Insight. L’anima della marca
Una nuova prospettiva per affinare le strategie di Marketing
Tutti i testi ed il materiale utilizzato vengono dall’esperienza diretta e dalla rielaborazione personale di Elena Barbieri (diritti riservati)
Titolo | Insight. L'Anima della marca Autore | Elena Barbieri ISBN | 9788891152589 Prima edizione digitale: 2014
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Indice
Introduzione
1. Che cos’è l’Insight
1.1 Testimonianze
1.2 Case History. “H”: dalla privazione del decaffeinato alla libertà di un buon caffè ogni volta che vuoi
2. Perché nasce l’esigenza del Consumer Insight
2.1 Testimonianze
2.2 Case History. “KL”: la sfida dei Global Brands
3. Quali sono le tecniche metodologiche adatte a far emergere l’Insight
4. L’Insight applicato al processo di Marketing
Schema riassuntivo del processo di Consumer Insight
5. Insight in azione: le implicazioni sull’organizzazione aziendale
5.1 Il cambiamento culturale
5.2 Il cambiamento strutturale e relazionale
5.3 Le nuove competenze di Marketing
Conclusioni: il futuro del Consumer Insight
Ringraziamenti
Introduzione
Prima che il lettore si addentri in questo libro, mi sembra doveroso dare una sorta di riferimento concettuale sulle tematiche affrontate e sul linguaggio utilizzato.
Il libro, che nasce come “saggio di Marketing” ma che rappresenta anche una visione dell’etica delle relazioni in chiave personale ed esperienziale, contiene diversi mondi e li integra in una maniera che difficilmente il lettore troverà nella classica saggistica di settore.
Ispirata dai grandi comunicatori americani e consulenti di Management, la mia intenzione è proprio quella di riuscire a parlare di Marketing in maniera semplice e colloquiale. La mia intenzione è, e mi scuso se non sempre sono stata in grado di farlo, di usare la stessa chiarezza ed efficacia espositiva del dialogo orale.
Troppo spesso mi sono trovata a leggere testi di settore incomprensibili nel loro linguaggio “accademico”, così colto e ricercato, ma estremamente carico di autoreferenzialità. Il linguaggio accademico non crea mai una relazione con il proprio interlocutore, lo lascia solo con se stesso, con la sua eventuale sensazione di inadeguatezza.
I testi accademici mancano di ione, di coinvolgimento emotivo, tendono a mettere un muro di ghiaccio invalicabile tra chi scrive e chi legge. E questo, a mio avviso, non favorisce la comunicazione.
Perché invece la comunicazione orale è così efficace? Perché utilizza vocaboli
semplici, colloquiali, ma anche perché è “carica di emozioni”, di suggestioni fatte di immagini, di metafore, di storie personali, prese dalla vita reale.
Se penso agli studenti o a chiunque si trovi ad ascoltare degli interventi formativi (compresa me stessa), mi rendo conto che sono proprio le parti più “cariche di coinvolgimento emotivo” quelle che vengono trattenute maggiormente, sono quelle in cui il formatore è uscito dal ruolo e si è messo in gioco come persona, facilitando la relazione.
Ci sono scienziati premi Nobel che riescono ad apionare le persone alle loro scoperte, quando comunicano in maniera semplice, colloquiale e allo stesso suggestiva, carica di ione per quello che stanno facendo.
In un libro questo processo è più difficile da ottenere; ugualmente ho voluto provarci ad usare un linguaggio più semplice, colloquiale (anche perché, detto tra noi, di usare il linguaggio colto e ricercato non sarei proprio capace!).
Ho anche deciso di usare “il mio stile” di comunicazione, quello che uso in aula e nei miei interventi formativi, che è fatto di suggestioni, di metafore e soprattutto di numerose esperienze personali.
In effetti è proprio grazie all’esperienza diretta di co-gestione di numerose marche del largo consumo, che ho potuto analizzare i fattori critici che ne hanno determinato il successo o l’insuccesso sul mercato nazionale e internazionale.
Ed è grazie alle valide esperienze formative che le aziende multinazionali per o con cui ho lavorato hanno messo in campo, che ho potuto far luce sui processi che facilitano l’ottimizzazione dei risultati di Marketing.
Da ricercatrice a Brand Manager, da Consumer Insights Manager a consulente delle strategie di innovazione, in questi diciannove anni di lavoro, ho potuto sperimentare in prima persona le leve che permettono ad una marca di vedere riconosciuto il proprio “valore” sul mercato.
Per “valore” intendo prima di tutto quello dei risultati finanziari e di perfomance economica, consapevole che dietro quei risultati si nasconde sempre il “valore” della relazione tra consumatore e marca.
Ed è stato studiando le basi di tale relazione, che ho potuto toccare con mano la bontà di alcuni approcci teorici al Marketing che si stavano diffondendo negli Stati Uniti tra la fine degli anni novanta e l’inizio degli anni duemila.
Gli approcci di cui parlo, che possiamo sintetizzare con il termine Consumer Insight, sono lo specchio di un cambio culturale epocale che avviene allo svoltare del secolo e che non riguarda solo il Marketing, ma tutte le discipline volte ad aumentare le potenzialità di crescita.
Cogliere questo cambiamento culturale in maniera nitida non è facile, dal momento che è in pieno corso. Ma alcuni segnali di trasformazione si palesano nel linguaggio che cambia: accanto a termini presi in prestito dall’informatica o dalla neurologia, ci troviamo ad utilizzare parole come “introspezione” ed “energia”, oppure in molti casi superiamo addirittura il linguaggio verbale, usando suggestioni sensoriali per comunicare efficacemente dei concetti.
Siamo ati da un’ottica mono-disciplinare, mono-nazionale, mono-culturale, ad una “visione d’insieme” che mischia e confonde le discipline più disparate tra loro, perché è proprio dalla scambio tra le diverse modalità di studio dell’essere
umano e delle sue potenzialità che trova spazio il nuovo sapere.
Il nuovo sapere è fatto di scienza, ma anche di intuito, è fatto di numeri, ma anche di concetti, è fatto di evidenze, ma anche di suggestioni, è fatto di ragione, ma anche di “anima”.
E’ difficile adattarsi a questo nuovo terreno che è più impervio, perché la strada non è mai tracciata in maniera chiara ed univoca, ma si presenta come un reticolo di connessioni, come le “sinapsi” del cervello per intenderci. Forse non esiste più la “strada corretta”, ma quella più efficace, vale a dire quella che massimizza il risultato in termini di benessere percepito, con il minor dispendio di energie.
Questo in fondo è lo scopo di questo libro di Marketing, non quello di indicare il “percorso corretto”, ma di stimolare un “processo efficace”, per l’appunto quello del Consumer Insight che permette di fare tesoro delle diverse discipline e delle diverse modalità di comprensione della relazione tra consumatore e marca, al fine di “massimizzare il valore di tale relazione” e quindi di far crescere la marca.
L’ambizione di questo libro non è quella di fornire una “guida” a chi già si occupa o intende occuparsi di Marketing, ma la sua intenzione è quella di “ispirare” una prospettiva diversa, prospettiva già adottata da diverse aziende che l’hanno riconosciuta come un valido processo di massimizzazione del valore delle loro marche.
L’obiettivo finale per queste aziende era ovviamente economico e la bontà del metodo è sempre decretata dai risultati finanziari, ma l’approccio del Consumer Insight è ato prima di tutto attraverso un profondo cambiamento “culturale” che è partito dal Top Management e si è riversato a pioggia su tutta
l’organizzazione aziendale.
Per questo motivo la prima parte del libro si sofferma lungamente sulla spiegazione del concetto di Insight e sulle ragioni che hanno indotto grandi realtà multinazionali ad adottare tale approccio. Solo successivamente vengono illustrati gli strumenti operativi ed i processi che permettono di attuarlo.
Il mio consiglio, soprattutto per gli “scettici” della parola Insight e per coloro che temono la scarsa praticità/ attuabilità dell’approccio, è di arrivare fino in fondo al libro e provare ad attuare loro stessi il processo concretamente con le proprie marche, o con i propri venditori, prima di emettere il verdetto finale.
Mi auguro che questo libro possa ispirare anche Manager di aziende apparentemente lontane dai concetti di Consumer Insight ad adottare questo approccio e a verificarne la sorprendente capacità innovativa e trasformativa sulle relazioni cliente-marca, cliente-venditore, cliente-azienda/organizzazione.
Ovviamente il tutto richiede una buona dose di apertura mentale e di coraggio, occorre in una sola parola “anima”.
A ripensarci bene, forse non sono stata del tutto sincera: lo scopo vero di questo libro non è semplicemente quello di “ispirare” gli operatori di Marketing attuali o potenziali verso una nuova prospettiva; il mio vero obiettivo è quello di “convincerli” della bontà di questo approccio non solo per la sua efficacia, ma anche per la portata etica che esso produce.
Per tanti anni ho lottato contro una visione del Marketing riduttiva che vorrebbe ricondurlo a pure logiche economiche e commerciali, per ritrovare la centralità
della relazione valoriale con il cliente o interlocutore.
Nel momento in cui facendo Marketing ci si concentra sul “valore” della relazione tra consumatore e marca, non solo si ottengono i risultati di crescita sperati, ma si sposta il focus dell’attenzione dall’auto-referenzialità del proprio prodotto o servizio alla percezione di “valore” scambiato.
La logica del Consumer Insight permette alle aziende di prendere coscienza del “contenuto valoriale” che volontariamente o no comunicano, e di quello che auspicabilmente sono chiamate a comunicare.
Sintonizzarsi con il “mondo valoriale” del proprio interlocutore ha una portata etica enorme, in tutti gli ambiti relazionali, da quello familiare o di coppia, a quello interno alle organizzazioni, a quello esterno tra politica e cittadini, e tra nazioni.
Saper ascoltare l’altro, mettersi nei suoi panni, sintonizzarsi con il suo diverso modo di leggere la realtà, è la base di qualsiasi relazione di successo, e porta inesorabilmente ad un arricchimento di entrambe le parti in gioco.
Stimolare le persone che si occupano e che si occuperanno di Marketing ad adottare la logica del Consumer Insight per me ha un significato “etico” importante, perché non solo arricchisce le aziende facendo crescere le proprie marche, ma perché fa crescere complessivamente il “valore” dell’offerta di prodotti/servizi.
In un epoca in cui si parla tanto di “marca etica”, la sostenibilità ambientale è solo uno dei valori dei quali le marche possono essere portatrici, ma c’è ancora
molto altro su cui si può lavorare.
Con gli strumenti ed i processi dell’approccio Consumer Insight abbiamo la possibilità di scoprirlo, ciascuno nel proprio campo d’azione, ciascuno presso il proprio interlocutore..
Un piccolo esempio per cercare di essere più chiara. In più di un’occasione mi è capitato di lavorare alla generazione di idee di snack che massimizzassero il “piacere” minimizzando il “senso di colpa”.
Le proposte attualmente disponibili sul mercato non riescono ancora a trovare l’equilibrio perfetto: se danno “piacere” di solito fanno ingrassare e viceversa se sono “dietetiche/ sane” sono incapaci di dare piacere e immancabilmente vengono vissute con punitive. Le immagini pubblicitarie continuano a proporre modelli di forme fisiche “perfette”, senza alcuno sforzo e con il sorriso sulle labbra.
Le proposte “solo 99 calorie”, oppure “solo % di grassi”, in realtà sono spesso considerate delle “trovate pubblicitarie” o delle persuasioni ingannevoli del Marketing da parte dei consumatori, accrescendo il senso di rabbia e di frustrazione.
Un processo come quello del Consumer Insight permette di scavare più a fondo su quelle che sono le “tensioni” psicologiche del target: tra il desiderio voler essere e ciò che si è realmente, tra la ragione del controllo, della forza, della determinazione e la sensazione di fisica di fame, di calo energetico, debolezza e vuoto, tra il bisogno di accettazione sociale e quello di espressione della propria personalità.
E’ solo scavando in profondità che si possono trovare le leve che permettono di uscire dall’ eme. Solo così si potrà arrivare ad una soluzione che permetta di superare alla radice il conflitto interno di questi consumatori di snack, accrescendo il “valore” percepito dell’offerta!
Chissà che prima o poi qualcuno di noi o di voi troverà una soluzione a questo difficile quesito.. magari intervenendo sui modelli di riferimento (come ha fatto Dove con la sua campagna sulla “bellezza autentica”), oppure lavorando con i nutrizionisti per prevenire il calo energetico all’origine di tutti i mali?!
Spero questo libro servirà a stimolare una prospettiva diversa, e se non vi avrò convinto, spero almeno di non avervi annoiato troppo.
Vi auguro buona lettura.
1. Che cos’è l’Insight
Dare una spiegazione dell’Insight risulta così complicato che sarebbe più semplice apprenderlo con un “Insight”!
Questa parola inglese infatti accorpa due concetti insieme: quello di intuizione e quello di introspezione.
L’intuizione, o rivelazione, o illuminazione non è che un processo di problem solving (quindi di apprendimento) che avviene con un “salto”, con un “lampo di genio”. L’Insight consiste nella comprensione improvvisa ed immediata della strategia utile ad arrivare alla soluzione di un problema.
Questa comprensione avviene secondo la psicologia cognitiva perché il soggetto, anziché procedere in maniera logicosequenziale per prove ed errori, riconfigura lo spazio del problema, ristruttura concettualmente gli elementi disponibili e conseguentemente salta verso la soluzione.
L'Insight è particolarmente importante nel risolvere problemi nuovi, per i quali le strategie mutuate dall'esperienza si rivelano spesso insufficienti. I risultati delle ricerche neuronali hanno dimostrato che quando avviene il così detto “lampo di genio”, vengono attivate aree del cervello diverse, legate alla parte emozionale e non a quella logica.
Il termine intuizione deriva dal latino intueor (in=dentro + tueor= guardare, cioè “entrare dentro con lo sguardo”) e qui ci ricongiungiamo con il secondo concetto dell’Insight, quello di introspezione, o comprensione empatica, o
immedesimazione.
La comprensione intuitiva di un altro essere umano avviene per introspezione, per immedesimazione, vale a dire che il nostro bagaglio di emozioni provate ci permette di riconoscere quelle degli altri in immediata, sensibile.
Allo stesso tempo, per riuscire a “metterci nei panni” di un’altra persona, dobbiamo riconfigurare le nostre aspettative ed i nostri schemi mentali secondo una prospettiva diversa, quella dell’altro appunto.
E’ un lavoro molto simile a quello che fa l’attore: riesce a sentire in prima persona le emozioni del personaggio perché a sua volta quelle emozioni le ha già sperimentate in altre occasioni, ma le riconfigura adattandole alle aspettative ed agli schemi mentali del personaggio stesso, che è “altro da sé”.
Il famoso metodo Stanislavskij insegna agli attori ad approfon-dire la psicologia del personaggio che andranno ad interpretare, attraverso delle tecniche molto dettagliate di “immedesimazione”. Lo scopo finale è arrivare a sentire il personaggio e le sue emozioni come fossero proprie, in maniera autentica.
Il primo aggio verso l’autenticità delle emozioni consiste nel ricercare l’affinità tra il mondo interiore dell’attore e quello del personaggio: pur avendo l’attore un percorso esistenziale diverso, lo spettro di emozioni provate, anche se in situazioni diverse, accomuna i due esseri umani.
Le emozioni formano un bagaglio esperienziale provato intimamente da tutti: se opportunamente rielaborate, possono essere esternate in maniera autentica, e quindi credibile per il pubblico. Il secondo aggio è quello di rivivere queste
emozioni secondo una prospettiva diversa, quella del personaggio, che ha schemi mentali e valoriali propri. Lo studio del personaggio è un lavoro complesso che va dall’analisi del suo comportamento, dei suoi atteggiamenti e valori, delle relazioni che instaura con l’ambiente che lo circonda e con gli altri esseri umani, fino ai suoi desideri, alle sue paure. Una volta però compreso e, quindi “accolto” nella sua essenza, l’attore sarà in grado di fare vivere in maniera autentica il personaggio, persino oltre il copione.
Il processo di “Consumer Insight” è molto simile: lo studio del consumatore , come quello del personaggio, ha come scopo finale quello di farci uscire dai nostri schemi mentali e di entrare in quelli del nostro interlocutore, immedesimandoci con i suoi valori ed i suoi desideri.
E’ proprio in questo cambio di prospettiva che si attua il potere trasformativo dell’Insight. Riconfigurando il nostro schema mentale, viene rivoluzionato il nostro campo percettivo: si aprono i confini e ci appare un orizzonte di nuove possibilità.
Come un lampo di genio, come un’illuminazione improvvisa, superiamo le nostre barriere mentali e “catturiamo” l’essenza del nostro interlocutore, il suo Insight.
Una volta raggiunto questo livello di conoscenza, siamo in grado persino di prevedere con l’intuizione, come fa l’attore con il metodo Stanislavskij, quello che il nostro consumatore presumibilmente farà in futuro, come reagirà ai diversi stimoli. Possiamo intuire ciò che lo renderà felice, ciò che lo farà arrabbiare, ciò che lo farà innamorare o coinvolgere emotivamente.
Questo concetto, denominato Foresight, è la conseguenza logica e potente della capacità trasformativa dell’Insight.
In un’ottica transazionale, e quindi relazionale, l’aver colto l’Insight del nostro interlocutore, ci permette di stabilire una “connessione empatica” con lo stesso, permette di relazionarci con lui anticipandone i desideri. Negli Stati Uniti, dove si è intuita la potenzialità enorme che l’approccio del Consumer Insight può avere sul modo di fare Marketing da parte delle aziende, espressioni come “Anticipate the consumer” o “Insightful connection” sono largamente utilizzate.
Tra i diversi studiosi e consulenti che si sono occupati dell’applicazione in chiave di Marketing del concetto di Insight, semplice e diretto è l’approccio di Lisa Fortini Campbell che descrive l’Insight come “the Sweet Spot”, vale a dire “il punto di massima rilevanza emotiva nella psicologia del consumatore, trovato il quale, possiamo creare la massima connessione empatica con la nostra marca”.
Il valore della marca infatti va al di là di dati oggettivi come il prezzo, il packaging, o la tipologia di punto vendita; il valore è sempre quello percepito dal consumatore non in base a dati “razionali”, ma in base al “coinvolgimento emotivo” che ha con la marca. Tanto più intensa è la relazione emotiva con la marca, tanto maggiore è la rilevanza e quindi il valore percepito della stessa.
L’intensità di tale relazione è in funzione di quanto i due mondi valoriali, quello del consumatore e quello della marca, sono sovrapposti.
Il mondo valoriale della marca, alla base della Brand Equity,è funzione di tre diversi tipi di variabili:
• variabili razionali, come l’affidabilità, la competenza, la sicurezza, etc.
• variabili funzionali di praticità, utilità, efficienza ed efficacia,
• variabili emozionali, quelle che riguardano le caratteristiche di personalità della marca
Sono queste ultime, le così dette variabili “calde”, che lasciano il segno più profondo nella percezione del consumatore, che determinano il valore riconosciuto alla marca, e sono sempre queste ultime che in fondo guidano la percezione persino delle variabili razionali-funzionali.
Il Neuro-marketing ci insegna che l’80% del processo decisionale del consumatore avviene a livello “emotivo” e non razionale, pertanto ignorare l’80% delle equities di una marca rischia di farci sbagliare tutte le strategie che vogliamo implementare sulla stessa.
Le variabili emozionali/calde sono tuttavia anche quelle più difficili da far emergere con le classiche metodologie di ricerca, perché attingono ad un mondo di significati pre-verbale e simbolico, non esplicitabile a parole.
Nelle rappresentazioni della Brand Equity solitamente i valori di marca vengono
spiegati con la metafora dell’iceberg di marca: le variabili razionali e funzionali sono quelle che formano la parte esterna, che affiora dall’acqua, mentre le variabili emozionali, che peraltro costituiscono la parte più consistente e voluminosa dell’iceberg, giacciono sommerse, non visibili ad occhio nudo.
La metafora dell’iceberg tuttavia non mi convince pienamente: innanzitutto perché l’unica motivazione che spinge a cercare di analizzare le variabili sommerse è quella di “evitare la collisione”! E poi perché quella dell’iceberg è un’immagine fredda e solitaria: siamo sicuri che è così che vogliamo rappresentare la marca?
Mi piace invece pensare alla Brand Equity come se fosse un APPLE PIE.
La marca per il nostro consumatore è prima di tutto una relazione, è un’esperienza vissuta, non solo percepita, ma “sentita” attraverso le emozioni, e quindi in maniera coinvolgente.
Pensiamo a quando desideriamo assaporare una torta, in questo caso un apple pie.
Prima di tutto cerchiamo di capire dall’aspetto esteriore se è la torta giusta per noi e se possiamo fidarci a mangiarla (variabili razionali); come dicevamo, la motivazione che si nasconde dietro il filtro razionale è comunque fortemente emozionale, perché attinge all’istinto di sopravvivenza.
Successivamente iniziamo a prefigurarci l’esperienza di gusto, sempre attraverso segnali di aspetto (come il livello di cottura, la forma, le decorazioni, etc.) e segnali di consistenza (più o meno croccante, più o meno burrosa): si tratta ancora di variabili funzionali, “fredde”, non siamo ancora entrati nel “cuore” della torta.
E’ solo quando arriviamo ad assaporare la parte interna, quella più “calda” e coinvolgente delle variabili emozionali, che tutto acquista un senso.
Si creano delle associazioni tra l’esperienza emotiva che stiamo vivendo e le nostre categorizzazioni interne, i nostri schemi percettivi pregressi: al termine di questo processo saremo in grado di catalogare l’apple pie come esperienza di “valore” per noi oppure no.
Sulla base dell’esperienza emozionale, rivediamo la percezione delle variabili razionali e funzionali, legittimandole o smentendole: interno ed esterno partecipano coerentemente a delineare la nostra “percezione valoriale” di apple pie, la nostra “percezione valoriale” di marca.
E’ proprio attraverso le aree calde/emozionali della marca che si crea la connessione empatica tra i due sistemi valoriali, quello del consumatore e quello della marca. Tanto maggiore è quest’area di connessione, tanto più rilevante sarà nella percezione del consumatore quella marca, quindi tanto più elevato sarà il valore disposto a riconoscerle.
Partendo dal presupposto che una scelta di acquisto è prima di tutto una scelta di conferma del proprio valore, attraverso un altro valore, la comprensione dell’Insight diventa un aggio imprescindibile nei processi di Marketing.
Prendiamo per esempio il sistema valoriale di una marca come Sottilette.
E’ difficile pensare che il consumatore possa scegliere di pagare un price a Sottilette rispetto alle marche private o ai primi prezzi in base a delle semplici variabili razionali (affidabilità, tradizione, sicurezza) o funzionali (scioglievolezza, praticità, versatilità).
In realtà quello che fa la differenza è la “connessione empatica” che si è venuta a creare tra le variabili emotive della marca (generosità, garanzia di successo, tocco inconfondibile, allegria e solarità, riassumibili con il termine “valorizzazione dei piatti”) ed il sistema valoriale del suo target di consumatori.
“Sottilette è sempre stato per me una garanzia, con il suo gusto inconfondibile
arricchisce i miei piatti e li trasforma in un’occasione di sorriso” sono le parole che ebbe il consumatore di Sottilette per descrivere la relazione con la propria marca.
Siamo quindi all’Insight vero e proprio, al “Sweet spot” che dicevamo non è altro che la sintesi, “il punto di massima rilevanza emotiva nella psicologia del consumatore, trovato il quale possiamo creare la massima connessione empatica con la nostra la marca”.
Negli esempi che riportiamo di Insight, il linguaggio utilizzato è quello del consumatore, in prima persona, proprio a rappresentare il processo di immedesimazione psicologica che sta alla base del processo. Nel capitolo dedicato all’applicazione pratica di questi concetti nel processo di Marketing, andremo a definire con maggiore precisione come si esplicita un Insight psicologico.
• C’è sempre un tocco di me in tutto quello che faccio. Voglio che sia tutto perfetto. Vado diretta al risultato: la buona riuscita di quello che faccio è per me fondamentale
• Ho sempre creduto che se lavori sodo, ti puoi permettere tutte quelle cose per le quali vale la pena sacrificarsi. Quando mi guardo attorno in casa, sono veramente orgoglioso di tutto quello che sono riuscito a comprare per renderci la vita piacevole. Dopotutto, è per questo che lavoro così tanto.
• Amare la mia famiglia vuol dire prendermi cura in prima persona dei suoi membri. E lo voglio fare con le mie mani, voglio che loro sentano che mi occupo di loro, che voglio loro bene. L’amore c’è se l’amore fa
• Se sto bene con me stessa, sto bene anche con gli altri. L’amore anche con i figli è uno scambio, io o loro tutta la mia carica, la mia felicità, il mio affetto. Il bambino che si sente amato, è felice, e quindi a sua volta mi dimostra questo suo star bene, spontaneamente dandomi affetto e dicendomi “Ti voglio bene!”. Chi da’, con spontanea sincerità, riceve e chi riceve, a sua volta dà.
• La felicità del mio bambino viene al di sopra di qualsiasi cosa: essere mamma è per me prima di tutto un “progetto” su un altro essere umano. Renderlo
indipendente, forte e capace, felice e sano sono gli obiettivi che mi prefiggo, e so che non devo mollare mai. Anche di fronte alla fatica e alle avversità, anche se non mi dirà mai grazie, la mia ricompensa sarà vederlo cresciuto.
Possiamo “metterci nei panni” di queste cinque persone, possiamo immaginarle fisicamente, caratterialmente, possiamo intuire cosa le farà arrabbiare o soffrire, possiamo ipotizzare come vivono, che tipo di relazioni hanno, e persino quali prodotti o marche presumibilmente compreranno.
Pensiamo ora di offrire un “regalo” a queste cinque persone: pensiamo di regalare qualcosa che le renderà felici, che sia in sintonia con i loro desideri o addirittura che le sorprenda piacevolmente.
La metafora del “regalo”
L’afferrare l’Insight del consumatore è per una marca un po’ come aver azzeccato il regalo giusto!
Pensiamo a quelle volte in cui abbiamo ricevuto un regalo “ben fatto”, studiato in maniera perfetta per noi.
Siamo rimasti sorpresi di come sia stato addirittura anticipato un nostro desiderio, di come il donatore sia riuscito a cogliere con quel regalo la nostra essenza. Ci siamo sentiti capiti, apprezzati.
Abbiamo percepito il valore, l’importanza che noi ricopriamo per la persona che
ci ha fatto il regalo. Il legame tra noi ed il donatore del regalo “ben fatto” è diventato più forte.
Una marca che sa cogliere l’Insight del proprio interlocutore e che sa valorizzarlo nelle strategie di Marketing, fa un regalo “ben fatto”al suo consumatore: il legame tra i due non può che divenire più intenso e speciale.
Il potere rivoluzionario dell’Insight
Come dicevamo, l’Insight è un’illuminazione, un lampo di genio, che viene proprio dal cambio di prospettiva: il punto di osservazione non è più il mio prodotto e come faccio a venderlo, ma il mio interlocutore, che cosa lo rende felice e come soddisfare i suoi desideri.
Nel momento in cui si esce dalla gabbia dei condizionamenti finanziari ed aziendali e ci si mette nei panni del potenziale cliente/consumatore, del suo “sentire” e delle sue emozioni, si aprono nuovi orizzonti, nuove prospettive di problem solving.
Si attivano aree del cervello diverse da quelle logico-sequenziali dell’esperienza, si fa un salto percettivo e sensoriale attraverso nuovi scenari possibili, non ancora praticati.
are da una logica di Marketing inteso come “piazzamento” di un prodotto sul mercato ad una di Consumer Insight è veramente rivoluzionario nelle sue potenzialità.
Qualche capitolo più avanti parleremo di come l’approccio Consumer Insight abbia profondamente modificato i processi e le competenze di Marketing e persino gli assetti organizzativi delle aziende che l’hanno adottato.
1.1 Testimonianze
E’ così che alcuni consulenti ed esperti di Consumer Insight, presi dall’omonima on-line Community, descrivono l’Insight:
(Mike Sherman)
Un buon Insight deve avere due caratteristiche fondamentali:
1. deve aiutarci a capire, a spiegare un comportamento. Spesso diventa “intuitivamente ovvio” dopo averlo svelato. Un buon Insight ha senso per noi (non è mai oscuro o misterioso), al punto che sentiamo che avremmo dovuto saperlo, ma per qualche ragione non era così;
2. c’è sempre un’implicazione di marketing/business ad esso collegata
(Ranjan Malik)
Un Insight arriva quando colleghiamo tra loro i puntini in un modo nuovo ed inaspettato: a quel punto emerge un nuovo senso, un nuovo significato. Un Insight ha il potere di cambiare il modo in cui percepiamo il nostro mondo.
I puntini li possiamo collegare a tre livelli: -idea, -cornice (frame) di pensiero o paradigma, -modello mentale. Più sono profondi gli Insights tanto più è
rivoluzionario il loro impatto.
(Gustavo Boaventura)
Penso che la cosa più sorprendente degli Insights è che quelli migliori risultano ridicolosamente ovvi, una volta che li hai condivisi. E’ una ricerca difficile per avere risposte semplici.
(Summit Roy)
Gli Insights dopo averli formulati sembrano delle “verità emotive ovvie”. Facciamo alcuni esempi di Insights alla base delle comunicazioni di alcune famose marche:
“Le persone fanno le foto per conservare i ricordi”
“C’è un bambino dentro ogni adulto”
“A parte la casa e l’ufficio, la maggior parte delle persone cerca un terzo luogo che possa sentire proprio”
“Ogni bambino sogna di avere poteri magici”
“La maggior parte delle bambine sogna di essere una star del cinema”
“Le donne vogliono essere considerate belle per come sono”
“Ogni “sfigato” sogna di essere sedotto/inseguito dalle donne”
Sarebbe utile per tutti andare a capire perché nei “business maturi” alcune marche dimenticano l’Insight da cui erano partite… Ad esempio Kodak si è dimenticata che erano nel “business dei ricordi/ delle memorie” e si è scavata la fossa da sola cercando di misurare il suo successo dal numero di “patenti”/licenze che avevano per macchine fotografiche, film e stampanti!
Spesso le marche dimenticano i loro Insights: le emozioni non muoiono mai, ma i prodotti sì! E siccome nessuno stava verificando la quota di mercato di Kodak tra i “ricordi condivisi”, la povera azienda non si è accorta che avrebbe potuto avviare Facebook prima che Facebook venisse inventato!
1.2 Case History
“H”: dalla privazione del decaffeinato alla libertà di buon caffè ogni volta che vuoi.
Quello di “H” è forse uno dei casi più eclatanti del potere rivoluzionario dell’Insight. Marca leader del caffè decaffeinato in Italia, con l’80% di quota di mercato, seguito a distanza da un unico competitor, “H” è sempre stato identificato come il caffè decaffeinato per eccellenza.
Ancora oggi quando al bar o al ristorante si chiede un “H” di solito si intende un caffè decaffeinato generico, non necessariamente quella marca.
Il posizionamento di “H” fino agli anni ’90 fu quello di un caffè che faceva bene al cuore (“è buono qui”-gusto, “è buono qui”-cuore), destinato e confinato quindi ad un target di persone che, per età e motivi di salute, non potevano bere caffè normale.
Questa almeno era la percezione per i non s, perché quando veniva chiesto ai suoi consumatori di parlare di “H”, lo descrivevano come un ottimo caffè, dal gusto intenso ed equilibrato. Per loro “H” non era affatto una rinuncia: il piacere del buon caffè non era per nulla intaccato.
Da un punto di vista qualitativo la superiorità di “H” era sempre stata evidente, perché il processo di decaffeinazione naturale, che avveniva per mezzo dell’ossigeno anziché attraverso gli acidi, manteneva intatte le caratteristiche organolettiche del caffè, garantendo equilibrio e intensità nel sapore, corposità e
aroma.
La superiorità qualitativa, evidente nei product test “blind” (quando i consumatori testavano il prodotto senza conoscerne la marca), risultava meno eclatante a livello “branded”. L’equity di “H” era minacciata dal principale concorrente che, da un punto di vista di investimenti pubblicitari e di pressione promozionale, poteva contare sulla forza del marchio ombrello.
Entrambe le marche puntavano su uno stesso target di consumatori piuttosto ristretto che consisteva in persone che, per motivi di salute, non potevano più bere il caffè normale. Per questo target “H” conservava un grande vantaggio competitivo di capillarità, visibilità, accettabilità sociale nel canale bar e ristoranti, ma nel consumo domestico il suo concorrente si espandeva con grande velocità.
Senza un cambio di prospettiva, “H” avrebbe perso quota di mercato e marginalità.
Quando all’inizio degli anni 2000 si diffuse in azienda la logica del Consumer Insight, tutti i reparti coinvolti nella marca “H” (non solo il Marketing, ma anche vendite, produzione, logistica, finance, etc.) parteciparono al processo di “conoscenza valoriale” del consumatore da una parte e della marca d’altra. C’era una fierezza in chi lavorava su “H” che andava oltre gli indicatori finanziari e di mercato, che andava oltre le batterie classiche d’immagine (è il miglior decaffeinato, è affidabile, garanzia di qualità, etc.) e che faceva capo a sensazioni di attaccamento emotivo fino a quel momento non spiegabili. Quando queste figure aziendali uscirono dagli uffici per “incontrare” il consumatore presso la sua casa, al bar, al supermercato, quando appresero i valori emozionali attribuiti (o non attribuiti) ad “H”, poterono finalmente esplicitare e comprendere l’essenza della marca.
Ragionando su come far crescere la marca, emersero quegli “insights” così semplici, ma rivoluzionari che permisero ad “H” di allargare la penetrazione dal 12% al 30% in pochi anni, di raddoppiare i volumi, migliorando la marginalità.
Il primo aggio nel cambio di prospettiva fu quello di muoversi dal terreno conosciuto e rassicurante dei propri consumatori, a quello impervio ed ostile dei non consumatori di “H”.
Per i non s “H” era sinonimo di “deprivazione”: l’immagine del cuore nel suo logo, oltre che le sue vecchie comunicazioni pubblicitarie, continuavano a dare messaggi di un “non caffè”, di un succedaneo, di una bevanda destinata a chi “non poteva”, perché anziano e/o malato.
La percezione prefigurata del gusto ne veniva negativamente impattata: i non s si immaginavano avesse un sapore annacquato, poco intenso, con scarso corpo e senza cremosità.
In qualche gruppo di consumatori venne fatto assaggiare “H” “blind”, spacciandolo quindi per un caffè normale e le reazioni furono molto positive: la cremosità nella tazza dava la sensazione di corpo, il gusto era intenso e ben equilibrato.
Le associazioni spontanee andarono alle principali marche di riferimento del caffè normale; grande sorpresa li colse quando venne rivelato loro che si trattava di “H”.
Gli stessi consumatori, ricontattati qualche giorno dopo, confessarono che dopo quella scoperta qualche volta nel pomeriggio tardi o di sera avevano bevuto “H”
al bar o al ristorante. Si era aperta loro una possibilità: quella di bere caffè anche dopo le quattro del pomeriggio!
Prima di allora, si fermavano al terzo caffè della giornata, di solito quello dopo pranzo, perché se avessero bevuto caffè dopo le quattro non sarebbero riusciti a dormire la sera, oppure il consumo eccessivo di caffè avrebbe portato a problemi di gastrite, oltre che di irritabilità. Si era aperta una possibilità agli intervistati, ma soprattutto si era aperta una grande opportunità per l’azienda.
Gli studi quantitativi sui consumi di caffè rilevarono che il target potenziale era enorme: la percentuale di uomini e donne in età 30-55 anni, che si doveva fermare al terzo caffè nella giornata prima delle quattro, era molto più ampia di quel che si pensasse. C’era spazio per un grande riposizionamento della marca.
Il punto di partenza della nuova prospettiva fu che “H” venisse riconosciuto come un buon caffè al pari del caffè normale.
Prima di tutto occorreva ridefinire il contesto competitivo di riferimento, il “frame of reference”. are dall’essere la marca leader assoluta all’interno del mercato del decaffeinato, all’occupare una minima quota nel mercato del caffè totale, era una rivoluzione che richiedeva coraggio e lungimiranza.
Rivoluzionaria era anche la scelta del nuovo “benchmark” qualitativo con il quale confrontarsi: il leader del mercato “LQR”. L’obiettivo di raggiungere la parità di gradimento presso i non consumatori di “H” era assolutamente sfidante.
Ciò nonostante l’action standard venne raggiunta nei product test “blind”;
addirittura su alcuni aspetti come l’aroma, la cremosità, il corpo del caffè, “H” risultò tendenzialmente superiore. Sul target s di “H” invece la superiorità venne raggiunta a tutti i livelli.
Il consumatore andava convinto della bontà di “H” semplicemente facendoglielo assaggiare!
Le attività di Marketing promozionali, si focalizzarono moltissimo sulla sessione di assaggio e sull’effetto sorpresa, ma non fu sufficiente.
La marca è un sistema valoriale complesso, tutta la sua comunicazione verbale e non verbale deve essere coerente con la Brand Essence.
La pubblicità di “cup change”, nella quale veniva scambiata di nascosto la tazza al bar ed il consumatore rimaneva stupito di quanto buono fosse “H”, anche se aveva degli ottimi risultati in termini di ricordo, non aiutò la marca nella direzione desiderata.
Il continuo confronto con il caffè normale non faceva che enfatizzare la differenza e istillava il dubbio nel consumatore che “H” fosse effettivamente buono come il caffè normale.
Occorreva rassicurare attraverso i codici della marca senza bisogno di confronto, occorreva acquisire fiducia nella forza “valoriale” della marca e nello scambio emozionale con il consumatore.
Il punto chiave della svolta di “H” fu: i valori “profondi” emozionali della marca avrebbero permesso questo cambio di strategia? C’era un’area di sovrapposizione tra sistema valoriale della marca e quello del potenziale consumatore dal quale si potesse partire per rafforzare la relazione?
Il processo di immedesimazione con il consumatore target avvenne attraverso una vera e propria “immersione” nella sua vita, per andare a catturare le istanze che lo rappresentavano profondamente (Insights), che a loro volta determinavano il suo modo di bere il caffè e che facevano percepire determinati valori di “H” come più o meno sintonici.
Tutto il gruppo di lavoro di “H” partecipò al processo di “immersione”: tutti ebbero la possibilità di guardare in faccia il proprio consumatore target, di ascoltarlo mentre parlava di sé e delle sue ioni, di ciò che lo rendeva felice o infelice. Tutto il gruppo ebbe la possibilità entrare nella sua casa, di catturare immagini e fotografie degli oggetti rilevanti per lui. Tutti poterono osservarlo nella propria cucina o al bar mentre beveva il caffè da solo o con gli amici, poterono guardare nelle sue dispense, “sentire” il ruolo che il caffè ricopriva nella sua vita.
L’esperienza di immedesimazione, agevolata e sostenuta da psicologi e professionisti di Consumer Insight, portò a delineare il profilo valoriale del target strategico di “H”.
“Vedo la mia vita come un quadro, pieno di colori in armonia tra loro; io sono il pittore del quadro. Ho fatto tesoro delle diverse esperienze senza mai subirle, ma scegliendo di andare loro incontro, per poi integrarle nel mio quadro esistenziale in maniera armonica.”
Espresso con essenzialità, in prima persona, con il linguaggio del consumatore, e
arricchito da immagini evocative, poteva essere “sentito” in maniera empatica ed univoca da tutto il gruppo di lavoro.
L’Insight raccontava di persone emotivamente risolte, con un buon livello di auto-stima, che volevano essere protagoniste delle loro vita, sentendosi libere di scegliere, senza scendere a compromessi. Guidati dal piacere di vivere, erano individui dotati di grande senso estetico: per lo più amanti dell’arte, della lettura e della musica (jazz).
Per loro il caffè rappresentava un rituale piacevole, da godere in pace, con tranquillità dandosi il tempo di percepire con i sensi il profumo, il gusto, la corposità. “Non sono disposto a scendere a compromessi: se non da’ piacere ne faccio tranquillamente a meno” era la loro posizione.
Per questo motivo non bevevano caffè dopo le quattro: le sensazioni negative di irritabilità che ne derivavano avrebbero annullato la piacevolezza del momento.
La conoscenza del ruolo “emotivo” che il caffè ricopriva nella vita di queste persone, permise anche di comprendere che la barriera razionale del “gusto” prefigurato di “H” era solo la scusa, la superficie che nascondeva una motivazione psicologica più “profonda”.
Per il suo target di riferimento “H” rappresentava la “privazione” del piacere. Era una marca che fino a quel momento si era rivolta a persone deboli (di cuore), malate, a persone che non potevano e non sapevano godersi la vita. Era per persone che si erano piegate, rassegnate al compromesso del decaffeinato, senza gusto (per la vita) né corpo (coraggio, solidità).
Come avrebbero mai potuto identificarsi con una marca del genere? Come avrebbero potuto condividerne i valori?
Era dal loro concetto di “piacere” che bisognava ripartire.
Per il consumatore target “piacere” significava la libertà di godersi la vita, di indugiare nell’armonia dei sensi, liberi da restrizioni e condizionamenti. Per loro piacere era lasciarsi prendere dalla lettura di un buon libro, lasciarsi trasportare dalla combinazione delle note della loro musica preferita, perdersi nello sguardo infinito di un bel quadro. Le parole chiave del piacere erano “libertà” ed “armonia”.
I “momenti di piacere” per queste persone erano fortemente associati alla sera. La sera evocava il piacere intimistico di ritrovarsi, di indugiare senza limiti di spazio né tempo, senza costrizioni, avvolti nell’armonia delle sensazioni.
Fu proprio ai momenti di piacere serale che “H” decise di agganciarsi, connettendosi a due valori cardine comuni: la libertà (di poter gustare un buon caffè a qualsiasi ora) e l’armonia (del gusto).
Questi valori rimasti sopiti nel DNA della marca, e riscoperti attraverso l’esplorazione delle sue aree calde/emozionali, divennero il fulcro della nuova Brand Essence di “H”.
“Il piacere del buon caffè non ha confini, non ha restrizioni: in questo consiste la libertà, la possibilità di assaporare il gusto della vita senza compromessi”.
Fu così che si arrivò al “sweet spot” o “punto di connessione” tra il sistema valoriale della marca e quello del suo target di riferimento.
L’impiego di tecniche innovative e creative di Consumer Insight, permise quindi di verificare la rilevanza emotiva dei nuovi scenari, al di là delle barriere razionali contingenti.
Soprattutto permise di individuare i codici “simbolici” di ingresso a nuove associazioni di marca, fornendo un grande contributo creativo al processo di comunicazione.
L’associazione ai momenti di piacere serali, il colore arancione, l’oro, lo sbuffo dell’aroma a forma di sassofono divennero elementi cardine della nuova comunicazione: perché in grado di parlare direttamente al cuore del consumatore di piacere, positività, libertà ed armonia.
L’individuazione chiara, “sentita” e condivisa da tutto il team dello “sweet spot” di “H” generò un potente riposizionamento della marca a tutto tondo e nel giro di poco tempo.
In sintonia con la nuova Brand Essence venne rivisitato il logo ed il packaging, vennero lanciate nuove referenze (come “H” Oro 100% arabica), vennero riposizionati prezzo e posizione a scaffale, si aprirono nuovi canali di comunicazione in sintonia con il consumatore potenziale, vennero realizzate campagne televisive a forte impatto emozionale, vennero sponsorizzati “momenti di piacere” serale rilevanti per il target.
Negli spot “Scrittore” prima e “Cantante” poi, il consumatore potenziale poteva
ritrovare se stesso, ed il suo concetto di piacere serale, avvolgente, armonico, intimistico, ritrovava la libertà di scegliere una professione che è un “modus vivendi” senza condizionamenti.
Nel sito di ““H” Pleasure Moments” poteva condividere con la marca, accanto alla ione per la musica di qualità (jazz per lo più), l’interesse per il buon cibo, l’arte, il cinema.
L’efficacia della comunicazione è stata massimizzata proprio dalla logica del 360°: tutti gli elementi, verbali e non verbali di “H”, hanno comunicato coerentemente lo stesso messaggio al consumatore di riferimento. L’intensità della relazione con la marca da parte sia del consumatore storico che soprattutto del nuovo target potenziale è significativamente cresciuta, prima di tutto in termini “emotivi”, visibili con tecniche profonde ma anche attraverso le normali batterie di immagine della marca, e conseguentemente in termini di business.
Nel giro di pochi anni, si è arrivati al 2010 con dei risultati fortemente premianti: più che raddoppio dei volumi di vendita, guidati sia da penetrazione (dal 12% al 30%) che dall’aumento della frequenza di consumo, e contemporaneo aumento della marginalità.
Quello di “H” è diventato un “caso aziendale”, fonte di ispirazione per il management internazionale, che ha riconosciuto in questo approccio la potenzialità di crescita del decaffeinato, ad di là dei confini fino a quel momento considerati.
are dal concetto di decaffeinato come “privazione” alla “libertà di un buon caffè ogni volta che vuoi” ha aperto nuove porte, nuove opportunità di crescita: è questo il potere rivoluzionario del Consumer Insight.
Piccola postilla: come nel caso di Kodak citato prima nella testimonianza di Summit Roy, “Sarebbe utile per tutti andare a capire perché nei business maturi alcune marche dimenticano l’Insight da cui era partite…”.
Cosa succederebbe ad “H” se si dimenticasse che era nel business dei”momenti di piacere serali”? E non in quello del caffè (decaffeinato)?
Bibliografia
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Fortini-Campbell L. (2001) , Hitting the Sweet Spot: How Consumer Insights Can Inspire Better Marketing and Advertising, Copy Workshop, Pennsylvania State University, USA
Mariampolski H. (2006), Ethnography for Marketers: A Guide to Consumer Immersion, SAGE, USA
Rapaille C. (2006), tradotto da Gurioli M., Il codice nascosto. Perché viviamo, compriamo, amiamo. E perché lo facciamo in questo modo, Edizioni Logos Nuovi Mondi, 2006
Vitale D. (2006), Consumer Insights 2.0: How Smart Companies Apply Customer Knowledge to the Bottom Line, Paramount Market Publishing, USA
Zaltman G. (2003), How Customers Think: Essential Insights Into the Mind of the Market, Harvard Business Press, USA
Articoli
How to Think Creatively, by Schwartz T., HBR Blog Network, 14/11/2011
Riferimenti tematici/ siti
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2. Perché nasce l’esigenza del Consumer Insight
“Se parli ad un uomo in una lingua che capisce, la comunicazione arriva alla sua testa. Se parli ad un uomo nella sua di lingua, la comunicazione arriva direttamente al cuore”. (Nelson Mandela)
Ogni giorno siamo bombardati da infinite fonti di informazione che ano attraverso tutti i nostri sensi, delle quali il nostro cervello è in grado di trattenere solo una minima parte.
Le neuroscienze ci insegnano che la selezione delle informazioni utili alla nostra sopravvivenza avviene in gran parte a livello profondo: sono le emozioni che facilitano maggiormente la “ritenzione” delle informazioni.
Facciamo un esempio: se qualcuno ci chiede dove eravamo il 9 Giugno 2002, noi non siamo in grado di rispondere, ma se ci chiedono dove eravamo l’11 Settembre 2001, la maggior parte di noi è in grado di ricostruire dov’era quel giorno, cosa stava facendo, con chi era, quando ha appreso la notizia dell’attentato alle Torri Gemelle. L’esperienza ad impatto fortemente emotivo ha facilitato il ricordo di quel giorno.
Lo stesso avviene per tutti i processi di selezione delle informazioni, perché le emozioni indicano quali percezioni sensoriali sono importanti per il nostro organismo. I nostri processi decisionali sono guidati per l’80% da variabili di tipo emotivo: la strategia di una marca che voglia avere successo nel mercato non può più ignorare questo presupposto.
I primi ad accorgersene sono state le grandi Agenzie di Pubblicità (JWT in primis) che hanno assistito a partire dagli anni ’80 ad un progressivo calo di efficacia degli spot pubblicitari.
I consumatori, sempre più bombardati da stimoli di ogni tipo non solo in televisione o in radio, per strada, nei supermercati, persino al lavoro attraverso il PC, diventano più “selettivi” e riescono a trattenere solo una minima parte delle comunicazioni pubblicitarie a loro destinate.
Le marche “urlano”, non a caso si parla di share of voice, ma hanno sempre meno speranze di farsi sentire.
Le poche che escono dall’anonimato e lasciano il segno nel consumatore sono quelle che sanno fare leva su delle emozioni profonde attraverso un messaggio focalizzato, semplice ma potente. “Il potere di un brand”, ricorda Adam Arvidsson, “risiede semplicemente nelle emozioni che il consumatore prova associandosi ad esso”.
Nascono così all’interno delle Agenzie di Pubblicità delle nuove figure professionali, che hanno il compito di rappresentare, dare vita al “sentire” del consumatore, intuendo i suoi Insights.
A partire dagli anni ’90, progressivamente questa tendenza esce dall’ambito limitato della pubblicità per abbracciare la strategia di marca a 360°.
Diventa sempre più evidente che il massimo impatto dell’Insight avviene proprio
in quell’area di sovrapposizione tra sistema valoriale della marca e sistema valoriale del consumatore. E’ nello Sweet Spot di L.F.Campbell che si genera il valore della marca.
Le aziende sono fatte di marche e il risultato della quota di mercato o della profittabilità di una marca è sempre una funzione del “valore” non solo percepito ma “scambiato” con il suo consumatore.
Sono numerosi i sociologi che studiano il fenomeno della crescita di valorialità della marca, soprattutto nell’epoca dell’incertezza, epoca in cui il contesto macro-economico, quello politico ed istituzionale perdono di riferimento, in quanto incapaci di rassicurare. La dimensione privata prende il sopravvento su quella pubblica e la paura dell’incertezza si riformula in ansia di inadeguatezza personale.
La condivisione di valori di marca rassicura rispetto alle proprie ansie di inadeguatezza e fornisce sia uno specchio per la propria “riconoscibilità” che, al tempo stesso, un “mondo di appartenenza”, il senso di far parte di qualcosa di più grande di noi, entrambe tendenze innate della natura umana.
Secondo Semprini emblematico è l’esempio dei SUV, che nelle loro innumerevoli varianti hanno ormai sostituito i consueti vei-coli da città: non sono altro che una risposta all’“ossessione per la sicurezza” che ha letteralmente invaso la società odierna.
Numerosi sono anche gli esempi che possiamo trovare di come, nell’epoca dell’incertezza, gli individui cerchino di dare risposta ai sentimenti di inadeguatezza personale che ne derivano: l’enorme popolarità dei programmi di cucina in televisione, in particolare Master Chef, rappresenta la sublimazione della propria incapacità (presunta) di artigianalità e abilità culinaria. Oppure prendiamo Nike, sentiment della sportività: sublima l’istanza generale di protagonismo sportivo, rappresentando il prolungamento attivo di una sportività generica e tendenzialmente iva. Il discorso è semplice: vuoi are dal guardare al fare? “Just do it!”
Al di là delle motivazioni sociologiche che spiegano l’aumentata referenzialità delle marche nell’ultimo decennio, quello con cui abbiamo a che fare è di fatto sempre più uno “human brand”.
La marca è un mondo valoriale dove la materia (aspetti fisici) e la semantica (aspetti funzionali) vengono rilette alla luce della coerenza con i valori che sanno non solo riflettere, ma “scambiare”. Questo pone una nuova questione a chi si occupa di Marketing e Comunicazione.
La marca ha una propria identità che non è semplicemente il frutto della creazione/gestione di un’azienda, ma acquisisce una vita propria.
Ogni volta che comunica, che “scambia” valori per certi versi si sottrae al controllo di chi la crea e la gestisce: un po’ come i figli, non è detto che manifestino lo stesso carattere e lo stesso temperamento dei genitori.
La marca è viva. Non è così facile costringere la marca al ruolo di attuatrice di un progetto che qualcuno al momento di concepirla ha provveduto a scrivere nel suo DNA.
I messaggi mediali sono sempre aperti e polisemici, e sono interpretati secondo la cultura ed il contesto dei riceventi. Una parte significativa delle ripercussioni, in termini di produzione di senso, di emozioni e valori generati dalla marca e l’ombra lunga che essa è in grado di proiettare nel tempo e nello spazio, esorbitano dalla immediata percezione che il pubblico può averne.
La marca è una relazione. Come avviene tra le persone, si instaura una relazione che implica un coinvolgimento, la condivisione di uno stesso “sentire”, di un “luogo di significazione” comune che entrambe le parti concorrono ad alimentare.
L’identità della marca deve essere studiata nella relazione. Sia i segnali verbali che quelli non verbali vengono letti in maniera differente dalle persone a seconda del loro set mentale di riferimento.
Sarà poi la qualità e la coerenza delle esperienze di interazione che si verranno a creare, che fanno “sintonizzare” sulla stessa lunghezza d’onda o meno.
Ci sono persone che si sintonizzano subito, altre che hanno bisogno di più tempo per conoscersi ed immedesimarsi, per poi trovarsi.
Alcune relazioni tra persone cambiano nel tempo, perché magari una delle parti si modifica ed occorre risintonizzarsi, ritrovarsi. Infine, come per tutte le relazioni durature e pregnanti, occorre crederci, investirci, coltivarle nel tempo.
Ecco quindi che diventa compito delle aziende (e non semplicemente delle Agenzie di Pubblicità) quello di:
conoscere, custodire, diffondere e potenziare il sistema valoriale della marca,
attraverso le sue “brand equities” profonde/calde/ emozionali,
trovando tra queste la “chiave di connessione” (Insight) con il proprio consumatore.
Nascono quindi nelle grandi realtà multinazionali americane (in primis Kraft Foods, General Mills, Pepsico, Unilever, Motorola, Mc Donald’s) delle nuove figure professionali: gli esperti di “Consumer Insight” (CI), anche se non in tutte le realtà aziendali hanno lo stesso titolo.
Si tratta di persone con delle competenze nuove a metà tra la scienza (analisi dei dati e delle informazioni) e l’arte (capacità di cogliere gli Insights e di comunicarli in maniera efficace a tutta l’organizzazione).
In molte di queste multinazionali si è assistito negli anni ad un progressivo cambio di cultura e anche di organizzazione aziendale: il responsabile del reparto Consumer Insight è diventato una figura chiave nel processo decisionale dell’azienda. In Mondelez International (ex Kraft Foods) ad esempio il CI riporta direttamente al Top management, gestisce un proprio budget in maniera autonoma e partecipa attivamente al tavolo delle decisioni, ispirando le scelte strategiche delle marche.
Sicuramente gran parte dello sviluppo della centralità del CI nei processi decisionali è stato influenzato da persone “chiave” di valore, che hanno attivamente contribuito alla crescita del business.
Tuttavia anche laddove la scelta del Consumer Insight è avvenuta come atto di fiducia rispetto ad una nuova prospettiva di Marketing, le motivazioni possono essere ricondotte a quattro ordini di “benefici attesi”.
Nell’albero che rappresenta il mondo di significati della marca, si parte dalla radice, il conoscere, che sta alla base di tutto il processo di Consumer Insight, per poi salire alla solidità del tronco, che rappresenta il custodire l’ossatura del mondo valoriale, aprendosi poi via via ai rami per diffondere i significati della marca.
Si arriva in ultimo alle foglie e frutti, simboli del potenziamento del valore di marca: a loro volta, attraverso uno schema circolare, si rimettono in circolo per creare nuovo humus.
Vediamo questi quattro benefit nel dettaglio.
Benefit 1. Conoscere
A partire dagli anni ’80 e ’90 si è verificato un proliferare di dati e ricerche di mercato largamente accessibili alle imprese che, anziché agevolare, hanno finito per “paralizzare” il processo decisionale dei manager.
Nelle riunioni si rischia di venire sommersi da numeri spesso discordanti o in contrapposizione tra loro, al punto di arrivare a dubitare circa la loro attendibilità: si finisce per chiuderli in un cassetto, o si finisce per utilizzare solo quelli che ino la decisione di “pancia” già presa.
Chi ha lavorato nelle grandi aziende conosce bene l’enorme patrimonio informativo duplicato o triplicato in forme diverse che giace polveroso, prima tra gli scaffali, ora negli archivi informatici. Nel momento in cui dovesse servire, diventa troppo complicato recuperarlo e si finisce sempre per raccoglierne di nuovo.
Siamo sommersi da database di ogni genere: dati di vendita, dati d’acquisto, dati di consumo, dati di atteggiamento, di ogni genere di prodotto e marca, però non sappiamo rispondere ad una semplice domanda: “Come sta andando la marca X? E perché?” Oppure “Cosa dovremmo fare per far crescere la marca X?”
In questo buzzing informativo, l’unico modo per uscirne è avere qualcuno che abbia la “chiave di lettura”, che sappia identificare, selezionare e comunicare in maniera sintetica ciò che veramente conta per rispondere alle domande decisive.
I dati diventano per il Consumer Insight i pezzetti di stoffa che servono a costruire il patchwork: come combinarli tra loro, affinché acquistino un significato per chi deve prendere delle decisioni strategiche, è la sua prerogativa.
Il parametro utilizzato è il punto di vista del consumatore: è questa la cornice conoscitiva che da’ le rilevanze, è il filtro e la chiave di lettura che semplifica i processi decisionali.
Il Consumer Insight deve possedere nuove competenze: non basta più essere esperti nell’analisi statistica dei dati, non basta più possedere solide basi metodologiche. Occorre essere in grado di recuperare quel bagaglio di conoscenze sul consumatore e sulla sua relazione con la marca, che sono di natura principalmente emotiva.
Non esiste più una fonte certa, un database da acquistare che dia tutte le risposte, bisogna sapersi destreggiare tra l’incertezza, saper “intuire” quali sono gli Insights del consumatore.
Occorre sensibilità psicologica, introspezione/immedesimazione, pensiero laterale, creatività ed essenzialità.
Comprendere gli Insights non è ancora sufficiente: quello che il Management si aspetta dalle nuove figure professionali è saper cogliere gli Insights strategici, vale a dire quelli che avranno un impatto sul Business.
La domanda finale a cui deve rispondere il Consumer Insight è: “come possiamo far crescere la marca?”
Conoscere gli aspetti finanziari, gestionali e logistico-produttivi della marca diventa indispensabile per poter trasformare l’Insight in uno “strategico”. Per
sedersi al tavolo decisionale e dialogare con il Management, il Consumer Insight deve essere il massimo esperto del suo campo, ma anche un profondo conoscitore della dinamiche aziendali, affinché il suo punto di vista possa essere considerato attuabile e quindi credibile.
Benefit 2. Custodire
Il tasso di rotazione dei Brand Manager nelle grandi reali multinazionali è di due anni e molto spesso scende al di sotto questi livelli; anche i Marketing Manager tuttavia tendono a cambiare posizione ogni tre anni.
L’elevato turnover ha un effetto deleterio sulla conservazione delle brand equities nel tempo. Soprattutto se per brand equities non intendiamo solamente gli aspetti razionali e funzionali della marca, che sono facilmente trasmissibili, ma ci riferiamo a quel 80% di valori emozionali che bisogna “sentire” per poter comprendere e quindi trasferire.
In questo senso il Consumer Insight ricopre un ruolo preziosissimo per l’azienda (sempre ammesso che non venga anch’esso sostituito ogni due anni!): lo possiamo definire come il custode dell’anima della marca.
In alcune aziende, come Kraft, ci si è spinti oltre, creando delle figure professionali ad hoc per le marche più preziose, si chiamano “Brand equity keeper”, che hanno come finalità proprio quella di custodire la coerenza ed uniformità delle equities delle Marche Globali, come Philadelphia e Milka. Rispetto ai Brand/Marketing Manager, hanno il vantaggio di essere più stabili, di avere una visione internazionale e di poter esercitare maggior potere decisionale sulle tutte le leve del Marketing Mix, affinché lavorino in sinergia tra loro.
Nella stragrande maggioranza dei casi invece è il Consumer Insight la figura più adatta a garantire la coerenza dei valori della marca nel tempo, nello spazio e attraverso tutto il Marketing Mix, in quanto figura “super partes”.
Per essere più precisi, la funzione del CI è quella di garantire la “resilienza” dei
valori, vale a dire preservare la capacità della marca di modificarsi, adattarsi agli stimoli esterni senza mai perdere la propria essenza.
La marca è viva, è umana, è relazione: per assicurare la “resilienza”, occorre saper ascoltare e sintonizzarsi continuamente con il “sentire” del consumatore, prerogativa questa del Consumer Insight.
L’opera di custodia dei valori della marca avviene in tre dimensioni, rappresentabili come un grafico 3D composto da un asse temporale, un asse spaziale ed uno radiale, che si muove a 360° su tutte le variabili del Marketing mix.
Asse temporale
Come anticipato, la figura del Consumer Insight, se duratura nel tempo, può contrastare l’avvicendamento continuo di Brand/Marketing manager, e garantire una continuità temporale ai valori-cardine della marca.
Oltretutto il consumatore tende ad avere una memoria storica della marca molto più stabile e duratura dei Brand Manager, solitamente giovani e desiderosi di poter lasciare il loro segno personale alla marca.
Ad ogni cambio di Brand Manager, spesso si associa uno nuovo shooting pubblicitario, oppure un cambio di packaging, se non addirittura di logo. E’ un classico.
Il rischio per la marca è di creare confusione nel consumatore, proponendosi con messaggi e linguaggi completamente distonici rispetto al mondo valoriale condiviso per anni, il tutto in nome di una presunta necessità di svecchiamento.
Nell’epoca dell’incertezza, la marca anziché avvantaggiarsi della sua forza propulsiva come possibile “mondo di valori” di riferimento, stabile e sicuro, possibile rifugio contro l’incertezza, diventa anch’essa fonte di incertezza e quindi di ansia.
Perdere la riconoscibilità della marca come mondo valoriale di riferimento significa perdere la fiducia del consumatore “confuso”, probabilmente per sempre. E’ un prezzo molto alto da pagare per un’azienda.
Per fortuna nella realtà il ricordo delle campagne pubblicitarie, che hanno lavorato negli anni per costruire l’identità della marca, è largamente sedimentato ed interiorizzato: la marca ha una “resilienza” molto più forte di quanto pensiamo.
I nuovi spot, messi in onda per qualche mese e magari subito ritirati perché poco incisivi (secondo una logica di breve periodo), non fanno quasi mai in tempo a danneggiare i valori di marca. Viceversa, nel momento in cui la marca ritorna a parlare in maniera coerente con il suo mondo valoriale, il legame emotivo si riaccende con estrema velocità.
Come è avvenuto nel caso di Simmenthal con le campagne emozionali focalizzate sulla “mamma”, sedimentate nel ricordo fino ai primi anni 2000 e riattivate solo negli ultimi anni.
Con “Grazie mamma” il consumatore ha ritrovato la connessione con i valori caldi della marca: sono proprio questi, e non quelli funzionali, che hanno decretato il successo di Simmenthal nel tempo.
Asse spaziale
Quest’asse riguarda principalmente le marche internazionali: la sfida è saper conciliare le Marche Globali con degli Insight influenzati da contesti valoriali e culturali molto diversi tra paese e paese.
Si tratta di un tema critico soprattutto per i prodotti alimentari, fortemente
radicati nella cultura locale: l’associazione tra cibo ed emozioni è molto potente perché risale ai primissimi mesi di vita. Tuttavia la sfida riguarda tutti i codici comunicativi delle marche che acquisiscono un significato ed una rilevanza diverse a seconda del contesto culturale in cui vengono proposti.
Il processo premiante è quello che parte dagli Insight del consumatore locale per arrivare alla Marca Globale. E’ ambizioso, ma possibile arrivare ad individuare dei valori di marca transculturali, profondamente radicati nelle istanze della natura umana e quindi “universali”. Tuttavia è la modalità con la quale questi valori vengono comunicati e declinati nelle diverse realtà, la sfida più grande.
Una modalità che funziona è quella federale che prevede, a fronte di una identità di marca transnazionale, delle esecuzioni sostanzialmente diverse da paese a paese. Questo è il caso di Mc Donald‘s, che ha saputo reinventarsi, ascoltando gli Insights che venivano dai consumatori nei diversi paesi ed accettando di adattare la propria offerta ai diversi contesti valoriali.
In Italia Mc Donald, a partire dall’inizio degli anni 2000 ha profondamente modificato sia l’offerta di prodotti (proponendo il toast, il panzerotto, il panino mediterraneo, insieme ad una ricca offerta cibi sani, come insalate, frutta, yogurt), che la sua modalità comunicativa (trasparenza nutrizionale, colori bianchi-puliti, focus su freschezza) per sintonizzarsi con la concezione di “nutrizionalità” del nostro consumatore.
L’operazione, sicuramente complessa, ha richiesto una grande flessibilità sia mentale che operativa, ma ha portato il suoi frutti.
Deleterio invece, soprattutto in campo alimentare, il processo opposto di colonizzazione da parte di una marca forte in un determinato contesto culturale, che viene trapiantata tout-court in altri contesti, dando per scontato che la
percezione del suo sistema valoriale sia la stessa ovunque.
In realtà non è quasi mai così, perché il contesto culturale e quindi valoriale in cui le persone nascono e crescono influenza fortemente la modalità con cui le informazioni vengono recepite ed organizzate in associazioni di senso.
Il caso di “KL”, che analizzeremo alla fine di questo capitolo, ne è una chiara testimonianza.
Asse radiale
Se compito del Marketing e di tutto il team aziendale è l’implementazione della coerenza del Marketing Mix, al Consumer Insight spetta la verifica regolare della percezione di coerenza da parte del consumatore, e quindi la comunicazione di eventuale distonie al Marketing.
Scevro da pressioni di tipo finanziario, o da contingenze e limitazioni operative, il Consumer Insight supervisiona tutti gli elementi comunicativi della marca (dal prodotto, al packaging, ai canali distributivi, ai media, alla campagna pubblicitaria e istituzionale), affinché siano “sintonizzati” con il mondo valoriale di riferimento per il consumatore.
Le vecchie metodologie vengono soppiantate da nuovi approcci. Ai tradizionali tracking pubblicitari focalizzati sulla comunicazione televisiva, vengono sostituite le nuove metodologie a 360°, che si occupano di monitorare l’efficacia e la coerenza della comunicazione della marca in maniera integrata.
Le nuove analisi coprono più canali media contemporaneamente (televisione, Internet, stampa, affissioni, radio, etc.), e spesso si estendono al packaging, al punto vendita, agli eventi/sponsorizzazioni e via discorrendo, allo scopo di verificare sinergie e/o sovrapposizioni. L’impatto sul ritorno economico degli investimenti diventa sempre più quantificabile.
I tradizionali indicatori di ricordo vengono sempre più integrati dalla verifica degli aspetti valoriali caldi/ emozionali della marca. Il diffondersi della tecnologia (da Internet al touchscreen) offre nuove opportunità di investigazione delle equities emozionali della marca, anche in maniera estensiva.
Nel prossimo capitolo parleremo in maniera esaustiva delle metodologie per investigare gli aspetti più “profondi” della marca e del consumatore.
Compito del Consumer Insight è dunque garantire la coerenza dei valori di marca, partendo da una conoscenza delle equities profonde su cui far leva per connettersi con il consumatore.
Il aggio successivo è fondamentale: la diffusione di tale conoscenza all’interno dell’organizzazione.
Saper comunicare in maniera adeguata l’”anima della marca” agli altri interlocutori aziendali, è una qualità preziosa quanto indispensabile per chi si occupa di Consumer Insight.
Benefit 3. Diffondere
I Brand/Marketing manager di solito sono persone che per status sociale e culturale, nonché per abitudini e contesti di vita, sono molto diversi e distanti dal “vero” consumatore.
Spesso quando partecipano ai focus group da dietro lo specchio sono stupiti di quanto siano “reali” i consumatori, di come vestono, parlano e di come usano il loro prodotto.
Il processo di “immedesimazione” che è alla base degli Insights diventa difficile se si appartiene a mondi totalmente separati: occorre un interprete, un traghettatore, che permetta ai Brand e Marketing manager di uscire dalla “prospettiva” finanziaria/gestionale ed entrare in quella psicologica/ emotiva del consumatore.
“Se parli ad un uomo in una lingua che capisce, la comunicazione arriva alla sua testa. Se parli ad un uomo nella sua di lingua, la comunicazione arriva direttamente al cuore” (Nelson Mandela).
E’ proprio questo il talento del Consumer Insight: riuscire a comunicare al cuore e non alla testa dei propri interlocutori, facilitare il processo di comprensione “intuitiva” del vissuto emotivo delle marche.
La suggestione della immagini, lo story-telling, l’osservazione diretta, le espressioni con il linguaggio dei consumatori, l’essenzialità e la semplicità dei concetti, sono tutti strumenti che il Consumer Insight utilizza per “arrivare” al
cuore del proprio interlocutore.
Una tendenza frequente del CI è quella di temere che, spostando l’asse della comunicazione sul fronte delle emozioni, possa perdere la credibilità che gli viene dai numeri.
I numeri sono quelli che ci permettono di misurare l’impatto delle strategie di marca, ma il punto di partenza è sempre il consumatore.
Se non riusciamo a sintonizzare l’organizzazione attorno al suo “sentire”, ogni sforzo di Marketing risulterà inutile o persino dannoso.
Come anticipato prima, la credibilità del Consumer Insight non a dalla sua bravura metodologica nell’analisi di mercato, che è un dato acquisito. Quello che il Management si aspetta da questa figura professionale è la capacità di cogliere gli Insights strategici, è di saper rispondere alla domanda: “come possiamo far crescere la marca?”
Le organizzazioni danno il benvenuto ai Consumer Insight che, diversamente dai classici Ricercatori di mercato, non si limitano semplicemente ad “informare”, ma che sappiano oltretutto “ispirare”
Benefit 4. Potenziare
Nelle aziende che credono nell’importanza del Consumer Insight questa figura professionale partecipa direttamente al tavolo decisionale e gestisce autonomamente un proprio budget, senza ricevere restrizioni od imposizioni da parte del Marketing, proprio perché il suo compito è procurarsi tutte quelle informazioni che servono a rispondere alla domanda: “come possiamo far crescere la marca?”
Le informazioni possono derivare da analisi di trend/di scenario, analisi sui processi decisionali, studi di Usage&Attitude, analisi psicologiche in profondità, o qualsivoglia indagine che non venga realizzata allo scopo di rispondere ad un’esigenza limitata nel tempo.
La prospettiva del Consumer Insight è più ampia della semplice verifica di concetto o di un prodotto, o di una determinata promozione.
In queste aziende avveniristiche si è ati dalla logica della retrospettiva a quella della prospettiva: non ci si ferma più ad analizzare cosa, ma ci si chiede “perché”. Gli sforzi di analisi, di pensiero sono focalizzati sul prevedere il futuro più che sull’analizzare ciò che è già avvenuto.
Abbiamo visto nel primo capitolo, come il processo di immedesimazione possa dare un enorme potere, cioè quello di prevedere in maniera “intuitiva” quello che il consumatore presumibilmente farà in futuro, come reagirà ai diversi stimoli, cosa lo coinvolgerà emotivamente.
L’aver colto l’Insight dell’interlocutore permette di stabilire una “connessione empatica” con lo stesso, permette di relazionarsi con lui anticipandone i desideri.
E questo per il Management di un’azienda costituisce un enorme vantaggio competitivo.
Come sempre nelle scelte c’è anche una motivazione più nascosta, più psicologica, che spinge i Manager delle grandi aziende ad abbracciare la prospettiva del Consumer Insight: il bisogno di “ispirazione”.
Il Top Management da un lato è sempre più vittima di quel buzzing informativo di cui parlavamo, inondato da informazioni ridondanti su cosa non ha funzionato, dall’altro lato è imbrigliato sempre più in gabbie finanziarie che riducono la prospettiva a misure tattiche, “cosmetiche” direi, di breve periodo.
Tutto ciò rischia di minare profondamente la motivazione, la ione per i grandi obiettivi.
La logica del Consumer Insight, con il grande potenziale di ispirazione e di trasformazione che comporta, è in grado di ridare prospettiva, ione e motivazione al Management.
Tornare a parlare di “emozioni” e non solo di target finanziari, prevedere e costruire il futuro delle marche per lasciare il segno, diventa per i nostri Manager una boccata di aria fresca che allarga l’orizzonte.
L’ispirazione condivisa unisce i reparti dell’azienda attorno ad un obiettivo comune, “sentito” da tutti, dall’amministratore delegato fino al front-office. Ciò fa sì che le strategie di marca abbiano un’elevata chance di essere poi effettivamente perseguite in maniera sinergica, attraverso tutti i comparti dell’azienda.
L’ispirazione del Consumer Insight, se adeguatamente comunicata, restituisce l’anima alla marca ed la “trasforma”, aprendo nuovi orizzonti di crescita fino a quel momento mai considerati. Da qui il suo potere rivoluzionario.
2.1 Testimonianze
Intervista del 13.01.2014 a Paola Vacchini, Consumer Insights Director EuropeMondelez (ex Kraft Foods), Zurich
Paola Vacchini lavora in Mondelez International presso la sede europea di Zurigo dal 2007 come Director Consumer Insights, a stretto contatto con il top Management delle categorie strategiche. Dal 1992 in Kraft, ha gestito sia da un’ottica di Marketing che da una di Consumer Insight tutte le principali categorie dell’azienda. Considerata “partner” preziosa dal Management, possiede una visione di lungo raggio sull’impatto del Consumer Insight in una grande realtà multinazionale come quella di Mondelez International (ex Kraft Foods).
Qual è il ruolo del Consumer Insight in una grande multinazionale alimentare come Mondelez International (ex Kraft Foods)? Quali sono le competenze richieste a queste figure professionali?
In Mondelez International quello del CIS, che non a caso sta per “Consumer Insights and Strategies”, è considerato un vantaggio competitivo nei confronti della concorrenza.
Lavoro in questa azienda da più di venti anni, ed ho assistito all’evoluzione del ruolo di CIS, nonché alla sempre maggiore importanza strategica che ha assunto nel tempo.
Negli anni ’80 la funzione delle “Ricerche di mercato” veniva vissuta in maniera
ancora molto tradizionale: focalizzata sui dati e sulle ricerche tattiche, si limitava a fornire o al Marketing su richieste specifiche; successivamente negli anni ’90 il reparto ha iniziato a giocare un ruolo più attivo nel Business: non si è più limitato ad osservare i dati, ma ha portato evidenza degli Insight che spiegano i comportamenti del consumatore, fornendo un contributo al Management nei processi decisionali.
Il vero cambiamento avviene all’inizio del 2000, quando il reparto “Ricerche di mercato” viene rinominato “Consumer Insights and Strategies”: non si tratta di un semplice cambio di etichetta, è un vero e proprio cambio di ruolo all’interno dell’organizzazione.
Il focus è sugli Insights, che vengono raccolti proattivamente attraverso le diverse fonti ed opportunamente sintetizzati, per poi essere condivisi all’interno di tutta l’organizzazione, al fine di potenziare delle strategie aziendali sempre più focalizzate sul consumatore.
Oggi in Mondelez International è per il Management stesso una priorità quella di coinvolgere il CIS nel processo decisionale: il contributo atteso è sempre più elevato, oltre a fornire una base conoscitiva del consumatore, ci si aspetta dal CIS la capacità strategica di individuare non solo gli Insights, ma i Foresights, quelle aree di opportunità che costituiscono un vero e proprio vantaggio competitivo sul mercato.
Pur essendo fortemente convinta della funzione strategica che il nostro reparto svolge all’interno dell’organizzazione, devo però essere anche realista. L’evoluzione di ruolo del CIS può avvenire solo a condizione che il Management dell’azienda sia disposto a riconoscere il valore strategico di tale approccio e che il ruolo di base sia soddisfatto.
Quando il bagaglio conoscitivo sul consumatore non è ancora definito, o non è ancora stato opportunamente condiviso all’interno dell’organizzazione, non ha senso di parlare di Foresight: occorre risalire la china gradualmente, attraverso un lavoro quotidiano di partnership tra CIS, Marketing e le altre funzioni aziendali.
Occorre mettere in pista delle competenze che non sono solo tecniche/ metodologiche, ma anche umane non così comuni.
A chi si occupa di CIS in Mondelez International si chiedono delle competenze cha vanno ben oltre l’analisi dei dati, si chiede di:
• “conoscere” il consumatore, ma con una visione allargata, al di là della categoria o al di là del presente
• “connettere”, inteso come “unire i puntini”, mettere insieme dati e fonti diverse in maniera che acquistino senso; ma anche inteso come “connettere persone”, essere in grado di condividere in maniera generosa con tutta l’organizzazione quegli Insights che servono all’azienda per crescere
• “ispirare” le scelte aziendali, attraverso il coinvolgimento ed lo story-telling
• “trasformare”, individuando attraverso i Foresights delle aree di opportunità strategiche che permettono all’azienda di crescere
La nostra sfida come CIS è proprio quella di aiutare l’azienda ad individuare
tempestivamente delle opportunità di business, partendo da una realtà esterna sempre più complessa e dinamica.
Pensiamo ad esempio al potenziale conoscitivo dei cosiddetti “Big data”, grandi database che possono mettere in correlazione tra loro informazioni sul consumatore e sul suo contesto di riferimento, che sono le più ampie e disparate.
La tecnologia ci apre ad un mondo di nuove modalità di esplorazione del consumatore nella sua quotidianità: l’accesso a questi universi informativi offre potenzialmente grandi spunti per raccogliere Insights strategici sul nostro consumatore. Ma senza una chiave interpretava che sappia riconoscere i Foresights strategici per l’azienda, si rischia sempre più di perdersi.
Al CIS è chiesto proprio questo: individuare nell’universo dei dati che si allarga sotto il nostro orizzonte, la chiave di svolta per far crescere il Business.
Se si è sempre più spostati sull’individuare le opportunità di Business, non si rischia di danneggiare le costanti dell’Identità di Marca?
Il processo di Brand Building rimane una costante fondamentale del lavoro di Marketing in questa azienda: senza una chiara identità di marca, non solo nella mente del consumatore, ma anche internamente all’organizzazione si rischia di perdersi. In realtà è proprio attraverso un processo strutturato di Brand Building, ri-sintonizzando continuamente il mondo valoriale della marca con quello del consumatore, che emergono i Foresights.
Uno degli strumenti che usiamo è un workshop aziendale, nel quale viene recuperato tutto il patrimonio che costituisce la storia e quindi l’identità della
marca, ad esempio vecchie campagne pubblicitarie, articoli/riviste, packaging, etc. e viene revisionato da tutto il team che lavora sulla marca. Lo scopo è identificare gli asset valoriali della marca che si vogliono conservare e quelli che invece si è disposti a perdere: il dibattito è lungo e complesso, perché i legami affettivi e le percezioni sono diverse tra i membri del team, ma il risultato è estremamente rilevante.
Il DNA della marca viene chiaramente definito, ma soprattutto “condiviso” in maniera partecipata da tutto il team. E’ proprio riscoprendo il DNA della marca che si può far evolvere strategicamente la stessa in direzione del consumatore, come è avvenuto nel caso di molte marche.
Come si conciliano i Global Brands con gli Insights locali, condizionati dal contesto culturale di riferimento? Da dove si parte, dal micro per arrivare al macro o viceversa?
Il punto di partenza è il consumatore nelle diverse realtà locali, ma gli Insights psicologici profondi in realtà sono delle verità universali.
Prendiamo il caso di Milka: marca leader con una fortissima identità ed associazione valoriale nella mente del consumatore in paesi come la Germania o l’Austria, e marca ancora in fase di sviluppo in Francia.
Ciò nonostante gli Insights psicologici profondi che muovono il consumatore e la sua relazione con la marca sono gli stessi: la voglia di riconnettersi con le persone che si ama, come valore fondante della propria vita, e la possibilità di ritrovare nella dolcezza/tenerezza di Milka l’occasione per farlo. La campagna pubblicitaria “Dare to be tender” (in Italia “Osa essere tenero”) incarna questa strategia ed è rilevante in tutti i paesi, compreso il nostro.
Se gli Insights sono verità universali, tuttavia, è nell’esecuzione della comunicazione di marca che bisogna tener conto delle abitudini o degli asset culturali diversi da paese a paese. Insights globali possono coesistere con esecuzioni locali.
2.2 Case History
“KL”: la sfida dei Global brands
Quello di “KL” è un esempio di come il processo di globalizzazione delle marche non possa avvenire per colonizzazione, ma debba partire dall’analisi degli Insight locali.
Il contesto culturale e quindi valoriale in cui le persone nascono e crescono influenza fortemente la modalità con cui le informazioni vengono recepite ed organizzate in associazioni di senso.
“KL”, caso di un grande successo in America e in Gran Bretagna, nel 1999 venne lanciato da Kraft in Italia.
Si trattava di un prodotto destinato ai bambini 6-12 anni, a base di crackers, fettine di salumi e formaggio, divisi in comparti, all’interno di una vaschetta di plastica da conservare in frigorifero.
Negli Stati Uniti era nato come un’alternativa divertente al “lunch box” preparato dalla mamma, pratica diffusissima in quel paese come pranzo a scuola. L’Insight su cui si fondava era quello di far sentire i bambini autonomi nel comporsi il proprio panino, sentendosi “grandi”.
La modalità interattiva del “mix & match”, insieme ad una ricca offerta di combinazioni di prodotto, di gadgets e di giochi mediatici, rendevano “KL” un
prodotto divertente e “cool”, da esibire ai compagni di scuola.
Non essendoci in Italia il lunch box, perché i nostri bambini avevano l’abitudine di mangiare a casa o nelle mense scolastiche, venne proposto come “merenda”: la prima merenda salata confezionata sul mercato. Il presupposto era che l’Insight su cui si fondava “KL” fosse ugualmente rilevante.
Ma il mondo valoriale della merenda ha codici completamente diversi: la merenda è l’emblema del ritorno a casa, è la rassicurazione dell’abbraccio della mamma, la coccola dopo una giornata di impegno e rapporti difficili con il mondo esterno.
E’ il mondo del pane e Nutella. Quello che il bambino cerca nella merenda a casa è l’opposto dell’autonomia: la gratificazione viene proprio dalla coccola regressiva, dalla merenda preparata con amore dalla mamma.
Se invece la merenda avviene fuori casa, a metà mattina a scuola oppure prima dello sport, quello che viene cercato è la ricarica veloce di energie e la praticità, unita alla leggerezza. E’ il terreno degli snack al cioccolato, ai cereali o alla frutta.
“KL” invece era sostanzioso, salato, e decisamente poco pratico.
Persino l’idea che l’interattività con il prodotto, da comporre con le mani, potesse essere divertente per i bambini non trovava alcun riscontro nella cultura italiana: l’idea di sporcarsi le dita veniva rifiutata spesso dagli stessi bambini, resistenza che avrebbero superato solo per merende molto più gratificanti, come le patatine.
Infine a “KL” mancava tutta l’area di rassicurazione nutrizionale per le mamme, così importante nella nostra cultura, e trasmessa in maniera valoriale ai bambini stessi.
Se nella cultura anglosassone il “pester power” è una pratica assodata, il bambino italiano a partire dall’età scolare è consapevole che non basteranno dei capricci, per far cambiare idea alla mamma riguardo al cibo.
Nonostante fortissimi investimenti pubblicitari e promozionali da parte dell’azienda, e nonostante il sostegno da parte della distribuzione, che vedeva nella “prima merenda salata confezionata” una possibilità di differenziazione, “KL” non riuscì mai ad entrare nel set mentale dei consumatori. Dopo pochissimi anni dal lancio venne ritirato dal mercato, non solo in Italia, ma anche negli altri paesi europei appena colonizzati.
Bibliografia
Babiloni F., Meroni V.M., Sorenzo R. (2007), Neuroeconomia, Neuromarketing e Processi decisionali, Springer,
Bauman Z. (2007), Consumo, dunque sono, Editori Laterza, Bari
Fabris G.P., Societing, EGEA, 2009
Fabris G., Minestroni L. (2004), Valore e valori della marca. Come costruire e gestire una marca di successo, Franco Angeli, Milano
Fortini-Campbell L. (2001) , Hitting the Sweet Spot: How Consumer Insights Can Inspire Better Marketing and Advertising, Copy Workshop, Pennsylvania State University, USA
Scibilia S.(2010), Human brand. Le strategie di marca e i sentieri che hanno un cuore, Fausto Lupetti Editore, Bologna
Semprini A. (2013), La marca postmoderna. Potere e fragilità della marca nelle società contemporanee, Franco Angeli, Milano
Trevisani D. (2003), Comportamento d’acquisto e comunicazione strategica.
Dall’analisi del consumer behaviour alla progettazione comunicativa, Franco Angeli, Milano
Vitale D. (2006), Consumer Insights 2.0: How Smart Companies Apply Customer Knowledge to the Bottom Line, Paramount Market Publishing, USA
Articoli
Why Buy? The Role of Neuromarketing in Understanding Consumer Behaviour, N.Pekala, Marketing Matters Newsletter, 2/27/2009
Riferimenti tematici/ siti
Journal of Consumer Behaviour- An International Research Review, by Peter Nuttall, Simon Pervan, John Wiley & Sons Ltd.
3. Quali sono le tecniche metodologiche adatte a far emergere l’Insight
L’Insight è vero che arriva come un’illuminazione, l’idea “Ah-Aa” viene quando meno te lo aspetti, ma alla base della sua genesi c’è una lunga gestazione, uno studio approfondito del consumatore e del suo sentire.
Albert Einstein sarà arrivato al suo E=mc2 in un flash di ispirazione, ma prima di quel momento di rivelazione, ha dedicato anni e anni di studio alla matematica e alla fisica.
Un Insight arriva più facilmente ed efficacemente se “contestualizzato”, se risponde ad una domanda, ad un problema – è il processo mentale per risolverlo che è rivoluzionario, non il problema in sé.
Il lavoro del Consumer Insight è un po’ come un “patchwork”, mette insieme tra loro le metodologie e le fonti più disparate, componendole in maniera innovativa e creativa, per formare un quadro che ha senso proprio nella sua interezza.
L’ispirazione può venire da fonti diverse: dall’analisi di semplici dati di vendita, da dati di consumo, da tracking pubblicitari, da test di concetto e/o di prodotto, persino da modelli statistici, più facilmente da U&A (studi di Usage & Attitudes della categoria), analisi di scenario/trend e dati sui comportamenti d’acquisto.
L’ispirazione può essere generata attraverso contesti diversificati: non solo dati interni all’azienda, ma anche blog, social network, community tematiche, ascoltando i racconti spontanei del consumatore sulle marche e sulle sue esperienze.
Capita ad esempio che i Brand Manager più attenti facciano personalmente del “mistery shopping” nei supermercati, posizionandosi davanti allo scaffale della propria marca per ore, al fine di ascoltare dal vivo i commenti spontanei del consumatore!
Infine l’ispirazione può venire da prospettive diverse: non solo dal target abituale di consumatori, ma anche da quelli diversi o anomali.
Spesso ci focalizziamo sull’acquirente del nostro prodotto e ci perdiamo gli Insight che vengono dalle altre figure che hanno a che fare con quel prodotto; ad esempio per gli alimentari, spunti interessanti possono venire da cuochi, camerieri, operatori del catering, food bloggers, etc.
In base a quanto appena affermato, chiunque può raccogliere gli Insight sul consumatore, ed in parte questo è vero.
Interessante è il caso di un famoso consulente di Marketing, tale Summit Roy, che ha creato una metodologia per rilevare gli Insight, “The Aha tree”, basandosi semplicemente sulle osservazioni durante i suoi viaggi tra America ed India.
Quello che Summit Roy propone, e che le aziende dovrebbero fare, è incentivare l’utilizzo dell’emisfero destro nelle persone di Marketing, affinché possano sensibilizzarsi, sintonizzarsi alla prospettiva del consumatore. Questo tipo di approccio potenzierebbe enormemente la capacità creativa di tutte le figure aziendali nel trovare soluzioni innovative ed adeguate.
Alcune aziende organizzano dei veri e propri “Consumer Immersion days”: per un giorno, non solo i Brand/Marketing manager, ma anche le altre figure aziendali che lavorano sulla marca, si “immergono” nella realtà quotidiana del proprio consumatore, chiacchierando con lui, sul comodo divano di casa sua, oppure osservandolo nella sua cucina, o ancora accompagnandolo a fare la spesa.
Altre volte vengono organizzati dei “Blog tematici”, come quello creato da Kraft Kitchen: nel blog i consumatori possono interagire, caricando le loro ricette, scambiandosi consigli di cucina, o partecipando a gare di cucina.
Nel Blog sulle macchine da caffè, invece, i bloggers vengono stimolati dal Marketing delle aziende sponsor a commentare e confrontare le diverse marche, nonché a raccontare attraverso immagini e testi le loro esperienze personali legate al consumo di caffè.
La capacità creativa che segue questi momenti di immersione nella realtà percettiva del consumatore è incredibile e stimola sicuramente i processi di innovazione, oltre a fornire un ottimo strumento di comunicazione “virale” sulla marca sia esterna che interna all’azienda.
Tuttavia l’orientamento al Consumer Insight non è semplicemente questo: per investigare adeguatamente il “sentire profondo” delle persone, andando al di là delle dichiarazioni razionali e socialmente accettabili, occorre l’applicazione di metodologie di ricerca appositamente studiate, nonché la capacità interpretativa dei risultati, entrambe frutto di competenze specifiche.
Le scienze psico-sociali ci insegnano che gli esseri umani sono perennemente in lotta tra la voglia di esprimere la loro interiorità, le loro emozioni e desideri, e la tendenza a conformarsi alle aspettative sociali e alle regole (cosa che fanno
peraltro inconsciamente!).
La nostra mente razionale trova sempre delle giustificazioni per i nostri comportamenti e per le nostre motivazioni emotive, così che ci possiamo presentare agli altri in maniera “socialmente accettabile”.
Se vogliamo catturare gli Insight profondi dei nostri consumatori dobbiamo necessariamente superare le barriere razionali, di accettabilità e conformità sociale che le persone normalmente mettono in atto, quando viene loro chiesto il “perché” di certe scelte.
La scienze in questi anni hanno studiato dei validissimi strumenti di analisi del sentire umano, che permettono di attivare la parte irrazionale della nostra mente, dove sono presenti i valori che ci guidano ed i bisogni inespressi.
Attraverso queste tecniche le persone vengono riportate ad uno stato regressivo, pre-verbale e scevro da condizionamenti sociali, dando così libera espressione alle emozioni profonde che guidano il nostro agire.
Le tecniche sviluppate in ambito scientifico sono state riadattate e riutilizzate dalle ricerche di Marketing.
Gli strumenti impiegati sono numerosi e si servono per lo più di metafore, simboli, analogie, immagini, associazioni, giochi, colori, storie raccontate, per superare le barriere del linguaggio e della razionalità.
I più potenti sono quelli che favoriscono il processo di immersione e di immedesimazione con il nostro consumatore, principio cardine per un cambio di prospettiva.
L’osservazione e le interviste etnografiche
Questi strumenti sono stati presi in prestito dall’antropologia culturale, che ha lo scopo di studiare le interazioni tra il sistema valoriale delle persone e quello dell’ambiente culturale in cui sono inserite.
Il punto di partenza è il “contesto”: attraverso l’osservazione dell’ambiente con cui le persone interagiscono, possiamo capire qual è il loro sistema valoriale.
Il primo contesto di riferimento per l’essere umano è la casa: le osservazioni presso le case degli intervistati perciò possono darci moltissime informazioni circa il loro mondo valoriale e relazionale. La struttura della casa, i colori, lo stile di arredamento, la disposizione dei mobili, i quadri, gli oggetti, le tende, tutti gli elementi di una casa, soprattutto nel caso delle donne, prime responsabili degli acquisti domestici, parlano di loro, del loro “sentire”.
Dall’osservazione delle case di mamme con bambini piccoli, ad esempio, si possono intuire molte cose circa il tipo di rapporto che queste hanno con i loro bambini.
Ci sono mamme molto curate ed eleganti, che ricevono gli ospiti nel loro salotto ordinato, essenziale, fatto di pochi oggetti e soprammobili, nel quale spicca una foto incorniciata del loro bambino. Sono mamme che hanno un amore “progettuale” nei confronti del figlio, pertanto tengono ben distinti gli spazi degli
adulti da quelli dei bambini, anche a livello mentale.
Ci sono invece case piene di colori e di oggetti divertenti, dove il salotto è invaso da giocattoli: si tratta in questo caso di mamme solari, un po’ bambine anch’esse, che cercano di giustificarsi per non essere riuscite ad imporsi con i loro bambini, e confinare i giochi nella stanza dei figli.
Ci sono padrone di casa che ricevono il proprio osservatore in salotto, e signore che prediligono la cucina, o addirittura la stanza dei figli, come “stanza sociale” della casa.
Ci sono persone che cercano la luce, la visione dell’esterno e pertanto non usano le tende, ed altre che invece considerano la casa il loro “guscio segreto” nel quale rifugiarsi per scappare alle difficoltà poste dal mondo esterno.
La casa parla di noi, del nostro modo di essere in maniera preponderante, oltre ogni logica descrivibile razionalmente, anche se poi a livello logico cerchiamo sempre di dare una spiegazione.
Durante la fase di osservazione, l’intervistatore/osservatore chiede alla padrona di casa di accompagnarlo nella visita. Attraverso il racconto libero degli oggetti che hanno più rilevanza per lei, che si tratti di una foto, di un quadro, o di un sopram-mobile, la persona inizia a svelare se stessa, la propria scala di valori, cosa la rende felice e la coinvolge emotivamente.
A questo punto segue l’intervista etnografica vera e propria, che ha lo scopo di descrivere con il linguaggio dell’intervistata, il suo “sistema valoriale”, le sue “motivazioni interne”.
La persona viene fatta mettere il più possibile a proprio agio, nella stanza della casa dove preferisce stare, e le vengono rivolte domande generali, come:
parlaci un po’ di te, chi sei, cosa fai nella tua vita quotidiana
se le pareti di questa casa potessero parlare, cosa direbbero di te..
quali sono i tuoi sogni nel cassetto, cosa ti rende felice, cosa ti fa arrabbiare
qual è il miglior complimento che ti possano fare e qual è il peggior insulto
qual è la persona che ammiri di più, quali sono le cose di cui vai orgogliosa
quali sono le tre cose che contano di più nella tua vita
descrivi la tua vita con uno “slogan”, etc.
Sarà la persona intervistata a scegliere su cosa soffermarsi maggiormente, a guidare il flusso: va solo ascoltata, accolta nelle sue risposte.
Queste tecniche di intervista non prevedono mai domande chiuse, l’unica
domanda che ha senso rivolgere è “perché?”, allo scopo di comprendere meglio le motivazioni che si nascondono dietro le affermazioni.
Le interviste sono di solito condotte da psicologi, professionisti di Consumer Insight, tuttavia è un esercizio utile da sperimentare anche per il Marketing o per altre funzioni aziendali, perché permette di “immedesimarsi” con il proprio consumatore in maniera estremamente efficace.
Dopo aver investigato il “quadro esistenziale”, l’intervista prosegue indagando le relazioni significative, per arrivare a scoprire, attraverso queste, il legame emotivo instaurato con la categoria prima e con la marca poi.
Nel campo dei prodotti alimentari, le relazioni significative saranno quelle legate alla relazione con i figli e con il marito, alla gestione delle aspettative, al rapporto con il cibo e con il cucinare.
Nel caso di prodotti per la cura personale, verranno approfondite le relazioni esterne, il rapporto con lo specchio, il mondo del bagno, il rapporto con il proprio corpo e con l’igiene.
Il sistema valoriale del consumatore si riflette nelle relazioni significative, che a loro volta si riflettono nella categoria “mentale” in cui opera la marca e nella percezione della marca stessa.
La definizione da parte dell’intervistata della categoria “mentale”, che quasi mai corrisponde a quella merceologica, è un aggio fondamentale per la comprensione del ruolo della marca all’interno del suo “contesto di riferimento”.
Lo scopo finale dell’intervista etnografica è proprio quello di andare a comprendere se esiste un’area di connessione tra sistema valoriale interno, contesto di riferimento e valori di marca. L’Insight al quale agganciarsi per massimizzare la relazione con il consumatore risiede esattamente in quell’area.
Per far emergere il sistema valoriale “profondo” di una marca, oltre alle interviste etnografiche, esistono altre tecniche utilizzabili anche in discussioni in piccoli gruppi (diadi-tradi).
Le tecniche proiettive
Queste tipologie di tecniche sono da numerosi anni impiegate nelle ricerche qualitative per superare le barriere razionali degli intervistati e comprendere le emozioni che guidano le loro scelte.
Si tratta di trasferire su un oggetto, uno stimolo (di solito visivo) delle sensazioni che rappresentino in questo caso la marca o la categoria che si sta analizzando.
L’intervistato, descrivendo gli oggetti/stimoli anziché la marca, viene sgravato dall’imbarazzo sociale di dichiarare apertamente le proprie emozioni rispetto a quella marca.
Lo psicologo Daniel Kahneman, premio Nobel nel 2002, ha dimostrato che la mente umana incorpora due sistemi che lavorano a due differenti velocità: il sistema uno è quello “intuitivo” e prende le decisioni in automatico basandosi sulle emozioni, il sistema due è più lento, pigro, è che quello che razionalizza e comunica le decisioni prese precedentemente dal sistema uno.
Le tecniche proiettive, veloci, dirette, che lavorano per immagini e simboli, prima che con le parole, attingono proprio al sistema uno, quello intuitivo delle emozioni e che di fatto guida il nostro processo decisionale. Solo in una fase successiva si chiede agli intervistati di motivare le loro scelte intuitive in maniera logica.
Le immagini, i colori, i simboli sono fortemente radicati nell’”inconscio collettivo” ed hanno delle chiavi di lettura comuni, che permettono agli psicologi di spiegare il significato remoto dell’associazione tra la marca ad un determinato colore, piuttosto una determinata forma o simbolo.
Questo da’ facoltà agli psicologi di poter interpretare le risposte del sistema uno in maniera distinta, prima che vengano distorte dalle razionalizzazioni del sistema due.
Le tecniche proiettive classiche lavorano attraverso metafore e analogie: prevedono l’utilizzo delle libere associazioni, ad esempio a libri (se la marca fosse un libro..), a film famosi, a personaggi dei cartoni, a persone reali o inventate, ad animali, a luoghi/città, e a tutto ciò che la fantasia dell’intervistatore suggerisce.
Un’altra modalità è quella dei collage, nella quale si chiede agli intervistati di
ritagliare e comporre liberamente delle immagini, tratte da riviste messe a loro disposizione, per raffigurare la marca oggetto di analisi.
Potente è anche l’associazione con i colori, chiedendo magari agli intervistati di disegnare loro stessi la marca o la categoria utilizzando i colori in maniera regressiva.
Infine esistono i giochi di associazione ad un set simbolico pre-definito di immagini o forme che viene mostrato agli intervistati: anche in questo caso, come per i colori, si attinge ad un “linguaggio di significati” conosciuto, già sperimentato e codificato.
Proprio per questo motivo, il set simbolico predefinito ed i colori sono spesso impiegati quando si vuole effettuare un confronto valoriale tra marche, oppure verificare come cambia la percezione della marca nel tempo.
Negli Stati Uniti, l’evoluzione tecnologica delle tecniche proiettive prevede una serie di giochi interattivi da somministrare alle persone intervistate attraverso il PC oppure lo smartphone. MindSight di Forbes Consulting, ad esempio, parte dal presupposto che le reazioni emotive avvengono entro i trequarti di secondo: già dopo un secondo di esposizione ad uno stimolo, subentra la giustificazione logica che offusca l’autenticità delle reazioni.
L’utilizzo di device tecnologici come lo schermo di un PC, di un tablet o di uno smartphone, assicura la velocità di somministrazione degli stimoli: Mindsight pertanto sottopone agli intervistati, alla velocità di meno di un secondo, un set di immagini chiedendo loro di associarle a determinate marche o categorie. Le immagini proposte sono codificate e valide universalmente, pertanto in grado di superare le barriere culturali.
Nei report di Forbes Consulting le marche/categorie vengono rappresentate attraverso Emotional Infographics, quindi attraverso “nuvole” (clouds) di immagini e parole, di dimensioni diverse a seconda della frequenza delle risposte emozionali riscontrate.
Sempre dagli Stati Uniti vengono i cosiddetti “Metagame”, vale a dire giochi interattivi per smartphone, da fare singolarmente o in gruppo, utilizzati per raccogliere le reazioni emotive degli intervistati, in maniera divertente e coinvolgente. In particolare l’uso del touch screen permette molto agevolmente e velocemente di associare immagini e spostarle, comporle a piacimento, o addirittura costruire delle vere e proprie storie, come nel caso del “Narrative Logic” (interactive storyscape technique). Come in tutti i giochi interattivi, gli intervistati ottengono dei punteggi (ad es. tante più libere associazioni alla marca crei, tanto più alto è il tuo punteggio), che servono da incentivo alla partecipazione.
Al di là della modalità di somministrazione, che varia anche a seconda del set culturale di riferimento degli intervistati, le tecniche associative sono un utile strumento per indagare le percezioni “profonde” di un sistema valoriale complesso quale quello della marca, saltando completamente il blocco o la distorsione che avviene da parte della logica razionale.
Abbiamo detto più volte, tuttavia, che la marca è una relazione che si instaura tra il sistema valoriale del consumatore e quello percepito della stessa: tanto maggiore è l’area di sovrapposizione tra i due, tanto più intensa sarà la relazione.
Le tecniche proiettive più efficaci sono quelle che cercano di cogliere anche l’intensità di tale relazione: tra le più potenti cito le “costellazioni” e il “fairytale”.
La teoria delle costellazioni nasce proprio allo scopo di lavorare sulle percezioni relazionali tra soggetti (in primis in ambito familiare) con uno scopo terapeutico: la tecnica poi si è estesa a tutto il campo delle relazioni sistemiche, soprattutto nell’ambito delle organizzazioni lavorative.
Solo da pochi anni queste tecniche vengono impiegate in chiave di Marketing per investigare le relazioni tra il vissuto del consumatore e quello della marca, o dell’azienda o di qual altro elemento si voglia investigare.
Nella tecnica delle costellazioni prima di tutto l’intervistato sceglie liberamente la personificazione più adatta a rappresentare il soggetto marca o se stesso o l’azienda. Dopodiché provvede a disporre le diverse personificazioni nello spazio: sulla base di una serie di elementi, quali la posizione, la direzione, la convergenza, il contatto visivo e fisico, etc. lo psicologo sarà in grado di interpretare l’intensità e la qualità della loro relazione percepita.
Questa tecnica permette anche di mettere in gioco alternative di marca e cambi di strategia sotto forma di nuove personificazioni, che verranno posizionate a loro volta nello spazio, simulando nuove possibili relazioni.
Interessante è la tecnica che utilizza Ferdinando Boschi di ART per rappresentare le costellazioni, servendosi dei Playmobil.
All’intervistato vengono proposte diverse tipologie di personificazioni: l’adulto, il bambino, l’uomo, la donna, e diverse opzioni di colori, in modo da associare la scelta del personaggio ad altre tecniche proiettive.
Poi l’intervistato posiziona liberamente sul tavolo i Playmobil scelti per rappresentare i diversi elementi dell’analisi: la marca, se stesso, oppure ad esempio lo spot pubblicitario appena visto. Quello che viene osservato è la vicinanza, la direzione, la posizione delle braccia, etc..
Successivamente i vari Playmobil vengono fatti interagire, dialogare tra loro: è attraverso questi “scambi” che lo psicologo è in grado di interpretare le relazioni non solo esistenti, che anche quelle eventualmente prefigurate come scenari possibili.
Un’altra tecnica “profonda”, che ovviamente richiede conoscenze interpretative specifiche, è quella del Fairy-tale.
Si chiede agli intervistati di tornare un po’ bambini, di liberarsi quindi della sovrastruttura sociale e razionale tipica degli adulti, ed inventare una fiaba che abbia come personaggi loro stessi, la marca o qualsiasi altro elemento relazionale si voglia analizzare. Le fiabe hanno delle sequenze e delle funzioni dei personaggi analoghe in tutto il mondo, hanno una morfologia chiaramente codificabile, perché appartengono all’inconscio collettivo dell’umanità (come i miti).
L’utilizzo della fiaba come tecnica proiettiva ancora una volta permette di far emergere le emozioni profonde delle relazioni percepite, e allo stesso tempo di trovare una chiave interpretativa solida.
La narrazione oltretutto ha un’interessante dimensione temporale, che manca alle altre tecniche: attraverso la sua cronologia, permette di ricostruire il processo di “creazione di senso” che avviene nel cervello umano, e lascia prefigurare scenari futuri di possibili evoluzioni nella relazione marca-consumatore.
Nel caso di “H”, precedentemente descritto, sono state utilizzate numerose di queste tecniche proiettive per far emergere le variabili emotive/calde della marca, quegli elementi della brand equity che altrimenti non sarebbero mai emersi con le tecniche di analisi classiche.
E’ sempre grazie a queste tecniche che si è potuto individuare lo Sweet spot, il punto chiave nella psicologia del consumatore, a cui agganciarsi per massimizzare la connessione empatica con la marca. Attraverso il fairy-tale, poi, è stato possibile ipotizzare scenari alternativi per il mondo valoriale di “H” e più significative modalità di relazione marca-consumatore.
Il neuro-Marketing
Le scienze neuronali e la neuro-psicologia in particolare, negli ultimi anni, hanno arricchito sensibilmente il patrimonio conoscitivo di come noi esseri umani elaboriamo le informazioni e le esperienze sensoriali.
Applicando le tecniche delle neuroscienze al Marketing, sono state sviluppate diverse metodologie per “misurare” le reazioni emotive del consumatore, ad esempio di fronte ad uno spot pubblicitario.
Queste metodologie vanno dalla misurazione delle attività cerebrali del cervello (risonanza magnetica, elettroencefalogramma) alla misura delle reazioni corporee (sudorazione delle mani, battito cardiaco), fino alla combinazione dei diversi segnali biometrici, al fine di quantificare sia l’intensità dell’emozione, che la sua piacevolezza.
Rappresentando le emozioni con degli assi cartesiani, nei diversi quadranti avremo: emozioni intense positive di coinvolgimento, emozioni intense negative di repulsione, emozioni deboli positive di piacevolezza, emozioni deboli negative di distacco,tristezza.
Ai soggetti in test, dopo aver indossato le opportune apparecchiature biometriche, viene sottoposto uno spot pubblicitario: le macchine sono in grado di misurare le reazioni emotive ai singoli frame del filmato.
Questa tecnica fornisce ottime informazioni non solo riguardo l’attenzione, la memorizzazione dello spot, ma anche l’intensità/ piacevolezza delle emozioni che specifici stimoli (immagini, parole, musiche) contenuti nello spot provocano in noi, prima che la parte razionale le rielabori per dar loro un senso logico.
Sicuramente le tecniche del neuro-Marketing, dopo anni di collaudo, hanno raggiunto buone capacità di misurazione delle emozioni, ma da sole non bastano a comprendere il complesso mondo valoriale della marca: costituiscono un valido punto di partenza per un’esplorazione più approfondita.
Se il neuro-Marketing ci dice quando e quanto un’emozione viene provata, è la sinergia con le tecniche proiettive descritte prima, che ci spiega il perché una determinata emozione viene attivata e quindi come possa essere utilizzata per potenziare il legame con la marca.
Spesso nei confronti delle metodologie di analisi delle emozioni umane, il Management deve fare un atto di fiducia notevole, perché non danno la certezza del numero e soprattutto la solidità dei grandi numeri.
Tutte queste tecniche che lavorano in “profondità” si basano sulla convinzione che gli schemi percettivi/emozionali profondi non si discostano così tanto da individuo ed individuo: a fronte di comportamenti e scelte simili, corrispondono processi mentali simili.
Cruciale è pertanto la scelta del target di riferimento che scegliamo di analizzare in profondità.
Nel caso di “H”, ad esempio, è stato molto utile investigare in maniera approfondita i non s della marca, però all’interno di un target strategico di riferimento, prima opportunamente quantificato e quindi accertato come potenziale, almeno da un punto di vista numerico: coloro che bevevano 3-4 caffè al giorno e si fermavano dopo le quattro del pomeriggio (medium s di caffè).
Se, al loro posto, fossero stati intervistati gli heavy s, dipendenti dalla “forza” del caffè e non vincolati dagli effetti negativi di un eccessivo consumo, non sarebbero mai emersi gli Insight rilevanti per riposizionare la marca verso la “libertà di un buon caffè ogni volta che vuoi”.
Il processo decisionale di scelta del target strategico, come vedremo nel prossimo capitolo, è basato su forti presupposti quantitativi: la sua potenzialità deve essere prima di tutto misurabile. Solo uno volta assodata la scelta strategica, si andrà a verificare, servendosi delle metodologie appena descritte, se il target di riferimento scelto sia effettivamente “motivabile”, vale a dire se sia possibile trovare un aggancio al suo sistema valoriale.
Il prossimo capitolo partirà proprio dalla scelta del target strategico di riferimento, come o fondamentale per poter adottare tutto il processo di Marketing del Consumer Insight.
Bibliografia
Babiloni F., Meroni V.M., Sorenzo R. (2007), Neuroeconomia, Neuromarketing e Processi decisionali, Springer
Fortini-Campbell L. (2001) , Hitting the Sweet Spot: How Consumer Insights Can Inspire Better Marketing and Advertising, Copy Workshop, Pennsylvania State University, USA
Mariampolski H. (2006), Ethnography for Marketers: A Guide to Consumer Immersion, SAGE, USA
Rapaille C. (2006), tradotto da Gurioli M., Il codice nascosto. Perché viviamo, compriamo, amiamo. E perché lo facciamo in questo modo, Edizioni Logos Nuovi Mondi, 2006
Stone M., Bond A., Foss B. (2004), Consumer Insight: How to Use Data and Market Research to Get Closer to Your Customer, Kogan Page Publishers
Zaltman G. (2003), How Customers Think: Essential Insights Into the Mind of the Market, Harvard Business Press, USA
Zaltaman G., Zaltman L.H. (2008), Marketing Metaphoria: What Deep Metaphors Reveal about the Minds of Consumers, Harvard Business Press, USA
Articoli
en have made a marketing guru of Daniel Kahneman, a prizewinning psychologist The Economist, News, Business, Dec 2013
Why Buy? The Role of Neuromarketing in Understanding Consumer Behaviour, N.Pekala, Marketing Matters Newsletter, 2/27/2009
Toward a unified model of human motivation, Forbes David L., Review of General Psychology, June 2011
Riferimenti tematici/ siti
Hellinger Bert, Costellazioni familiari e sistemiche
http://www.costellazionifamiliariesistemiche.it/costellazioni/co stellazioniarchetipiche
Insight Innovation Competition- Greenbook
http://iicompetition.org/ideasboard
Summit R., The A-ha Tree
http://simpliflying.com/2009/did-you-know-aha-trees-grow-at-airports-a-greatway-to-do-brand-research/
4. L’Insight applicato al processo di Marketing
Fino a questo momento l’approccio del Consumer Insight è stato inquadrato da un punto di vista concettuale, sottolineando la potenzialità in termini di impatto sulla crescita di business.
Ma quello del Consumer Insight non è semplicemente un approccio teorico, è prima di tutto un concreto processo aziendale che, se attuato in maniera sistematica sulla marca, permette di:
accorpare l’organizzazione attorno ad un obiettivo strategico comune e chiaramente identificato
raggiungere gli obiettivi di business che la marca si è prefissata.
Gli step che compongono il processo di Marketing e che verranno analizzati approfonditamente in questo capitolo sono i seguenti:
1. individuazione del target strategico
2. esplicitazione dell’Insight
3. definizione della categoria di riferimento
4. connessione emozionale con i valori della marca
5. la Sfida di Marketing
6. l’obiettivo di comunicazione integrata
Il processo parte sempre da un chiaro e quantificato obiettivo di business per la marca, che può essere convalidato o anche ridefinito dopo la verifica di attuabilità presso il consumatore.
Gli step che compongono il processo sono assolutamente sequenziali, quindi solo una chiara visione del aggio precedente permette di operare efficacemente su quello successivo.
Progressivamente diventa sempre più evidente qual è l’area più potenziale di connessione emozionale tra il consumatore e la marca, l’area sulla quale far leva.
L’obiettivo finale è quello di comunicare al consumatore questa connessione valoriale in maniera integrata e coerente tra tutte le variabili del Marketing mix.
Se l’esecuzione rispetterà l’obiettivo di comunicazione preposto, la crescita di valore scambiato con il consumatore e l’impatto sul business saranno la diretta conseguenza.
Step 1: individuazione del target strategico
Il punto di partenza è il più importante ed è anche quello quantitativamente più misurabile in termini di impatto. L’obiettivo di business della marca viene ridefinito in termini di comportamento di consumo, viene cioè calato nella realtà concreta del mercato.
Facciamo un esempio prendendo come riferimento un’ipotetica marca XX di biscotti che ha, per nostra semplicità, una sola referenza da 250gr.
XX realizza 2.000 tonnellate di vendite all’anno e si è data come obiettivo di business di crescere del +8% a volume, vale a dire di raggiungere 2.160 tonnellate nell’anno successivo.
Prima di tutto trasformiamo le vendite realizzate dalla marca in comportamento di consumo:
Scomposizione tra trial e repeat
Totale marca XX
Famiglie acquirenti- penetrazione % 5% Famiglie acquirenti XX totali ('000) 1150 % trial (acquirenti una sola volta)
60%
% repeaters (acquirenti + volte)
40%
Volumi totali acquistati (tonnellate) 2000 Acquisto medio x famiglia (kg)
1,74
N. medio atti di acquisto
7,0
(ogni confezione di marca XX pesa 0,25kg) Fonte: dati consumer HHP
Le vendite totali della marca XX possono essere scomposte in vendite di Trial, vale a dire vendite realizzate da famiglie che hanno comprato una sola volta nell’arco dell’anno, e vendite di Repeat, realizzate da famiglie acquirenti più di una volta. In questo caso le famiglie Repeaters costituiscono il 40% degli acquirenti.
Sulla base dei dati che abbiamo è possibile ricostruire le vendite di Trial, pari a 173 tonnellate, realizzate da 690 mila famiglie, con un acquisto medio di 1 confezione all’anno.
Scomposizione tra trial e repeat
Trial
Famiglie acquirenti- penetrazione % Famiglie acquirenti XX totali ('000)
690
(=60%*1150)
Volumi totali acquistati (tonnellate)
173
(=690/0,25)
Acquisto medio x famiglia (kg)
0,25
N. medio atti di acquisto 1 (ogni confezione di marca XX pesa 0,25kg) Fonte: dati consumer HHP
Le vendite di Repeat ammontano a 1.827 tonnellate: sono realizzate da 460 mila famiglie con un acquisto medio annuo di 4 kg, vale a dire circa 16 confezioni l’anno.
Scomposizione tra trial e repeat
Repeat
Famiglie acquirenti- penetrazione % Famiglie acquirenti XX totali ('000)
460
(=40%*1150)
Volumi totali acquistati (tonnellate)
1827
(=2000-173)
Acquisto medio x famiglia (kg)
4,0
(=1827/460)
N. medio atti di acquisto
15,8
(ogni confezione di marca XX pesa 0,25kg) Fonte: dati consumer HHP
L’obiettivo della marca XX di crescere in un anno di 160 tonnellate può essere realizzato lavorando sulle vendite di Trial, cercando di aumentare la penetrazione della marca, oppure su quelle di Repeat, aumentando la frequenza di consumo.
Simulando entrambe le ipotesi, nel caso decidessimo di lavorare in termini di Trial, la marca XX dovrebbe far crescere la sua penetrazione in un anno di 637 mila famiglie, ando quindi da una penetrazione di marca del 5% ad una del 7,8%.
Se invece decidessimo di puntare sul Repeat, la marca XX dovrebbe chiedere ai propri consumatori abituali di acquistare una confezione in più all’anno, ando da 16 a 17 confezioni all’anno. Oppure dovrebbe cercare di aumentare il numero di acquirenti repeaters portando la percentuale dal 40% al 44%.
La scelta di puntare su una strategia piuttosto che un’altra è in funzione di un’analisi accurata delle potenzialità di sviluppo della marca XX all’interno della categoria in cui sta operando. Conoscere i comportamenti di consumo degli acquirenti rispetto alla categoria è quindi altrettanto fondamentale.
Nel caso della marca XX se la categoria in cui opera avesse una penetrazione dell’80% e non esistessero particolari barriere, la marca XX avrebbe tutte le potenzialità per crescere in termini di penetrazione, fosse anche solo per una crescita distributiva.
Se l’analisi della categoria dimostrasse che l’acquisto medio dei repeaters è già saturato, perché difficilmente il consumatore compra più di 16 confezioni
all’anno, la scelta da prendere sarebbe piuttosto facile.
Per poter tenere sotto controllo sia il comportamento del consumatore rispetto alla marca, sia quello rispetto alla categoria, è consigliabile utilizzare un’elaborazione statistica a matrice che incroci le due prospettive.
Gli acquirenti della marca e quelli della categoria possono essere analizzati con un livello di dettaglio maggiore o minore, a seconda della solidità statistica (numerosità di casi) sottostante. Nell’esempio preso in esame, possiamo incrociare gli acquirenti ed i non acquirenti della marca XX, con gli Heavy, Medium e Light s della categoria:
Heavy s categoria
Tot. s marca X
Non s marca X
Famiglie 400 mila, acquisto medio 4 kg
Famiglie 3370 mila, acq
Medium s categoria Famiglie 345 mila, acquisto medio 0,8 kg
Famiglie 5055 mila, acq
Light s categoria
Famiglie 405 mila, acquisto medio 0,25 kg Famiglie 8425 mila, acq
Totale
Famiglie 1150 mila, acquisto medio 1,7 kg Famiglie 16850 mila, ac
In questo caso la potenzialità di crescita più semplice sembra essere legata all’allargamento di penetrazione: il target strategico apparentemente più appetibile in termini di volumi generabili è quello degli Heavy s della categoria, non ancora acquirenti della marca XX.
In altri casi dove la marca è leader del mercato e le potenzialità di penetrazione sono già state pienamente sfruttate, sarà più consigliabile una strategia di crescita della frequenza di acquisto/ di consumo, sempre che abitudini di utilizzo della categoria da parte del consumatore offrano un margine di incremento.
Identificare il “target strategico” significa dunque individuare quel gruppo omogeneo di persone che permettono di raggiungere l’obiettivo di business nella maniera più veloce ed efficiente.
L’omogeneità del target deriva da una similarità di comportamenti, alle cui spalle solitamente corrisponde una comunanza di atteggiamenti e di mondi valoriali.
Tuttavia non tutti i target appetibili da un punto di vista quantitativo sono realisticamente raggiungibili dalla marca, non solo per vincoli strutturali della stessa, ma perché semplicemente le persone che appartengono a quel determinato target non sono motivabili.
Riprendiamo per un attimo il caso di “H” esposto nel primo capitolo: sicuramente da un punto di vista volumetrico sarebbe stato più interessante
scegliere come target gli Heavy s di caffè, per allargare la penetrazione di “H”. Purtroppo non erano “motivabili”: il loro sistema valoriale non permetteva alcun aggancio con il mondo valoriale della marca “H”.
Gli Heavy s di caffè abitualmente bevono almeno cinque caffè nell’arco della giornata, anche la sera in quanto non hanno alcun problema ad addormentarsi. Per loro il caffè è una “sferzata di energia” della quale hanno assolutamente bisogno per poter svolgere tutte le attività della giornata, per rendere al massimo delle loro capacità.
Non si tratta tanto di una pausa di piacere, quanto piuttosto di una ricarica: l’attenzione non è posta sull’assaporare il momento, quanto piuttosto sull’effetto energetico della caffeina. Prima si beve, prima si riparte.
A livello valoriale per questo target è importante riuscire a portare a termine gli incarichi e non deludere le altre persone. Siamo molto lontani dal mondo del piacere armonico, della libertà e del protagonismo consapevole dei Medium s scelti da “H”.
Alla luce di quanto appena esposto, la definizione di “target strategico di riferimento” corretta è la seguente: quel gruppo omogeneo di persone, che pensiamo di poter motivare e che permettono di raggiungere l’obiettivo di business nella maniera più veloce ed efficiente.
Nella realtà, anche quando le nostre azioni di Marketing sono estremamente
mirate, la crescita non è guidata esclusivamente dal target strategico (per fortuna direi). Pertanto nel momento in cui viene convalidata la capacità di motivare il gruppo prescelto, è sempre consigliabile verificare anche le possibili reazioni dei target già consolidati e di quelli adiacenti.
Nel caso di “H” è stata comunque verificata la coerenza tra la nuova prospettiva di posizionamento ed il mondo valoriale della marca accordato dai suoi acquirenti storici.
Nessuna marca può pensare di crescere, snaturando completamente il proprio mondo valoriale: questo minerebbe il rapporto di fiducia con la base dei consumatori fedeli. La perdita che deri-verebbe dalla base consolidata difficilmente potrà essere compensata da eventuali nuove acquisizioni.
Step 2: esplicitazione dell’Insight
Individuato il target strategico di riferimento, il processo di Consumer Insight prevede l’immedesimazione con il suo mondo valoriale, con il suo quadro esistenziale di riferimento. La sfida è riuscire ad identificare l’Insight che accomuna quel gruppo omogeneo di consumatori e che ne motiva gli atteggiamenti e le scelte (anche di consumo).
L’Insight è psicologico e guida le motivazioni più profonde.
Le motivazioni più profonde, come nella piramide di Maslow, partono prima di tutto dai bisogni fisiologici, di sicurezza, di appartenenza, fino ad arrivare al bisogno di stima e di autorealizzazione.
Interessante è il modello delle motivazioni elaborato da David Forbes per tentare di spiegare gli Insight degli individui. Nel suo MindSight Motivational Model, Forbes divide le motivazioni tra:
-intra-psichiche (legate al sé),
-strumentali (legate al mondo materiale)
-interpersonali (legate al sociale).
A livello “intra-psichico” gli individui vogliono prima di tutto sentirsi sicuri: una volta soddisfatto questo bisogno, gli individui intendono esprimere la propria identità ed unicità nelle scelte. Quando anche questo livello è soddisfatto, il o successivo è la ricerca valoriale del talento e della capacità.
Nella dimensione “strumentale” gli individui, una volta soddisfatto il bisogno base di “acquisizione dei beni materiali”, puntano a coinvolgersi emotivamente nei prodotti che scelgono. Il aggio successivo è la ricerca del successo, in questo caso economico.
Infine nell’area “interpersonale”, il bisogno principale è quello di appartenenza, di sentirsi amati, accettati; una volta soddisfatto, nelle scelte si cerca la cura e la condivisione, e a livello valoriale la stima, il rispetto degli altri.
Se isoliamo nelle matrice di Forbes solamente la riga delle experiences, che riguarda le scelte, anche di consumo degli individui, le motivazioni fondamentali sono: il bisogno di riconoscimento dell’identità/ unicità, quello di coinvolgimento emotivo e quello di condivisione e cura.
In fondo è’ proprio questo l’obiettivo del processo di Consumer Insight: valorizzare l’individuo, stabilendo una relazione di connessione empatica, per anticipare i suoi desideri.
L’Insight è il filtro valoriale attraverso il quale l’individuo “legge la realtà”.
L’Insight rappresenta le lenti con le quali l’individuo percepisce le esperienze conoscitive e sensoriali e le rielabora. E’ attraverso queste lenti che tenderà a riconoscere velocemente ed avvicinare le esperienze emozionali già strutturate nel suo cervello, e ad allontanare quelle dissonanti.
Le Neuroscienze negli ultimi anni ci hanno dimostrato che non ha senso distinguere in maniera netta i processi cognitivi di acquisizione delle informazioni da quelli affettivi di valutazione delle scelte, perché nel cervello umano i due processi sono strettamente collegati.
Sono sempre le emozioni più profonde, quelle radicate nella parte più primitiva del cervello, responsabili di filtrare le informazioni provenienti dall’esterno. Sono le emozioni interne che determinano quali percezioni sensoriali sono importanti per la sopravvivenza del nostro organismo.
Solo in una fase successiva, le reazioni emozionali vengono rielaborate (almeno parzialmente) dalla parte razionale per darne una spiegazione “socialmente accettabile”.
Per questo motivo nel capitolo dedicato alle metodologie sono state approfondite le tecniche che permettono di far emergere le radici emozionali alla base dei nostri processi decisionali, prima che sopravvengano le distorsioni attuate dalla parte razionale.
Grazie all’utilizzo dell’immedesimazione e dell’osservazione, nonché delle numerose tecniche proiettive prima enunciate, è possibile cogliere l’Insight che muove e spiega gli atteggiamenti ed i comportamenti del target di riferimento.
Il aggio più delicato è la sintesi e comunicazione dell’Insight.
Cogliere l’Insight e riuscire a comunicarlo vanno di pari o: per riuscire a descriverlo in poche parole o immagini, per riuscire a raccontarlo, è necessario averlo rielaborato ed interiorizzato.
Saper esprimere l’Insight con essenzialità è la misura della nostra capacità di averlo effettivamente colto, catturato. Saperlo esprimere con suggestività è la misura della nostra capacità di ispirare e di coinvolgere.
Solitamente viene espresso in prima persona, come se fosse il consumatore stesso a parlare di sé, in poche parole ma salienti. Spesso viene affiancato da immagini (simboli, foto, disegni) e metafore che aiutano il processo di comprensione più per immedesimazione, che per comprensione logica.
Nel caso di “H”, l’Insight venne espresso così:
“Vedo la mia vita come un quadro, pieno di colori in armonia tra loro; io sono il pittore del quadro. Ho fatto tesoro delle diverse esperienze senza mai subirle, ma scegliendo di andare loro incontro, per poi integrarle nel mio quadro esistenziale in maniera armonica.”
Il target di riferimento di “H” riguardava persone emotivamente risolte, con un buon livello di auto-stima, che volevano essere protagoniste delle loro vita, sentendosi libere di scegliere, senza scendere a compromessi.
Erano amanti dello star bene, della piacevolezza, ed erano dotati di grande senso estetico: per lo più amanti dell’arte, della lettura e della musica (jazz).
A sostegno delle parole vennero prese delle immagini di alcuni quadri presenti nelle case di queste persone, che parlavano dell’Insight in maniera diretta, intuitiva. Si trattava di spirali concentriche o composizioni che riportavano patchwork di colori e forme anche diversi tra loro, ma che così composti delineavano un’armonia generale piacevole, rilassante, positiva, ed energica al tempo stesso.
Step 3: definizione della categoria di riferimento
Il “contesto di riferimento”, diversamente dalla categoria merceologica, non può essere definito a priori, ma segue i criteri mentali del consumatore.
La comprensione empatica dei processi decisionali è uno strumento potente per definire il contesto competitivo con il quale la marca opera nella mente del consumatore.
Facciamo un esempio: una marca di verdure surgelate che volesse indagare la relazione che la consumatrice ha instaurato con la categoria, potrebbe accorgersi che nella mente del suo interlocutore la categoria di riferimento non è quella strettamente merceologica.
In base ai processi decisionali della consumatrice, il contesto di riferimento è quello dei “contorni per i secondi piatti”. Nella sua logica verdure fresche, surgelate e in scatola concorrono tra loro ad occupare il ruolo di “contorni”, anche se nel punto vendita vengono posizionate in luoghi diversi.
Questo ha delle implicazioni pratiche considerevoli: ad esempio se nel flusso di spesa del supermercato abituale dell’intervistata le verdure fresche e quelle in scatola vengono prima, rimarrà poco spazio nel carrello per le verdure surgelate.
La definizione del contesto di riferimento in base ai processi mentali del consumatore, tuttavia offre anche grandi opportunità di crescita e di differenziazione per una marca, perché allarga l’orizzonte delle possibilità.
Per Kraft, ad esempio, l’aver appreso lo schema mentale che utilizza il consumatore quando deve scegliere un formaggio da inserire nel proprio carrello, ha fornito un “cambio di prospettiva” estremamente potente. L’adozione di tale prospettiva ha rivoluzionato il set competitivo e le strategie di crescita delle principali marche.
Sulla base dell’osservazione del consumatore, seguita da interviste in profondità, è emerso che il formaggio può assolvere a tre funzioni diverse in cucina:
-può essere un “componente” della ricetta, quindi serve ad arricchire di sapore o ad amalgamare gli ingredienti,
-può essere “spalmato/inserito” sul pane o nei toast ed essere consumato come snack o come pasto leggero,
- può essere consumato “così com’è” come un vero e proprio secondo piatto, magari accompagnato da un contorno.
A seconda della funzione mentale che il formaggio ricopre, le caratteristiche sia razionali-funzionali che valoriali ricercate nella scelta saranno sostanzialmente diverse.
Per un formaggio come Sottilette o come Philadelphia cambia quindi sia il set competitivo che la rilevanza strategica a seconda che venga proposto come “componente” delle ricette, “spalmato/inserito” nel panino o mangiato così “com’è”.
Adottando questo cambio di prospettiva, Philadelphia e Sottilette sono uscite dalla logica limitata della categoria merceologica, rispetto alla quale erano leader assoluti, ed hanno allargato l’orizzonte delle opportunità sia in termini di rilevanza per il consumatore che di souce of volume.
Anche nel caso di “H”, l’allargamento del contesto di riferimento (da decaffeinato a caffè) sulla base della percezione del consumatore permise di allargare gli orizzonti di crescita della marca.
Fu in ogni caso una rivoluzione che richiese coraggio e lungimiranza. Significò are da marca leader assoluta all’interno del mercato del decaffeinato, all’occupare una minima quota nel mercato del caffè totale. Significò confrontarsi con in termini qualitativi con il leader del caffè normale, dimostrando di essere altrettanto buono. Vincere la sfida significò però far crescere la marca.
Una volta definita la categoria “mentale” di riferimento, il processo di Consumer Insight indaga le motivazioni che legano il consumatore alla categoria della riferimento.
Queste sono, da una parte specifiche del contesto in analisi, ma allo stesso tempo strettamente collegate alle motivazione interne individuate nella fase di esplicitazione dell’Insight. I Consumer Needs che guidano la scelta della categoria avranno pesi diversi a seconda del target di riferimento prescelto.
Ritornando al caso di “H”, per gli Heavy s di caffè il Consumer Need principale ed unico del caffè era quello della “ricarica energetica”, indipendentemente dall’ora e dal momento in cui veniva consumato.
Per il target prescelto da “H” invece il caffè rappresentava principalmente un rituale piacevole, da godere in pace, con tranquillità dandosi il tempo di percepire con i sensi il profumo, il gusto, la corposità.
“Non sono disposto a scendere a compromessi, se non da’ piacere ne faccio tranquillamente a meno”. Per questo motivo non bevevano caffè dopo le quattro: le sensazioni negative di irritabilità avrebbero annullato la piacevolezza del momento.
Attraverso la comprensione delle motivazioni di categoria, del ruolo emozionale che il caffè ricopriva nella vita del target, il team di “H” ha potuto percepire chiaramente come la vera barriera non era quella dichiarata razionalmente.
La barriera del “gusto” prefigurato in realtà era solo la scusa, la superficie che nascondeva una motivazione psicologica più profonda.
Per il suo target di riferimento, “H” rappresentava la “privazione” del piacere: era una marca che fino a quel momento si era rivolta a persone deboli (di cuore), malate, a persone che non potevano e non sapevano godersi la vita. Era per persone che si erano piegate, rassegnate al compromesso del decaffeinato, senza gusto (per la vita) né corpo (coraggio, solidità).
Step 4: connessione emozionale con i valori della marca
Il mondo valoriale della marca alla base della Brand Equity è funzione di tre diversi tipi di variabili:
• variabili razionali, come l’affidabilità, la competenza, la sicurezza, etc.
• variabili funzionali di praticità, utilità, efficienza ed efficacia,
• variabili emozionali, quelle che riguardano le caratteristiche di personalità della marca
I valori razionali e funzionali a loro volta sono l’esternazione e razionalizzazione di motivazioni più nascoste di natura emozionale. Sulla base dell’esperienza emozionale, gli individui rivedono la percezione delle variabili razionali e funzionali, legittimandole o smentendole.
Come nell’esempio della “apple pie” è solo l’esperienza completa, di tutte le componenti sia esterne che interne, che determina la percezione di marca.
E’ proprio attraverso le aree calde/emozionali della marca che si crea la connessione empatica tra i due sistemi valoriali, quello del consumatore e quello della marca.
Tanto maggiore è quest’area di connessione, tanto più rilevante sarà nella percezione del consumatore quella marca, quindi tanto più elevato sarà il valore disposto a riconoscerle.
Indagare i valori emotivi della marca è una delle operazioni più difficili perché si tratta di attingere ad un mondo di significati pre-verbale e simbolico, non esplicitabile a parole.
Occorrono metodologie adatte, come quelle esposte nel relativo capitolo, per superare le barriere razionali del consumatore e far emergere il “coagulo valoriale” della marca, nonché la sua connessione con quello interiore.
Sempre nell’esperienza di “H”, proprio grazie a queste tecniche è stato possibile capire sia le aree di dissociazione, che quelle di potenziale confluenza tra il sistema valoriale della marca e quello del consumatore target. Sulla base delle aree di confluenza è stato sviluppato il nuovo posizionamento di marca.
Step 5: la sfida di Marketing
La sfida da superare è la barriera psicologica che impedisce al consumatore target di riconoscersi completamente nel sistema valoriale della marca. E’ quella credenza, convinzione personale che blocca la connessione empatica. Ed attinge sempre al mondo valoriale “percepito” dal consumatore.
Nel caso di “H”, per anni ci si era basati sulle risposte “razionali” del consumatore che dichiarava di non consumarlo perché ipotizzava non avesse gusto né corpo.
Anche al momento dell’assaggio, quando il consumatore sapeva che si trattava di “H”, si innescava un processo di distorsione percettiva che portava a confermare le proprie credenze.
E’ stato solo con l’adozione di metodologie di analisi delle motivazioni profonde, che è emersa la vera sfida di Marketing: ““H” è la privazione del piacere”.
I segnali (anche inconsci) che la marca continuava a lanciare non tanto a livello verbale, ma nel suo meta-linguaggio continuavano a confermare tale credenza.
Anche se nella sua comunicazione non parlava più a persone malate, deboli di cuore, il simbolo del cuore rimaneva una presenza molto forte nel logo della brand, largamente visibile nelle tazze dei principali bar. A livello inconscio l’immagine del cuore riportava automaticamente e con forza al percepito di marca “per deboli di cuore”.
La campagna pubblicitaria “cup change” lavorava sul tentativo di convincere razionalmente il consumatore che “H” fosse buono come il caffè normale: al protagonista veniva scambiata di nascosto la tazza di caffè normale con “H”, e rimaneva stupito di quanto fosse buono.
La campagna aveva ottimi risultati in termini di ricordo ma non aiutava la marca nella direzione desiderata.
Al contrario, il continuo confronto con il caffè normale non faceva che enfatizzare la differenza e istillava il dubbio nel consumatore che “H” fosse effettivamente buono come il caffè normale.
Occorreva andare oltre le barriere razionali, ed individuare l’area di sovrapposizione tra sistema valoriale “caldo” della marca e quello del potenziale consumatore, per rafforzare la relazione. Occorreva abbandonare il confronto razionale, e iniziare a “scambiare valore” in maniera coerente.
Si è ripartiti dal concetto di “piacere” per i soggetti che appartenevano al target potenziale di “H”.
Piacere per loro significava la libertà di godersi la vita, di indugiare nell’armonia dei sensi, liberi da restrizioni e condizionamenti. Per loro piacere era lasciarsi prendere dalla lettura di un buon libro, lasciarsi trasportare dalla combinazione delle note della loro musica preferita, perdersi nello sguardo infinito di un bel quadro.
I “momenti di piacere” per queste persone erano fortemente associati alla sera, quando tutte le distrazioni della vita frenetica quotidiana vengono annullate dal
ritmo lento e avvolgente del buio.
La sera evocava il piacere intimistico di ritrovarsi, di indugiare senza limiti di spazio né tempo, senza costrizioni, avvolti nell’armonia delle sensazioni.
Ed era proprio a questi momenti di piacere che “H” avrebbe voluto agganciarsi, collegandosi a due valori cardine : la libertà (di poter gustare un buon caffè a qualsiasi ora) e l’armonia (del gusto).
Così si è arrivati al famoso “sweet spot” o “punto di connessione” tra il sistema valoriale della marca e quello del suo target di riferimento : “Il piacere del buon caffè non ha confini, non ha restrizioni: in questo consiste la libertà, la possibilità di assaporare il gusto della vita senza compromessi”.
Attraverso metodologie adeguate, atte ad individuare le aree calde/emozionali di “H”, sono stati riscoperti i segni dei valori di libertà e di armonia nel patrimonio genetico della marca.
Attraverso metafore, disegni spontanei e favole inventate, sono emersi chiaramente i codici positivi che “H” poteva valorizzare per “entrare in sintonia” con il proprio target, rafforzando la relazione empatica.
Innanzitutto il colore arancione che la marca per anni aveva utilizzato nel canale bar per rendersi visibile e riconoscibile agli occhi del consumatore, trasmetteva a livello profondo dei valori di energia, coraggio, positività, carattere.
Questi valori, comuni a quelli del caffè per eccellenza, nonché al sistema valoriale del target, rafforzavano l’associazione tra “H” ed il piacere del caffè.
Anche il colore oro che contornava il logo, la scritta nera su fondo bianco, l’immagine della tazza confermavano tale ipotesi.
Ma tra tutti i simboli quello che si è rivelato più potente come “chiave di svolta” è stato lo sbuffo dell’aroma, che esprimeva a livello profondo concetti di armonia di gusto, ma anche di libertà.
Una volta individuato lo “sweet spot”, infatti occorre che questo venga coerentemente e costantemente comunicato, affinché possa essere riconosciuto come Brand Essence.
Step 6: l’obiettivo di comunicazione integrata
La sfida di Marketing è fortemente radicata nelle emozioni e nell’inconscio, pertanto l’unico modo per superarla, una volta individuato lo “sweet spot”, è comunicare la connessione valoriale in maniera coerente nel tempo e in tutte le variabili del marketing Mix.
La marca è un sistema valoriale complesso, tutta la sua comunicazione verbale e non verbale deve essere coerente con la Brand Essence.
Il consumatore continuamente verifica che la “rappresentazione di marca” proposta sia vera, autentica e lo fa andando a leggere tutti i segnali, anche quelli
più nascosti e apparentemente involontari che la marca trasmette.
E’ lo stesso procedimento che mettiamo in atto quando ci relazioniamo a delle persone: andiamo alla ricerca della “coerenza”, prima di classificarle mentalmente come degne o meno della nostra fiducia.
Se una persona si pone verbalmente nei nostri confronti come “buona e gentile”, noi verifichiamo attraverso tutti i possibili segnali che questo sia vero: osserviamo il suo modo di fare, la sua postura, i lineamenti del viso, le mani, cercando magari di coglierla in fallo nei momenti di maggiore spontaneità.
Noi, come dei profilers, non abbassiamo mai le antenne: prima di ottenere la nostra fiducia, la persona che abbiamo davanti dovrà superare numerose conferme.
Lo stesso avviene per le marche, e non c’è cosa più deludente per il consumatore che scoprire la “non autenticità” della promessa comunicata a parole.
La comunicazione della marca deve essere per forza un processo integrato, fortemente orientato a comunicare la Brand Essence della marca attraverso tutti i suoi canali comunicativi, anche se ognuno di questi avrà codici espressivi propri.
Solo quando tutte le persone che lavorano su una marca (interne ed esterne all’azienda) sono univocamente orientate a trasmettere la Brand Essence condivisa, la comunicazione a 360° è attuabile.
Questa sinergia comunicativa è una delle sfide più grandi per le marche, perché la marca “è viva”: ogni volta che comunica, “scambia” valori e per certi versi si sottrae al controllo di chi la crea e la gestisce.
Una parte significativa delle ripercussioni, in termini di produzione di senso, di emozioni e valori generati dalla marca e l’ombra lunga che essa è in grado di proiettare nel tempo e nello spazio, superano l’intenzionalità iniziale.
Per questo motivo la Brand Essence deve essere non solo comunicata in maniera coerente, ma continuamente verificata attraverso tutte le variabili del Marketing Mix.
Ai tradizionali “tracking pubblicitari” che si occupavano di rilevare il ricordo della pubblicità televisiva, come se questa fosse l’unica maniera attraverso la quale la marca comunica e scambia valore, si sono man mano sostituite nuove metodologie “a 360°” che si occupano di verificare l’impatto della comunicazione sul sistema valoriale percepito della marca attraverso tutti i suoi canali.
Non stiamo parlando solamente dei canali media, quindi televisione, radio, affissioni, stampa e Internet, ma anche di sponsorizzazioni, eventi, redazionali, comunicazioni istituzionali. E all’interno del mondo di Internet, non stiamo parlando solamente di sito di marca e di social networks, ma di ogni forma discorsiva sulla marca che spontaneamente si crea in rete.
E ancora non stiamo parlando solo di marca, ma stiamo parlando dell’asset valoriale in cui questa è inserita, di come questi valori vengono comunicati e strutturati nella pubblica opinione.
Ma soprattutto per verificare l’impatto della comunicazione valoriale di marca, le metodologie “a 360°” si occupano contemporaneamente di canali distributivi, di comunicazione nel punto vendita, di scaffale, di confezione, di politiche di prezzo e di promozioni. Si occupano di prodotto, di nuovi lanci, gli allargamenti di gamma.
Insomma tutte le variabili del Marketing Mix sono sottoposte al vaglio di impatto e di coerenza rispetto alla Brand Essence della marca.
Nella tabella sottostante, viene confrontato il tradizionale metodo di valutazione della marca con il nuovo approccio “a 360°” e l’effetto sui principali KPI (key
performance indicators).
Approccio tradizionale
Approccio Consumer Insight 360°
Target generico
Target generico + focus del target strateg
Focus su ricordo pubblicità TV
Ricordo 360° ed impatto incrementale (R
Immagine di marca (attributi razionali e funzionali) Valori della marca (benefit razionali, fun Importanza benefit dichiarata
Rilevanza percepita come connessione c
Contesto competitivo pre-definito
Contesto competitivo e consumer needs
Intention to buy
Brand closeness/ Brand relevance/ Brand
La differenza fondamentale tra il metodo tradizionale e l’approccio Consumer Insight a 360° è prima di tutto concettuale: il primo è mono-direzionale, cioè si basa sull’assunto che quello che la marca comunicherà attraverso la pubblicità, verrà ascoltato e messo in atto dal consumatore, sotto forma di comportamento d’acquisto.
La logica del Consumer Insight parte invece dal presupposto che la marca è una relazione, un incontro, uno scambio valoriale che, solo se “sentito” in maniera rilevante dal target strategico, si tradurrà in una fedeltà alla marca duratura nel tempo.
Una volta verificata la coerenza a 360° della Brand Essence comunicata e la sua rilevanza emotiva per il target, il processo di Marketing fin qui descritto si conclude con la verifica dell’impatto in termini di comportamento d’acquisto effettivo da parte del target strategico.
Nel caso di “H”, l’implementazione di una comunicazione integrata attraverso tutti gli elementi verbali e non verbali della marca, portò in pochi anni la marca ad intensificare la relazione non solo con il target potenziale, ma anche con quello storico.
In sintonia con la nuova Brand Essence, venne rivisitato il logo ed il packaging, furono lanciate nuove referenze, vennero riposizionati prezzo e posizione a scaffale, si aprirono nuovi canali di comunicazione in sintonia con il consumatore potenziale, vennero realizzate campagne televisive a forte impatto emozionale, vennero sponsorizzati “momenti di piacere” serale rilevanti per il target.
La penetrazione è cresciuta dal 12% al 30%, ma è anche aumentata la frequenza di acquisto. I volumi di vendita sono raddoppiati e contemporaneamente è migliorata la marginalità.
Le aziende che hanno adottato il cambio di “prospettiva” che viene dal Consumer Insight, testimoniano una rivoluzione che è prima di tutto “culturale”, ma che ha numerose implicazioni nei processi, nelle relazioni tra reparti, nelle relazioni con le agenzie/i partner esterni, nelle competenze ricercate e premiate dall’azienda.
Nel prossimo capitolo illustreremo l’impatto che questa prospettiva ha sull’organizzazione aziendale.
Bibliografia
Fortini-Campbell L. (2001) , Hitting the Sweet Spot: How Consumer Insights Can Inspire Better Marketing and Advertising, Copy Workshop, Pennsylvania State University, USA
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Trevisani D. (2003), Comportamento d’acquisto e comunicazione strategica. Dall’analisi del consumer behaviour alla progettazione comunicativa, Franco Angeli, Milano
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Articoli
Toward a unified model of human motivation, Forbes David L., Review of General Psychology, June 2011
Using Consumer Insights: 5 Key Tips from Kraft, by Skerik S., PRnewswire, 5/9/2012
Schema riassuntivo del processo di Consumer Insight
5. Insight in azione: le implicazioni sull’organizzazione aziendale
5.1 Il cambiamento culturale
Affinché l’approccio del Consumer Insight porti in un’organizzazione degli effetti visibili sul business, occorre necessariamente are da un profondo cambiamento nella “cultura” aziendale.
Il primo cambiamento culturale è il “cambio di prospettiva” di cui l’Insight è portatore: il fulcro di ogni analisi aziendale diventa il “consumatore”, inteso non più solamente come “colui che consuma”, ma come individuo guidato da motivazioni psicologiche profonde, con il quale la marca desidera stabilire una relazione.
Come avviene sempre con gli esseri umani, la relazione si crea e si consolida se tra le due parti ci si “scambia” valore: per far questo occorre sintonizzarsi sul sistema valoriale dell’altro. E per sintonizzarsi sul suo sistema valoriale, occorre immedesimarsi.
Nel Modello di Forbes sulle motivazioni degli individui, abbiamo visto come a guidare le scelte/le experiences, siano tre bisogni fondamentali: quello di vedere riconosciuta la propria unicità/identità, quello di coinvolgimento emotivo e quello di condivisione e cura.
Il processo di Consumer Insight intende accogliere queste tre motivazioni fondamentali: partendo dall’analisi dell’individuo e del suo sistema valoriale, è volto a valorizzare l’individuo, stabilendo con questo una connessione empatica, per anticipare i suoi desideri.
La marca acquisisce una nuova connotazione “etica”: diviene un mondo valoriale che si relaziona. E l’eticità della marca, quando percepita dal consumatore, viene riconosciuta come “valore”.
Nell’era dell’incertezza la marca beneficia di un “vuoto referenziale” lasciato dalla politica, dall’economia, dalle istituzioni in generale ed acquisisce un ruolo sempre più rilevante nella vita dei singoli come riferimento valoriale identificativo e proiettivo allo stesso tempo.
Contemporaneamente tuttavia le aspettative sui contenuti valoriali della marca da parte del consumatore sono sempre più elevate: la marca deve essere “etica”, portatrice di valori buoni nei quali ci si possa riconoscere.
La marca etica non è solo un contenitore valoriale nel quale rispecchiarsi, ma proprio perché la marca è una realtà sociale e condivisa, l’illusione è che possa cambiare le cose, migliorare il mondo in cui viviamo.
Le marche che fanno volontariato, che devolvono parte dei propri guadagni per delle cause “socialmente utili”, le marche che migliorano le condizioni di lavoro delle popolazioni più povere, le marche che riciclano materiali e preservano l’ambiente, sono sempre più sostenute ed apprezzate dal consumatore. Si delega loro una missione sociale, ambientale e valoriale che le istituzioni non sono più in grado di compiere.
Il crescente valore riconosciuto alla “sostenibilità” delle marche infatti non è che un aspetto di una “eticità” più diffusa, rispettosa e attenta alle esigenze degli individui, molto più di quanto i governi, l’economia e le istituzioni siano ritenuti in grado di fare.
Se rispetto a questi ultimi l’individuo si dichiara impotente, rispetto alle marche detiene ancora un grande potere contrattuale: può decidere non solo se comprarle o meno, ma anche può decretarne il successo o il fallimento, consigliandole o demonizzan-dole attraverso la diffusione della rete.
In un quadro valoriale come questo, le aziende che riconoscono il valore “etico” della marca sono quelle che meglio sapranno sintonizzarsi con il proprio consumatore e far crescere la relazione. La logica del Consumer Insight parte proprio da questo presupposto e sposta il terreno di gioco dall’auto-refenzialità del Marketing, allo “scambio” valoriale con il consumatore.
Man mano che nelle aziende si diffonde la logica del Consumer Insight, il valore “etico” della marca viene condiviso e sentito a tutti i livelli e da tutti i reparti aziendali.
5.2 Il cambiamento strutturale e relazionale
Oltre che una trasformazione “culturale”, questa nuova prospettiva di Marketing, provoca nelle organizzazioni aziendali dei cambiamenti strutturali e relazionali considerevoli.
Da un punto di vista strutturale la funzione del Consumer Insight acquisisce una propria rilevanza ed autonomia gestionale, della quale il tradizionale reparto “Ricerche di mercato” non ha mai goduto.
Se nella tradizionale concezione di Marketing, inteso come “piazzamento dei prodotti sul mercato”, il compito delle Ricerche di mercato era quello di dare o alle decisioni, nella nuova concezione la funzione del Consumer Insight assume un ruolo strategico per l’azienda.
Il vantaggio competitivo che la centralità del consumatore garantisce alle politiche di marca viene tutelato e garantito dal Top Management, sia da un punto di vista culturale che da uno strutturale.
Il reparto Consumer Insight è quindi indipendente dal Marketing a livello gerarchico e gestisce autonomamente un proprio budget, sulla base degli obiettivi di business, alla cui formulazione contribuisce in maniera diretta.
Anche da un punto di vista relazionale, la nuova prospettiva di Marketing comporta nei notevoli cambiamenti. Le relazioni tra reparti vengono profondamente trasformate, nella direzione di una sempre maggiore integrazione sinergica.
L’attuazione del processo del Consumer Insight avviene attraverso una comunicazione a 360° della Brand Essence della marca: affinché ciò accada, occorre che tutti i reparti dell’azienda siano sintonizzati.
Il reparto della ricerca e sviluppo, ad esempio, lavora in maniera sinergica con il Marketing ed il Consumer Insight per allineare alla Brand Essence:
lo standard qualitativo ed i benefit percepiti del prodotto, la confezione, l’allargamento di gamma ed il lancio di nuovi prodotti. L’incontro con il proprio consumatore diventa un aggio fondamentale anche per un reparto come quello di R&D prima rinchiuso nei laboratori e negli stabilimenti, ad occuparsi solo di produttività ed efficienza.
Con la nuova prospettiva, i tecnici di prodotto posso fare brainstorming direttamente con il consumatore, possono vedere in diretta l’adeguatezza o meno delle loro proposte, e presentare nuove soluzioni in maniera creativa da una parte e pro-attiva dall’altra.
Il forte coinvolgimento nella destinazione ultima delle loro “creazioni” fornisce alle persone che lavorano nel reparto R&D una grande motivazione.
In alcune grandi aziende ad esempio, i tecnici di R&D sono diventati nel tempo degli esperti di Consumer Insight ed hanno in maniera pro-attiva sempre più contribuito a sviluppare nuove metodologie per sintonizzarsi con il consumatore, fin dalle primissime fasi di sviluppo dei nuovi prodotti. Il tasso di successo delle nuove proposte è salito nel tempo in maniera considerevole, evitando alle aziende di sprecare tempo e risorse in prodotti distanti dalla Brand Essence e quindi fuori strategia.
Il coinvolgimento sinergico riguarda anche i reparti commerciali, ed il Trade Marketing, che diventano sempre più “esperti” delle logiche del consumatore, know-how questo prezioso da scambiare con il trade. La conoscenza degli Insight permette inoltre di valorizzare al massimo la Brand Essence della marca anche all’interno del punto vendita.
Esiste una branchia del Consumer Insight che si occupa proprio del consumatore all’interno dei punti vendita (Shopper Insight) e ha lo scopo di investigare le logiche motivazionali “nascoste” del processo d’acquisto e della relazione valoriale con il punto vendita.
Mettere a disposizione queste competenze e scambiarle con il trade, permette di lavorare in una logica di partnership, nella quale entrambe le parti -industria e distribuzione- hanno come obiettivo finale la massima valorizzazione della relazione con il cliente/consumatore.
Il beneficio per l’azienda consiste nello spostare sempre più il fulcro della partnership verso le azioni strategiche per sintonizzarsi con il consumatore/cliente, evitando di rimanere schiacciati dalle mere contrattazioni commerciali su prezzo e promozioni.
Il reparto Media è quello che maggiormente trae beneficio dalla integrazione sinergica dell’approccio Consumer Insight, perché massimizza l’efficacia e l’efficienza della pianificazione comunicativa sulla marca.
Il comunicare in maniera coerente la Brand Essence della marca in tutti i canali, anche se pur sempre con linguaggi specifici, massimizza la resa comunicazionale.
Inoltre le metodologie di analisi a 360° permettono di verificare l’impatto incrementale delle diverse tipologie di comunicazione sia in termini quantitativi che in termini qualitativi sul raggiungimento del target strategico.
La sintonizzazione con la Brand Essence riguarda in ogni caso tutti i reparti, da quello finanziario, a quello logistico, acquisti, risorse umane, etc.: ognuno di questi può migliorare quegli aspetti che contribuiscono alla percezione di valore scambiato nella relazione con il consumatore.
Per tutti i reparti, la condivisione dell’obiettivo strategico stimola da una parte la creatività a trovare soluzioni sempre più adeguate, dall’altra a ritrovare una motivazione più ampia del semplice obiettivo di reparto.
Il coinvolgimento integrato attorno ad una Brand Essence condivisa da tutta l’organizzazione ha sicuramente anche un grande vantaggio in termini psicologici, perché rafforza il senso di appartenenza all’azienda e la condivisione di obiettivi comuni.
L’impatto tuttavia non è solo interno all’organizzazione, ma riguarda anche la comunicazione dei valori di marca al di fuori dell’azienda.
Infatti il processo di coinvolgimento integrato modifica i rapporti con i fornitori esterni all’azienda che, condividendo gli stessi obiettivi di Brand Essence, diventano veri e propri partner.
Il ruolo dei fornitori da ivo diventa attivo, perché anch’essi vengono
coinvolti nel processo di Consumer Insight: possono immedesimarsi con il consumatore, fino a sintonizzarsi con la Brand Essence, che essi stessi contribuiscono a generare.
Soprattutto per le agenzie di pubblicità e per le agenzie media, ma in generale per tutti i partner esterni all’azienda, il coinvolgimento integrato e quindi l’allineamento degli obiettivi porta un notevole vantaggio in termini di resa sull’operato.
Nello schema seguente è possibile visualizzare le differenze nelle relazioni aziendali (sia interne che esterne) tra l’approccio tradizionale e quello del Consumer Insight.
Nella modalità tradizionale ogni reparto risponde principalmente ad obiettivi interni specifici: diventa quindi più faticoso per il Marketing coordinarsi con i vari reparti ed ottenere una collaborazione che rispetti le aspettative desiderate. Spesso con il modello tradizionale si crea conflitto tra i reparti interni all’azienda, soprattutto quando il Marketing assume un ruolo pressante, in contrasto con gli obiettivi interni di reparto. Lo sforzo per tutti è spesso eccessivo ed i risultati molto eterogenei tra reparto e reparto.
Nell’approccio che mette al centro dell’azienda il consumatore, Marketing e Consumer Insight assumono entrambe un ruolo nevralgico per l’azienda, perché coordinano tutti i reparti, attorno ad uno stesso obiettivo strategico. L’allineamento all’obiettivo è garantito dalla sua condivisione, dalla partecipazione attiva di tutti alla sua definizione.
Marketing e Consumer Insight lavorano a stretto contatto:
per custodire la Brand Essence nel tempo, nello spazio e attraverso tutte le variabili del Marketing Mix,
per definire le strategie di crescita delle marche
5.3 Le nuove competenze di Marketing
La centralità del ruolo di Marketing e la nuova relazione di scambio continuo che si viene a creare con il Consumer Insight, modifica necessariamente le competenze attese: a quelle tradizionali richieste dalla funzione, se ne aggiungono di nuove.
Le nuove competenze di Marketing sono riconducibili ai quattro principali vantaggi competitivi che l’azienda si aspetta di ottenere dalla logica del Consumer Insight:
a) conoscenza del consumatore
b) custodia/presidio dei valori di marca
c) diffusione della Brand Essence a 360°
d) potenziamento del valore di marca
a) Conoscenza del consumatore
Analizzare i dati statistici, sintetizzare i risultati delle ricerche, fornire soluzioni
ai problemi, sono requisiti basici che non bastano più: per immedesimarsi nel mondo valoriale del consumatore, per catturare gli Insight, e per individuarne la valenza strategica, le competenze di analisi, sintesi e problem solving non posso essere più sufficienti.
Occorrono sensibilità psicologica, introspezione, pensiero laterale, creatività ed intuizione.
Occorre la capacità di ascoltare, di osservare senza pre-giudizi con l’autentica volontà di incontrare l’altro.
Occorre la curiosità di farsi delle domande, di tracciare nuove ipotesi, di trovare nuovi nessi, di collegare i puntini.
Occorre una capacità di visione al di là dell’ovvio e al di là del contingente.
In sintesi occorre la capacità di “vedere”.
b) Custodia/ presidio dei valori di marca
Individuare la Brand Essence, intesa come “punto di massima connessione emotiva tra il sistema valoriale del consumatore e quello della marca” richiede nuove capacità, al di là dell’analisi e sintesi dei tradizionali procedimenti di Marketing.
Richiede immedesimazione e grande sensibilità psicologica.
Richiede apertura mentale all’altro, a schemi e processi mentali diversi.
Richiede empatia, accoglimento e rispetto dell’altro, richiede la flessibilità di sintonizzarsi con i suoi bisogni.
In fondo queste sono tutte capacità che un bravo venditore possiede da sempre, e sono quelle che gli permettono di massimizzare la relazione con il proprio cliente. Al Marketing viene chiesta la stessa capacità di mettersi nei panni dei proprio cliente finale, di intuirne le istanze psicologiche, di entrare in sintonia, valorizzando gli aspetti della propria marca che sono più pregnanti e motivanti per l’interlocutore.
Significa però anche avere chiara coscienza del proprio valore (di marca), di quello che si può scambiare nella relazione.
Significa proteggere la propria essenza (di marca) ogni qual volta qualcuno cercherà di snaturarla: significa dimostrare flessibilità nel comunicarla, ma convinzione nel custodirla. Significa garantire la “resilienza” dei valori di marca.
Presidiare la Brand Essence è automatico se la si “sente” in maniera emotiva e profonda. In sintesi quindi possiamo definire questa come la capacità di “sentire”.
c) Diffusione della Brand Essence a 360°
La capacità di comunicare è uno dei requisiti fondamentali da sempre richiesti al Marketing. Ma comunicare la Brand Essence richiede capacità che vanno oltre la chiarezza e la linearità espositiva, vanno oltre la dialettica e l’oratoria, vanno oltre il convincimento razionale.
Per diffondere la Brand Essence occorre far sì che anche gli altri possano “sentirla”, intuirla emotivamente in prima persona: significa comunicare non alla testa, ma al cuore delle persone.
Nelle aziende negli ultimi anni è fortemente cambiato il modo di comunicare, anche nelle presentazioni “formali” al Top Management.
Chi occupa posizioni decisionali nelle aziende ha tempi ed energie da dedicare ridotti: rifiuta quindi sempre più l’idea di essere sommerso di numeri e parole, di soffermarsi sui singoli dati del problema, di cercarne da solo il senso per trovare una via d’uscita.
Coloro che dirigono le aziende sono sempre più fiduciosi che il proprio interlocutore abbia fatto tutte le analisi dettagliate del caso e che si presenti loro non con una lista di problemi, ma direttamente con delle possibili soluzioni. Vogliono poter afferrare il senso della comunicazione in pochi aggi ed arrivare alla soluzione velocemente.
Allo stesso modo quando si tratta di comprendere la Brand Essence della marca
per individuarne le potenzialità di crescita, quello che desiderano è semplicemente “essere ispirati”.
Le nuove modalità di comunicazione sostituiscono le lunghe e noiose liste di numeri e dati, con immagini e story-telling che sappiano catturare il senso del discorso in maniera semplice ed intuitiva per l’interlocutore.
La suggestione delle metafore, le immagini e le parole del consumatore, se resi con essenzialità e semplicità, permettono di “raccontare” un concetto, anche molto profondo o complesso, in maniera diretta ed efficace.
Soprattutto lo “story-telling” ha il grande vantaggio di arrivare direttamente al cuore di chi ascolta e di innescare un doppio beneficio: da una parte la gratificazione derivante dal coinvolgimento emotivo, che abbiamo visto essere una delle motivazioni fondamentali dell’agire umano, dall’altra la stimolazione del pensiero laterale, l’ispirazione creativa che è uno strumento potente di problem solving.
Quando Marketing e Consumer Insight comunicano la Brand Essence agli altri reparti dell’azienda o ai propri partner esterni, ottengono dunque un duplice vantaggio: da un parte un’adesione “sentita” agli obiettivi di marca ed quindi un impegno a realizzarli in maniera coerente, dall’altra un’ispirazione creativa ad implementare la Brand Essence con tutti i mezzi di loro conoscenza.
Lo stimolazione del processo creativo, attiva le “parti” in causa verso una valorizzazione delle proprie competenze specifiche che verranno messe a disposizione/ scambiate per un obiettivo comune e condiviso.
L’obiettivo della nuova forma di comunicazione è alimentare entusiasmo e motivazione attorno ad una visione condivisa: competenza questa ormai imprescindibile per chiunque si occupi di Marketing.
Creatività e leggerezza comunicativa, ma soprattutto entusiasmo, energia e positività sono le caratteristiche più preziose richieste dalle aziende.
In sintesi possiamo definire questa come la capacità di “mostrare”.
d) Potenziamento del valore di marca
L’obiettivo ultimo è sempre quello di far crescere il business.
Il processo di Marketing analizzato in questo libro, permette di individuare delle opportunità di crescita per la marca.
La sua forza competitiva sta nel massimizzare la relazione con il cliente finale, attraverso un legame emotivo che va oltre i benefit razionali di solo prodotto.
La sua forza propulsiva sta nel rompere le barriere dell’ovvio e del contingente, ed ispirare a nuove aree di crescita.
Essere sintonizzati sugli Insight del consumatore, significa anche anticiparne i desideri. Significa comprendere i bisogni non ancora soddisfatti, significa
scoprire aree non ancora esplorate dall’offerta esistente. Sempre più negli Stati Uniti ci si muove dalla logica dell’Insight a quella del Foresight, che è la sua diretta conseguenza.
Attraverso il potente processo creativo che si viene a generare, e che coinvolge tutti i reparti/ tutte le competenze intra ed extra-aziendali, è possibile veramente inventare nuove opportunità per la marca.
Non sto parlando solamente di nuovi prodotti, il cui processo di generazione beneficia largamente dell’ispirazione che deriva dai Consumer Insight. Mi riferisco a nuove opportunità per la marca nei processi produttivi, nelle materie prime, nei rapporti con la distribuzione, nelle modalità promozionali, nei linguaggi e nei canali di comunicazione, e via dicendo. Tutte le competenze settoriali vengono coinvolte e stimolate nel processo di Consumer Insight a produrre valore, a potenziare la Brand Essence.
Il processo generazione di idee, che nasce prima di tutto dal cambio di prospettiva, dal mettersi nei panni del consumatore, viene ulteriormente favorito dalla multi-disciplinarietà degli approcci, dallo scambio che si viene a creare tra le diverse conoscenze settoriali.
Il risultato è straordinario nelle sue potenzialità, se opportunamente incanalato verso gli obiettivi di business della marca.
Le capacità richieste al Marketing sono quindi da una parte una grande visione allargata per cogliere le opportunità, insieme ad una forte focalizzazione sugli obiettivi della marca, ma allo stesso tempo una grande incisività e coraggio nel saper attuare la strategia.
Queste competenze di Marketing sembrano scontate, ma non lo sono affatto. Individuare nuove opportunità per la marca, significa:
superare le barriere apparentemente invalicabili di categoria, quelle distributive, finanziarie, produttive e via dicendo
riuscire a coinvolgere con sincera adesione il Top Management ed i diversi reparti aziendali a perseguire sfidanti obiettivi di marca
perseguire gli obiettivi con costanza nel tempo, nello spazio e a 360°, superando i numerosi ostacoli che si presentano nella realtà del mercato
Tutte queste non sono competenze così comuni.
Per superare le barriere, non bastano delle buone capacità di problem solving, occorre veramente pensare fuori dagli schemi, concedersi di pensare “alto”, e saper far tesoro delle competenze altrui, diverse dalla proprie.
Per coinvolgere e creare entusiasmo occorrono non solo eccezionali doti di leadership, ma comunicazione empatica, sincero entusiasmo e fiducia.
Per perseguire tenacemente e con coerenza degli obiettivi, occorrono sicuramente coraggio e determinazione. Ma essendo i vantaggi spesso “differiti” nel tempo, e quindi non sempre godibili personalmente, occorre una dote rara quanto preziosa: la generosità
La voglia di lasciare il segno, di migliorare una realtà come obiettivo ultimo e non per un tornaconto personale, è una caratteristica che fa la differenza tra i Manager di un’organizzazione, soprattutto fa la differenza tra i Manager di Marketing.
In sintesi, oltre a tutte le capacità prima illustrate di “vedere”, “sentire” e “mostrare”, la capacità di “cambiare” completa il quadro delle competenze che le aziende sempre più si aspetteranno dal Marketing.
Bibliografia
Mathews R., Wacker W. (2008), What's Your Story?: Storytelling to Move Markets, Audiences, People, and Brands, FT Press by Pearson Education, USA
Stone M., Bond A., Foss B. (2004), Consumer Insight: How to Use Data and Market Research to Get Closer to Your Customer, Kogan Page Publishers
Trevisani D. (2003), Comportamento d’acquisto e comunicazione strategica. Dall’analisi del consumer behaviour alla progettazione comunicativa, Franco Angeli, Milano
Vitale D. (2006), Consumer Insights 2.0: How Smart Companies Apply Customer Knowledge to the Bottom Line, Paramount Market Publishing, USA
Vriens M. (2012), The Insights Advantage: Knowing How to Win, iUniverse.com
Articoli
Using Consumer Insights: 5 Key Tips from Kraft, by Skerik S., PRnewswire, 5/9/2012
Conclusioni: il futuro del Consumer Insight
La domanda provocatoria che spesso mi viene rivolta è: “Il processo di Consumer Insight vale solo per le grandi aziende del largo consumo?”
Ovviamente la mia risposta è no. Il processo del Consumer Insight è prima di tutto un cambiamento “culturale”, che può essere attuato in qualsiasi realtà (non solo aziendale) che si occupi di fornire prodotti o servizi. Appositamente non ho usato il verbo “vendere”, ma “fornire”, perché il principio è valido anche per le realtà non-profit.
Il presupposto della logica del Consumer Insight è la relazione tra la marca ed il consumatore: l’intensità della relazione è determinata dall’intensità dello scambio tra i due sistemi valoriali.
Anche quando non esiste una “marca” in senso classico, anche quando non si parla di comunicazione pubblicitaria in senso stretto, esistono comunque dei venditori, un front-office, delle persone che interagiscono con il cliente finale e che, spesso involontariamente, comunicano il sistema valoriale della realtà che rappresentano.
In molte aziende magari non è la marca quella che innesta la relazione emotiva, che fa sì che vengano scelti i prodotti di quell’azienda piuttosto che quelli del concorrente, ma sono gli agenti/ il personale di vendita che spesso svolgono la funzione “emotiva” che la marca assolve nella grandi organizzazioni.
Il venditore, attraverso il suo linguaggio verbale e non verbale, è quello che
trasmette al cliente il sistema valoriale dell’azienda.
Quando si rapporta al cliente non comunica solamente le variabili razionali (di affidabilità, competenza, sicurezza, etc.), e funzionali (di praticità, efficienza ed efficacia) dei prodotti, ma porta il suo sistema valoriale nella relazione. Se si viene a creare un terreno comune con l’interlocutore la relazione è salda, altrimenti il rifiuto ricadrà anche sui prodotti.
Tanto più l’agente/venditore sarà in grado di cogliere gli Insight del proprio interlocutore e quindi si sintonizzerà con il suo sistema valoriale, tanto più intenso e duraturo sarà il legame con l’azienda.
Troppo spesso si delega molto di questo processo ai singoli agenti/venditori, senza che l’azienda abbia attuato una strategia prospettica.
Avere una prospettiva significa prima di tutto aver segmentato la propria clientela, aver individuato attraverso un grande lavoro di immersione ed immedesimazione gli Insight profondi dei diversi target, aver studiato un’offerta di prodotti e servizi, oltre che un personale di contatto adeguati all’Insight identificato, in maniera da offrire un vero “regalo” al cliente.
Spesso manca a priori la chiara consapevolezza della propria “Essenza”, in termini valoriali, non solo razionali e funzionali, ma anche emotivi.
Avere coscienza della propria identità valoriale, tenendo conto della reale percezione del nostro interlocutore, è un aggio che troppo spesso manca. La presunzione di superiorità tecnica/funzionale impedisce il riconoscimento della vera “Essenza” prospettica, l’unica che possa effettivamente intensificare la
relazione con l’interlocutore.
Le conseguenze sono chiaramente visibili: la comunicazione è fredda, autocelebrativa, distante dai bisogni dell’interlocutore.
Oppure si finisce per comunicare in maniera schizofrenica, incoerente ed incostante.
Senza una conoscenza degli Insight dell’interlocutore è difficile attivare la relazione, ma soprattutto senza una chiara visione dell’”Essenza” che si intende scambiare, è impossibile ottenerne la fiducia duratura.
Possiamo quindi affermare che le motivazioni che sottendono alla logica del Consumer Insight sono valide per qualsiasi realtà che voglia massimizzare la relazione con il proprio interlocutore/ cliente.
Il processo è attuabile ovunque: non occorrono grandi investimenti di ricerche di mercato. Quello del Consumer Insight è un processo assolutamente democratico.
Gli step che compongono il processo, posso essere attuati senza grandi sforzi economici, spesso basta un po’ di creatività e di pensiero divergente:
1. individuazione del target strategico
2. esplicitazione dell’Insight
3. definizione della categoria di riferimento
4. connessione emozionale con i valori della marca
5. la Sfida di Marketing
6. l’obiettivo di comunicazione integrata
L’ individuazione del target strategico è il punto di partenza per tutti. Per le grandi aziende del largo consumo è più costoso reperire le informazioni sui propri clienti e segmentarli adeguatamente, ma per le aziende più piccole bastano talvolta i dati interni purché opportunamente organizzati.
Poi si tratta di verificare se il target individuato, che è quello che si pensa porterà nella maniera più veloce ed efficiente a raggiungere l’obiettivo di business, è effettivamente motivabile.
A questo punto inizia il processo di immedesimazione con il proprio cliente. Riuscire a cogliere le istanze psicologiche profonde, abbiamo visto nel capitolo sulle metodologie, non è semplice. Bisogna essere allenati ad andare oltre le risposte razionali anche con tecniche adeguate.
Noi ne abbiamo illustrate alcune, affinché anche in mancanza di mezzi adeguati
ci si possa allenare da soli. Lo scopo del processo è quello di abituare le persone che si occupano di Marketing ad immedesimarsi nel proprio interlocutore, a coglierne gli Insight, perché questo costituisce una grande potenzialità di comprensione e quindi di crescita.
Anche quando non esistano degli studi di “U&A” (Usage & attitudes) si può comunque usare la griglia delle domande fondamentali per far emergere le informazioni chiave sulle motivazioni sia interne che di categoria del proprio interlocutore.
Anche Internet offre grandissime opportunità di esplorazione a costi spesso contenuti, basta agganciarsi a fornitori che sappiano ricercare gli Insight del nostro target strategico, al di là delle facili ovvietà.
L’ideale tuttavia in questa fase è ricorrere ad esperti di Consumer Insight che con poche interviste in profondità o etnografiche sono già in grado di fornire un quadro valoriale esaustivo del cliente e delle sue motivazioni profonde.
Il valore strategico delle informazioni così ottenute giustifica un piccolo investimento, considerando la portata in termini di individuazione di opportunità di crescita per il business.
Per quanto riguarda le motivazioni di utilizzo della categoria di prodotto o servizio, oltre alle interviste individuali, l’osservazione è una modalità molto efficace e non costosa.
Si tratta di impiegare del tempo ad osservare le modalità di fruizione del prodotto o servizio, soprattutto laddove il cliente è facilmente accessibile, mettendosi nei suoi panni e facendosi delle domande, avanzando ipotesi, chiedendosi il perché di alcuni comportamenti o atteggiamenti.
Lo step sulla connessione emozionale con i valori di marca è quello più delicato, perché il rischio di distorsione percettiva nell’approccio fai-da-te è altissimo.
In questa fase, chiedere direttamente ai clienti/ interlocutori cosa pensano veramente, in maniera intima dell’azienda, è quasi impossibile sia per la capacità di essere sincero del giudicante, sia per la capacità di accettare le risposte da parte del giudicato. Questa fase andrebbe svolta da un terzo soggetto indipendente con modalità e tecniche adeguate, come quelle analizzate nel relativo capitolo, a superare le barriere razionali. Anche in questo caso non si tratta necessariamente di grandi investimenti, perché sono interviste mirate ad un target strategico.
Tutti gli step successivi possono essere invece tranquillamente condotti internamente con adeguato allenamento, senza ricorrere a ricerche o consulenze esterne.
Una volta chiaramente individuata la “(Brand) Essence”, quindi l’area di connessione valoriale sulla quale si vuole puntare per intensificare la relazione con il cliente/interlocutore, tutte le fasi successive verranno attuate con estrema facilità.
Il tema della comunicazione integrata ha un grande valore in tutte le realtà, specialmente in quelle che si servono di una forza vendita esterna all’azienda. La comunicazione a a 360° attraverso non solo i canali di Marketing convenzionali, che in ogni caso dovranno lavorare sinergicamente attorno ad un
unica “Essenza”, ma attraverso le persone che rappresentano l’azienda.
E questo è ancora più importante laddove il front-office fa la differenza, oppure laddove la forza vendita è costituita da agenti esterni alla realtà aziendale. Se la marca è “viva” e sfugge al controllo di chi l’ha creata, figuriamoci cosa può succedere con delle persone!
Il lavoro di coinvolgimento e condivisione dell’”Essenza” valoriale che l’azienda intende scambiare con il proprio interlocutore è di vitale importanza. Questa costituisce la sfida più grande, ma allo stesso tempo è anche il terreno nel quale l’adozione del processo di Consumer Insight può veramente fare la differenza.
Le “persone” che si relazionano con il cliente/interlocutore assumono un ruolo nevralgico nel processo. La partecipazione attiva di queste al lavoro di comprensione degli Insight del proprio interlocutore e alla definizione dell’Essenza valoriale sulla quale sintonizzarsi è essenziale.
Solo in questa maniera potrà esserci un vero allineamento, “sentito” e condiviso, che permetta all’organizzazione di comunicare in maniera coerente i propri valori.
Anche in queste realtà, l’adozione del processo di Consumer Insight è destinato a modificare, oltre alla cultura, le relazioni sia esterne che interne all’organizzazione. Una volta consolidato nella cultura organizzativa, il processo di sintonizzazione con gli Insight del cliente diventa naturale.
I benefici in termini di vantaggio competitivo, di solidità del legame con il
cliente e di forza propulsiva/creativa che ne derivano non possono che confluire in risultati di business tangibili per ogni organizzazione.
Ringraziamenti
Grazie per il pretesto. Il primo ringraziamento va al professor Renato Fiocca, docente di Marketing dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, perché senza il suo incoraggiante stimolo: “Perché non scrivi un libro sul Consumer Insight?” non avrei mai trovato il pretesto o l’occasione per scrivere questo libro.
Grazie per l’iniezione di coraggio. L’anno prima di scrivere questo libro avevo trascritto in formato digitale e mandato in stampa la bellissima autobiografia di mia nonna Cesira: senza il suo esempio coraggioso sulla fattibilità di un’impresa titanica come quella di scrivere un libro, questo progetto sarebbe rimasto probabilmente incompiuto.
Grazie per l’insegnamento. Ci sono state persone che, volontariamente o meno, direttamente o meno, hanno “formato” il mio approccio di Marketing e consolidato la fiducia nella sua efficacia.
Sto parlando di Lisa Fortini, autrice del libro “Hitting the Sweet Spot: How Consumer Insights can inspire better Marketing and Adversiting” e formatrice presso la Pennsylvania State University: con il suo bellissimo training nel 2001 per prima ha il mio interesse verso il Consumer Insight. Grazie anche a Jim Petzing, che ha consolidato e rivitalizzato questo interesse nel tempo.
Grazie a Lorenza Menduto e Paola Vacchini, nelle loro posizioni di Consumer Insights Director presso Kraft Foods Europe (adesso Mondelez), perché hanno saputo meglio di chiunque altro coltivare, alimentare e diffondere l’approccio del Consumer Insight in azienda, dimostrando con il loro prezioso esempio quotidiano e con il loro carisma l’efficacia del metodo sul business.
Grazie anche a Nicola Caracino, Marketing Director Coffee, che con lungimiranza e grande apertura mentale ha saputo massimizzare la sinergia tra Marketing e Consumer Insight, creando grande valore sia in termini di gestione delle risorse che di business.
Grazie ai numerosi psicologici e ricercatori che ho incontrato lungo il mio percorso, soprattutto a quelli che mi hanno saputo sorprendere per la capacità di andar al di là dell’ovvio. Grazie anche a quelli che continuano a sperimentare metodi nuovi di comprensione dei processi che guidano le decisioni umane, come Ferdinando Boschi di Art.
Grazie agli spettacolari formatori ed abili comunicatori, in primis Seth Godin, che mi hanno aperto a nuove modalità comunicative, attraverso le quali poter esprimere la mia naturale ionalità.
Grazie per il o. Anche se la prima motivatrice di me stessa sono io, vorrei ringraziare tutte le persone a me care che dimostrano ogni giorno fiducia nelle mie capacità e mi ano nelle scelte poco convenzionali che mi capita di intraprendere nel percorso professionale.
Grazie per la pazienza. Un ringraziamento speciale vorrei dedicarlo a mio marito Renato, che con tanta pazienza e delicatezza, sempre attento a non urtare la mia (elevata) sensibilità, mi ha fatto da “correttore di bozze” per questo libro.
Grazie per il potere evocativo delle immagini. Infine grazie a mia zia, la pittrice Gianna Buran, che mi ha permesso di esprimere in copertina, attraverso uno dei suoi quadri più suggestivi, l’”anima” di concetti
contenuti nel libro che le parole non arrivano a trasmettere.
“Tantra” raffigura i rami degli alberi ai quali i monaci tibetani legavano i biglietti con i loro pensieri, affinché venissero diffusi dal vento e dal fiume nello spazio e nel tempo; rappresenta quindi la trasmissione generosa della conoscenza. Ma l’intreccio dei rami ricorda anche l’interconnessione dei neuroni del cervello umano, che opera per sinapsi ed associazioni: la loro comprensione è alla base del concetto stesso di Insight.
Elena Barbieri si occupa dal 1995 di Marketing e di Ricerche di Mercato. Per 12 anni ha lavorato in Kraft Foods (adesso Mondelez) come Consumer Insights Manager, e come Brand/Innovation Manager, fornendo o alla definizione e realizzazione delle strategie di Marketing di numerose marche e categorie, con crescenti incarichi di coordinamento internazionale. Dal 2011 svolge attività di consulenza strategica di Marketing/Consumer Insights e di formazione manageriale; Associate Researcher di Centrimark, collabora con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e insegna “Consumer Behaviour” presso il Master di Marketing Management.
“La marca è viva….una parte significativa delle ripercussioni, in termini di produzione di senso, di emozioni e valori generati dalla marca e l’ombra lunga che essa è in grado di proiettare nel tempo e nello spazio, esorbitano dalla immediata percezione che il pubblico può averne.”
In copertina: “Tantra” di Gianna Buran, olio su tela, 150x120 cm, 1993