che univa i monoliti e che separava l’interno del Cerchio di Pietra dall’esterno. Come sempre sembrava di fare ingresso in un luogo diverso, lontano nello spazio e nel tempo, in cui persino la grigia volta celeste sembrava avere ben altra profondità. Hamzi ammutolì e sgranò gli occhi,
mentre il vecchio si trattenne solo per non far intuire all’allievo che entrambi provavano lo stesso sbigottito stupore. Bisahr si sedette a gambe incrociate vicino alla roccia, che campeggiava al centro esatto del Cerchio. Era alta circa la metà di un uomo e aveva la forma di un tozzo cilindro. Su di essa erano incisi simboli, che seguivano un percorso a spirale dal basso verso l’altro. Era lì che tutto aveva avuto inizio. «La prima cosa che devi sapere», esordì «è che esistono due grandi forze, che permeano il nostro mondo. Una è il Potere della Terra, che uomini saggi e potenti possono manipolare mediante la Magia della Parola. L’altra è il Potere Oscuro, usato dagli adepti delle Arti Proibite. Da secoli è in atto uno scontro tra queste due forze e tra coloro che ne fanno uso, anche se qui alle Dune Riarse sono giunti solo gli echi di tale guerra senza quartiere. Il progressivo indebolimento del Potere della Terra, avvelenato da quello Oscuro, ha causato la perdita di efficacia della Magia della Parola. Quando è apparsa una ragazza in grado di manipolare il Potere Oscuro senza lasciarsene asservire, i popoli liberi di Nocturnia l’hanno chiamata Nera e acclamata come loro condottiera. Da quel momento in poi la guerra è stata combattuta usando le Arti Proibite su entrambi i fronti. Ma così facendo la conoscenza legata alla Magia della Parola è progressivamente diminuita. L’ultimo grande Mago della Parola è fuggito in un mondo diverso dal nostro, portando in salvo l’ultima Nera, ancora bambina. Ma quando ha fatto ritorno, ha scoperto che il Potere della Terra era stato quasi cancellato da Nocturnia e non c’era nessuno che conoscesse più la Magia della Parola». «Tu come fai a sapere tutte queste cose?», chiese Hamzi, approfittando di una pausa del racconto di Bisahr. «Le insegnò al primo Custode il grande mago del Nord: il suo nome era Lynerus…».
Interludio
Lynerus aprì gli occhi a fatica. Si guardò attorno, come se non riuscisse a capire se si fosse svegliato o se stesse ancora sognando. Gli alberi grigi, che lo circondavano, sembravano osservarlo come giganti severi, ammantati dalle ombre della sera. Ma a risvegliare i suoi ricordi fu l’odore, anzi il tanfo. Erano anni che non lo sentiva e le sue narici non vi erano più abituate. Potere Oscuro. Ma certo, ora ricordava tutto. Aveva appena attraversato il aggio che separava la Terra da Nocturnia lasciando lì l’ultima erede della Linea di Sangue, ancora in fasce. Deglutì e appoggiò la schiena al tronco dell’albero più vicino. Era ancora troppo debole per alzarsi, anzi stentava a sentire le gambe, che gli sembravano appendici morte. Dunque tanto valeva riordinare i pensieri. Da quando era fuggito sulla Terra con la piccola Ossidiana aveva perso ogni contatto con Nocturnia. Solo l’improvvisa morte della sua protetta, avvenuta dando alla luce la figlia Diana, l’aveva spinto a tornare prima di quanto avesse stabilito. Nella sua mente, infatti, avrebbe voluto varcare il aggio tra i mondi assieme a colei che sarebbe divenuta la nuova Nera e non da solo. Ma su Ossidiana non era mai apparsa la Falce e la sua morte prematura era foriera di pessimi presagi. Aveva dunque lasciato la piccola Diana a un vicino di casa perché se ne prendesse cura per un breve periodo, sufficiente a permettergli di capire come fossero evolute le cose nel loro mondo martoriato, poi tornare. Non era stato facile, perché aveva deciso di non usare quel meraviglioso piccolo artefatto magico chiamato Varco. Se per caso lo avesse portato con sé - e per qualsiasi motivo non fosse riuscito a fare ritorno o addirittura fosse morto - Diana sarebbe stata confinata sulla Terra per il resto della sua vita. Molto breve, dal momento in cui fosse apparsa la Falce. No. Il Varco doveva rimanere nella sua cassaforte, ultima assicurazione del ritorno della Nera. D’altro canto il transito tra i due mondi aveva inibito i suoi
poteri magici. Sospettava che fosse impossibile per una persona praticare la Magia della Parola sia sulla Terra che su Nocturnia. Dopo lunghe riflessioni - e non senza molte esitazioni - aveva chiesto l’aiuto di un Iniziato. Nei suoi studi aveva scoperto che, nei secoli precedenti, c’erano stati contatti tra i due mondi, anche se non aveva la certezza che qualcuno fosse effettivamente transitato prima di loro. Di sicuro aveva saputo che alcuni oggetti di potere e pergamene di incantesimi erano stati trasferiti da Nocturnia. Erano giunti in possesso di persone, sulla Terra, che avevano così scoperto l’esistenza del loro mondo. Alcune di queste persone li avevano studiati fino a riuscire a padroneggiare i rudimenti della Magia della Parola, benché non nelle forme e con la potenza possibili su Nocturnia. E comunque nei secoli sempre in maniera decrescente, visto che lì il Potere della Terra era andato scemando. Esso aveva ceduto il posto non al Potere Oscuro - che per loro fortuna non era mai apparso - ma a una forma di magia diversa e altrettanto letale: la tecnologia. Ma queste persone - chiamate Iniziati - esistevano ancora e bramavano il possesso di manufatti magici provenienti da Nocturnia, visto che erano secoli che non ne trovavano di nuovi. Dopo essere riuscito a fatica a individuare il più dotato tra loro, si era presentato da lui chiedendogli di aprire il aggio tra i mondi e offrendogli in cambio un libro, che conteneva formule di piccole magie. Un regalo prezioso, che l’Iniziato si era affrettato ad accettare senza fare domande, anche se si capiva da lontano un miglio che la curiosità lo divorava. L’unica cosa che aveva reso tranquillo Lynerus era che l’Iniziato non sapeva nulla di lui e che, anche se avesse tentato di ripetere l’esperimento, non avrebbe ottenuto risultati. L’incantesimo, così come gliel’aveva insegnato, poteva far attraversare il aggio tra i mondi solo a chi avesse già compiuto il tragitto opposto. Tentò di alzarsi e avvertì un dolore al polpaccio. Abbassò lo sguardo e vide che sanguinava, probabilmente a causa di una roccia acuminata, che l’aveva ferito nel momento del transito. Alzò le spalle: una cosa da nulla. «Isa Or», disse quasi distrattamente, sfiorando la ferita con le dita. Non successe nulla.
«Isa Or», ripeté, ponendo più attenzione sia alla pronuncia della formula, che al gesto stesso. Era ato così tanto tempo, che forse aveva dimenticato qualche particolare. «Isa Or!», esclamò con rabbia, man mano che un senso di panico si impadroniva di lui. Fu quando ebbe ripetuto alla nausea la formula, che dovette ammettere a se stesso l’amara verità: non riusciva più a usare la Magia della Parola. Si accasciò di nuovo con la schiena appoggiata al tronco, sopraffatto dal peso di questa terribile scoperta. Aveva perso del tutto i propri poteri anche al di qua del Varco, oppure le sue capacità si erano solo atrofizzate a seguito del lungo periodo di inutilizzo? Non avere più poteri significava, non solo essere del tutto inerme in un mondo ostile, ma anche non poter tornare sulla Terra. Oltre a ciò, non avrebbe potuto rallentare il suo invecchiamento al fine di attendere la Nera, quando e se fosse riuscita ad attraversare il Varco. Decise che non poteva accettare questa eventualità. L’alternativa era che, in qualche maniera, fosse possibile stimolare le capacità che - sperava - erano rimaste latenti in lui. Non poteva farlo lì, però. L’aria era impregnata di Potere Oscuro e invece aveva bisogno del contatto con una fonte di Potere della Terra. Si guardò attorno. Pur mancando da parecchi anni - che con il differente scorrere del tempo su Nocturnia erano divenuti decenni, se non di più - era piuttosto certo di trovarsi nella Selva Atra. Avrebbe potuto dirigersi verso il Santuario della Selva, dove il Potere della Terra era ancora forte, quasi come prima dell’apertura della Breccia. Ma aveva l’impressione di essere piuttosto lontano: la conformazione delle rocce e la tipologia di alberi che lo circondavano sembravano indicare che si trovasse invece nella zona Ovest o Nordovest della Selva. Troppo cammino da percorrere da solo, disarmato, privo di poteri magici e per di più ferito. Non lontano da lì, però, c’era un Cerchio di Pietra. Il Potere della Terra era meno possente che nel Santuario della Selva, in compenso era un luogo consacrato alla Magia della Parola. Sui grandi monoliti erano incisi incantesimi e rituali che avrebbero potuto alimentare la fiammella che si era sopita in lui. Era deciso, dunque.
Strappò una manica della camicia e si fasciò la gamba; raccolse un ramo abbastanza dritto e ne fece il suo bastone, poi si avviò. Provare timore a ogni fruscio era una strana sensazione, per lui che era stato il più potente Mago della sua era, in grado di piegare le forze della natura ai suoi voleri. Camminò per tre giorni, fermandosi di tanto in tanto per raccogliere qualche frutto o qualche bacca per sfamarsi. Procedeva con lentezza a causa della ferita e si nascondeva ogni volta che udiva rumori sospetti. Dormiva con un occhio solo, spesso mimetizzandosi sotto mucchi di foglie. Quando ne trovava, raccoglieva delle erbe curative con le quali faceva degli impacchi sulla ferita, dopo averla sciacquata con acqua di sorgente. Questo evitò che si infettasse e lo rese meno facilmente individuabile dalle Fatue, che senza dubbio infestavano anche quelle zone della Selva. Circa a metà del secondo giorno giunse in vista di un piccolo villaggio. Se ne rallegrò, perché avrebbe potuto riposare e rifocillarsi grazie all’ospitalità dei Silvani. Nello stesso tempo avrebbe approfittato per raccogliere informazioni. Non aveva intenzione di rivelare la sua identità, perché la notizia del ritorno di Lynerus, privo di poteri e senza la Nera, si sarebbe sparsa come fuoco in un pagliaio, con conseguenze impossibili da prevedere. Stava ancora riflettendo su come presentarsi, quando un terribile tanfo di decomposizione colpì le sue narici. Comprese all’improvviso cosa non andava: non c’era alcun movimento in giro. Le sentinelle del villaggio avrebbero dovuto segnalare il suo arrivo già da qualche minuto e, in qualsiasi caso, lui stesso avrebbe già dovuto scorgere qualcuno degli abitanti. Invece attorno a lui aleggiava un silenzio irreale e l’odore di morte avvolgeva le abitazioni deserte. Si avvicinò. Vide i primi cadaveri riversi a terra, poi altri all’interno delle costruzioni, sbirciando attraverso le porte socchiuse e le tende accostate. Doveva essere stato un attacco improvviso da parte di una delle Confraternite, con ogni probabilità gli Evocatori. I corpi erano stati semidivorati e straziati: ricordava altri morti, tanto tempo prima, vittime dei Mastini degli Abissi. Avevano lo stesso identico aspetto. Stava per allontanarsi da quel luogo di morte, quando sentì un gemito. Si guardò attorno, alla ricerca della direzione dalla quale proveniva il lamento. Alzò lo sguardo e intravide qualcosa muoversi all’interno della capanna più grande, probabilmente quella del Capoclan. Salì con cautela la scaletta di
corda, sperando che non si trattasse di qualche creatura delle Tenebre attardatasi a infierire sulle vittime. I suoi timori svanirono non appena vide un uomo anziano accasciato a terra, che alzò una mano verso di lui. «A… cqua!», implorò questi con un filo di voce. Lynerus annuì e si guardò in giro. L’abitazione era stata devastata e una mezza dozzina di cadaveri erano riversi sul pavimento, in pozze di sangue rinsecchito. Dopo qualche ricerca, però, riuscì a trovare un piccolo orcio pieno a metà. Sollevò la testa dell’uomo e ne appoggiò l’imboccatura sulle labbra riarse, permettendogli di bere. Dopo che ebbe mandato giù tre o quattro sorsi, sembrò assopirsi. Rimase immobile per qualche minuto, tanto che Lynerus temette che fosse spirato. Poi l’uomo aprì gli occhi e tentò di metterlo a fuoco. «Chi… chi sei?», mormorò. «Un amico». Non c’era bisogno di dire altro, non in quel momento. «Morti! Sono tutti morti…». A quelle parole rassegnate Lynerus annuì, senza dire nulla. «Alla fine ci sono riusciti…». «Ascoltami», disse a quel punto Lynerus, vedendo che l’uomo stava chiudendo di nuovo gli occhi e temendo che avesse rinunciato a ogni sforzo per rimanere vivo. «Forse io posso aiutare la tua gente e i popoli liberi di Nocturnia, ma sono stato via tanto tempo e devo sapere molte cose. Ti prego, tu eri il loro Capoclan, vero?». Le sue parole sembrarono sortire un effetto nell’anziano uomo, che dovette sentire la responsabilità del ruolo che ricopriva. Aprì di nuovo gli occhi. «Il mio nome è Mirien, capo del Clan Foglia di Leccio». «Sono stati gli Evocatori ad attaccare la tua gente?». Mirien annuì. «Combattono ancora contro le altre Confraternite, o la Guerra del Buio è terminata?». «La Guerra non avrà mai fine e noi Silvani siamo sempre di meno», disse ai limiti dell’udibilità. «Quelli che non sono sterminati dagli Evocatori, vengono
uccisi e usati dai Negromanti per infoltire le loro blasfeme schiere di Risorti». Poche altre domande bastarono per dare a Lynerus un quadro piuttosto preciso della situazione. Da quando la Rocca era caduta e loro fuggiti sulla Terra, Nocturnia era sprofondata in un abisso di barbarie e guerra senza fine. Non c’erano vinti né vincitori e di certo non c’era un nuovo Thaugoth a riunire le Confraternite con il suo pugno d’acciaio. Nello stesso tempo la Magia della Parola era lentamente andata scomparendo e non c’era più nessuno che la usasse o anche solo la conoscesse. Capì di avere commesso un’imprudenza a tornare su Nocturnia, lasciando l’unica erede della Linea di Sangue, ancora in fasce, alle cure di uno sconosciuto. La cosa non sarebbe stata così grave, se non avesse perso i suoi poteri magici senza i quali, non solo non poteva difendersi, ma neppure tornare indietro. Era immerso nelle sue cupe riflessioni, quando uno spasmo colse Mirien e il Capoclan gli spirò tra le braccia. Gli chiuse delicatamente gli occhi spalancati, mormorando una preghiera alla Madre Terra. Ora sapeva tutto quello che doveva sapere. Lasciò il vecchio sul pavimento dell’abitazione. Non poteva seppellire tutti gli abitanti del villaggio e, anzi, rimanere lì metteva in pericolo anche lui. Si guardò intorno e scorse, non lontano dai suoi piedi, una corta spada, che uno dei Silvani doveva aver brandito prima di cadere. La raccolse: sarebbe stata un’arma decisamente più efficace del bastone al quale si appoggiava per camminare. Prese l’orcio e cercò qualcosa da mangiare. Trovò della carne essiccata e qualche frutto non ancora marcito. Non si sentiva uno sciacallo: di certo a loro non sarebbero serviti, mentre dalla sua sopravvivenza dipendevano i destini dei popoli di Nocturnia. Discese la scaletta di corda, lanciando un’ultima occhiata a quanto rimaneva del villaggio. Poi si inoltrò di nuovo nel folto della Selva. Continuò a camminare finché non fu buio, poi si fermò, acquattandosi guardingo con le spalle appoggiate al largo tronco di una quercia secolare. Non aveva mai smesso di rimuginare su quanto aveva appreso da Mirien. Se non fosse tornato in possesso dei suoi poteri, era destinato a rimanere su Nocturnia per il resto della sua vita e impossibilitato a fare da tutore alla nuova Nera, ammesso che questa fosse riuscita, prima o poi, a superare la soglia tra i due mondi. Una Nera senza poteri e la Magia della Parola scomparsa da Nocturnia. Scosse
la testa. Se le cose fossero state veramente così, non ci sarebbe stata più alcuna speranza. Meglio non pensarci, almeno fino a che non avesse tentato l’ultima carta, al Cerchio. Si assopì, appesantito dalla stanchezza, ma il suo fu un dormiveglia screziato di incubi e presagi funesti. La mattina dopo riprese il cammino, deciso a raggiungere la sua meta in giornata. Faticò a trovare il Cerchio di Pietra. Nella sua memoria i monoliti svettavano sulla cima di una collinetta spoglia, ben visibili da lontano. Quello che invece vide, furono dei ruderi sommersi dai rampicanti e dal muschio, a stento distinguibili dall’intrico di vegetali che li circondava. Entrò nello spazio circolare, delimitato dalle pietre, alcune delle quali giacevano inclinate su un fianco, quando non riverse a terra. Però il loro potere non era del tutto sopito. Lo sentiva scorrere: era lieve come un alito di vento, ma non si era spento. Appoggiò a terra la spada, l’orcio, la bisaccia e sfiorò con i polpastrelli la superficie di uno dei monoliti, istoriata di rune. Quasi senza che se ne accorgesse, le labbra si mossero a leggere le parole di potere. Mentre lo faceva, la memoria sembrava tornargli, prima timida come un rivolo, poi come un torrente in piena. Doveva cercare di convertire quella conoscenza in capacità, come non aveva mai pensato di dover fare. Inspirò, cosciente che quello era il momento della verità, lo spartiacque tra portare a termine il compito che si era assunto e fallire miseramente. Si sedette a gambe incrociate al centro del Cerchio di Pietra, in perfetto equilibrio tra le forze che, nonostante tutto, ancora formicolavano sulla superficie dei monoliti. Chiuse gli occhi per isolarsi da ciò che lo circondava. Inspirò ed espirò, tentando di respingere le paure che lo tormentavano e di fare il vuoto nella sua mente. Rimase immobile per lungo tempo, minuti che si trasformarono in ore, senza che lui ne avesse la minima percezione. Alla fine, quando sembrava essersi trasformato in un essere di pietra - una statua, che avrebbe potuto essere a sua volta ricoperta dal muschio e dai rampicanti - cominciò a cantare. La sua voce era lieve, modulata su una nenia dolce. La vibrazione delle parole, che pronunciava cantando, si espanse fino a riverberare sulle rune incise nella pietra. Ma esse non reagirono. La Magia della Parola sembrava fuoriuscire solo sotto forma di suono, rifiutando di trasformarsi in quella forza, che gli aveva consentito di assurgere al ruolo di più potente tra i Maghi.
Si alzò in preda alla furia e al panico, urlando come fosse impazzito. Si spezzò le unghie e scorticò le mani strappando via muschio e rampicanti dalle pietre, nell’illusione che portare alla luce le rune ne scatenasse il potere. arono ore e poi giorni, prima che Lynerus accettasse, infine, quanto era successo. Il aggio tra Nocturnia e la Terra non aveva solo inibito i suoi poteri nel mondo dove aveva portato Ossidiana, ma li aveva cancellati per sempre. Ora comprendeva perché nessun Mago della Parola o seguace delle Arti Proibite avesse mai attraversato quella soglia e perché nel tempo l’interesse per la Terra fosse scemato fino al punto di scomparire. Chi avrebbe pagato l’estremo prezzo della perdita delle capacità magiche, solo per la curiosità di vedere cosa ci fosse dall’altra parte? Lui non aveva avuto scelta, quando l’aveva dovuto fare. Ma se avesse soltanto sospettato quanto aveva appena scoperto, non sarebbe tornato. Non da solo, non ancora. Rimase nei pressi del Cerchio di Pietra per giorni, come se sperasse che, in un moto di pietà, esso lo potesse accogliere di nuovo tra le schiere di chi poteva usare la Magia della Parola. Ma il Cerchio non aveva la dote della pietà, era solo un meraviglioso manufatto in grado di veicolare il Potere della Terra. Nei giorni della disperazione, Lynerus si lasciò andare, senza cura per se stesso, quasi a volersi punire per una colpa che sentiva gravare sulle sue spalle, ben più pesante dei monoliti. Non mangiava, non beveva, si addormentava solo quando era esausto per aver vegliato troppo a lungo. Che senso aveva continuare a vivere? La Magia della Parola aveva perso il suo ultimo adepto e l’erede della Linea di Sangue - che aveva tanto faticosamente tratto in salvo da morte certa - l’unico mentore, che la potesse aiutare a divenire la Nera che Nocturnia attendeva da tanto tempo. Ogni tanto osservava la punta della spada, che aveva raccolto nel villaggio dei Silvani, desiderandone il morso letale. Il sottile filo della sua ragione stava per spezzarsi, quando una visione si materializzò di fronte ai suoi occhi. Non avrebbe mai capito, neppure in seguito, se era stata la sua mente inconscia a inviargliela, oppure la Madre Terra. Ma non aveva importanza l’origine, quanto il significato sotteso. Vide un Cerchio di Pietra perfettamente integro, circondato da dune di sabbia battute dal vento caldo. Al suo interno un uomo che insegnava a un ragazzo. Quell’uomo era lui.
Fu in quel momento che ebbe l’illuminazione. Anche se non era più in grado di usare la Magia della Parola, ne era pur sempre il più grande conoscitore. L’unico ancora in vita, con ogni probabilità. Sapeva che non avrebbe mai fatto in tempo a individuare un ragazzo con le doti giuste e a formarlo fino a farne un Mago. Non con i pochi anni che gli rimanevano da vivere. Ma poteva fare in modo che la sua conoscenza non svanisse con lui. Certo, non lì. Quel Cerchio di Pietra aveva ancora un po’ di potere, ma era semidistrutto. Per di più sorgeva nella Selva Atra, un luogo al centro dello scontro secolare delle Confraternite. No, la visione gli aveva suggerito il luogo adatto. La Guerra del Buio non coinvolgeva l’intera Nocturnia, ma solo il triangolo maledetto tra le Catacombe, la Cittadella e le Paludi. I tre luoghi dove erano stati sepolti i resti del corpo di Thaugoth e che dunque erano divenuti i bastioni delle Confraternite. L’estremo Nord e il profondo Sud, pur essendo a loro volta avvelenati dal Potere Oscuro, non erano altrettanto infestati dalle creature delle Tenebre e soprattutto non erano soggetti alle scorribande degli eserciti in guerra. Avrebbe raggiunto il Cerchio che sorgeva nelle Dune Riarse, come gli aveva suggerito la visione. Qui avrebbe insegnato a un allievo come leggere e pronunciare correttamente ciascuno dei segni. Il suono era fondamentale, senza di esso gli incantesimi non funzionavano. Era deciso. Mangiò a sazietà, poi riposò per affrontare quel lungo viaggio. Camminò per settimane, spinto dalla ritrovata volontà di non lasciare Nocturnia al suo destino di barbarie. Attraversò la Selva Atra verso Sudest, poi si inoltrò nelle Paludi dei Negromanti, sempre stando estremamente attento a evitare le creature delle Tenebre e le pattuglie degli eserciti in perlustrazione. Mangiava quello che capitava, aveva il sonno leggero e una folta barba grigio acciaio gli coronò il viso, che per tanti anni sulla Terra aveva mantenuto rasato. Per fortuna la memoria non lo aveva tradito, come invece la capacità magica. Conosceva le terre centrali di Nocturnia molto bene, per averle girate in lungo e in largo negli anni di guerra al fianco di Gremian. Quando giunse alle Dune Riarse, però, le cose si fecero molto più difficili. Se si muoveva nella Selva come a casa sua e se, nell’attraversare le Paludi dei Negromanti, l’unica preoccupazione era stata dirigersi verso Sudest ed evitare incontri, quando giunse al deserto si dovette fermare per orientarsi. Le dune grigio ferro si ergevano improvvise dal terreno roccioso che le
precedeva. Un vento caldo e secco ne sfiorava le creste come una mano invisibile, trascinando con sé turbini di sabbia scura e modificandone - lento ma inesorabile - la forma. Il cielo, che incombeva basso su tutta Nocturnia, lì sembrava avere una profondità maggiore e una tonalità meno livida. Era stato solo una volta presso quel Cerchio di Pietra e non aveva compiuto il percorso a piedi, bensì sfruttando la Magia della Parola, che gli aveva permesso di trasportarsi a distanza da un altro Cerchio. Ma aveva studiato un’infinità di mappe - alcune più precise di altre - e sapeva come arrivarci. Si inoltrò con cautela nel deserto, conscio che lì avrebbe incontrato una difficoltà estrema nel reperire acqua e cibo e che il caldo lo avrebbe ucciso, se avesse perso la strada. Ma il suo senso dell’orientamento unito, forse, a un briciolo di fortuna, lo guidò per la strada giusta verso la meta. Camminava da tre giorni sulla sabbia rovente - e nel suo orcio c’erano rimaste a stento un paio di sorsate d’acqua - quando vide da lontano i monoliti che formavano il Cerchio di Pietra. Vi si diresse con rinnovata energia, ben sapendo che lì avrebbe trovato ristoro, oltre a tutto il resto. La presenza di quel manufatto, infatti, creava un’aura che si estendeva per qualche miglio e da sempre attirava i Figli del Deserto. Si trattava di tribù nomadi dedite all’allevamento di piccole capre, che trovavano nei dintorni del Cerchio una quantità di pianticelle da brucare molto maggiore che altrove. Non si sbagliava, avvicinandosi vide delle tende bianche piantate a poche centinaia di metri dai monoliti e persone affaccendate nelle occupazioni quotidiane. Ma non si diresse verso le tende, non ancora. Doveva controllare se il Cerchio fosse ancora nelle condizioni originarie e che custodisse tutti i suoi meravigliosi segreti. Quelli che, soli, avrebbero potuto consentirgli di perpetuare la sapienza antica della Magia della Parola. ò tra i colossali monoliti ed essi gli trasmisero un brivido che non provava ormai da tanto, troppo tempo. Non era solo Potere della Terra, ma Magia della Parola. Non c’era più un altro luogo su Nocturnia dove essa fosse così possente. Un sorriso gli increspò le labbra. Ognuna delle pietre verticali che componevano il Cerchio era fittamente incisa di rune. Erano incantesimi e rituali che costituivano l’iniziazione di un Mago
della Parola. Nei tempi antichi gli allievi trascorrevano la giovinezza in luoghi come quello, a imparare i rudimenti della Magia, assistiti nello studio dai loro mentori. Poi avano a Cerchi dove avrebbero appreso le conoscenze avanzate, ma era lì che si iniziava. Vi rimase l’intera giornata, finché la sua attenzione non venne attratta da una delegazione di Figli del Deserto, guidati da quello che doveva essere il capo della piccola tribù, accampata non lontano. Qualcuno doveva aver visto dei movimenti tra le antiche pietre e, senza che lui lo notasse, essersi avvicinato per poi andare a riferire. Il gruppo si fermò in silenziosa attesa al di fuori del perimetro dei monoliti. «Ti saluto, saggio capo», disse Lynerus, avvicinandosi agli uomini. «E perdonami se non sono venuto prima a porgerti i miei omaggi. Le mie stanche membra stavano riposando dopo una lunga traversata nel deserto». «Io saluto te, uomo del Nord», rispose cerimonioso l’uomo, accennando un inchino. «Il mio nome è Rafid e ti do il benvenuto alle Dune Riarse, patria della mia gente. Ti abbiamo portato di che mangiare e bere e, se non ne hai una, anche una tenda per ripararti dalle fredde notti del deserto». Fece un cenno e due uomini posarono a terra una brocca di terracotta colma di acqua, un cesto di frutta e carne salata. Un terzo cominciò a svolgere dei teli bianchi e a piantare dei paletti, montando con abilità una piccola tenda in pochi minuti. A Lynerus non sfuggì il particolare che Rafid non avesse la minima intenzione di invitarlo come ospite presso di loro, come testimoniava il fatto che la tenda era stata piantata appena fuori del Cerchio. «Grazie infinite per la tua generosità», disse, inchinandosi a sua volta e fingendo di non aver colto la scortesia implicita nei modi di Rafid. «Sono uno studioso e il mio nome è Lynerus. Come hai giustamente osservato vengo dalle lontane terre del Nord». «Ho visto che stavi studiando le colonne», lo interruppe sospettoso l’uomo. «Sai cosa significano i disegni?». «Non sono disegni, ma un’antica scrittura», rispose Lynerus, cercando di pesare le parole. «Una scrittura che rivela un grande potere a chi la sa leggere e interpretare».
«Sei uno dei maghi che si fanno la guerra al di là dell’orizzonte?», chiese indicando genericamente Nord. «No», si affrettò a rispondere Lynerus. «Sono solo uno studioso, che teme che la conoscenza che possiede possa andare perduta». Rafid alzò le spalle, come a significare che si trattava di un argomento futile e lontano dagli interessi quotidiani della sua gente. Fece per girarsi e andarsene, dopo un rapido cenno di saluto. «Aspetta, saggio capo», lo fermò Lynerus, afferrandolo per un braccio. Rafid lo incenerì con lo sguardo, per quello che considerava un atto di scarsa educazione, ma non disse nulla. «Ho bisogno di un allievo, un ragazzo con una buona memoria, che possa perpetuare la conoscenza che posseggo e che altrimenti scomparirebbe con la mia morte. È un compito molto importante e io potrei ripagarvi in qualche modo…». «Nessuno dei ragazzi della mia tribù è disponibile a imparare la magia del Nord, in più non possiamo rinunciare a nessuno dei nostri pastori, ne andrebbe della sopravvivenza di tutti noi». Detto ciò, si liberò della mano di Lynerus - che ancora era poggiata sul suo braccio - e si allontanò assieme all’intera delegazione. La sua risposta fu una cocente delusione per il vecchio mago, che tuttavia non si fece vincere dallo sconforto. Da quel giorno in poi, ogni mattina al risveglio trovava acqua e cibo fuori dalla tenda, ma nessuno venne più a parlargli. Gli portavano rispetto, forse avevano paura di lui, ma di certo non volevano avere alcun contatto diretto. L’unica presenza, che avvertì già il giorno successivo, fu quella di un ragazzo, che lo osservava tentando di rimanere nascosto mentre lui studiava le rune incise sulle colonne. Probabilmente portava le sue capre a pascolare lì vicino e approfittava per sbirciare, incuriosito. Dopo qualche giorno Lynerus tentò di comunicare con lui, sperando magari che la curiosità lo spingesse a fare ciò che Rafid non gli avrebbe permesso. Il risultato fu però disarmante: il ragazzo scappò via e i giorni successivi non si fece più vedere. Lynerus si concentrò sullo studio ammettendo, però, che il suo piano rischiava di fallire. Mano a mano che avano i giorni, infatti, la memoria tornava fino a dargli la certezza che sarebbe stato in grado di insegnare a qualcuno tutta la
Magia della Parola. Ma le probabilità che questo qualcuno si materializzasse parevano essere ogni giorno di meno. Stava per valutare l’ipotesi di cercare altrove un possibile discepolo, quando una mattina sentì delle grida di persone che si stavano avvicinando velocemente. Si affacciò dalla sua tenda e vide Rafid, che stava tentando di mantenere il o di un uomo, che portava in braccio un ragazzo. Lo riconobbe: era proprio il pastorello che aveva tentato di invitare all’interno del Cerchio. Solo che il suo viso olivastro era pallido come uno straccio e gli occhi neri riflettevano una grande sofferenza. Capì il motivo per cui lo avevano portato da lui, prima ancora che parlassero: il ragazzo aveva una gamba rotta malamente. Un osso spezzato - probabilmente la tibia - spuntava da una ferita, da cui la fasciatura non riusciva a impedire che zampillasse sangue. La febbre lo scuoteva da capo a piedi e faceva fatica a tenere gli occhi aperti. «Grande maestro», gli si rivolse in tono ossequioso Rafid. «A te che conosci la magia chiedo di curare questo mio nipote, che si è rotto la gamba cadendo da una roccia, mentre inseguiva una capra fuggita dal gregge. Ti supplico, fai qualcosa altrimenti Bahir rimarrà storpio per sempre, oppure morirà». Lynerus non rispose. La frattura era veramente brutta, ma non ci voleva un mago per guarire il ragazzo. Avendo vissuto parecchi anni sulla Terra aveva letto avidamente molti libri su innumerevoli argomenti. La medicina lo aveva attirato molto, perché gli uomini di quel mondo erano riusciti a ottenere risultati stupefacenti senza conoscere la Magia o la Taumaturgia. Pensava di essere in grado di curare Bahir, ma voleva ottenere qualcosa in cambio. Quello era il momento che aveva lungamente atteso. «Mi prenderò cura di lui», disse infine. «Ma a un patto: quando sarà guarito, resterà con me e sarà il mio discepolo». «Così sia», annuì Rafid, dopo un solo istante di esitazione. Con ogni probabilità riteneva che il ragazzo sarebbe rimasto comunque storpio e dunque gli bastava che il vecchio mago lo fe sopravvivere e gli permettesse di camminare di nuovo, anche se non sarebbe più stato in grado di seguire un gregge. Lynerus sorrise, soddisfatto.
«Avrò bisogno di una lama affilata, degli aghi e del filo, una fiasca di Emi, delle stecche di legno lunghe quanto le gambe di Bahir. E accendete un fuoco». Mentre gli uomini si affannavano a fare quanto aveva chiesto, Lynerus si allontanò alla ricerca di una pianta, che sapeva avere la proprietà di abbassare la febbre e che aveva notato crescere all’ombra dei monoliti. Quando tornò, era tutto pronto. Il ragazzo era svenuto e, forse, questo gli avrebbe evitato un po’ di sofferenza. Versò l’Emi - che era un distillato molto alcolico - sopra la ferita, per disinfettarla. Prese il coltello e ne ò la lama affilata sulla fiamma. Aveva a disposizione solo attrezzi rudimentali e non era un dottore, ma riuscì lo stesso a ricomporre in maniera accettabile la frattura. Il momento più delicato fu quando Bahir fu svegliato dal dolore e dovettero tenerlo in quattro per permettere a Lynerus di spostare le ossa rotte e poi ricucire la ferita. Alla fine la coprì con un impacco ottenuto con le erbe che aveva raccolto e steccò la gamba. Ci vollero giorni perché a Bahir si abbassasse la febbre e ancora altri perché potesse cominciare a camminare, con l’aiuto di due grucce rudimentali. Ma lentamente si rimise e Lynerus cominciò a insegnargli un po’ di quanto voleva non andasse perso dopo la sua, inevitabile, morte. Il ragazzo era intelligente e attento, oltre ad avere una memoria prodigiosa, allenata dal fatto che la sua gente non sapeva scrivere, quindi tramandava tutto a voce. «Or è l’energia che ci circonda, Jodi il calore del fuoco, Kenrai il potere dell’acqua, Reis la solidità della pietra…». Bahir ripeteva la litania che gli era stata insegnata, indicando le rune con un piccolo bastone ogni volta che ne pronunciava il nome. Il ragazzo non aveva attitudine per la magia, ma Lynerus non voleva formare un nuovo mago. La necessità era quella di perpetuare la conoscenza, per farla arrivare intatta a quelli che, sperava, sarebbero stati tempi migliori. Oltre alla conoscenza della Magia della Parola, il vecchio mago cominciò a insegnare a Bahir le proprietà delle erbe e i principi della medicina. Se voleva che il ragazzo fosse il primo di una lunga serie di Custodi, doveva fare in modo che i Figli del Deserto ne riconoscessero l’importanza e ne rispettassero la figura. Questo poteva avvenire solo se ne avessero ravvisato l’utilità. Il fatto che Bahir avesse ricominciato a camminare senza zoppicare aveva contribuito a circondare Lynerus di un’aura a metà fra il rispetto e il
timore. Questo era bene. Ogni volta che Rafid mandava qualcuno dei suoi a farsi curare, Lynerus si impegnava a farlo tornare indietro guarito o, quanto meno, in uno stato migliore rispetto a quello in cui era arrivato. Pian piano si stabilì un equilibrio tra i due e il piccolo accampamento. Tutti i giorni i pastori recavano qualcosa da mangiare e bere e - anche quando si allontanavano per qualche mese assecondando la loro tradizione nomade - tornavano sempre e tutto riprendeva come prima. arono tre anni prima che Lynerus si sentisse sicuro di aver insegnato a Bahir tutto quanto c’era da sapere sul Cerchio di Pietra e sulle rune che vi erano incise. Il ragazzo era cresciuto fino a divenire un uomo e i Figli del Deserto lo rispettavano quanto lui stesso. Tra qualche anno non avrebbe faticato a trovare a sua volta un discepolo e a continuare la neonata tradizione dei Custodi. Chiunque fosse giunto presso i monoliti con l’intenzione di imparare la Magia della Parola e avesse avuto le capacità innate - ma anche l’attitudine morale per farlo, avrebbe imparato tutto dal Custode. Era chiaro che una volta appreso il suono delle rune, il suo viaggio sarebbe appena iniziato. C’erano molti segreti incisi nelle pietre e anche indicazioni per trovarne di più grandi e potenti altrove. Ma tutto ciò non era qualcosa che potesse essere insegnato, anzi doveva essere celato il più possibile, per essere scoperto soltanto da chi ne aveva la facoltà e il diritto. Non poteva fare altro. Ora che la Magia della Parola non rallentava più il suo invecchiamento, sentiva il dovere di trovare il modo per sopravvivere il più a lungo possibile e non poteva di certo farlo lì. Era ora di andare. Si diresse verso Nord dopo un breve saluto. Gli occhi di Bahir si riempirono di lacrime per il congedo dall’uomo che gli aveva cambiato la vita, ma si limitò ad abbracciarlo. Il suo ruolo di Custode prevedeva compostezza e severità e lui non lo dimenticò neppure in quel momento di intenso dolore. Lo seguì con lo sguardo fino a che la figura di Lynerus non sparì dietro una duna. «Or è l’energia che ci circonda, Jodi il calore del fuoco, Kenrai il potere dell’acqua, Reis la solidità della pietra…». Lynerus aveva bene in mente quale fosse l’unica possibilità di prolungare la sua
vita per attendere che la Nera - la piccola Diana o una sua discendente attraversasse il Varco e arrivasse su Nocturnia. Per quanto lo terrorizzasse l’idea, l’unico modo per rallentare lo scorrere del tempo, a parte la Magia della Parola, era far ricorso alle Arti Proibite. E il depositario della conoscenza necessaria era Vama, il Signore dei Morti. Ognuno dei capi delle Confraternite avrebbe fatto qualsiasi cosa per catturarlo vivo, tentare di estorcergli il modo per infrangere la magia dei Sigilli e recuperare i Grimori che contenevano il Sapere Perduto. Ma se lui fosse riuscito a resistere alle torture di Vama e a non rivelare nulla che lo potesse aiutare nella ricerca, era certo che il Negromante non lo avrebbe ucciso. Anzi, la sua ostinazione lo avrebbe semmai reso più crudele e - piuttosto che accettare che Lynerus si lasciasse morire per non parlare - avrebbe lanciato su di lui un incantesimo per prolungargli la vita all’infinito o quasi, se fosse stato necessario. Sì, l’unica speranza che aveva era che il suo corpo riuscisse a resistere alle torture. Per sempre. Uscito dalle Dune Riarse costeggiò le Paludi dei Maghi Neri e raggiunse di nuovo la Selva Atra. Fu estremamente cauto, non poteva farsi catturare da Shaltul o da Shiar. Le torture sarebbero state altrettanto terribili, ma loro non conoscevano l’incantesimo per prolungare la vita ad altri che non fossero loro stessi. Quello era parte dello scibile Negromantico. Inoltratosi nella Selva Atra, ò in vicinanza della Rocca delle Tenebre, la cui presenza incombente evocò in lui molti ricordi e gli incupì i pensieri. Cercò di sbarazzarsene e di farsi forte con i suoi propositi. Doveva evitare di creare crepe, nelle quali si poteva incuneare Vama con la sua magia e le sue torture. Era già in prossimità delle Querce Oscure, quando avvertì una presenza accanto a lui, poi una vibrazione. «Che sorpresa!», sibilò una voce acuta e malevola. «Un vecchio che puzza di Magia della Terra: non se ne incontravano più da secoli!». Un’Ombra apparve di fronte a lui, con la spada di tenebra sguainata e puntata verso il suo petto. L’essere cinereo lo scrutava con gli occhi privi di pupilla, come se stesse cercando di scoprire qualcosa oltre la sua apparenza.
«Puoi annunciare al tuo padrone che il Mago della Parola Lynerus è tornato!».
Parte Seconda
Ventidue
Grum Gamba-Mozza tentò di analizzare la situazione con freddezza, come faceva di solito. Mentre tutti attorno snudavano le spade o si facevano prendere dal panico, lui cercava di usare l’arma più potente di cui disponeva: il cervello. Sembrava, però, che ci fosse poco o nulla da fare. Quattro imbarcazioni erano già state rovesciate dagli Orrori Mangianavi e le altre avrebbero fatto la stessa fine entro brevissimo tempo. Gli uomini in acqua si dibattevano e urlavano, ma venivano trascinati sotto l’uno dopo l’altro. Era la fine per loro, ma anche per la Gente della Costa: senza i progetti delle navi, non sarebbe ato molto tempo prima della caduta di Porto Nascosto. «Approdate!», gridò Ern Il-Calvo, distogliendolo dai suoi pensieri funesti. «Noi copriremo la vostra fuga finché potremo!». La barca del Consigliere stava manovrando per frapporsi fra quella di Grum e Herd e le onde che trasportavano gli Orrori Mangianavi. Il Governatore stava per obiettare, ma comprese subito che era l’unica speranza. Non avrebbe reso vano il generoso sacrificio di quegli uomini. «A terra!», ordinò a gran voce. «La costa è rocciosa e a picco sull’acqua, Grum», gli disse Herd, mantenendo la voce bassa per non farsi sentire dagli altri. «Non riusciremo mai ad approdare!». Il Governatore non rispose. Herd aveva ragione: non c’era neppure un approdo praticabile in vista. D’altra parte fermarsi per combattere non aveva senso. Non riusciva a capire se gli attacchi che stavano subendo fossero o meno coordinati, se avessero una strategia alle spalle. Forse no, ma di certo le creature delle Tenebre sembravano trovare sempre nuovi metodi per superare le loro difese. E per sapere in anticipo cosa stavano per fare. «Remate!», gridò per dare forza ai suoi, le cui mani già sanguinavano per la veemenza con cui stavano affondando i remi in acqua. «Non vogliono
permetterci di costruire le navi da guerra, ma io farò giungere quei progetti a Porto Nascosto, fosse anche l’ultima cosa che faccio nella mia vita!». Si affiancò a Herd, che scrutava preoccupato gli esiti dello scontro. «È un massacro», mormorò il pescatore. «Si stanno sacrificando per noi. Facciamo in modo che non sia invano», gli disse Grum. L’espressione impenetrabile mascherava il tumulto di sentimenti che gli sconvolgeva l’animo. «Ho visto che ti arrampichi con facilità: quando saremo a ridosso della scogliera, ti aiuteremo a trovare un appiglio. Nel frattempo, cerca il modo di trasportare il contenuto dello scrigno per evitare il rischio che cada in acqua». Herd non replicò. Avevano poco tempo e si sarebbe dovuto far trovare pronto, non appena fossero giunti sottocosta. La violenza dei marosi li avrebbe potuti far schiantare sulle rocce, se lui non fosse stato più che rapido. Poi ci avrebbero pensato le creature delle Tenebre a finire il lavoro. Rabbrividì e si allontanò. Aprì lo scrigno. Le lamine d’oro sembrarono osservarlo, radiose come la speranza che la Gente della Costa riponeva in loro. Prese un sacco di tela cerata e ve le infilò dentro. Una volta tirate fuori dal contenitore erano pesanti, ma meno ingombranti: le avrebbe potute trasportare anche scalando le rocce a picco sul mare. Rimaneva il problema di come fare in modo che non cadessero e non lo sbilanciassero nella scalata. Il sacco aveva un sistema ingegnoso di chiusura che lo rendeva impermeabile, ma che era inutile ai suoi fini. Se anche si fosse bagnato, l’oro delle lamine non avrebbe subito alcun danno. Herd prese una cima e la ò attorno al sacco poi, messoselo sullo stomaco a mo’ di marsupio, si avvolse la corda alla vita e attorno alle spalle, fissandola con quattro nodi. Controllò e ricontrollò: non si sarebbe mossa. Alzò gli occhi e vide la scogliera a poca distanza. Un paio di minuti e sarebbe dovuto saltare giù dalla barca. «Arriva!». Un grido carico di terrore distolse la sua attenzione. L’uomo che l’aveva lanciato indicava un punto alle sue spalle e Herd si girò. Con un solo colpo d’occhio si
rese conto della situazione: della flotta che aveva lasciato Porto Nascosto quella mattina, rimaneva solo qualche asse di legno a galleggiare qua e là. Nemmeno la barca di Ern si vedeva più. Tutte affondate. Tutti gli uomini morti. Ma c’era una notizia ancora peggiore di quella, se possibile. I cavalloni che nascondevano gli Orrori, che avevano distrutto la loro flotta, stavano dirigendosi verso di loro. Herd stimò che il più vicino sarebbe arrivato loro addosso nel momento in cui sarebbe dovuto saltare sulla scogliera. Maledizione, non ne andava una bene. Guardò le rocce a picco sul mare. Ora che le avevano quasi raggiunte, le onde che vi si infrangevano contro rendevano il controllo della barca quasi impossibile. I remi degli uomini, dalla parte della costa, si erano già sollevati e messi in orizzontale per evitare un impatto che si sarebbe rivelato disastroso. Piegò le gambe. Avrebbe avuto un solo istante a disposizione, non di più. «Mi raccomando», gli disse Grum. «Porta le lamine con i progetti a Porto Nascosto e consegnale al Consiglio. Loro sapranno cosa farne». Parlava già come un uomo morto. Herd lo guardò e lesse sul suo volto quella calma rassegnazione di chi sa di non avere scampo. Ma lui non ne era altrettanto certo. Il Governatore era l’anima e la guida del Consiglio. Senza di lui non era affatto sicuro che i progetti delle navi sarebbero bastati a vincere una guerra, che si preannunciava durissima e senza quartiere. Lo studiò. Quanto poteva pesare? Non molto di più del più piccolo dei suoi figli, che aveva portato sulle spalle, per gioco, fino al giorno prima di quello in cui l’aveva trovato morto. Con le lamine ben fissate al busto avrebbe potuto trasportare anche Grum. Guardò la scogliera. Nel punto dove erano diretti non era alta più di dieci uomini dal livello dell’acqua. In più c’era una spaccatura, che aveva notato sin dall’inizio. Era larga a sufficienza da permettergli di infilarcisi dentro e fornirgli appigli per l’ascesa, ma abbastanza stretta da garantirgli di potersi fermare a riposare, quando ne avesse avvertito la necessità. Era deciso, avrebbe portato Grum con lui. Non ne fece parola con il Governatore, però. Lo conosceva troppo bene per pensare che avrebbe accettato. Il rischio che il peso eccessivo potesse farlo cadere in acqua - e con lui le lamine dei progetti - gli avrebbe fatto opporre un deciso rifiuto. E poi non avrebbe mai abbandonato i suoi uomini a morire per
coprire la propria ritirata. L’imbarcazione era giunta alla distanza giusta. Ancora un istante e Herd, allungando le braccia, avrebbe potuto cercare appiglio nella roccia. Era ora di far avvicinare Grum senza insospettirlo. «Dammi una mano», chiese. «Aiutami a mantenere l’equilibrio, per favore». Grum si avvicinò senza sospetti e il pescatore nascose un sorriso soddisfatto: non l’avrebbe lasciato lì. Ma proprio mentre stava per piegare le gambe e darsi lo slancio, l’onda più vicina si rovesciò sulla barca. L’urto la sbatté con violenza contro la scogliera, spezzando i remi che ne controllavano la distanza. L’Orrore Mangianavi celato nell’onda si abbatté sul ponte, uccidendo all’istante quattro uomini. Gli altri furono scaraventati lontano o, peggio, caddero in acqua. Herd aveva resistito in piedi, rischiando di spezzarsi le braccia quando era stato scagliato contro la roccia, invece Grum era stato sbalzato lontano da lui e ora giaceva riverso, svenuto. Aveva una brutta ferita sulla fronte, che zampillava sangue. Non poteva perdere altro tempo. Nel giro di pochi istanti, l’acido emesso dalla creatura avrebbe corroso la struttura dell’imbarcazione e l’avrebbe affondata. Allungò il braccio e sfiorò la parete rocciosa, mentre sentiva alle spalle le urla degli uomini cui la Creatura, lenta ma inesorabile, ava sopra. Li schiacciava con il suo peso, poi li consumava fino a non lasciare di loro che un’orrida pozza di sangue mescolato ad altri fluidi corporei. Si girò. Non poteva abbandonare Grum a quella fine. Tenendosi saldo sulle gambe, corse verso il Governatore, che ormai era stato quasi raggiunto dalla creatura. Lo trascinò via appena prima che gli acidi - che colavano dal corpo viscido - lo raggiungessero, rendendo vano ogni suo sforzo. Come aveva immaginato, Grum pesava poco più di un ragazzo. Il problema era che, svenuto, non avrebbe potuto aggrapparsi a lui nell’ascesa. Scosse la testa, intestardito nel suo tentativo. Nonostante comprendesse che, così facendo, rischiava tutto, era deciso a salvare l’unico uomo la cui saggezza avrebbe potuto guidare la Gente della Costa nello scontro finale contro le creature delle Tenebre, che li avevano attaccati. Se lo mise sulle spalle e gli legò le braccia con una cima, incrociandole attorno al suo collo. Si portò di nuovo sul lato dell’imbarcazione più a ridosso della scogliera e attese che il movimento delle onde lo spingesse fino a poterla toccare. Allungò le
braccia e afferrò due appigli che gli sembravano saldi. Spinse con le gambe e in un attimo la barca non fu più sotto i suoi piedi. Si aggrappò alla roccia. Grum scivolò all’indietro, incosciente, e le braccia legate strinsero con violenza il collo di Herd, soffocandolo. Il pescatore quasi perse la presa, rischiando di precipitare in acqua. Con le dita sanguinanti riuscì a riportarsi in un precario equilibrio. Appoggiò una spalla per liberare la mano e cercò di sistemare meglio Grum. Mentre cominciava la lunga ascesa, che lo avrebbe dovuto portare in cima alla scogliera, sentì un suono macabro alle sue spalle. Era qualcosa a metà strada tra un risucchio e un gorgoglio. L’Orrore aveva affondato la barca. Si fece forza: doveva cercare di allontanarsi dalla superficie delle acque perché, una volta uccisi gli ultimi superstiti, che stavano nuotando disperati, ciò che era tra le onde avrebbe potuto inseguirlo. Avvolto dall’oscurità, con i muscoli che gridavano per la stanchezza e per il dolore, Herd cercò di cancellare dai suoi pensieri qualsiasi cosa non fossero le unghie delle mani, con cui artigliava la roccia, e i piedi sanguinanti che lo spingevano in alto, o dopo lento e faticoso o. Perse del tutto la cognizione del tempo e, a un certo punto, anche il ricordo di chi fosse e cosa stesse facendo. Sapeva solo che doveva arrivare in cima. Era l’alba quando il gesto meccanico di sollevare la mano, per cercare l’appiglio successivo, non trovò nulla. Si fermò e tastò cautamente ciò che non vedeva. Erba. Con un ultimo sforzo si issò fino alla cima della scogliera e si lasciò cadere a terra, senza neppure sfilarsi le braccia di Grum dal collo. Perse i sensi prima ancora di toccare terra.
Ventitre
Il sonno di Herd durò qualche ora, poi qualcosa in lui lo portò a superare stanchezza e dolore e il pescatore aprì gli occhi. La prima cosa che fece fu controllare che le lamine con i progetti delle navi da guerra fossero ancora lì. Sì, la sacca aveva retto e il prezioso contenuto era ancora dentro. Poi si avvicinò a Grum, per cercare di capire se fosse ancora vivo o se il suo sforzo fosse stato inutile. Sentì il battito del polso e vide che muoveva un po’ la testa ferita, emettendo un flebile lamento: era vivo. Preso da uno scrupolo improvviso, lo appoggiò con delicatezza a terra e si diresse verso il ciglio della scogliera. Guardò in basso. Le onde si infrangevano sulla roccia con impeto e non rimaneva traccia della flotta che era partita da Porto Nascosto. Un massacro, era stato un tremendo massacro. Scosse la testa. Se si fosse soffermato a riflettere sui lutti e le tragedie non sarebbe riuscito a portare a termine il suo compito, che era tutt’altro che concluso. Per tornare in città era necessario che Grum riuscisse a camminare con le proprie gambe, però. Le sue condizioni non sembravano gravi e trasportarlo a spalla per tutta l’impervia strada che li separava dalla loro meta sarebbe stato un inutile martirio, oltre che un’ulteriore perdita di tempo. Via mare c’erano volute una decina di ore di navigazione e stimava che, seguendo a piedi l’irregolare costa che li separava da Porto Nascosto, non ci avrebbero impiegato meno di tre giorni, anche ammesso che procedessero di buon o. Si inginocchiò accanto al Governatore e osservò la ferita sulla sua testa. Sembrava una lacerazione superficiale: toccando non avvertiva fratture ma solo un esteso gonfiore. Quando sfiorò il punto più dolente, Grum urlò e si svegliò, mettendosi seduto di scatto. Gli ci volle qualche istante perché la nebbia, che avvolgeva i suoi ricordi, gli permettesse di focalizzare dov’era e perché. Si guardò intorno e comprese che Herd lo aveva portato di peso in cima alla scogliera, ma anche che per tutti gli altri non c’era stato scampo. Scosse la testa. Ciò che era accaduto valeva il sacrificio di tutti quei bravi uomini solo se…
«I progetti?», chiese, preoccupato all’improvviso che tutto fosse stato invano. Herd gli mostrò la sacca che conteneva le lamine d’oro e Grum si tranquillizzò. Sul suo volto apparve un’espressione decisa e subito si affrettò a controllare la protesi che gli permetteva di camminare. Sembrava che avesse resistito e che fosse in grado di sopportare il lungo viaggio. Si alzò in piedi, ignorando le vertigini e il dolore e fece segno a Herd di fare altrettanto. Si avviarono verso Porto Nascosto, consapevoli di recare con loro l’ultima speranza per la Gente della Costa. Il o del Governatore, seppure lui cercasse di non rallentare mai e fosse sempre il primo a riprendere il cammino dopo ogni sosta, non era quello di Herd. Ci vollero dunque quasi quattro giorni, prima che giungessero all’ingresso della città. Le guardie armate faticarono a riconoscerli, con le barbe incolte, gli occhi spiritati, sporchi e laceri come mendicanti. Si offrirono di portarli a casa, per permettere loro di lavarsi, rivestirsi e mangiare finalmente qualcosa. Entrambi rifiutarono e si diressero verso il Palazzo del Consiglio. La sua gente era allo stremo e i tempi della costruzione anche di una sola delle navi da guerra avrebbero prolungato l’agonia. Fray Pelle-di-Rospo e Haimir Il-Viaggiatore erano seduti attorno al tavolo e, dalle loro espressioni preoccupate e dolenti, sembrava quasi che non avessero mai abbandonato quella sala da quando la flotta era partita alla volta della Grotta degli Spiriti del Vento. «Ern Il-Calvo e i suoi uomini non ce l’hanno fatta», esordì Grum, lasciandosi cadere sulla sedia. «Ma, nonostante questa immane tragedia, la missione ha avuto successo». Fece segno a Herd e questi aprì la sacca di tela cerata e l’appoggiò sul tavolo. Le lamine scivolarono fuori l’una sull’altra, brillando nella semioscurità. L’espressione dei due Consiglieri ò dalla costernazione per i lutti subiti all’esaltazione, quando il caldo riflesso dell’oro illuminò i loro volti. Le sfiorarono appena, timorosi che si trattasse di un sogno troppo bello per essere vero e che potessero svanire al solo toccarle. «Sono tutti i progetti?», chiese Haimir, quasi commosso alla vista. «Nella grotta non c’era altro», rispose Herd, sorvolando sulle mummie degli
antichi navigatori, che ne erano a guardia. «Non c’è neppure un istante da perdere», disse Grum, raccogliendo le lamine. «Convocheremo i Maestri d’Ascia più anziani e mostreremo loro i disegni, in modo che possano organizzare il lavoro e cominciare la costruzione sin da domani, se possibile. Poi li faremo copiare su pergamena, in modo da poter riporre gli originali al sicuro». Tutti i presenti annuirono. La seduta fu sciolta e finalmente Herd e Grum poterono recarsi a casa per pulirsi, sfamarsi e dormire un po’. Avevano ancora addosso il sangue degli uomini che erano caduti per permettere loro di riportare le lamine in città. Nonostante le buone intenzioni di Grum, dormirono fino quasi a metà mattinata e furono svegliati dai rumori che provenivano dal porto. I Maestri d’Ascia della città non avevano perso neppure un minuto. Le navi da guerra erano enormemente più grandi di quelle che erano abituati a costruire, dunque avevano ato l’intera notte a costruire le strutture necessarie all’opera e l’aria era colma di rumori. Martelli che inchiodavano assi, seghe che le tagliavano a misura, calderoni che bollivano pece per renderle impermeabili. Il tutto completato da grida, risate, imprecazioni. Nei giorni successivi sembrò che l’intera popolazione fosse intenta nella medesima, colossale opera. Chi non stava costruendo, era fuori città a tagliare alberi per procurare legname, oppure lo trasportava. Le donne si ingegnavano per cucinare quel poco che si trovava ancora nei banchi, desolatamente semivuoti, del mercato. I bambini facevano la spola per portare oggetti o vettovaglie e nel frattempo giocavano con le loro spade di legno, combattendo immaginarie creature delle Tenebre tra i vicoli della città. Anche i marinai erano occupati, ma in tutt’altra faccenda. Le navi da guerra dei loro avi erano imbarcazioni enormi, il cui uso in navigazione e – soprattutto – in combattimento era qualcosa che non poteva essere improvvisato. In base ai disegni ricavati dalle lamine, Grum aveva fatto costruire dei modelli in scala e i marinai più esperti avevano cercato di carpirne i segreti, per poi organizzare gli equipaggi che le avrebbero governate. Discussero a lungo e dalle discussioni emersero i ruoli di ciascun membro dell’equipaggio e le sue mansioni. Gli uomini e le barche avrebbero dovuto essere pronti nello stesso momento.
Dopo dieci giorni, la prima nave era quasi pronta e Grum era andato assieme a Herd a osservarla dall’alto delle mura. Da quella prospettiva, il lavoro che era stato fatto risultava veramente magnifico. I fianchi alti, la lunga chiglia, le linee nervose, che donavano alla prua il profilo della testa di un drago con il collo proteso. Un brivido percorse la schiena di entrambi. Finalmente cominciarono a nutrire la speranza che quella guerra non dichiarata la potessero veramente vincere, alla fine. Rimasero lì per buona parte della mattinata, discutendo sulle caratteristiche della nave e sui tempi che rimanevano prima del varo. Erano entrambi convinti che entro un paio di giorni, al massimo, il vascello avrebbe potuto solcare le acque della baia di fronte alla città. Il loro animo era più leggero e già prefiguravano la carezza del vento sul viso e il rollio delle onde sotto i piedi. C’era solo una questione che non avevano ancora risolto e il pensiero di Grum vi tornava su, di tanto in tanto. L’ultima lamina che avevano recuperato non conteneva progetti: c’erano solo strani simboli. Erano gli stessi che apparivano nei disegni: sulle fiancate delle navi, al posto del nome. Nessuno di loro ne conosceva il significato, né sapeva chi avrebbe potuto spiegarglielo. Dopo qualche tentativo di comprendere che funzione potessero avere, avevano rinunciato. I progetti erano completi anche senza quei simboli e dunque era sembrato inutile perderci altro tempo. Ora che la nave era quasi terminata, però, Grum non riusciva ad allontanare l’idea che i loro avi non potessero aver messo assieme ai progetti qualcosa che non aveva alcuna utilità. D’altra parte, che alternative avevano? Il compromesso era stato quello di non battezzare la nave con un nome, ma di riportare fedelmente sulle loro fiancate i simboli, così come apparivano nei disegni. Ma ne era tutt’altro che contento. Nonostante l’entusiasmo, che tutti avevano nei confronti dell’opera quasi terminata, sapeva cosa pensavano i suoi concittadini. Non c’è nulla di più sfortunato di una nave senza nome. E di tutto avevano bisogno in quel momento, meno che della sorte avversa.
Ventiquattro
L’alba colse Diana di sorpresa, ancora nel primo sonno. La sera precedente aveva faticato molto ad addormentarsi. Le era rimasto negli occhi il baratro nella gola della Bocca, forse la creatura delle Tenebre più grande che le fosse mai capitato di incontrare. Il fatto che non fosse più sotto il diretto controllo delle Confraternite non la rendeva meno temibile. Era semmai vero il contrario: era affamata, crudele e - ora che non rispondeva ad alcun padrone – imprevedibile. Poi i suoi pensieri erano tornati, per la prima volta dopo tanto tempo, a Eliel. L’incubo terribilmente realistico – quasi una visione – che aveva avuto quando era nel Cerchio di Pietra della Selva, aveva conferito una prospettiva inquietante alla sua improvvisa scomparsa. E se Eliel non fosse mai stato del tutto umano? Se fosse stato davvero un mezzodemone, un essere sospeso a metà tra la natura degli Abissi e quella umana? Forse era stata l’aura di potere che lei irradiava a mantenere quel fragile equilibrio e il suo allontanamento lo aveva rotto. O forse ancora era stata cieca a non vedere quello che l’amore le aveva celato. Comunque fosse, ormai era tardi. Lui se ne era andato e, semmai fosse tornato, avrebbe trovato una persona diversa. Certo non la Nera. Questi pensieri l’avevano tormentata per ore prima di lasciarla a un sonno inquieto. Sussultò quando la mano di Suhir le scosse un braccio per svegliarla. «Naazi dice che è ora di mettersi in marcia. Quando sei pronta, partiamo». Diana annuì, cercando di fugare la stanchezza. Il ragazzo le porse una fiasca e della frutta secca, poi si allontanò. Diana mangiò, bevve e poi usò l’acqua che le rimaneva per lavarsi il viso. Quando raggiunse gli altri, attorno al fuoco ormai spento, tutti avevano raccolto le loro cose ed erano pronti a partire. Si incamminarono a o regolare e marciarono in fila indiana per mezza mattinata, mentre l’aria e la sabbia si facevano torride. Diana si stava cominciando a chiedere quanto fosse lontana la loro meta, quando
all’improvviso la sagoma inconfondibile del Cerchio di Pietra apparve dietro una duna. Si fermò ad ammirarlo a bocca aperta. La struttura era del tutto integra, come nei suoi sogni più rosei. Sorgeva su una specie di collina di terreno compatto, circondata da dune di sabbia e da alberi e piante, assenti altrove. Poco più in là c’era un crinale di roccia rossa, punteggiato da alcune caverne. Il vento del deserto, che li aveva tormentati per tutto il cammino, si era acquietato come d’incanto, donando alla visione un alone quasi sovrannaturale. Mentre scendevano lungo il fianco della duna, la mente di Diana venne affollata da mille pensieri e i suoi occhi non riuscirono a staccarsi dal Cerchio. Quello, in un modo o nell’altro, era il momento della verità. Se fosse riuscita a imparare i rudimenti della Magia della Parola, forse avrebbe potuto affrontare la Bocca e poi recare la buona novella ai popoli che si erano uniti sotto i suoi vessilli durante la Guerra del Buio. Se non ci fosse riuscita, le sue ossa avrebbero biancheggiato nel deserto fino a che il vento non le avesse consumate. Quando giunsero in prossimità dei monoliti, Naazi e i suoi uomini rallentarono il o fino a fermarsi a una certa distanza dalla struttura. Erano visibilmente intimoriti e non sembravano avere alcuna intenzione di varcarne il perimetro. Anche Diana si fermò, seppure arrivando a ridosso della pietra più vicina. Era ricoperta di incisioni e rune, tanto fitte da sembrare un ricamo su un tessuto prezioso. La sua attenzione venne distolta da due persone, che uscirono dal Cerchio e si diressero verso di loro. Un uomo anziano e un ragazzo, che lo aiutava a camminare. L’uomo alzò una mano verso Naazi e questi gli restituì il saluto, chinando il capo in un gesto di rispetto e deferenza, che colse Diana di sorpresa. «Ti saluto Naazi, nobile capo dei Figli del Deserto», disse il vecchio. «A cosa devo l’onore della tua visita e chi è questa donna che non ho mai visto?». «Io saluto te, Bisahr, Custode del Cerchio. La donna si chiama Diana e viene dal Nord. Anche se sostiene di non essere una strega, l’abbiamo vista uccidere una Fauce delle Sabbie senza neppure toccarla. Chiede di poter consultare i segni incisi sulle pietre per poter compiere la grande magia che ucciderà la Bocca». Bisahr girò all’improvviso la testa verso di lei, con gli occhi spalancati. Poteva essere lei la prima persona giunta a imparare la Magia della Parola, come aveva
predetto Lynerus e come invece non era ancora mai accaduto? Non sapeva se esserne entusiasta o spaventato, ma mantenne la calma. Il vecchio mago aveva chiaramente detto al primo Custode, Bahir, che solo chi ne avesse avute le capacità avrebbe potuto carpire i segreti incisi nella pietra. Fece un lieve inchino, indicando l’interno del Cerchio. Diana annuì impercettibilmente, senza staccare gli occhi dai monoliti. Anche da lì percepiva l’enorme potere della costruzione. Il Meridiano – la cui energia ora sentiva scorrere possente - gli ava nel centro esatto. Le grandi pietre verticali fungevano da antenne e ne veicolavano la potenza lungo il perimetro. Avanzò cauta. La reazione che gli altri Cerchi avevano avuto, nel momento in cui lei aveva tentato di entrarvi, qui poteva ucciderla all’istante. Non era un vecchio manufatto semidistrutto in cui l’energia di un tempo sonnecchiava placida. No, qui il Potere della Terra regnava indisturbato e, chiunque recasse con sé anche solo una stilla di Potere Oscuro, sarebbe stato incenerito nel tentativo di entrare. Esitò prima di poggiare il piede al di là della linea immaginaria delimitata dalla circonferenza dei monoliti. Un fremito, nulla più. Fece un altro o, poi un terzo. Era dentro: il Cerchio non l’aveva respinta. Dunque la catarsi era stata efficace e definitiva e il suo corpo si era del tutto liberato del Potere Oscuro. Aveva superato il primo ostacolo, ora rimaneva da vedere se sarebbe stata in grado di apprendere e usare la Magia della Parola. Il vecchio chiamato Bisahr le fece strada verso il centro del Cerchio, quindi le indicò una pietra di forma cilindrica. Diana le si avvicinò e si chinò a osservarla. Le arrivava circa al fianco ed era ricoperta di simboli, che seguivano un percorso a spirale, come se narrassero una lunga storia. Li sfiorò, senza riuscire a interpretarli. Erano le stesse incomprensibili rune che aveva visto negli altri Cerchi. Dopo aver studiato la pietra per qualche istante, Diana si rialzò e rivolse a Bisahr uno sguardo interrogativo. Se lui non fosse stato in qualche modo in grado di aiutarla, il suo viaggio fin lì sarebbe stato vano e lei sarebbe morta divorata dalla Bocca. Il vecchio le indicò la parte superiore della pietra. La ragazza vide che c’erano cinque depressioni circolari – le quattro di destra più vicine e una più distante sulla sinistra – disposte a semicerchio. Non erano incise, sembravano più prodotte dalla consunzione.
Bisahr annuì, senza dire nulla. Forse era una prova. Avvicinò la mano destra e notò che, se allargava le dita, i segni avevano la distanza giusta per coincidere con i polpastrelli. La poggiò sulla superficie di pietra, non senza esitazioni. Sentiva gli occhi del Custode osservarla attenti. Non successe nulla. L’aria era ferma, il cielo lontano e gli unici due spettatori non incrinavano il silenzio, che si era cristallizzato attorno a lei. Diana sentiva l’energia fluire nella pietra, che al contatto sembrava quasi pizzicarle la pelle del palmo. Chiuse gli occhi. Tutto faceva pensare che, se non fosse accaduto ciò che il Custode si attendeva, egli si sarebbe girato e andato via, lasciandola lì a domandarsi il significato dei segni incisi sulla pietra. Poi, all’improvviso, qualcosa cambiò. All’inizio fu solo una sua sensazione, poi la pietra divenne più calda. Quando stava per allontanare la mano, però, le rune incise a spirale sul cilindro cominciarono a baluginare di una luminosità tanto pallida, da risultare quasi impercettibile. Ma il processo era iniziato e lei non aveva alcuna intenzione interromperlo. Permise all’energia di attraversarla e lei stessa si fece energia, cercando di divenire un tutt’uno con il Meridiano e il Cerchio. Le rune splendettero di una luce azzurra, tanto forte da costringere chi le guardava ad abbassare lo sguardo. Poi si spensero all’improvviso. Si girò verso Bisahr, che le sorrise scoprendo una dentatura dalla quale mancava un incisivo. Aveva superato l’esame. «Io sono il Custode del Cerchio», le disse, rivolgendole la parola per la prima volta da quando era arrivata. Poi indicò il ragazzo, che li aveva seguiti in silenzio e la guardava con occhi sgranati. «Lui è Hamzi e sarà Custode dopo di me, come io lo fui dopo chi mi aveva preceduto». «Cosa custodisci di così prezioso, Bisahr?», chiese in tono cortese Diana, mentre una speranza le nasceva in petto. «Un giorno, molti anni fa, venne un grande mago del Nord e insegnò a un ragazzo di nome Bahir i segreti dei segni incisi sulla pietra e il loro suono. Quando il mago se ne andò, Bahir divenne il primo Custode e cominciò a tramandare la tradizione». «Qual’era il nome del grande mago nel Nord?», chiese Diana, trattenendo il fiato.
«Si chiamava Lynerus».
Venticinque
Sentire quel nome le fece perdere un battito al cuore. Lynerus le mancava come l’aria. Da quando lui non c’era più, Nocturnia le era sembrata più cupa e le sue responsabilità più gravose, nonostante la sua morte fosse coincisa con la fine della Guerra del Buio. Non poteva essere altrimenti: solo quel grande uomo e potente mago avrebbe potuto compiere un’opera così importante, come quella di preservare la Magia della Parola dall’oblio e dalla distruzione da parte degli adepti del Potere Oscuro. «Conosco Lynerus, è stato come un padre per me», annuì lei, con voce commossa. «E sono qui per imparare quanto ha tramandato a te, o saggio Custode». A quelle parole, Bisahr si irrigidì e Diana comprese di avere commesso un errore. Ma ormai era troppo tardi. «Come puoi aver conosciuto il grande mago del Nord?», chiese, mentre un’espressione dubbiosa gli attraversava il volto. «È ato troppo tempo da allora». «È complicato da spiegare, ma la sua magia lo ha preservato più a lungo dei comuni mortali». Era una bugia, ma era troppo difficile spiegare la verità sulla prigionia di Lynerus nella Fortezza della Solitudine e sull’incantesimo lanciato da Vama che gli aveva impedito di invecchiare. «E allora perché non ti ha fatto lui stesso da maestro?». Il sospetto non accennava da sparire dall’espressione del suo viso. «È… è morto prima che potesse farlo», mentì di nuovo. Non era abituata a raccontare bugie e sperava che il rossore, che sentiva salirle dal collo, non la tradisse. Le vicende della Guerra del Buio erano troppo lunghe e complicate per poter pensare che Bisahr – figlio di pastori – le potesse comprendere. Meglio congegnare qualche bugia credibile e sperare di non
contraddirsi. Il vecchio la osservò. Diana poteva vedere in trasparenza i pensieri che gli affollavano la mente. Da una parte aveva più di un dubbio riguardo a quanto lei gli aveva appena detto, dall’altro era il primo Custode cui si presentava una persona con le caratteristiche giuste. Le rune che avevano brillato come stelle ne erano testimoni. Alla fine annuì e si appoggiò sul bastone per sedersi a gambe incrociate. Le fece segno di fare altrettanto. « Or è l’energia che ci circonda», disse, puntando l’estremità del bastone sul primo segno della spirale. Poi ò al secondo: « Jodi il calore del fuoco…». Continuò per l’intero pomeriggio. Si fermarono solo per mangiare un po’ di carne, che Hamzi si era affrettato ad andare a prendere dagli uomini di Naazi, accampati poco al di fuori del Cerchio. Diana spizzicò e bevve da una fiasca, senza distogliere mai lo sguardo dai tanti simboli, dei quali era difficile ricordare il nome. «Ricominciamo», le disse Bisahr. « Or è l’energia che ci circonda…». I giorni arono e Diana cominciò a familiarizzare con le rune della Magia della Parola. Ne esistevano più di cento e la loro particolarità era che si potevano – anzi si dovevano – combinare per ottenere delle vere e proprie formule magiche. In effetti tutte le sequenze incise sui monoliti non erano che un immenso formulario. Diana aveva una buona memoria, ma in quel modo ci sarebbero voluti mesi, se non anni, per imparare tutte le formule. Non era escluso che, un tempo, gli studenti assero la loro intera gioventù a studiare nei Cerchi di Pietra, prima di poter essere considerati Maghi della Parola. Il suo problema era che non aveva anni a disposizione, anzi il suo tempo era già quasi del tutto esaurito. Aveva visto Naazi discutere animatamente con Bisahr almeno un paio di volte e, anche se non aveva sentito quanto si dicevano, l’argomento delle discussioni era piuttosto chiaro. Il capotribù dei Figli del Deserto voleva che affrontasse la Bocca e la sua pazienza doveva essere giunta al limite. Il fatto era che - oltre all’impossibilità di ricordare tutte le combinazioni tra le rune in così poco tempo - le mancava ancora un aggio fondamentale: quando pronunciava le formule non succedeva niente.
Non sapeva bene se ci fosse qualcosa che non aveva ben compreso, se la memoria – pur sorprendente – di Bisahr avesse perso qualche particolare fondamentale, oppure se dovesse attendere di conoscere tutto quello che il Custode aveva da insegnarle. Qualsiasi fosse la causa, però, la sua bocca pronunciava le formule e la Magia della Parola non veniva innescata. Cominciò a temere che la tradizione orale che Lynerus aveva ideato, per perpetuare la conoscenza della Magia della Parola, non fosse sufficiente. Forse bisognava cercare qualcos’altro, magari altrove. L’alternativa – che non osava neppure prendere in considerazione - era peggiore: lei, forse, non aveva le caratteristiche adatte, nonostante tutti i ragionamenti e le speranze che l’avevano portata sin lì. Forse quel Cerchio attendeva un altro adepto e i Custodi avrebbero dovuto continuare a succedersi fintanto che non si fosse presentato. Alla fine la pazienza di Naazi si esaurì del tutto e arrivò il momento temuto. Il capotribù entrò nel perimetro del Cerchio – vincendo le sue ataviche superstizioni – e si fermò davanti a lei e al Custode, seduti a gambe incrociate l’una davanti all’altro. «È ora di andare», le intimò. Il suo viso sembrava scavato nella pietra. «Non ho avuto abbastanza tempo», tentò di spiegargli lei, ma già sapeva che le sue parole sarebbero state vane. «Ti stai prendendo gioco di me, strega», le sibilò puntandole l’indice addosso. «Hai avuto tutto il tempo di cui avevi bisogno per imparare la formula giusta!». Diana non replicò oltre. Stava raccogliendo il frutto delle sue menzogne. Aveva dichiarato a Naazi che doveva consultare il Cerchio di Pietra, sperando che il solo venirvi a contatto avrebbe risvegliato dei poteri che pensava di possedere. Lui aveva atteso sin troppo e ora veniva a chiederle conto delle sue parole. Cosa poteva dirgli per farlo pazientare ancora? Naazi l’afferrò per un braccio e la fece alzare, mentre Bisahr li osservava, senza avere il coraggio di intervenire. Se il capotribù avesse sfogato la collera che covava in corpo, sarebbe potuto giungere a ucciderlo e questo non lo poteva permettere. Hamzi era troppo giovane e non aveva ancora imparato tutte le parole della Tradizione. Se la ragazza fosse morta, prima o poi se ne sarebbe presentata un’altra. Ma se moriva lui, nessuno avrebbe potuto sostituirlo e la Tradizione sarebbe finita.
Guardò il gruppetto allontanarsi. La ragazza camminava in mezzo a loro a capo chino. Anche lui si domandava come mai non fosse stata in grado di risvegliare il potere nascosto nei segni incisi sulla pietra e nel loro suono. Avrebbe giurato che fosse la persona giusta e anche il Cerchio aveva reagito così come predetto da Lynerus. Eppure dopo quel segnale non ne erano giunti altri. Alzò le spalle. Era ora di ritornare alle consuetudini quotidiane. «Vieni qua, Hamzi», disse, prendendo il bastone e indicando il primo simbolo inciso nella spirale, che avvolgeva la pietra cilindrica al centro del Cerchio. « Or è l’energia che ci circonda, Jodi il calore del fuoco, Kenrai il potere dell’acqua, Reis la solidità della pietra…». Il gruppo si allontanò, dirigendosi di nuovo verso il luogo dove Naazi le aveva mostrato la Bocca. A quanto pareva, quella creatura rimaneva nello stesso posto fintanto che la fame non la portava a cercare nuove vittime. Non che le interessasse. Le era calata addosso una specie di torpore. Era stanca e ora non vedeva l’ora che tutto finisse. Il suo tempo era giunto. Arrivarono che era quasi sera. Si accamparono esattamente dove erano, quando l’avevano catturata: Diana riconobbe il posto dai tremori della terra sotto i loro piedi. La Bocca doveva avere fame, perché si agitava incessantemente ed era quasi impossibile camminare rimanendo in l’equilibrio. Lasciarono che Diana si riprendesse dalla stanchezza del viaggio, dandole della frutta secca da mangiare e una fiasca per dissetarsi. Naazi si sedette di fronte a lei, solo il fuoco li separava. La osservava silenzioso, con gli occhi che brillavano dei riflessi della fiamma e del suo odio. Sfoderò una lunga spada e si mise ad affilarla, ando una pietra lungo il filo, soprappensiero. La ragazza stava per cedere al sonno, quando all’improvviso Naazi si alzò e rinfoderò l’arma. «È ora», disse, facendo un gesto con la testa. Gli uomini al fianco di Diana lo imitarono e la tirarono su prendendola per le braccia. Lei non disse nulla, cercando di fare il vuoto dentro di sé. La sua vita, seppure breve, era stata intensa come non mai. Lasciava Nocturnia profondamente diversa da come l’aveva trovata, seppure non come avrebbe desiderato che fosse. Ma il solco era stato tracciato e presto o tardi qualcuno
avrebbe proseguito il suo lavoro e lo avrebbe terminato. Si incamminarono in fila indiana, ando a fianco della grande duna, che sorgeva alle loro spalle. Il tremore e il cupo tuono, che provenivano da sotto di loro, aumentarono fino a divenire un terremoto continuo, che impediva di fare anche solo un paio di i senza cadere. Naazi urlò per incitare i suoi uomini terrorizzati a non fuggire. Giunsero a fatica all’orlo del cratere vivente. Le pareti interne, color rosso vivo, si muovevano e tremavano, mentre i denti spaccavano la pietra nella quale erano conficcati, come per ricongiungersi in un titanico morso. Naazi le puntò la spada al petto e le indicò la cavità. «Uccidila o muori insieme a tutti noi», le intimò con voce bassa. Poi indietreggiò di qualche o. Non si allontanò, né permise ai suoi uomini di farlo. Non aveva mentito: sarebbe morto assieme a lei quando – ed era inevitabile – i suoi tentativi fossero miseramente falliti. Diana chiuse gli occhi. L’aria fredda della notte era ammorbata dal puzzo che giungeva dalle profondità della Bocca. Stava per avanzare fino a lasciarsi cadere, come una vergine in un sacrificio a un terribile dio pagano, quando improvvisamente tutti i pezzi le si presentarono in un unico quadro. Il Meridiano Energetico. Il Potere della Terra non era che un guscio di energia, che un tempo pervadeva Nocturnia. I Meridiani erano linee dove tale energia scorreva più potente e impetuosa, ed era proprio per quel motivo che i Cerchi di Pietra erano costruiti lungo di essi. Ma se lei fosse riuscita a percepirla anche altrove, avrebbe forse potuto usarla per trasformare le formule, che le aveva insegnato Bisahr, da semplice suono in incantesimi. Or è l’energia che ci circonda. Una scossa più forte delle altre la fece cadere e rotolare sul ciglio della Bocca, ma Diana non era più inerte, non più rassegnata. Si afferrò, infilando le unghie nel pietrisco, ed espanse la propria percezione. La Bocca era una creatura delle Tenebre permeata dal Potere Oscuro. Ma attorno a essa la terra e le rocce lanciavano il loro grido di dolore. Anche se era impossibile da sentire con le orecchie, lei ora ne percepiva la vibrazione sottopelle.
Quello era il Potere della Terra! Si rialzò a fatica, mentre tutto si sbriciolava intorno a lei. La Bocca stava serrando le sue immani mascelle e presto avrebbe fatto precipitare dentro la gola affamata tutto quanto la circondava, compresa lei e i Figli del Deserto, che la osservavano terrorizzati. Lottò per rimanere in piedi, allargando le gambe e alzando le braccia al cielo. «Or!», urlò modulando il suono come gli aveva insegnato Bisahr. Sentì che la sua vibrazione riverberava per ogni dove. « Jodi Bekana!», gridò poi con tutto il fiato che aveva in corpo. La formula significava Fuoco Potente e fu la prima che le venne in mente. Sentì l’urlo della terra e delle rocce vibrarle sulla pelle e cercò di raccoglier la loro energia come un’antenna e poi canalizzarla lungo le braccia verso le mani, che abbassò all’improvviso verso il centro della Bocca. Non sapeva cosa sarebbe successo: stava dando il via a un processo del quale non sapeva nulla. La creatura si fermò, quasi avesse percepito l’energia attraversarla. Ma arono solo pochi istanti prima che riprendesse i suoi movimenti, che divennero in breve frenetici, parossistici. Diana temette di non essere riuscita nel suo intento, quando si accorse che le rocce sotto i suoi piedi stavano diventando roventi. Si girò e cominciò a correre, facendo grandi gesti in direzione di Naazi e dei suoi uomini. «Via! Via!», urlò con quanta voce aveva in gola. Non si fecero pregare. Corsero anch’essi e non si fermarono finché non sentirono un rumore che sembrò essere un agghiacciante grido di dolore elevato all’ennesima potenza. Si girarono e videro che le rocce della collina - creata dalla creatura quando era emersa - si stavano liquefacendo e collassavano sulla Bocca. Pur dibattendosi come un gigante in catene, essa non riusciva a tornare nel ventre della terra per sfuggire al calore che la stava consumando. All’improvviso le scosse cessarono. Della collina non rimaneva che un laghetto di lava, ora liquida, sulla cui superficie emergevano grandi bolle, che scoppiavano liberando fumo bianco. Diana si guardò le mani. Or è l’energia che ci circonda.
Aveva capito.
Ventisei
Al varo della prima nave da guerra era presente l’intera cittadinanza di Porto Nascosto. Migliaia di persone stipavano le banchine e le mura, mentre tutti quelli che non erano riusciti a trovare un posto che permettesse di godersi lo spettacolo, erano saliti sulle colline di fronte alla baia e ora osservavano dall’alto. Era presente l’intero Consiglio, ma sarebbe toccato a Grum tagliare la gomena, che impediva all’imbarcazione di scivolare in acqua. Il Governatore inspirò e trattenne il fiato per qualche istante. L’aria era profumata dall’odore di salsedine, di legno, di tela oliata e di pece. Migliaia di occhi lo stavano scrutando con attenzione - senza perdersi un solo movimento - e lui poteva percepire l’energia che fluiva tra di loro. Energia positiva, che elettrizzava anche lui. Osservò per un’ultima volta i simboli incisi a fuoco sul fianco destro della nave, in prossimità della prua. Cosa potevano significare? Si strinse nelle spalle. Quel capolavoro di ingegneria navale, che gli torreggiava di fronte, non aveva bisogno di un nome per dominare l’oceano. O, meglio, non aveva bisogno che qualcuno sapesse leggere quei segni sconosciuti, che componevano il suo nome. Bene, era giunta l’ora. Afferrò un’accetta appoggiata a terra e le fece descrivere un arco di cerchio, che si concluse sulla gomena, tranciandola di netto. Con una vibrazione, che tutti avvertirono sotto i loro piedi, la nave cominciò a scivolare sui tronchi sui quali era stata appoggiata e la prua si immerse in acqua. Un grido di giubilo accompagnò l’ingresso della poppa e l’ondata che schizzò i volti raggianti dei più vicini. I Consiglieri si scambiarono strette di mano e pacche sulle spalle, mentre risate e urla risuonavano per le strade di Porto Nascosto, rimaste silenziose troppo a lungo. Dalla nave venne calata una erella sul pontile e Grum salì a bordo, assieme a Haimir, Fray e a Herd. Si portarono sulla piattaforma rialzata all’altezza dell’albero e attesero che le cime di ormeggio fossero mollate. La nave uscì dalla baia solcando le acque con l’incedere maestoso di una regina
guerriera. I remi entravano e uscivano dall’acqua all’unisono, al ritmo di una ballata epica. Quando furono in mare aperto, la grande vela quadra si gonfiò al vento, vibrando come un alveare impazzito. Gli uomini si guardavano, orgogliosi ed eccitati per quella meravigliosa imbarcazione che tagliava le onde oceaniche come una spada affilata. Si allontanarono dalla costa, quasi a sfidare le creature che si celavano nelle profondità dell’Oceano di Sangue. Ma queste - forse intimorite, forse solo guardinghe - non si mostrarono. Percorsero parecchie miglia in lungo e largo per l’intera mattinata. Herd era combattuto: da una parte era orgoglioso per essere stato uno dei protagonisti principali della vicenda, che aveva portato prima alla ricerca dei progetti delle navi da guerra dei loro avi e poi alla loro realizzazione. Dall’altra, ora che disponevano di una imbarcazione così formidabile, era quasi frustrato dal non poterla mettere alla prova in un combattimento. Stavano per rientrare in porto, quando il desiderio di Herd venne realizzato. Un lungo tentacolo di Kraken uscì all’improvviso dall’acqua e si avvolse alla polena a forma di testa di drago. Il silenzio calò improvviso tra gli uomini sulla barca, rotto dopo qualche istante dai secchi ordini impartiti dal comandante. «Ai posti di combattimento!», urlò, mentre l’intero equipaggio si muoveva all’unisono, come un unico meccanismo ben oliato. Mentre il timoniere manteneva la rotta, alcuni uomini armati di ascia si gettarono sul tentacolo. Gli arcieri incoccarono le frecce e tutti quelli che non erano ai remi si portarono ai posti di combattimento. Ma la nave fece quasi tutto da sola, come avesse una volontà propria. La prua, spinta dalla forza del vento, tagliò il tentacolo che tentava di rallentarne l’avanzata e spaccò la testa del Kraken come fosse un frutto marcio. Il suo sangue nero creò un’enorme macchia circolare, tagliata in due dalla scia della nave. Gli uomini, quasi increduli, si lasciarono andare a urla di scherno e gioia. Anche i Consiglieri sorrisero e annuirono. Non dissero nulla, ma le loro espressioni parlavano per loro conto. Avevano finalmente trovato l’arma decisiva. Rientrarono trionfalmente in porto e le macchie nere che insozzavano la prua della nave vennero salutate dalla folla - che non si era diradata neppure un po’, nonostante fossero ate ore dalla loro partenza – con grida di felicità.
Nei giorni successivi, mentre la nave scortava le imbarcazioni dei pescatori per permettere loro di riprendere l’attività, il cantiere riprese i lavori a ritmo sostenuto, con turni anche di notte. Grum ordinò che venissero ampliati e adeguati i pontili, in modo che riuscissero ad accogliere e riparare un’intera flotta di navi da guerra. Nel contempo, parte dei suoi pensieri si era concentrata su Herd. Da quando aveva recuperato le lamine, il pescatore era considerato dai suoi concittadini alla stregua di un eroe di altri tempi e il Governatore stava pensando di proporlo come nuovo Consigliere, al posto dello scomparso Ern. Non era tempo di elezioni, per cui la faccenda sarebbe stata rimandata a momenti più sereni, ma Grum prese a invitarlo regolarmente alle sedute del Consiglio. Sia Haimir Il-Viaggiatore, che Fray Pelle-di-Rospo si dimostrarono favorevoli all’idea e dunque la cosa non venne mai messa in discussione. Herd, dal canto suo, sembrava non avere altro pensiero al di fuori della vittoria contro le creature delle Tenebre e questo contribuiva a far ritenere al Governatore di aver avuto una buona idea. Nel giro di qualche settimana i cittadini di Porto Nascosto e dell’intera Costa della Tempesta tornarono a essere sazi e sereni. Le navi da guerra vennero costruite al ritmo di una ogni quindici giorni e presto costituirono una flotta che destava ammirazione e timore in chiunque la guardasse. Herd Punta d’Arpione - cui erano stati assegnati i compiti che erano stati di Ern Il-Calvo - aveva assunto il comando della Guardia Cittadina e anche il ruolo, che prima non esisteva, di ammiraglio della flotta da guerra. Prendeva il compito con dedizione assoluta ed era scrupoloso e attento fino alla pignoleria. Spesso non sapeva resistere al richiamo del mare, salpava sull’ammiraglia e ava l’intera giornata a pattugliare la Costa della Tempesta. Erano ati vari mesi da quando il suo villaggio era stato devastato e la sua famiglia sterminata. Per quanto a fatica e senza mai riuscire a dimenticare il dolore, aveva cominciato a ricostruire la sua vita. Il coraggio e la determinazione, oltre all’inesauribile desiderio di vendetta, lo avevano portato a ricoprire una posizione di rilievo a Porto Nascosto, da semplice pescatore che era stato per la sua intera vita. Sembrava, però, che la sua vendetta si stesse consumando in una vittoria senza
ulteriori spargimenti di sangue. La presenza delle possenti navi da guerra, costruite secondo i progetti dei loro avi, era stato un deterrente sufficiente a tenere le creature dell’Oceano di Sangue lontane dalla costa. E forse era meglio così. Erano morti abbastanza uomini e donne e, se quei mostri si nascondevano intimoriti nei fondali oceanici, che rimanessero laggiù. Il filo dei suoi pensieri venne interrotto da grida che provenivano dalle sue spalle. Si girò, improvvisamente all’erta. Alcuni uomini dell’equipaggio stavano indicando in lontananza e i loro volti erano stravolti dal terrore. Aguzzò la vista. In quella direzione c’era la vela quadrata di una delle altre navi della flotta. Rimase senza fiato, con gli occhi spalancati. Una testa grande come un terzo della nave era emersa dalle acque e torreggiava su di essa, squadrandola dall’estremità del collo, ben più alto dell’albero. Era una creatura grigia, dalle squame lucide, che riflettevano i barbagli cremisi delle onde. La coda emerse dietro la poppa e la colpì come una frusta. Un Serpente dei Mari, tanto lungo da poter avvolgere per intero la nave tra le sue spire. Mentre la coda continuava a spazzare il ponte, gettando gli uomini dell’equipaggio in mare, le fauci si avventarono prima sull’albero, sradicandolo, poi sui superstiti. Infine le spire si strinsero attorno alla nave e dopo qualche istante essa non era più visibile, ridotta a pezzi. «Che facciamo, Consigliere?», gli chiese il comandante, con la voce che tremava per il terrore. Herd non sembrò udirlo. «Consigliere?», ripeté questi, alzando il tono per farsi udire tra le grida degli uomini dell’equipaggio. «Cosa ordina di fare?». «Rientriamo», rispose infine Herd, come riscuotendosi dal torpore che l’aveva avvolto. «Rientriamo il più velocemente possibile». Doveva riferire quanto accaduto al Consiglio. In quel triste giorno era morta l’illusione che le navi dei loro avi potessero ribaltare le sorti di una guerra, che nessuno poteva vincere.
Ventisette
I membri del Consiglio erano seduti, immobili e silenziosi, nella penombra della sala. La notizia dell’affondamento della nave da parte del Serpente dei Mari si era propagata per Porto Nascosto come un incendio in una legnaia e Grum li aveva convocati tutti, in attesa che Herd riferisse i fatti con esattezza. Quando il comandante della Guardia e ammiraglio della flotta fece ingresso nella sala, la sua espressione parlava per lui. Era furioso e frastornato allo stesso tempo. I suoi occhi vagavano senza soffermarsi su nulla e nessuno in particolare, pareva quasi che non riuscisse a togliersi di mente l’immagine della nave, stritolata fra le spire di quell’enorme creatura proveniente dal profondo degli abissi oceanici. «Signori», esordì alla fine. «La nostra speranza è affondata assieme a una delle imbarcazioni della flotta, questa mattina. Eravamo convinti che le navi da guerra dei nostri avi sarebbero state l’arma che ci avrebbe permesso di proteggere la costa e in nostri pescatori da ciò che emerge dalle profondità dell’Oceano di Sangue. Ci eravamo sbagliati!». Si lasciò cadere sulla sedia e attese che il silenzio attonito, che aveva seguito le sue parole, avesse termine. Ma i Consiglieri si guardavano come animali spaventati, senza il coraggio di dire nulla. Lo stesso Grum, che era sempre il più sensato e il più ottimista tra loro, faticava a digerirne il significato. «Cosa è successo, dunque?», chiese il Governatore, cercando speranza dove sapeva che non ne avrebbe trovata. «Non è possibile modificare le nostre navi per renderle efficaci contro questa nuova minaccia?». «Tu mi conosci, Grum. Sai che non mi spaventa nulla e che non abbandonerei mai la speranza di vendetta, che cova nel mio animo. Ma oggi ho capito che è un’illusione. Le navi da guerra che abbiamo costruito sono meravigliose e terribili in combattimento, ma il Serpente dei Mari che ci ha attaccato è la creatura delle Tenebre più grande e spaventosa che io abbia mai visto. Non possiamo combattere il Potere Oscuro solo con le armi!».
Quelle parole illuminarono Grum all’improvviso. Il progetto delle navi aveva seguito alla lettera quanto riportato sulle lamine, che Herd aveva recuperato nella Grotta degli Spiriti del Vento. Tranne per una cosa, che era rimasta incomprensibile: i simboli presenti sull’ultima lamina, che avevano tracciato al posto del nome sulla prua delle imbarcazioni. «Andrò a parlare con Dagar Vede-nel-Buio», annunciò, alzandosi di scatto. «Quel demonio cieco mi deve una spiegazione!». Grum si diresse verso la porta della sala del Consiglio, seguito da tutti gli altri. La piccola delegazione uscì in fretta dal palazzo e attraversò le viuzze di Porto Nascosto tra gli sguardi dei concittadini, su cui era calata di nuovo una cappa di cupo pessimismo e paura per il futuro. Oltrearono la porta d’ingresso della città e in meno di un’ora di cammino raggiunsero di buon o la scalinata scavata nella roccia, al cui culmine c’era la casupola di Dagar. «Andrò io solo», annunciò Grum. «Il vecchio pazzo non gradirà una visita fatta da troppe persone. E poi è una cosa che è iniziata con la mia sola presenza e così avrà fine». Così dicendo accarezzò – forse inconsapevolmente – l’elsa della corta spada, che pendeva dal suo fianco. In volto aveva un’espressione indecifrabile e Herd pensò che, se avesse scoperto che Dagar aveva mentito o omesso qualcosa nel loro incontro precedente, lo avrebbero visto volare giù dalla finestra della sua catapecchia. Grum Gamba-Mozza cominciò a inerpicarsi sulla stretta scala. La prima volta lo aveva fatto con cautela, forse con qualche timore dovuto alla sinistra fama di Dagar. Ora invece salì ignorando il pericolo di mettere un piede in fallo e precipitare sugli scogli sotto di lui. Era furioso. Soprattutto era disperato. Era chiaro che, dando ascolto alle parole del veggente cieco, aveva percorso una strada alla cui fine c’era il baratro. Se era vero che, quando era venuto a consultare Dagar, la sua gente sembrava non avere alternative, era vero anche che la costruzione delle navi da guerra era stato uno sforzo enorme, che aveva svuotato le casse della città e le dispense dei suoi cittadini. Ora che erano risultate inutili, Grum si domandava se non avrebbe meglio
impiegato quelle stesse, preziose, risorse in qualche altra direzione. Abbandonare la Costa della Tempesta, per esempio. Attraversare la catena montagnosa del Dorso di Drago e frapporla tra loro e le creature delle Tenebre che emergevano dall’oceano. Magari chiedere asilo ai popoli che vivevano al di là e protezione alla Nera. Era cosciente che sarebbe stata un’impresa titanica, che avrebbe chiesto un tributo enorme in termini di vite umane, ma si trovavano in una situazione forse migliore? Avevano perso l’occasione consumando tutte le loro riserve di cibo e lasciando are la stagione più mite. Ora i i sul Dorso di Drago erano bloccati dalla neve e sarebbero trascorsi mesi prima che una diaspora di quell’entità potesse avvenire. Nel frattempo, sarebbero tutti morti di fame o tra le fauci delle creature delle Tenebre. Senso di colpa e rabbia lo accompagnarono, alternandosi e convivendo nel suo animo lacerato, fin quando non giunse alla porta della casupola. Era di nuovo aperta. Lo era sempre, per ingannare gli ingenui che lo andavano a interpellare, oppure Dagar stava aspettando qualcuno? Forse proprio lui? Non riuscì a impedire a un brivido di attraversargli la schiena. Entrò, cercando di allontanare l’inquietudine. Ancora una volta si trovò in un ambiente buio, dove l’ululato del vento veniva amplificato in modo innaturale. Quando i suoi occhi si furono adattati all’oscurità, la stanza si presentò identica a come l’aveva lasciata mesi addietro. Sembrava che il tempo là dentro non scorresse. Questa volta, però, non ci fu la voce rauca di Dagar ad accoglierlo. Vedeva la sagoma scura del vecchio, rannicchiato sulla sedia di fronte alla finestra sbarrata, ma era immobile. Grum deglutì. Per quanto avesse avuto l’intenzione di piantargli lui stesso un palmo d’acciaio in petto, se avesse scoperto che il veggente lo aveva in qualche modo ingannato, trovarlo morto gli avrebbe impedito di scoprire la verità. Si avvicinò cauto e girò attorno alla sedia. Il volto di Dagar emerse dalle tenebre. Sembrava dormire e un rivolo di bava gli colava da un angolo della bocca. Dunque, almeno, era vivo. La rabbia montò di nuovo in Grum, che lo afferrò per una spalla e lo scosse per destarlo. «Sveglia vecchio!», gli intimò ad alta voce. «Ti devo fare delle domande!».
All’inizio Dagar non sembrò reagire. Più che semplicemente addormentato, sembrava drogato. Non era un sonno naturale, quello dal quale faticava a risvegliarsi. Guardandosi in giro, Grum ebbe la conferma delle sue supposizioni: c’era una boccetta di vetro riversa a terra e parte del suo contenuto era fuoriuscito. Lo toccò con i polpastrelli, poi li portò al naso. Un odore pungente gli fece girare la testa. Droga, non aveva sbagliato. Pulì le mani sui vestiti lerci del veggente e lo afferrò di nuovo. «Grum Gamba-Mozza», biascicò Dagar all’improvviso, facendolo sussultare. «Hai vinto la tua guerra contro il Potere Oscuro?». «Sai meglio di me che non è così», rispose il Governatore, trattenendo a stento il furore, che sentiva montare ogni istante di più. «Le navi che abbiamo costruito, seguendo i progetti dei nostri padri, sono vascelli possenti, ma nulla possono contro le creature delle Tenebre più grandi e terribili. Eppure tu hai detto che ai tempi di Sybel e Thaugoth gli antichi navigatori le sconfissero. Perché mi hai mentito?». Dagar fece un verso, a metà strada tra un gorgoglio e una risata di scherno, mentre Grum lo sollevava tenendolo per il bavero. «Dove hai trovato un Mago della Parola in grado di lanciare gli incantesimi per proteggere le navi dal Potere Oscuro, Grum Gamba-Mozza?», gorgogliò il veggente. «C’era anche lui, sepolto nella Grotta degli Spiriti del Vento?». Il Governatore lo lasciò andare, rimanendo a bocca spalancata e senza parole. Ora capiva tutto. I simboli tracciati sull’ultima delle lamine d’oro erano rune magiche, non una lingua sconosciuta. Le navi dei loro avi erano progettate in modo da dominare i mari, ma erano anche protette da potenti incantesimi che permettevano loro di sconfiggere le creature delle Tenebre. Che sciocco era stato a non indagare fino in fondo sulla loro natura! La Gente della Costa era perduta.
Parte Terza
Ventotto
Eliel aprì gli occhi. Un tremito lo scuoteva e gli rendeva molto sensibile la pelle sulle braccia. Si guardò attorno. Era nella sua camera, nella Rocca delle Tenebre. Nella penombra della notte - appena rischiarata dalla luce che filtrava dalla finestra - distingueva le sagome scure del mobilio e delle tende: tutto sembrava perfettamente normale. Eppure l’angoscia che lo pervadeva - e che non aveva alcuna intenzione di andarsene - gli suggeriva che non era così. Diana non c’era e dal suo lato il lenzuolo era freddo. Aveva una strana sensazione di déjà vu, una scena che in qualche modo aveva già vissuto. Scosse la testa, tentando di allontanare la sonnolenza che l’avvolgeva, poi abbassò lo sguardo verso le braccia. Perché si sentiva così? La luminosità che proveniva dall’esterno - prodotta dalle torce accese sulle mura della Rocca - non era sufficiente a vedere. Si alzò e accese una lampada. Il formicolio era più insistente ora, non era possibile confonderlo con il torpore di un sonno più profondo del solito. Avvicinò la luce al braccio sinistro e, per la sorpresa, per poco la lampada non gli scivolò dalle mani e cadde a terra. La sua pelle aveva assunto una strana tonalità verdognola e il suo aspetto era anormale. L’avrebbe definito scaglioso. Rabbrividì. Posò la lampada e si toccò avambracci e mani, quasi incredulo di questo inquietante cambiamento che sembrava in atto. Poi un dubbio orribile lo colse e si precipitò verso lo specchio, che gli restituì la sua espressione stupefatta e terrorizzata: anche il viso stava assumendo lo stesso colore e il medesimo aspetto. Si stava trasformando. Erano mesi ormai che i suoi poteri di Cangiante erano lentamente sbiaditi fino a sparire e, comunque, finché li aveva posseduti essi erano stati sotto il suo ferreo controllo. Cosa era quello,dunque? Gli tornarono in mente tutti i timori che si erano andati accumulando nel tempo. Che fosse il punto di arrivo di quel lungo periodo di transizione? E si sarebbe fermato lì, oppure sarebbe continuato fino a una trasformazione completa? Si portò istintivamente le mani al volto e lo sfregare tra le scaglie della mano e
quelle del viso produsse un rumore simile alla coda di un serpente a sonagli. Di scatto chiuse la mano a pugno e colpì lo specchio, mandandolo in frantumi: nessun dolore, nessuna ferita. Le scaglie sul dorso della mano l’avevano protetta e impedito che si tagliasse. Mezzodemone. Quel termine gli risuonò in mente, emergendo insieme a ricordi recenti: la Cerimonia di Sangue durante la quale aveva ucciso Shaltul; le rivelazioni dell’evocatore sulla sua natura non del tutto umana; il libercolo che aveva trovato nella biblioteca della Confraternita. Si precipitò verso il letto, poi rovistò in ogni angolo della stanza, cercando il trattato “Dei mezzidemoni”: invano. Dove poteva essere finito? Lo aveva preso Diana? Forse glielo aveva dato lui stesso? Non ricordava di averlo fatto. Ora che ci pensava, non ricordava neppure di essere arrivato fin lì. Piuttosto la sua memoria gli suggeriva che non avesse mai preso la strada della Selva Atra e della Rocca delle Tenebre. Era fuggito e non era mai tornato. Si guardò di nuovo attorno. La stanza da letto svanì come un’illusione. Si trovava in una grotta buia, tranne che per qualche tizzone di un fuoco ormai morente che ancora ardeva rossastro, rischiarando appena l’aria gelida. Prese una torcia e l’accese: quel luogo gli pareva sinistramente familiare. Si incamminò lungo un budello della roccia e arrivò in una grande caverna, al centro della quale campeggiava una massa, nera più di qualsiasi altra cosa avesse mai visto. Pulsava di male allo stato puro. Si trattava di una specie di strappo al tessuto della realtà, un taglio attraverso il quale filtrava Potere Oscuro da una dimensione diversa. Comprese di essere al cospetto della Breccia. Rabbrividì. Quando riuscì a distogliere lo sguardo, si accorse di una presenza, a pochi i da lui. Un uomo, forse, ma non ne era certo. Era etereo, a metà strada tra il mondo dei vivi e il regno dell’Ultima Madre. Si avvicinò, come attratto da una malia: doveva vederne il volto. Il Potere Oscuro era però come un fiume in
piena, che scorreva in senso contrario al suo, allontanandolo. Il dolore, che la spinta della corrente produceva in lui, aumentò fino a divenire insopportabile. Urlò. Spalancò gli occhi, mentre il grido che lo aveva risvegliato gli si strozzava in gola. Un incubo. Si toccò le braccia e le mani, poi sfiorò il volto sudato. No, la sua pelle non era scagliosa. Afferrò Zanna e osservò la propria immagine riflessa sulla lama. Il colore della sua pelle sembrava essere il solito, per quanto fosse possibile distinguerlo tra i bagliori azzurri dell’Arcanio. Il suo sollievo, però, durò solo un breve istante. Poi notò ancora una volta il tremolio: chiuse gli occhi. Nulla era cambiato. Il fuoco che aveva la sera precedente ora languiva sui tizzoni arancio cupo e le pietre accatastate davanti alla spaccatura - che costituiva l’ingresso alla piccola grotta nella quale aveva trovato rifugio - erano ancora lì. Si frugò in tasca, alla ricerca del libretto che aveva trafugato dalla biblioteca nella Cittadella. Da quando era fuggito, il trattato “ Dei mezzidemoni” era divenuto la sua ossessione. Studiando con attenzione il testo, infatti, aveva cominciato a comprendere. E a disperare: la condizione di Mezzodemone era instabile, come aveva temuto e come aveva anche cominciato a notare sempre più di frequente. Non solo per l’aspetto, che pure ne era la testimonianza più evidente: l’instabilità era più profonda e coinvolgeva la sua stessa essenza, la possibilità di permanenza su Nocturnia e il libero arbitrio. Nell’istante in cui la sua natura demoniaca fosse tornata a prevalere, avrebbe lentamente soggiogato quella umana fino ad annullarla. In quel momento la bestia selvaggia - che aveva represso fino a relegarla così in profondità da dimenticarsene - sarebbe tornata in superficie. E, sciolto ormai ogni legame con l’evocatore, si sarebbe scatenata senza freni. L’ironia della sorte, la beffa di un destino che sembrava prendersi crudelmente gioco di lui e delle sue aspirazioni, era che esisteva un unico modo per fargli superare la condizione di Mezzodemone e farlo diventare umano: essere rispedito negli Abissi ed evocato di nuovo, per poi sciogliere il suo legame in modo definitivo. Ma Diana non poteva più farlo: celebrate le Cerimonie di Sangue e distrutte le Confraternite, lei aveva perso il controllo del Potere
Oscuro. Aveva riflettuto a lungo sul dilemma che gli ponevano di fronte le parole scritte sul libro. L’unica soluzione che gli sembrava percorribile era quella di porre fine a quella vita che forse, in fondo, non era mai veramente iniziata. Ma non ne aveva il coraggio. Buttarsi giù da un burrone o piantarsi un palmo dell’affilata lama di Zanna nello stomaco era l’ultima strada che avrebbe imboccato. Codardia, certo. Il sapore della vita - quella vera, non quella mendace che simulava da demone - e l’aroma speziato dell’amore erano come droghe. Non poteva rinunciarci prima di vagliare tutte le alternative. Doppia codardia, in realtà: il trattato non chiariva che fine facevano i Mezzidemoni, una volta finita la loro vita sul piano di esistenza di Nocturnia. Ma non ci voleva un demonologo per immaginare che il loro destino non sarebbe stato dissimile da quello dei demoni uccisi al servizio dei loro evocatori. Essi non precipitavano di nuovo negli Abissi, ma finivano in un limbo, un inferno dal quale non sarebbero mai usciti, per l’eternità. Rabbrividì. Sì, la codardia era un sentimento umano. Se ancora lo provava, voleva dire che la trasformazione era ancora alle prime fasi. Ma quanto sarebbe durata? Dunque era fuggito. All’inizio l’aveva fatto per allontanarsi da Diana, dal pericolo che avrebbe potuto costituire per lei, dall’orrore che avrebbe potuto ispirarle. Dopo aver attraversato i monti che separavano la Cittadella degli Evocatori e aver tagliato la Piana Desolata era giunto alle Alture Neglette, dove si trovava ora. Non sapeva neppure lui perché, da principio, avesse scelto quella strada piuttosto che qualsiasi altra. Da un certo momento in poi, invece, aveva seguito un richiamo e si era diretto verso la Steppa Brulla. Il sogno della notte precedente era stato il più vivido, ma non certo il primo. Non capiva chi fosse la presenza che percepiva negli incubi. Ne avvertiva l’aura malvagia, ma anche il potere immenso. Aveva compreso che era lui l’unico in grado di salvarlo. Chiunque fosse, era quello il richiamo che stava seguendo. Si sentiva come una falena attratta dalla fiamma: conscio dei rischi, ma senza avere la possibilità di dirigersi altrove.
Ventinove
Al mattino, Eliel uscì dalla caverna e riprese il suo cammino, con o più incerto di quello con cui era giunto fin lì. La solitudine, la fame e la stanchezza cominciavano a imporre il loro tributo: era smagrito, aveva il volto scavato e gli occhi cerchiati da pesanti occhiaie. Ogni tanto si sorprendeva a parlare con se stesso ad alta voce e ormai non se ne preoccupava neppure più. Camminava a capo chino, senza mai alzare lo sguardo, tanto che si accorse a stento di aver superato l’ultimo valico delle Alture Neglette e fatto ingresso nella Steppa Brulla. Si fermò solo quando non riuscì più a ignorare le urla del suo stomaco affamato. Si accovacciò e si guardò attorno per la prima volta dalla mattina. Non era un caso se la Steppa Brulla aveva quel nome. Il terreno pianeggiante color ruggine giungeva all’orizzonte, raramente punteggiato da qualche cespuglio spinoso. Non sarebbe stato facile procurarsi del cibo lì. Si sfilò di dosso Zanna: come arma da caccia era inutile e negli ultimi tempi allontanarne il contatto gli procurava sempre sollievo. Scosse la testa. Un altro pessimo segno. Il suo sguardo venne attratto da un movimento dietro un cespuglio. Rimase acquattato e cominciò a camminare piano in quella direzione, ma giunto a qualche o di distanza il piccolo animale fuggì infilandosi in un buco del terreno. Eliel si immobilizzò, fiutando l’aria. Per quanto comprendesse la stranezza della cosa, si accorse che riusciva ancora a percepirne la presenza. Avanzò lento, fintanto che l’odore non fu tanto forte da inebriarlo. Era sotto di lui. Lo sentiva. Sfilò il coltello dalla cintura e ne afferrò l’impugnatura con entrambe le mani. Lo portò lento sopra la sua testa e chiuse gli occhi, assumendo l’aspetto di un sacerdote intento in una cerimonia sacrificale. Poi, con un movimento repentino, lo calò in verticale, affondando l’intera lama. Attese immobile scrutando il terreno, fintanto che esso non si inzuppò di sangue. Sorrise e i suoi occhi
turchese lampeggiarono. Usò il coltello per scavare una buca. L’animaletto era a un palmo di profondità, colto di assoluta sorpresa nell’apparente sicurezza della sua tana. Lo afferrò per il collo, incise la pelliccia in tre parti e lo scuoiò con pochi, precisi movimenti. Aveva tanta fame che la salivazione gli aumentò, fino a far scivolare la bava dagli angoli della bocca, che non riusciva a tenere chiusa. L’odore del sangue era talmente forte da stordirlo. All’improvviso calarono le tenebre. Si svegliò la mattina dopo. Aveva la testa pesante e un sapore dolciastro e metallico in bocca. Si guardò le mani e le vide macchiate di sangue: le portò al viso. Anch’esso era sporco. Aveva mangiato l’animale crudo, ma quella non era l’unica cosa a dargli da pensare: a parte la pelliccia, non vedeva nient’altro, neppure le ossa. Aveva divorato anche quelle? E perché non ricordava nulla? Si sentiva confuso e furioso. Il momento in cui non avrebbe più avuto il controllo del corpo e del comportamento si stava avvicinando a grandi i. E non sapeva come fare per evitare o, almeno, rallentare il suo arrivo. Doveva affrettarsi a seguire la strada invisibile verso chi lo stava chiamando, non c’erano alternative. Raccolse le sue poche cose e riprese il cammino borbottando tra sé e sé. Marciò per l’intera giornata, senza mai fermarsi. Ogni volta che avvertiva i morsi della fame, gli bastava abbassare lo sguardo e osservare le chiazze di sangue, ormai scure, sul suo vestito perché lo cogliesse la nausea. Col calare della notte, si accasciò a terra esausto. Non si curò di cercare cibo: era certo che la mattina successiva si sarebbe svegliato sazio. E questo gli metteva i brividi. Si abbandonò a un sonno pesante e - in apparenza - senza sogni. Quando aprì gli occhi non aveva idea di quanto avesse dormito. Si guardò intorno, ma non scorse che oscurità densa come catrame: non era più nello stesso posto dove si era addormentato. Comprese di essere di fronte alla Breccia, talmente vicino che il Potere Oscuro gli accecava la vista. Avrebbe potuto giurare che, stavolta, non stava sognando. Sentiva il terreno sotto i suoi piedi e l’energia tenebrosa che lo attraversava, quasi straziando le sue fibre. Infilò le unghie nella pelle dei suoi avambracci e si graffiò profondamente. Sentiva il dolore. Era sveglio.
Oppure no? Il suo cuore quasi si fermò quando qualcosa toccò la sua spalla. Se era una mano, era quella di un uomo morto da secoli. Si girò. Con la Breccia alle spalle, i suoi occhi riuscivano a percepire le forme di ciò che lo circondava, anche se non i colori. Una figura torreggiava su di lui. I tratti dell’essere - non era un uomo, non più o, forse, non ancora - emersero lenti dalle tenebre. Pur immobili, esprimevano un odio in grado di incendiare l’intera Nocturnia. D’un tratto le orbite vuote si illuminarono e il suo sguardo lo traò come uno stiletto affilato. Una voce tuonò nella mente di Eliel. Era talmente forte da assordarlo, senza permettergli di comprendere quanto gli stesse dicendo. Il dolore lo costrinse in ginocchio, rantolante. Desiderava che finisse, prima di spaccargli la mente. Ma allo stesso tempo si sarebbe amputato una mano pur di sentire quello che gli stava dicendo: il suo futuro dipendeva da quelle parole. Niente, non ci riusciva. L’essere trasudava potere, molto più di chiunque Eliel avesse mai incontrato in vita sua. E la sua voce, che poteva far tremare un pianeta, lo annichiliva. Svenne, travolto dall’energia che irradiava dalla Breccia, amplificata da quella presenza tenebrosa e regale al tempo stesso. Giacque immobile per il resto della notte. Si svegliò con il corpo dolente e tumefatto. Le sue mani erano di nuovo coperte di sangue e accanto a lui c’erano i miseri resti di quella che doveva essere stata una piccola capra: il suo pasto notturno. Ma in quel momento c’era dell’altro a interessarlo. Doveva capire se aveva sognato o se qualche sortilegio lo avesse davvero portato di fronte alla Breccia, nel luogo dove si trovava l’essere dal cui richiamo non riusciva a sfuggire. Si guardò le braccia e scorse i segni dei graffi che si era inferto. Non potevano che essere opera sua: sotto le unghie c’erano ancora tracce della sua pelle e del suo sangue, anche se misto a quello del capretto. Eppure non riusciva a credere che il suo corpo venisse materialmente trasferito altrove ogni notte. Era più probabile che fossero visioni - alle quali assisteva cosciente - che poi sbiadivano e assumevano la consistenza di sogni. Mentre si alzava in piedi a fatica, vide una nuvola di polvere apparire all’orizzonte e avvicinarsi a grande velocità. Dal suo interno si alzavano urla belluine. Si guardò attorno, ma non vedeva possibilità di fuga o di nascondersi.
Impugnò Zanna, seppure con un brivido, e attese di capire di chi - o di cosa - si trattasse. La nuvola giunse a poche decine di i di distanza ed Eliel intravide che era sollevata dagli zoccoli di tre animali, cavalcati da altrettanti uomini dalle lunghe capigliature bionde, legate a mo’ di coda. I quadrupedi erano splendidi esemplari dal manto rossiccio e lunghe criniere scure. Non erano sellati: i cavalieri erano seduti su un semplice panno poggiato sulla loro groppa e usavano delle rudimentali briglie per guidarne i movimenti. Nondimeno uomini e animali si muovevano come fossero una cosa sola. Cavalli. Non ne aveva mai visti, ma aveva sentito dire che le popolazioni nomadi delle Steppa li catturavano, li domavano e poi li cavalcavano in maniera magistrale. Alzò una mano in segno di saluto, non sapendo bene cos’altro fare. Nessuno dei cavalieri si curò di rispondere e anzi afferrarono delle lunghe corde e - appena furono a distanza giusta - gliele lanciarono contro. Eliel si accorse troppo tardi dei cappi, che gli si strinsero attorno al braccio alzato e al collo, sbilanciandolo e facendolo cadere a terra. «Ora ti insegneremo la legge della Steppa, straniero!», disse uno dei tre, con un accento che storpiava le parole e le rendeva a stento comprensibili. «Vedrai in prima persona come i Nomadi trattano i ladri colti sul fatto!»
Trenta
I cavalieri non aggiunsero altro e non diedero il tempo a Eliel di dire nulla. Spronarono le loro cavalcature e si diressero di nuovo nella direzione dalla quale provenivano. Il giovane venne trascinato sulla schiena per qualche decina di metri, poi il dolore e la paura lo spinsero a dare un colpo di reni per tentare di alzarsi. Se non ci fosse riuscito, non sarebbe sopravvissuto fino alla loro destinazione, qualunque essa fosse. Sarebbe bastata una roccia sporgente a colpirlo in testa e ucciderlo ma, anche in assenza di traumi, un trattamento del genere gli avrebbe tolto la pelle di dosso e l’avrebbe fatto morire dissanguato. Da quel momento dovette correre come non aveva mai fatto. I cavalieri si erano accorti che era riuscito a rialzarsi e avevano commentato tra loro con qualche frase - che non riuscì a udire - e qualche risata di scherno, ma non avevano rallentato. Eliel sapeva chi erano i suoi aguzzini. Aveva sentito parlare più di una volta dei Nomadi della Steppa, tanto da essersi spacciato per uno di loro quando aveva conosciuto Diana e Tom, ai tempi in cui era al servizio di Shaltul. Il fatto che i Nomadi vivessero nell’inospitale Steppa Brulla aveva scoraggiato le Confraternite – e, prima della Guerra del Buio, gli stessi popoli liberi – dall’avere qualsiasi contatto con loro. Peraltro il fatto che assero buona parte della loro vita in sella ai cavalli aveva fatto sì che, nelle storie che narrate su di loro, i Nomadi si fossero trasformati in mitologici esseri quadrupedi, alla pari dei centauri. Si diceva anche che fossero selvaggi e crudeli, oltre che cannibali. Percorsero varie miglia. Eliel era certo che non sarebbe riuscito a continuare a correre ancora per molto e, stremato, era quasi sul punto di lasciarsi cadere di nuovo e farsi trascinare, quando giunsero in vista di un villaggio. Si trattava di una ventina di tende coperte di pelli conciate, a forma di cupola. Erano marroni e rozzamente dipinte con simboli geometrici color rosso scuro. Non si sarebbe meravigliato, se avesse scoperto che si trattava di sangue.
I cavalli si fermarono al centro delle tende, di fronte alla più grande fra tutte, sollevando una nuvola di polvere. Eliel crollò a terra esausto, coperto di escoriazioni e tumefazioni. Dalla tenda uscì un uomo di mezz’età, con una capigliatura rada, ma tenuta orgogliosamente lunga e legata a formare una coda simile a quella dei cavalli. Doveva essere un tratto distintivo tradizionale dei Nomadi. «Abbiamo preso il ladro, nobile Nergoi», disse uno dei tre, scendendo dal cavallo con l’abilità di un acrobata. «Sei sicuro che sia stato lui, Chinua?», chiese con voce profonda quello che doveva essere il capo della tribù di Nomadi. «La legge della Steppa è implacabile con i ladri, solo a patto di avere la certezza della loro colpa». «Abbiamo seguito le tracce», rispose Chinua, annuendo e indicando Eliel. «Non ha neppure tentato di cancellarle, come non si è curato di pulire il sangue dalle sue vesti. Questo straniero è colpevole!». Nergoi annuì, guardandolo con disprezzo. «Hai qualcosa da dire in tua discolpa, uomo?», chiese, probabilmente più perché così voleva la tradizione, che perché fosse davvero interessato alla risposta. Eliel fece per parlare, poi si bloccò. Cosa avrebbe potuto rispondere? Non solo l’evidenza era contro di lui ma, a peggiorare le cose, non aveva il minimo ricordo di cosa fosse successo la notte precedente. Probabilmente aveva davvero percorso molte miglia per andare e tornare, orientandosi nella notte color inchiostro, seguendo il solo olfatto. Era troppo stupefatto e terrorizzato per avere qualcosa da dire. Capiva che il silenzio sarebbe stato la sua condanna, ma anche che qualsiasi bugia avrebbe avuto lo stesso effetto. Dunque tacque e abbassò lo sguardo sotto quello severo di Nergoi, che annuì. «Portatelo al palo, questa notte sarà celebrata la Giustizia della Frusta», disse, girandosi e rientrando nella tenda. I tre afferrarono le corde - con le quali lo avevano trascinato fin lì - e lo strattonarono, obbligandolo ad alzarsi. Li dovette seguire fino a un palo alto come un uomo, sul quale erano infissi dei ganci di metallo. Lo costrinsero ad
appoggiarvi la schiena e ve lo legarono, fissando le corde ai ganci. Eliel era spaventato: i nodi erano stati stretti con perizia e non sarebbe stato in grado di scioglierli neppure se lo avessero lasciato solo, ipotesi peraltro improbabile. Già delle donne anziane si erano avvicinate caute a osservarlo, mormorando tra loro e indicandolo. Avrebbe ato la giornata sotto gli sguardi dei membri della tribù e poi, una volta calate le tenebre, lo avrebbero torturato sottoponendolo alla cerimonia chiamata Giustizia della Frusta. Per assurdo, quello che lo spaventava di più non era il dolore, per quanto ne fosse terrorizzato come lo sarebbe stato chiunque. Le tenebre avrebbero portato con loro la fame, come la notte precedente e quella prima ancora. Fame significava perdita di controllo del suo corpo e, chissà, qualche tipo di mutazione, come quelle che costellavano i suoi incubi. Non voleva neppure pensarci. La giornata trascorse lenta. Si era alzato un vento gelido, che si infilava tra le tende scuotendo le pelli come bandiere impazzite e gemendo come un animale morente. Il freddo lo strinse in una morsa dolorosa che, con il are delle ore, divenne così insopportabile da farlo svenire più di una volta. A ogni risveglio vedeva qualcuno della tribù, in prevalenza bambini e vecchi, osservarlo con occhi irridenti. Alcuni erano più baldanzosi e si avvicinavano per sputargli addosso. Non reagì mai. Era precipitato in uno stato di semincoscienza, dal quale l’insensibilità dovuta al gelo e la rassegnazione per la sua situazione disperata gli impedivano di riscuotersi. Il tempo ò - seppure molto più lento di quanto Eliel desiderasse e alla fine le tenebre calarono. Pian piano le persone uscirono dalle tende, da sole o in piccoli gruppi, e si disposero in semicerchio di fronte a lui, rimanendo a distanza di una dozzina di i. Il chiacchiericcio, che era andato aumentando di minuto in minuto, d’un tratto si interruppe. Dalle tenebre oltre le tende si udirono nitriti e rumore di zoccoli al galoppo. La folla si aprì e tre cavalieri irruppero nel raggio delle torce. Erano Chinua e altri due uomini, con il petto nudo e la pelle lucida, che metteva in risalto i muscoli guizzanti. Cavalcavano rimanendo in piedi sulle groppe dei cavalli e afferrando le briglie con la sola mano destra. Cominciarono a correre in circolo attorno al palo, lanciando grida da far
accapponare la pelle, incitati a gran voce da tutti i presenti. Chinua lasciò le briglie e poggiò le mani sul collo del suo cavallo poi, senza sforzo apparente, si mise in verticale a testa in giù, mentre l’animale continuava la sua corsa. Altrettanto fecero gli altri due, dimostrando che la fama di cavallerizzi dei Nomadi della Steppa era senz’altro meritata. Le evoluzioni durarono ancora parecchi minuti e la folla sembrava gradire, accompagnandole con grida entusiaste. Ma il momento da tutti atteso era giunto. Bastò che Nergoi alzasse una mano e i tre scesero dai cavalli con una capriola, atterrando in perfetto equilibrio davanti a lui. Egli porse a ciascuno una frusta: sei strisce di cuoio, in cima alle quali delle sferette di metallo riflettevano i bagliori dei fuochi. Avevano un aspetto inquietante. I tre si posizionarono di fronte a Eliel, sufficientemente distanti l’uno dall’altro da non ostacolarsi nei movimenti. Dopo essere rimasti fermi per qualche istante Chinua, che era al centro, portò la frusta dietro le spalle e con un ampio movimento la fece sibilare verso di lui. Le strisce di cuoio lo colpirono con un rumore simile a quello di altrettanti schiaffi, mentre le sferette di metallo gli laceravano la pelle. Eliel urlò. Il suo grido sembrò dare il via alla cerimonia. Tutti gli astanti strillarono a loro volta, agitando le braccia e incitando i tre a colpirlo. Non si fecero pregare. A turno alzavano il braccio armato di frusta, lo colpivano e la recuperavano quando il successivo si apprestava a fare altrettanto. In pochi minuti l’intero corpo di Eliel fu coperto di lunghe strisce sanguinanti, che presto furono impossibili da distinguere l’una dall’altra. Nella sua testa non ci fu spazio per altro che il dolore e stava per abbandonarsi all’incoscienza, quando si accorse che la sua mente razionale stava cominciando a cedere a un istinto che non sembrava appartenergli. Una ferocia bestiale, che non poteva che associare alle cacce notturne, quando fiutava il sangue delle sue vittime e le divorava. Stava per trasformarsi. Il terrore ebbe il sopravvento sul dolore. Se avesse ceduto all’istinto - e se una volta trasformato avesse posseduto anche solo una frazione della forza bruta e della ferocia che contraddistinguevano la sua stirpe demoniaca - sarebbe riuscito
a liberarsi e avrebbe fatto una strage. Uomini, ma anche donne, vecchi e bambini, perché un demone non distingue: il sangue è sangue. Chiuse gli occhi: per quanto sarebbe riuscito a trattenere la bestia che albergava in lui?
Trentuno
Le frustate si susseguirono a ritmo regolare, ancora e ancora. La mente di Eliel era confinata in un limbo di dolore, che si andava contraendo istante dopo istante. Le gambe avevano cominciato a tremargli e, ogni volta che respirava, il dolore alle costole gli mozzava il fiato. Il controllo stava venendo rapidamente meno. Strinse i denti fino a farli stridere come pietre, ma non sarebbe stato sufficiente. «Ora basta!». La voce si fece strada a fatica nella sua coscienza ed Eliel ci mise un po’ per capire che le frustate erano cessate. «Che la Giustizia della Frusta abbia termine!», comandò la stessa persona. Sembrava una donna: possibile? «Non vedete che il condannato sta per morire?». Un mormorio deluso accompagnò quelle parole, ma nessuno replicò, neppure Nergoi o Chinua. Tra le nebbie che preludevano alla perdita dei sensi, Eliel si domandò chi potesse intimare al capo della tribù di porre termine a una cerimonia. Alzò la testa a fatica e cercò di mettere a fuoco una piccola figura, che si era fatta largo tra la folla e si stava avvicinando. Era una donna molto anziana, dai lunghi capelli bianchi legati a coda di cavallo. Era abbigliata con una tunica di pelle conciata, dalle ampie maniche. «Lo straniero è stato condannato dopo che la sua colpevolezza era stata provata al di là di qualsiasi dubbio, saggia Gal», le disse Nergoi, quasi in tono di scusa. «È stato punito a sufficienza», rispose la vecchia. «Ora chiedo che venga liberato e portato nella mia tenda. Penserò io a curarlo». Nergoi annuì e fece cenno agli uomini accanto a lui. Questi si avvicinarono a
Eliel e lo slegarono dal palo, sorreggendolo quando compresero che non era in grado di rimanere in piedi sulle sue gambe. Il giovane sentì lo sguardo penetrante di Gal su di lui per tutto il tempo, ma era troppo spossato per domandarsi la ragione del suo, provvidenziale, interesse. Svenne quando lo sollevarono. Si risvegliò in una tenda piuttosto angusta. Solo una lampada illuminava il volto rugoso di Gal, che lo osservava silenziosa. La donna aveva in mano uno straccio umido con cui gli rinfrescava la fronte. Il buio all’esterno gli fece pensare che erano ati pochi minuti o molte ore da quando aveva perso i sensi. Propese per la seconda ipotesi. «Grazie…», mormorò, sentendo che la febbre aveva reso la sua bocca arida. «Sarei morto, se tu non fossi arrivata a interrompere la cerimonia». «No», rispose lei, cogliendolo di sorpresa. «Saremmo stati noi a morire. Tutti». Eliel la osservò attentamente e capì che sapeva. La vecchia doveva essere una specie di guaritrice o di sciamana e riusciva a vedere quanto sfuggiva alle persone normali. «Ho fasciato le ferite, che si risaneranno presto», gli disse poi. «Ma tu hai un male soprannaturale di cui non conosco l’origine e dal quale non posso guarirti. In cambio delle cure che ti ho prestato, ti chiedo di andartene di qui appena sarai in grado di farlo». «Non sono qui per fare del male alla tua gente», disse lui. «Ma devo avere delle risposte, prima di andarmene. Sono venuto nella Steppa seguendo un richiamo. Qualcuno mi appare in sogno e mi chiama a sé, ma ignoro chi sia». Lei lo guardò, senza dire nulla. La sua espressione, però, da neutra che era, si indurì. «Tu conoscevi la mia natura prima ancora di salvarmi dalla Giustizia della Frusta», continuò Eliel in tono riflessivo, quasi parlando più a se stesso che a lei. «Non può essere un caso se mi hai salvato e ora sono qui». «La mia gente mi chiama la Viaggiatrice dei Sogni e le loro strade sono quelle che percorro ogni notte», disse Gal, di malavoglia e scuotendo la testa. «Ti ho visto nelle mie peregrinazioni: so chi sei e perché sei qui. Ma non cambia nulla:
te ne devi andare». «Non lo farò, non prima che tu mi abbia aiutato». Fece Eliel, ostinato. «Sai che posso perdere il controllo da un momento all’altro. Se mi fai andare via ora, avrai per sempre il rimorso di aver liberato un demone. Potrei fare strage della tua gente, o di persone che non conosci. Te la senti di convivere con questa responsabilità?». La durezza dell’espressione di Gal si sciolse un po’ alla volta, come ghiaccio vicino al fuoco. Alla fine scosse la testa. «C’è la morte alla fine del viaggio che vuoi intraprendere», rispose infine. «Sei sicuro che vuoi che ti faccia da guida?». «Tornare quello che ero è peggio di qualsiasi altra cosa, persino della morte», rispose Eliel, con espressione decisa. Gal sospirò. «Chi viene da me, desidera una guida in un mondo che è sconosciuto ai più. Posso aiutarti a cercare la tua strada, ma ti avverto: è come attraversare una foresta di fantasmi, dove ci si può perdere a ogni bivio. E una volta giunti a destinazione, potrebbe non esserci via di ritorno». Eliel annuì. Dunque l’istinto lo aveva portato, alla fine, nel posto giusto. Per rispondere al richiamo della figura tenebrosa che gli appariva in sogno o, almeno, comprenderne il messaggio, aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse. Gal era la persona che gli avrebbe fornito quell’aiuto. «Per prima cosa devi rimetterti in forze», disse Gal. «Il viaggio che ci attende è di quelli che non si affrontano senza essere pronti». «Non posso correre il rischio di far are altro tempo». Eliel scosse la testa con forza e le afferrò il braccio ossuto. «Tu stessa hai detto che, se non mi avessi soccorso, avrei potuto perdere il controllo e fare una strage tra la tua gente. La stessa cosa può accadere in qualsiasi momento e a quel punto sarebbe troppo tardi!». Gal lo scrutò in silenzio, poi annuì. Si allontanò e cominciò a schiacciare delle erbe in un pestello. Lo fece a lungo, finché non le ridusse a una poltiglia color
verde marcio. Poi vi aggiunse una polverina contenuta in un sacchetto di pelle, che portava al collo, e ricominciò a pestare. Alla fine, versò l’intruglio in una ciotola e gliela porse. Aveva un aspetto disgustoso e un odore rivoltante. «Questa pozione ti farà cadere in un lungo sonno privo di sogni», gli disse, quando vide che la scrutava incerto. «Ti permetterà di riaverti e di affrontare il tuo impervio viaggio». Eliel annuì e allungò le mani per prendere la ciotola. Se la portò alla bocca, ingoiando la poltiglia d’un sorso e sforzandosi di contenere i conati di vomito. Gal osservò in silenzio e poi si sedette accanto a lui. Non ci volle molto perché il sonno arrivasse a ondate, trascinandolo nella risacca di un’incoscienza senza sogni. Quando si svegliò, la tenda era ancora avvolta dall’oscurità. Da quando era lì, sembrava che la notte non avesse mai avuto fine. Pareva quasi che la Viaggiatrice dei Sogni vivesse in un angolo di realtà dove il giorno non giungeva mai a disturbare il suo peregrinare. Scosse la testa, allontanando quei pensieri. Semplicemente si era addormentato e risvegliato durante le ore notturne, tutto lì. «Avevi ragione», disse Gal apparendo accanto a lui e facendolo sobbalzare. «Non abbiamo più tempo». Eliel le rivolse uno sguardo interrogativo, al quale lei si limitò a rispondere allungandogli uno specchio di metallo lucido. Impallidì. Quello riflesso non poteva essere lui! Si portò le mani al volto e comprese che l’agghiacciante mutamento era davvero in corso. «Mi sto trasformando!», urlò disperato, alzandosi di scatto dal suo giaciglio. «È già troppo tardi!». «Colui che ti sta chiamando è abbastanza potente da aiutarti», gli disse lei, afferrandolo per un braccio. «Sai chi è, quindi?». «No ma, chiunque egli sia, emana un potere che riverbera per tutto il Mondo dei Sogni», rispose Gal, abbassando involontariamente la voce, come se temesse di essere udita.
«Dunque potrà aiutarmi!». Nel cuore di Eliel si fece spazio per una speranza, alla fine. «Non domandarti se ti può aiutare. Chiediti piuttosto cosa vorrà in cambio».
Trentadue
Eliel si sedette a terra, a gambe incrociate di fronte a Gal. Tra i due un basso braciere colmo di pietre della dimensione di un pugno di bambino, arroventate dal fuoco che vi ardeva sotto. La donna cosparse le pietre con una manciata di polvere e da esse si levò un fumo dall’odore pungente, tanto denso da nasconderla alla vista. Il giovane era inquieto. Gli avvertimenti della donna erano stati chiari. Morte. Viaggio senza ritorno. Nulla di quanto aveva detto sembrava fornirgli neppure la più tenue delle speranze. Ma quando si toccava il volto, oppure solo osservava il tremore involontario che scuoteva le sue mani, sapeva che qualunque alternativa era peggiore. «Bevi la pozione». La voce di Gal sembrò uscire dal nulla, nella notte senza fine che avvolgeva la sua tenda, ora invasa anche da quel vapore acre. Eliel prese la coppa poggiata a terra accanto a lui. La poltiglia verdastra era, se possibile, ancora più disgustosa di quella che aveva bevuto la volta precedente. Resistette all’odore rivoltante e ingoiò tutto in un singolo sorso. Dopo pochi istanti sentì le palpebre chiudersi e la testa farsi pesante, mentre le profonde ombre della tenda cominciavano ad agitarsi inquiete, come la folla in attesa di un’esecuzione. Aprì gli occhi e si accorse di non essere più nella tenda. Lo circondavano grandi alberi color grigio cenere: una foresta bruciata. Per qualche istante pensò di essere tornato nella Selva Atra ma, quando vide Gal spuntare da dietro il tronco di uno di essi, capì che non era così. “È come attraversare una foresta di fantasmi, dove ci si può perdere a ogni bivio” aveva detto la donna e, forse, la frase era meno metaforica di quanto lui avesse immaginato. Gal aveva la mano destra alzata all’altezza del petto, col palmo rivolto verso l’alto. Su di esso levitava un tenue bagliore: una specie di fuoco fatuo, che era l’unica fonte di luce intorno a loro.
La Viaggiatrice dei Sogni gli fece il gesto di seguirla e si girò, avviandosi a o lento verso il folto degli alberi. Eliel la seguì mentre, appena fuori del raggio della luce, le tenebre sembravano aggrovigliarsi come un verminaio. Rabbrividì, facendo in modo che la distanza tra loro non superasse mai un paio di i. Bastò percorrere un breve tratto per fargli perdere ogni senso di orientamento. I tronchi sembravano tutti uguali e l’oscurità tra uno e l’altro impediva di vedere in lontananza. Il silenzio che li circondava cominciò a incrinarsi pian piano, riempiendosi di suoni gutturali, stridii, mugghi, ululati e ringhi. Un rumore di legna secca che si spezzava lo fece girare all’improvviso verso sinistra. Intravide un’ombra deforme, subito inghiottita dalle tenebre. Poi un cupo brontolio dalla parte opposta e la sensazione di essere osservato da una creatura invisibile, ammantata da una possente aura di Potere Oscuro. Rallentò senza accorgersene. L’attrazione che il buio esercitava su di lui era fortissima. Voleva entrarvi e fondersi con esso. Si fermò. In pochi istanti Gal si allontanò e, con lei, la luminosità che teneva nella mano. La notte lo avvolse come un manto freddo, impedendogli ogni movimento. Cominciò a tremare violentemente, mentre il gelo gli penetrava nella pelle come mille aghi di ghiaccio. «Non ti fermare!». La voce di Gal gli risuonò nella mente, scuotendolo. La donna era tornata indietro e la luminosità che le baluginava nel palmo intiepidì l’aria. Sentì le membra sciogliersi dall’immobilità e la malia che l’aveva avvinto farsi meno forte, poi scivolare lontana come una serpe in cerca di rifugio. «Io…», disse. «Senti il richiamo del Potere Oscuro e non riesci a opporre resistenza, lo so». Fu lei a completare la sua frase. «È per questo motivo che devo essere io a farti da guida. Questo non è il tuo sogno, ma quello di chi ti sta chiamando. La sua mente è fatta di ombre e magia tenebrosa e tu rischi di perderti nei suoi meandri a ogni o». Eliel annuì, ma non era certo di riuscire a fare quanto gli diceva la donna. Il controllo che aveva su di sé e sui suoi istinti andava scemando di minuto in
minuto, come una clessidra ormai svuotata. Gal gli tese la mano libera e lui l’afferrò con forza, grato. Ripresero a camminare e lo fecero a lungo, anche se lo scorrere del tempo aveva uno strano significato in quella foresta senza luce e, almeno in apparenza, tutta uguale a se stessa. La montagna apparve di fronte a loro all’improvviso, quasi fosse emersa dal terreno. Era avvolta dall’oscurità, tranne la minuscola parte illuminata dalla luce di Gal. Eppure, nonostante fosse impossibile vederla, la sua mole incombeva su di loro come un titano di pietra nera. Eliel poteva avvertirne il peso, che gli toglieva il respiro. Il giovane guardò la sua guida, interrogativo. Lei annuì: dovevano scalare la montagna, colui che chiamava lo stava attendendo in cima. Cominciarono a salire e bastò il primo o perché la confusione di Eliel sparisse. Il Potere Oscuro lì era talmente potente, che avrebbe potuto seguirne il flusso sino alla fonte senza temere di perdersi. Giunsero a una spaccatura, che si rivelò essere l’ingresso a una serie di gallerie comunicanti. Gal lo guidò attraverso il labirinto con o via via più incerto e timoroso mentre, con l’avanzare, quello di Eliel guadagnava baldanza. La donna si fermò all’ingresso di una grotta e si girò verso di lui. Era pallida e il suo sguardo tradiva un terrore ultraterreno. Non sembrava intenzionata a proseguire. Gli indicò l’interno, senza dire nulla. Eliel entrò e rivide la scena che gli aveva tormentato così tante notti. Al centro della caverna una lacerazione del tessuto della realtà, dalla quale fluiva una quantità enorme di Potere Oscuro: la Breccia. Accanto a essa la figura eterea, che ondulava lieve come se la sua consistenza fosse stata quella del fumo. All’altezza della testa, due orbite vuote sembravano irradiare luce nera. Rabbrividì. Le gambe di Eliel si fecero di ruggine e lui rimase immobile a osservare quello spettacolo apocalittico. Non c’erano dubbi che quella figura fosse l’incarnazione del Male. Rimaneva la domanda più importante: chi poteva avere quell’aura così potente? In quel mentre una voce scosse la caverna: «Avvicinati, figlio mio!».
Trentatre
Quella parola - figlio - lo colpì come una coltellata a tradimento. Eliel non aveva genitori, ovviamente, né si poteva dire che fosse stato generato in qualche maniera. La sua origine erano gli Abissi, dove risiedeva - assieme ai demoni suoi simili - prima di essere evocato. Eppure l’essere lo aveva chiamato figlio e in qualche maniera lui sentiva che non stava mentendo. «Chi sei?», chiese, senza però muovere un o. «Sono stato Thaugoth, colui che per primo ha spalancato le porte di dimensioni strane e diverse e permesso che tu e tutte le altre creature delle Tenebre giungeste su Nocturnia». «Menti!», rispose Eliel, rabbrividendo. «Thaugoth è morto secoli fa e le sue spoglie furono sepolte in modo da non poter essere mai riesumate». «Sai che non mento. Lo senti», disse la figura torreggiante, le cui parole lo investivano come una tempesta, alimentata dal Potere Oscuro che fuoriusciva dalla Breccia. Aveva ragione. C’era una forma di legame che li univa e che sembrava confermare le sue parole. Se era così, allora in qualche modo morboso e perverso, egli era veramente suo padre, per quanto un demone possa averne uno. Thaugoth era stato il primo e più grande dei Maghi Oscuri, colui che aveva aperto la Breccia e cambiato per sempre la storia di Nocturnia, spalancando le porte degli Abissi e permettendo il transito dei demoni su Nocturnia. Il suo transito. Ma come poteva essere? «Non so quale incantesimo hai lanciato su di me, ma non riuscirai a piegare la mia mente», disse. «Non puoi essere tornato in vita, non dopo tutto questo tempo!».
«Ti ho detto che sono stato Thaugoth, non che lo sia ora», rispose la figura, enigmatica. «Le mie reliquie sono state liberate dopo le Cerimonie di Sangue e portate qui da tre schiavi appartenenti alle Confraternite. Esposte al Potere Oscuro, che fuoriesce dalla Breccia, hanno ridato forma al mio corpo. Sono tornato, uguale e nello stesso tempo diverso. Ora sono il Sire Oscuro!». Eliel non replicò, atterrito e ammaliato assieme. Adesso capiva chi era la presenza che lo aveva chiamato a sé in sogno e che lo aveva guidato verso l’unico tramite che potesse metterli in contatto, pur trovandosi in due continenti diversi. Il potere che percepiva nel Sire Oscuro era più potente persino di quello di Diana, nel momento di massimo fulgore, quando aveva officiato le Cerimonie di Sangue. Rimaneva però una domanda e non era una cosa da poco conto. Cosa voleva da lui? «Ti domandi perché ti ho chiamato». Non si sorprese. Era evidente che per il Sire Oscuro la sua mente fosse un libro aperto. «E io invece chiedo a te: perché hai seguito il mio richiamo?». Quella domanda lo colse di sorpresa. In effetti, perché lo aveva fatto? I sogni erano ossessivi, ma un uomo con la volontà forte e l’animo saldo li avrebbe ignorati per quel che erano: sogni, appunto. Lui no. Aveva attraversato mezza Nocturnia per rispondere alla chiamata di quella fosca figura, ammantata di Potere Oscuro. «Io…», balbettò, abbassando gli occhi. «Tu aspiri a quello cui aspiro io, figlio mio». La voce del Sire non tuonava più, ora. Era più dolce e melliflua, colava come miele da un favo colmo. «Tu vuoi essere un uomo». Era così. Non avrebbe sopportato di tornare negli Abissi e ancor meno di vagare selvaggio su Nocturnia, come un demone che abbia infranto il Vincolo, assetato di sangue e affamato di carne umana. Ma ora che si trovava di fronte a chi – unico – forse poteva far avverare quel sogno, capiva di essersi spinto troppo in là. «Possiamo aiutarci a vicenda, figlio», continuò colui che era stato Thaugoth. «Io posso far sì che tu diventi del tutto umano».
«Aiutarci a vicenda?», chiese Eliel. Ricordava l’ammonimento di Gal: “ Non domandarti se ti può aiutare. Chiediti piuttosto cosa vorrà in cambio”. «Esistono due talismani che permettono di controllare il Potere Oscuro. Uno è l’Eclissi, da sempre in possesso dalla Stirpe di Sangue. L’altro è il Cuore di Drago, una pietra che ho trafugato da un’altra dimensione e portato sempre al collo, finché non sono stato sconfitto. Nel momento in cui ho capito che la mia vita era vicina alla fine, in un rituale ho separato il mio corpo dalla mia anima, che ho imprigionato nel talismano. Solo quando il Cuore di Drago sarà di nuovo in mio possesso e potrò riottenere la mia anima, il mio ritorno sarà completato!». Eliel scosse la testa, senza dire nulla. Non poteva favorire il ritorno di Thaugoth solo per il suo desiderio di umanità. Ma tacque. Il miele delle parole del Sire Oscuro era troppo dolce. «So cosa stai pensando», disse questi. «Ma sappi che tu non sei l’unica via tramite la quale io posso ottenere ciò che bramo. Il mio potere è enorme, anche se la mia forma è ancora eterea. Creature delle Tenebre di dimensioni e potenza mai viste stanno attraversando l’Oceano di Sangue e si stanno riversando lungo la Costa della Tempesta. Altre sorgono dalle profondità della terra e altre ancora arriveranno dal cielo». Fece un gesto e davanti a Eliel apparvero immagini terribili: mostri marini che distruggevano navi e città costiere, emergendo dalle onde cremisi dell’Oceano di Sangue. Villaggi interi fagocitati da esseri che vivevano nel sottosuolo. Distruzione, sangue, morte e sofferenza. Chiuse gli occhi per risparmiarsi il resto. Dunque tutto era stato invano. «Sterminerò gli abitanti di Nocturnia, se necessario, per ottenere quello che voglio». Il Sire Oscuro fece una pausa. «Oppure, puoi darmelo tu». «E cosa cambierebbe?», chiese Eliel, mentre l’angoscia lo pervadeva. «Moriranno tutti comunque». «Non si può bandire il Potere Oscuro da Nocturnia. Le Nere che hanno preceduto Diana lo avevano compreso e abbandonarono il Potere della Terra in suo favore. Ora che l’ultima erede della Linea di Sangue vi ha rinunciato per distruggere le Confraternite, solo io posso comandarlo ed evitare che fagociti
questo mondo. Consegnami il Cuore di Drago e io regnerò come fecero le Nere, permettendo ai popoli, che riconosceranno la mia autorità, di autodeterminarsi. Tutti i tuoi amici vivranno e anche l’amata Diana. Solo tu puoi salvarli». Eliel rimase completamente spiazzato. Aveva pensato che avrebbe dovuto pagare un prezzo personale per ottenere quanto desiderava ed era pronto a farlo. Ma quelle parole lo avevano posto di fronte a una situazione del tutto diversa. Diana - e tutti i popoli liberi, se quanto aveva visto era vero - sarebbero stati spazzati via dalle Creature delle Tenebre. D’altra parte, se lui fosse riuscito a procurargli il Cuore di Drago, il potere del Sire Oscuro sarebbe stato inarrestabile. «Cosa posso fare?», chiese, dubbioso. «Da un momento all’altro la mia natura demoniaca avrà il sopravvento e non sarò altro che una delle tante Creature delle Tenebre che vagano su Nocturnia». «Se accetti il patto che ti propongo, manterrai il tuo aspetto umano, finché mi consegnerai il Cuore di Drago. Una volta che ne sarò in possesso, farò in modo che la tua trasformazione sia completa e irreversibile. Ma bada, figlio: se mi tradisci erai l’eternità in un limbo di dolore e di rimpianti!». Eliel chinò il capo. «Non ti tradirò, Padre». *** La Saga di Nocturnia si conclude con il romanzo "Il Risveglio del Drago"
Personaggi
Adrian Bennett - Ispettore di polizia di Washington D.C. Aileen - Figlia di Tom, morta bimba sulla Terra. Aneth - Bibliotecario della Cittadella degli Evocatori Angolf - Consigliere più anziano di Gran Roccia nel momento in cui Eliel viene catturato. Annard - Primo Consigliere di Gran Roccia. Arla - Reietta dei Silvani, ha il potere della Taumaturgia e per questo è stata scacciata dal clan Rugiada d'Autunno. Diventerà la compagna di Tom e, entrata in possesso dell’armatura e dell’arco di Eldan, sarà acclamata condottiera dei Silvani in battaglia. Bahir - Primo Custode del Cerchio di Pietra. Biendor - Consigliere di Gran Roccia. Bisahr - Attuale custode del Cerchio di Pietra che sorge nelle Dune Riarse. Brennen - Guaritore di Gran Roccia. Chinua – Cavaliere dei Nomadi della Steppa. Dagar Vede-nel-Buio - Veggente della Gente della Costa. Ha ottenuto i suoi poteri da giovane, in maniera misteriosa. Dalen - Consigliere di Gran Roccia. Diana - Erede della Linea di Sangue, l’apparizione dei suoi poteri quando si trova sulla Terra rischia di ucciderla. Sarà Tom a portarla su Nocturnia alla ricerca di Lynerus perché lei possa diventare la nuova Nera e salire sul
Trono delle Tenebre. Dubas - Capitano della guardia di Gran Roccia. Guida vittoriosamente l'esercito nella battaglia della Rocca. Promosso Generale, guida l’assedio alla Cittadella degli Evocatori. Eldan - Condottiera Silvana che combatté al fianco di Gremian contro le Confraternite prima della caduta della Rocca delle Tenebre. Eliel - Demone cangiante, è costretto da lunghissimo tempo a servire Shaltul e durante la sua permanenza su Nocturnia ha sviluppato il desiderio di divenire umano. Si innamorerà di Diana, che reciderà il suo legame con gli Abissi. Erlen - Capo della guardia personale di Diana. Ern Il-Calvo - Membro del Consiglio di Porto Nascosto Eyda - Moglie di Grum Gamba-Mozza. Forlad - Consigliere di Gran Roccia. Flandor - Guerriero della Stirpe della Pietra. Flolen - Guerriero Silvano. Fray Pelle-di-Rospo - Membro del Consiglio di Porto Nascosto. Gal - Viaggiatrice dei Sogni dei Nomadi della Steppa. Galdir - Antico Mago della Terra di Gran Roccia, disegnò la mappa della Via degli Abissi e poi ne sigillò l’ingresso per impedire alle Furie di attaccare Gran Roccia. Gamani - Figlio di Nafar, ne eredita il ruolo di Sciamano e il bastone magico. Geirin - Luogotenente di Lerian, Capoclan della Foglia d'Argento. Innamorato di Laecia, sua figlia. Godrim - Guardia che cattura Eliel al suo ingresso a Gran Roccia.
Gremian - Padre di Ossidiana, ultimo reggente del Trono delle Tenebre prima della presa della Rocca. Grum Gamba-Mozza - Governatore di Porto Nascosto. Haimir Il-Viaggiatore - Membro del Consiglio di Porto Nascosto Hamzi - Attuale discepolo del Custode del Cerchio di Pietra che sorge nelle Dune Riarse. Herd Punta-d’Arpione - Pescatore della Gente della Costa. Inroth - Consigliere di Shaltul. Ismelia - Consigliere di Gran Roccia, unica donna presente nel Consiglio. Kate - Moglie di Tom, da cui si separa prima di conoscere Diana. Lynerus - Ultimo Mago della Parola, forgia i Sigilli e porta Ossidiana, la madre di Diana, sulla Terra per fare in modo che la Linea di Sangue non si estingua. Lascia la piccola Diana nelle mani di Silvester Blake per tornare su Nocturnia, dove viene imprigionato. Una volta liberato, sarà il mentore della ragazza, pur avendo perso tutti i suoi poteri. Laecia - Figlia di Lerian e sorella di Taeman. Lathau - Signore dei Morti, predecessore di Vama. Lerian - Capoclan dellaFoglia d'Argento Luzai - Guerriero del Popolo delle Paludi. Jumbal - Il più influente capo tribù del Popolo delle Paludi. Madame Rose - Proprietaria della libreria Rose's Antique Books e amica di Sylvester Blake. Malad - Consigliere di Gran Roccia. Mirien - Capoclan della Foglia di Leccio
Mithan - Capoclan del Muschio Brinato Naazi – Capo di una tribù dei Figli del Deserto. Nafar - Sciamanodel Popolo delle Paludi, possiede un bastone magico, uno dei pochissimi oggetti della Magia della Parola ancora esistenti su Nocturnia. Nergoi – Capo della tribù dei Nomadi della Steppa. Olfer - Pescatore della Gente della Costa, figlio di Herd Punta-d’Arpione. Ossidiana - Madre di Diana, viene portata bimba sulla Terra da Lynerus per salvare la Linea di Sangue. Muore dando alla luce Diana. Rafid - Capo dei Figli del Deserto ai tempi di Lynerus. Riniar - Carceriere di Lynerus Shaltul - Capo della Confraternita degli Evocatori e Signore degli Abissi. Shiar - Strega a capo della Confraternita dei Maghi Neri. Shugor - È il primo Evocatore, fondatore dell’omonima Confraternita. Sire Oscuro - Nome che assume Thaugoth quando le sue reliquie vengono recuperate e lui viene riportato in vita. Silvester Blake - Padre adottivo di Diana, muore durante un goffo tentativo di evocazione, fatto per salvare la ragazza dal male che l’ha aggredita. Suhir – Giovane Figlio del Deserto, appartenente alla tribù di Naazi. Sybel - La prima Nera della Linea di Sangue. Taeman - Figlio di Lerian e fratello di Laecia. Tessitori - Sacerdoti negromanti che vivono nella città morta di Necria. Thait Un-Occhio - Soldato della Guardia di Porto Nascosto.
Thaugoth - Mago della Parola che, nei suoi scellerati esperimenti, aprì la Breccia che consentì l’ingresso del Potere Oscuro a Nocturnia. Con i suoi adepti ha creato le Confraternite e combattuto la prima Nera, fino a esserne sconfitto e ucciso. Thomas Travers (Tom) - Criminologo che vive a Washington D.C., viene coinvolto nelle indagini sulla morte di Blake e si affeziona a Diana, al punto da accompagnarla su Nocturnia per salvarle la vita. Pur possedendo il Varco, decide di non tornare sulla Terra se non per riportare indietro i due Sigilli mancanti. Tiren - Nonno di Arla. Ustia - Generale di Vama, conduce il suo esercito in battaglia. Vama - Capo della Confraternita dei Negromanti. Signore dei Morti. Vatu - È il primo Negromante, fondatore dell’omonima Confraternita. Verrà richiamato da Vama assieme a Usmeli e Dugur, gli Antichi Sovrani. Yissa - È il primo Mago Nero, fondatore dell’omonima Confraternita.
Creature
Abiezioni - Demoni superiori usati dagli Evocatori in battaglia. Hanno due teste sormontate di corna, con una lunga coda coperta di scaglie ed escrezioni ossee. Antichi Sovrani - Vatu, Dugur e Usmeli, i primi negromanti che avevano guidato la Confraternita, richiamati da Vama per combattere i Silvani. Azemoth - Demone proveniente dal più basso livello degli Abissi. Viene detto il Demone Guerriero ed è accompagnato da decine di legioni demoniache. Viene evocato da Shaltul per combattere la Stirpe della Pietra. Basilischi - Creature della Magia Nera. Sono enormi rettili a quattro zampe dalla lunghissima coda irta di aculei. Bocca – La più grande delle Fauci delle Sabbie. Le sue dimensioni sono quelle di un cratere vulcanico. Caligini - Creature della Magia Nera. Traspirano dai cadaveri putrefatti inghiottiti dalle paludi e avvolgono in un abbraccio mortale le loro vittime fino a ucciderle. Cangianti - demoni superiori in grado di assumere qualsiasi aspetto, molto rari. Corruzioni - Creature della Magia Nera. Sono corpi corrotti che contengono un gas in grado di spargere la pestilenza nera. Diafani - Esseri negromantici, schiavi dei Tessitori che vivono nei sotterranei di Necria. Sono umanoidi esangui e glabri, dagli occhi lattei e senza pupille. Una corona di affilati dentini triangolari spunta fuori dalle loro labbra livide e non hanno né naso né orecchie. Divoratori - Esseri negromantici, simili ai Risorti, ma molto più veloci e
feroci. Vengono risvegliati quando si entra nel loro territorio e devono nutrirsi entro poche ore dal risveglio. Dormiente - Creatura posta dai Maghi Neri a protezione del Tempio di Yissa. Dugur - Essere negromantico, è uno dei tre Antichi Sovrani. Fauci delle sabbie - Creature delle Tenebre che vivono nelle Dune Riarse. Spuntano da sottoterra e inghiottono le loro prede. Fatue - Esseri negromantici. Hanno l'aspetto di bellissime donne dalla consistenza eterea, che cantando assorbono l’energia vitale alle vittime. Furie - Aborti demoniaci che si annidano nelle viscere della terra sotto il regno degli Evocatori. Sono stati il frutto scellerato dei primi esperimenti di evocazione, malamente richiamati dagli Abissi senza che nessuno fosse riuscito a imporre loro il Vincolo, né a rispedirli indietro. Erano stati confinati nelle profondità della terra, dove avevano trovato dimora. Golem - Enormi creature della Magia Nera. Umanoidi, i loro corpi e le rozze fattezze sono scolpiti nella pietra. Guardiano - Demone superiore messo a guardia dei segreti della Cittadella degli evocatori e della Sala del Grande Pentacolo. Incubi - Demoni minori che gli Evocatori usano per pattugliare i confini del loro Regno e come forza aerea in combattimento. Sono in grado di assorbire il calore che li circonda. Infestati - Uomini che sono stati troppo a lungo a contatto con una fonte di Potere Oscuro e ne sono stati contaminati. Kraken – Creatura delle Tenebre, che vive nelle profondità dell’Oceano di Sangue. Ha la forma di un polipo di dimensioni colossali, con lunghi tentacoli della lunghezza di dieci uomini tramite i quali afferra le imbarcazioni e le affonda. Leviatano - Creatura delle Tenebre, che vive nelle profondità dell’Oceano di Sangue.
Madre - Organismo che guida le Furie, composto da grandi vesciche opalescenti che spuntano dal terreno. Mastini degli Abissi - Demoni minori, usati come fanteria dall’esercito di Shaltul. Hanno la dimensione di alani dal manto nero, fauci con due file parallele di zanne, un corno osseo sul muso e pupille verticali come i rettili. Mezzidemoni - Esseri che presentano caratteristiche a metà tra l’uomo e il demone, frutto di rapporti tra demoni ed esseri umani, oppure tentativi non completamente riusciti di trasformazione di demoni in uomini. Morte Strisciante -Essere negromantico a guardia del Sepolcro di Eldan. Eterea e fatta di vapori giallastri e maleodoranti, gela e assorbe la vita dalle vittime. Mummie - Esseri negromantici a guardia del Sepolcro di Eldan. Hanno il corpo piccolo e tozzo con lunghi arti magrissimi e sono coperte di bende sporche e lacere. Ombre - Esseri negromantici che Vama usa come spie e come truppa d'elite. Orrori Mangianavi - Creatura delle Tenebre, che vive nelle profondità dell’Oceano di Sangue. Ossessioni - Demoni superiori, usati per cacciare senza quartiere le vittime designate. Risorti - Esseri negromantici usati da Vama come truppe in battaglia. Rordu - Ombra, la spia più fedele di Shaltul. Saasee - Famiglio di Shiar. È un serpente con il quale la Strega comunica e condivide i propri poteri magici. Scheletri - Esseri negromantici usati da Vama come truppe in battaglia. Più fragili e meno efficaci dei Risorti. Serpente dei Mari - Creatura delle Tenebre, che vive nelle profondità dell’Oceano di Sangue.
Simulacri - Spiriti delle Nere morte, sono solo parzialmente soggetti al potere negromantico e sono fondamentali perché Diana possa divenire una Nera a sua volta. Spettri - Esseri negromantici al servizio di Vama. Schizzafiele – Creatura delle Tenebre proveniente dagli abissi marini. Ha la lunghezza di un uomo e la forma di una lucertola acquatica, con un muso a forma di triangolo e la bocca irta di denti. Spruzza un liquido paralizzante. Terrori Alati - Creature della Magia Nera. Sono lunghi quanto tre uomini, dalla forma serpentiforme, con il corpo ricoperto di scaglie grigio scuro sormontato da possenti ali membranose, la testa di un gigantesco cobrae due zampe corte, ma munite di artigli formidabili, che spuntano ai lati del ventre squamoso. Titani dalle molte braccia - Creature della Magia Nera. Sono enormi, dal corpo informe munito di molti tentacoli e fauci delle dimensioni di una caverna. Uomini Rettile - Creature della Magia Nera. Sono semiumani nella forma, di colore scuro, all’estremità delle loro braccia si agitano dei tentacoli sibilanti, come se ciascuno di loro avesse in mano una dozzina di serpenti. La loro pelle è lucida e dall’apparenza viscida, le loro teste sono allungate e spuntano dalle spalle senza collo. Il volto coperto di scaglie è privo di capigliatura e nei loro occhi senza palpebre brillano iridi gialle tagliate in due da pupille verticali. Usmeli - Essere negromantico, è uno dei tre Antichi Sovrani. Vortice di anime - Anime delle persone sacrificate nel Tempio di Yissa richiamate da Diana mentre combatteva con il Dormiente.
Luoghi e popoli
Alture Neglette - Formazione collinare a nord della Selva Atra, che la separa dalla Fortezza della Solitudine. Breccia - Apertura creata da Thaugoth, che ha permesso l’ingresso del Potere Oscuro su Nocturnia. Cerchi di Pietra - Luoghi dove il Potere della Terra è ancora presente. Sono in grado di trasportare una o più persone da un Cerchio all’altro. Catacombe dei Negromanti - Caverne a ovest di Nocturnia, rifugio dei Negromanti. Cittadella degli Evocatori - Costruita sul fianco e nelle viscere di un vulcano a est di Nocturnia, è il rifugio degli Evocatori. Costa della Tempesta - Territorio costiero sull’Oceano di Sangue. Dorso di Drago - Catena montuosa che separa Porto Nascosto dalle Catacombe dei Negromanti. Dune Riarse - Territorio desertico che si estende a Sudest delle Paludi dei Maghi Neri. Figli del Deserto - Popolo nomade che vive nelle Dune Riarse. Fortezza della Solitudine - Costruzione a nord delle Alture Neglette dove Vama tiene imprigionato Lynerus. Gente della Costa - Popolazione di pescatori, una volta grandi marinai e guerrieri, che vive sulla Costa della Tempesta. Gran Roccia - Città costruita per intero all’interno di una montagna, dove abita la Stirpe della Pietra.
Grotta degli Spiriti del Vento Lande della Notte - Continente al di là dell’Oceano di Sangue, dove Thaugoth aprì la Breccia e dove Inroth, Rordu e Saasee portano le sue spoglie per far rivivere il Sire Oscuro. Oceano di Sangue - Enorme distesa d’acqua che si estende a Ovest delle terre abitate di Nocturnia e le separa dalle Lande della Notte. Necria - Città dove vivono i Tessitori, protetti dai Diafani. Nomadi della Steppa – Popolazione che abita nella Steppa Desolata. Paludi dei Maghi Neri - Acquitrini a sud di Nocturnia, rifugio del Sabba dei Maghi Neri. Piana Desolata - Pianura a nordest della Selva Atra. Popolo delle Paludi - Uno dei tre popoli che giura fedeltà a Diana. Sono indigeni dalla pelle scura che abitano nelle Paludi dei Maghi Neri. Querce Oscure - Zona della Selva Atra all’interno della quale si trova il Sepolcro di Eldan Rocca delle Tenebre - Castello da dove la Linea di Sangue regnava su Nocturnia, posto su un altura al centro della Selva Atra, distrutto dopo un sanguinoso assedio dalla congiura delle Confraternite. Santuario della Selva - Zona della Selva Atra in cui il Potere della Terra è ancora intatto e il Potere Oscuro non è riuscito a penetrare. Al suo interno vivono i Silfidi. Selva Atra - Grande foresta posta al centro della zona esplorata di Nocturnia. Sepolcro di Eldan - Tumulo dove riposavano le spoglie di Eldan, assieme alla sua armatura e al suo arco magici. Silvani - Uno dei tre popoli che giura fedeltà a Diana. Sono divisi in Clan e vivono su capanne poste sui rami degli alberi della Selva Atra.
Steppa Brulla- Pianura che si estende a nordovest della Selva Atra. Stirpe della Pietra - Uno dei tre popoli che giura fedeltà a Diana. Vivono a Gran Roccia, una città sotterranea. Tempio di Yissa - Tempio abbandonato, all’interno delle Paludi dei Maghi Neri, dove viene custodita l’Eclissi. È protetto dal Dormiente. Terre degli Uomini Lupo - Territorio che si estende a Nord delle Alture Neglette. Via degli Abissi- Lunghissimo aggio sotterraneo che congiunge Gran Roccia con la Selva Atra.
Altro
Antico - Gigantesco albero al centro del Santuario della Selva, è l’essere vivente più vecchio di Nocturnia e incarna il Potere della Terra. Arcanio - Metallo magico per eccellenza, inibisce i poteri magici ed è letale per i demoni. Armatura e arco di Eldan - Manufatti della Magia della Parola appartenuti a Eldan, sono nascosti nel suo Sepolcro e vengono ritrovati da Arla. Arti Proibite - L’insieme delle conoscenze magiche delle tre Confraternite. Bastone di Nafar - Uno dei pochissimi manufatti esistenti dell’antica Magia della Parola. È alto quanto un uomo, intagliato per tutta la sua lunghezza di simboli sconosciuti e sormontato da un teschio umano. Cerimonie di Sangue - Rituali che prevedono il sacrificio dei capi riconosciuti delle Confraternite e che, effettuati in contemporanea, permettono il bando del Potere Oscuro da Nocturnia. Circolo - Più evocatori intenti in un’evocazione particolarmente complessa. Confraternite - Sono tre (Negromanti, Evocatori e Maghi Neri) e ciascuna di esse ha approfondito la conoscenza di una delle branche dello scibile derivato dal Potere Oscuro. Cuore di Drago – Talismano usato da Thaugoth per controllare il Potere Oscuro. Custodi - Uomini che si tramandano la conoscenza della Magia della Parola, insegnata al primo tra loro da Lynerus. Eclissi - Monile nero a forma di cerchio quasi perfetto, quando viene indossato da una Nera si completa con la Falce e le permette di controllare il Potere Oscuro.
Creature delle Tenebre - Gli esseri la cui esistenza è dovuta al solo uso del Potere Oscuro. Evocazione - Una delle tre Arti Oscure, che permette ai suoi adepti di evocare demoni dagli Abissi. Falce - Segno a forma di sottile mezzaluna che appare sul collo di Diana quando il Potere Oscuro comincia a svilupparsi in lei. Giustizia della Frusta – Rituale durante i quali i Nomadi della Steppa torturano coloro che si sono macchiati di crimini gravi. Iniziati - Uomini della Terra venuti in possesso di manufatti magici dai quali avevano tratto potere e imparato a tessere incantesimi. Linea di Sangue - Linea ereditaria del Trono delle Tenebre, composta da tutte le Nere che si sono succedute. Magia della Parola - La forma di magia originaria di Nocturnia, che deriva dal Potere della Terra. Magia degli Abissi - Magia dei demoni. Magia Nera - Una delle tre Arti Oscure, che permette ai suoi adepti di controllare i rettili, gli esseri inanimati e tutto ciò che è corrotto e putrefatto. Marchio - Deformità che ogni adepto accetta in cambio della possibilità di usare il Potere Oscuro. Meridiano Energetico – Linea lungo la quale fluisce il Potere della Terra. Oltremondo - L’aldilà dal quale è possibile richiamare chi è morto mediante rituali negromantici. Negromanzia - Una delle tre Arti Oscure, che permette ai suoi adepti di richiamare esseri morti dall’Oltremondo. Nera - Erede della Linea di Sangue che ha sviluppato la capacità di manipolare il Potere Oscuro. È detta anche Principessa delle Tenebre.
Pentacolo - Disegno rituale a forma di stella a cinque punte iscritta in un cerchio, che serve all’evocatore per proteggersi dai demoni che richiama dagli Abissi. Potere della Terra - Energia magica positiva derivante dalla natura, ormai quasi scomparsa da Nocturnia. Potere Oscuro - Energia magica tenebrosa transitata su Nocturnia attraverso la Breccia. Rituale di Purificazione - Cerimonia che precede le evocazioni. Sabba - Consiglio dei Maghi Neri. Sala del Grande Pentacolo - Il luogo più interno della Cittadella degli Evocatori, protetto dal Guardiano. Sfera - Oggetto magico che permette a Shiar di vedere a grande distanza. Simbolo di sottomissione - Segno inciso sulla fronte degli esseri negromantici mediante un coltello rituale, in modo da costringerli all’obbedienza. Sigilli - Sono tre Grimori (uno per ogni Confraternita), che racchiudono il Sapere Perduto e impediscono agli adepti di attraversare il Varco che separa Nocturnia dalla Terra. Silfidi - Spiriti della Terra, ormai sopravvivono solo nel Santuario della Selva Silvano Ieratico - Lingua sacra dei Silvani, usata per la Magia della Parola. Taumaturgia - Dono di guarire le persone con l’imposizione delle mani. Deriva dal Potere della Terra. Ultima Madre - Sovrana dell’Oltremondo Varco - Libricino magico attraverso il quale Tom può are dalla Terra a Nocturnia e viceversa.
Veleno - Spada magica appartenuta a Re Gremian. È stata forgiata dai fabbri Silvani e incantata in modo da usare la forza vitale di chi la brandisce per colpire le creature negromantiche. Vincolo di Obbedienza - Vincolo che obbliga i demoni a obbedire ai loro evocatori. Zanna - Spada magica dalla forma ricurva forgiata in Arcanio, letale per le creature demoniache. È detta per questo motivo la sgozzademoni.