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SPECIE DOMINANTE

A.J. Mitar

Urla struggenti vibrarono alle mie spalle, mi voltai di scatto. Il principe degli inferi in persona si era avvinghiato sul capomilizia Sindabe, mentre gli artigli possenti ne smembravano le carni. Un… un te-terra… Fui scosso da un tremito incontrollabile. Incrociai per un attimo occhi rabbiosi, risplendenti di bagliori infernali. Avevano un aspetto vagamente familiare. Il vento spazzava la terra ammantata, e l’aria si era armata di gelide lame che s’insinuavano sotto la mia uniforme. Per istinto sfoderai l’arma per puntarla contro quell’essere cianotico. Le mie mani tremavano, forse per il peso del fucile a energia, o forse per il grande freddo; ma non c’era più tempo, le urla erano già cessate, insieme alla vita del povero Sindabe. Rapido, l’alieno si scagliò contro la preda successiva, il milite Razhio, intervenuto in difesa del suo superiore. Stesse modalità: gli artigli robusti penetravano nelle membra senza sforzo. Il sangue zampillante imbrattava quel demone. La mano artigliata stringeva il cuore di Razhio, mentre palpitante veniva strappato dall’addome. Una violenza bestiale continuò ad accanirsi sul corpo, fino a quando cadde l’oscurità.

La mia arma reagì alla pressione sul grilletto; la bocca di fuoco irradiò all’impazzata, ma nessun colpo andò a segno. L’alieno si era proiettato nella buia vegetazione. Rischio di colpire i miei miliziani. Desistetti. Uno stridio persistente si propagò riflettendosi come un brivido sulla mia pelle; un urlo diabolico di sfida che echeggiò e riecheggiò nella vallata. Quella creatura era là fuori, da qualche parte. «Disperdetevi nella boscaglia!» gridai.

Conoscevo gli effetti di un’aggressione di quegli esseri, la morte violenta, i corpi dilaniati. Non potevamo competere in un corpo a corpo, a causa della differenza della VFV (velocità del flusso vitale). Potevano muoversi veloci come meteore lanciate verso il Sole, in un ciclo cardiaco riuscivano ad avanzare per cento i. Folate d’aria cariche del loro tanfo ed echi di grida belluine testimoniavano la loro presenza. Per il resto, mille sibili distanti, suoni perforanti e tetri. Un’intera orda assetata di sangue ci sta dando la caccia, pensai, mentre mi sforzavo d’individuare le fonti di quei suoni. Ma il bio-scanner rivelò che erano solo in tre. Lo spirito del mio illustre antenato, il Magnifico Shkelq, insorse dall’oltretomba perché mi rifugiai in una torretta per il monitoraggio ambientale, a venti i; speravo che la solida struttura legnosa fosse impenetrabile per i loro artigli. Al riparo di una sicura postazione, potrei sfruttare la tecnologia di puntamento del fucile, mi giustificai. Mi appostai in attesa di far fuoco, ma le braccia intorpidite sfuggivano al mio controllo. Mi dominava la paura di essere scoperto, non osavo respirare. Il buio del nascondiglio era il mio unico conforto. La luna percorreva il suo cammino prestabilito illuminando i sentieri periferici di Leevanie; la visibilità era buona, mi illusi che potevo centrare il mio bersaglio. Dannazione, come colpire qualcosa più veloce dei miei riflessi? Impotente, dovevo accontentarmi di seguire le rosse scie sul visore bracciale, osservabili per tutto il tempo che il nemico restava in superficie. La poca esperienza ci insegnava che l’unico modo per stanarli era quello di usare armi esplodenti, così dirompenti da rendere inutile la grande rapidità. Maledizione… la rete bio-elettrochimica, ripensai a tutti gli sforzi per bilanciare il ciclo dei batteri e degli agenti bio-elettrochimici del sottosuolo e del sottobosco, Leevanie potrebbe rimanere senza energia per mesi.

Le case sparse si mimetizzavano tra la vegetazione. A rivelare la loro presenza vi era solo la discreta luminescenza che trapelava dagli oblò. Se manteniamo bassi i livelli di fuoco… il rischio di colpire le abitazioni è trascurabile. Stimai che almeno quelle erano abbastanza lontane per agire in sicurezza. Mi attanagliava il dubbio. Per qualche istante udii solo i brusii della boscaglia; l’imboscata sembrava terminata, ma il primo-aiutante Kuzho gridò: «Attenzione… mettetevi al riparo, stanno tornando!» Anche il mio visore visualizzò tre tracce in rapido avvicinamento. All’improvviso, rumori e grida ripresero a imperversare tutt’intorno, portati dal vento. La battaglia si rinvigorì.

La tecnologia del mio impianto oculare mi dava ausilio per ampliare il campo visivo, per l’osservazione alle lunghe distanza, o per distinguere un obiettivo in notturno. Devo stare attento a cogliere il minimo indizio di movimento. I miei occhi si contrassero, i miei arti superiori serrarono il fucile. Avevo bisogno di tempo per agganciare un bersaglio mobile al sistema di puntamento dell’arma. Ma colsi solo i miei miliziani che cercavano la fuga sfruttando l’istinto e le propensioni arboricole. Scene raccapriccianti di corpi che si piegavano sotto i fendenti del nemico, smembrati come fossero di molle consistenza. Si sovrapponevano le urla atroci dei caduti e gli alert sonori d’abbattimento dei parametri vitali; la sordità sarebbe stata una consolazione. In quel breve lasso di tempo morirono venti su trentacinque miliziani. I segni della battaglia erano ben tangibili, l’aria era satura di umori biologici, la neve si era tinta di morte.

Non posso restare qui mentre ci fanno a pezzi, mi scervellai. Osservai il visore sul mio braccio. Scorrevano sovrabbondanti informazioni che mi giungevano dai innumerevoli sensori. Mi resi conto della disposizione dei sopravvissuti: il coadiuvante Notay si trovava nella mia stessa costruzione, il sergente Kuzho sulla cima di un’aghifoglie. Gli altri erano tutti sparpagliati nel raggio di cento i; tutti acquattati nella ricca vegetazione.

«Selettore su razzi» sussurrai al mio comunicatore, «programmare il bersaglio e una sola tornata; fate fuoco appena potete.» Tutti i miliziani ubbidirono all’ordine. I razzi sparati in aria si frammentarono e, ricadendo al suolo, si sparpagliarono in diverse direzioni alla ricerca della traccia-genetica-bersaglio. Temevo che le deflagrazioni sparse mettessero in pericolo la nostra stessa incolumità. I fragori di diverse esplosioni si accavallarono. Poi, lo scricchiolio delle fibre legnose di un maestoso sempreverde rimbombò nella vallata. L’ombra della pianta mi coprì mentre si abbatteva al suolo alle mie spalle; un grande tonfo mi fece sobbalzare, ma per fortuna non fui travolto. Due terranei erano spariti dal visore, avevano fatto in tempo a rituffarsi nella neve e nel terreno granuloso; quasi nuotassero in un fluido, si erano immersi nelle profondità del sottosuolo. Ma un puntino luminoso lampeggiava immobile, localizzato nella stessa posizione da troppo tempo. Colpito! Esultai. Lo intravidi alle date coordinate. Era stato investito proprio dal robusto tronco stramazzato al suolo. Un rapido zoom per osservare quel nemico a terra. Del liquido rosso vivido usciva copioso dalla sua cavità orale.

Ma ancora, i terranei schizzarono fuori dal manto nevoso. Erano solo in due, ma non demordevano. Avendo tempo di studiare le strategie degli assalitori, appresi che agivano sempre nel medesimo modo: dilaniavano le loro prede per poi sotterrarsi appena possibile, dopo dieci i al massimo (stimai). Evidenti le loro capacità di esseri scavatori, ma la velocità con cui si sotterravano presupponeva una rete di gallerie preesistente. Non c’era altra scelta; per sperare di colpirli era necessario continuare con le armi esplodenti. Esitai, troppo! Il tempo di un gelido respiro e il primo-attendente Alkoe emanò un grido atroce. Misi a fuoco i pezzi del suo corpo che cadevano insieme al sangue scrosciante dalle amputazioni; si trovava in cima a un aghifoglie alto trenta i, ma era stato raggiunto e smembrato un pezzo per volta. Le urla cessarono quando tutti e sei gli arti vennero staccati dal corpo.

Il milite Tieen commise l’errore di uscire allo scoperto. Data la posizione, doveva aver assistito all’uccisione del suo amico e commilitone Alkoe. Ingrandendo i dettagli del suo volto, notai i suoi occhi vitrei, i filamenti protesi; era in preda al panico. «Tieen non fare lo sciocco… corri verso un riparo» fu il mio ordine perentorio, attraverso il comunicatore. Ma non m’ascoltò. Correva brandendo il suo fucile, sparando a qualunque cosa si muovesse; gli alberi si contorcevano al calore dei raggi energetici, le foglie danzavano nell’aria, udivo il frastuono di mille ramoscelli che precipitavano al suolo. Poi, un’ombra sfrecciò sulla sua sinistra e Tieen rovinò al suolo; tentò di rialzarsi, ma tre gambe gli erano state tranciate di netto. Le cercò sulla neve; forse, pensò che avrebbero potuto riattaccargliele. Ma il collo si piegò

indietro e poi, un liquido denso cominciò a colargli dalle narici mischiandosi con le lacrime e con la neve. Rimase immobile, riverso nel suo stesso sangue. Alla vista di quell’efferate uccisioni la rabbia m’invase. Riguadagnai tutta l’audacia e decisi che era giunta l’ora di uscire allo scoperto. Impugnai saldamente tutte le armi, ero deciso a riversare sul nemico tutta la potenza di fuoco di cui disponevo. Forse, questo è il giorno in cui la vita e la morte s’incontrano, mi dissi. «Fuoco, fuoco continuato con tutti i razzi a disposizione, fuoco senza pietà!» urlai espandendo al massimo la mia cassa toracica. Tutti i miei sensi erano all’attacco, non potevo permettere che ci sopraffero con simile facilità. Le mie braccia vibrarono ripetutamente, i razzi partirono dalle bocche di fuoco, puntando la luna. Frammentati in decine di piccoli proiettili esplosivi, sibilarono in ogni direzione alla ricerca del loro DNA-bersaglio. Mille esplosioni devastanti, la terra sussultò a lungo; mi appiattii al suolo per non essere colpito da schegge vaganti. Poi la valle si inabissò in un silenzio immobile. Dal mio prezioso visore-bracciale appresi che nessun terraneo era stato colpito. Sembrava che né il freddo né la neve alta ostacolassero la loro rapidità. In preda all’ira, corsi verso il terraneo a terra. Almeno ne ucciderò uno! Giaceva sotto il peso di un ramo e sembrava inerme. Nell’occhio sinistro vi era conficcata una grossa scheggia legnosa, mentre l’altro era spalancato e fisso verso il cielo. La vita l’aveva abbandonato; nemmeno la soddisfazione di una terapeutica vendetta. Quel volto era insolitamente alieno.

È assurdo… mi dissi incredulo.

Qualcosa di più impellente richiamò la mia attenzione. A circa settanta i dalla mia posizione, dietro una boscaglia sparsa, intravidi alcune case bruciare come fornaci inquiete. Fiamme traballanti s’innalzavano, ravvivando la notte con colori più saturi. «Miliziani, dobbiamo aiutare i residenti» chiamai a raccolta tutti i superstiti. I piedi sprofondavano nella neve che rallentava la mia corsa. Il sentiero serpeggiante fra la vegetazione disomogenea mi condusse a ridosso delle fiamme; un fumo grigio mi annebbiava la vista e la mente. Il crepitio della combustione, in sottofondo, si mescolava alle grida e alle richieste d’aiuto. Il pacato villaggio di Leevanie era stato catapultato in uno scenario infernale.

«Aiutatemi!» arrancò un vecchio verso di me. Era claudicante ricoperto di ustioni. Tra le urla, le imprecazioni e gli ansiti, i residenti cercavano di sfuggire agli incendi. In molti perirono. Le case di legno si accartocciavano sotto la spinta del fuoco dilagante, Leevanie non aveva più scampo. È colpa mia, mi ripetevo. La devastazione era stata causata dalle nostre armi, non me lo sarei mai perdonato. Nel frattempo, candidi fiocchi di neve ripresero a posarsi. Si muovevano sinuosi e si depositavano su ogni cosa, affievolendo i segni della battaglia. Le

mie lacrime si confondevano. Di quelle creature sfuggenti non vi era più traccia. Al loro posto solo dolore, morte e rovine. Quella notte i terranei non tornarono. Mi convinsi che le nostre armi li avevano scoraggiati. Torneranno. Ero sicuro.

Nei giorni successivi precipitai in un’incipiente inquietudine. Sensi di colpa, paure ancestrali e mille quesiti turbinavano nella mia mente. Chi erano i terranei? Perché in tutti quei cicli non li avevamo mai incontrati? Rappresentavano una seria minaccia per i dharjen? Come dovevamo reagire? Erano le mie domande ricorrenti. Avevo paura delle risposte che mi apparivano ancor più angoscianti; giunse l’apatia.

Le ondate d’attentati erano iniziate pochi giorni prima di quello di Leevanie. In tutti e cinque i continenti venivano assassinati centinaia di dharjen in azioni quasi sincronizzate. Fu subito chiaro che le vittime designate erano i dharjen d’alto rango. A Leevanie avranno pianificato la mia uccisione? E forse quella dei membri dell’intero Consiglio?

Gli attentati nascondevano una strategia destabilizzante? Mi chiesi se avessero studiato i punti deboli della nostra organizzazione sociale e se sapevano che l’uccisione dei dharjen d’alto rango avrebbe gettato nel caos il resto della popolazione. Nonostante agissero da selvaggi, non vi erano dubbi: dietro gli attacchi c’era un’intelligenza sopraffina e pianificatrice; non dei primitivi spinti

dall’istinto, ma una civiltà con un alto livello di organizzazione e in grado d’agire all’unisono.

Per combattere meglio contro i terranei, dovevamo carpirne i segreti più nascosti, compresi quelli della loro fisiologia. Procurarci il primo esemplare di terraneo fu un grande successo; non potevo esimermi dal partecipare alla prima autopsia mai effettuata su un esemplare di quella specie. Il sacrificio dei miei miliziani non è stato vano. Erano presenti il Gran Maestro di Scienza Kirie, uno dei massimi esperti di xeno-biologia della casta degli erudin, e la sua graziosa assistente, l’apprendista Hitaj. Kirie si prostrò. «Supremo Weiza.» «Vorrei ringraziarla per avermi concesso questa opportunità,» mi disse, «sono sempre stato affascinato dalle specie indigene e dalle loro fantastiche soluzioni evolutive e non vedo l’ora di studiare anche questa creatura.» Potevo sentire i battiti dei suoi cuori desincronizzarsi dall’emozione. «Maestro, sono curioso di sapere, dalle sue parole desumo che potrebbe trattarsi d’una nuova specie?» «Non faccia caso a questi tecnicismi da scienziato,» mi disse, «volevo solo dire che potrebbe trattarsi di un essere così mutato, rispetto a un antico terrestre, da potersi considerare come appartenente ad un’altra specie.» «La comparazione genetica ha stabilito una percentuale del 90,9% di compatibilità. Troppo bassa per dare la certezza che i terranei discendano dai terrestri» svelò Kirie. Ero già a conoscenza dei risultati contrastanti che ci avevano fornito le prime ricerche.

«Però… potrei già affermare che l’affinità terrestri-terranei è lampante… basta guardarli e non credo ci siano altre spiegazioni plausibili,» continuò indicandomi il cadavere pronto per l’autopsia, «nonostante i dati degli scanner genetici.»

I terrestri avevano un aspetto noto a tutti i dharjen. Si erano estinti da tremila cicli del Sole, ma circolavano numerosi video-archivi che ne documentavano l’esistenza; vi erano anche diversi esemplari conservati in camere criogeniche. La preservazione di tutto quello che riguardava la civiltà umana era sempre stata tenuta in grande considerazione.

«Dannato Sole» borbottai tirando via i filtri solari. I miei occhi si rilassarono istantaneamente grazie alla luce sobria emessa dalle pareti del laboratorio.

Lanciai un’occhiata al cadavere disteso. Ora posso osservarlo meglio. Ripensai al crepuscolo dell’imboscata di Leevanie, quando ero a pochi i dallo stesso alieno. Cercai qualcosa di familiare, di già visto. Era un bipede con arti superiori corti, una muscolatura disegnata in rilievo sul corpo tozzo, tremendamente massiccio. Non vi erano dubbi che terrestri e terranei si somigliassero. Ma alcune perplessità incalzavano. I volti dei terrestri erano più vaghi, morbidi, pensai. Al contrario, grossolano e tagliente quello del terraneo. Era il ritratto della ferocia scolpita nell’ossidiana. Opachi anelli metallici si concatenavano intorno alla lunga criniera

fiammeggiante, per poi incarnarsi in vari punti della testa. Bizzarri ornamenti tribali… forse sono il frutto di un rituale di guerra. Era stato denudato dagli abiti scarni. Notai delle scaglie diffuse su diversi punti del suo corpo; dall’aspetto coriaceo, davano la scomoda sensazione di essere impenetrabili, quasi corazzanti; un’altra anomalia rispetto alle mie conoscenze sugli umani. Due sole mani, ma con cinque falangi artigliate. I robusti artigli si estendevano ricurvi e affilati, un’arma sanguinaria, selvaggia e altamente letale. In apparenza, era l’unica di cui si servivano per infliggere lesioni mortali. E questo dovrebbe essere un discendente dei terrestri? Un’evoluzione della specie? Piuttosto, mi sembra una creatura regredita a uno stadio animalesco.

«L’esperienza c’insegna che l’unico modo per svelare i segreti di un essere vivente, è quello dell’osservazione diretta» disse Kirie, mentre si preparava a eseguire l’autopsia. «Per sicurezza rimanga a sei i di distanza» mi disse, facendomi cenno con le mani. Tutti indossavamo una bio-tuta con maschera protettiva; si temeva il contatto con eventuali agenti patogeni sconosciuti. Il maestro Kirie incominciò a utilizzare il bisturi laser nella zona oculare. «Osserva Hitaj… vista binoculare…» Sembrava avesse tutta l’intenzione d’improvvisare una noiosa lezione di xeno-biologia applicata. Hitaj increspò i villi frontali cercando d’osservare meglio il capo del terraneo. «Permette loro di calcolare la distanza di un oggetto in tempo reale in un

ampio campo visivo… occhi in grado di contrarsi istantaneamente per filtrare anche il sole più abbagliante,» disse Kirie, «davvero eccezionali.» «Maestro sembrerebbero essere più grandi di quelli dei terrestri e poi… le placche ossee frontali… la terza palpebra nittitante,» disse Hitaj «si tratta di mutazioni.» L’intelligenza del laboratorio ci diede ausilio, prese l’iniziativa di volumizzare un ologramma del profilo di un cranio terrestre in trasparenza; poi la comparazione con quello di un terraneo. Le differenze erano evidenti.

«Esatto, credo siano adattamenti agli ambienti del sottosuolo» aggiunse Kirie. Ci potevo arrivare anch’io. «Com’è possibile che si siano verificati in tempi così rapidi?» domandò Hitaj. Era una domanda lecita. "Le leggi della biologia sono uguali in tutto l’universo" era sempre stato un imperativo incontrovertibile per tutti gli scienziati erudin. In soli tremila cicli del Sole, simili mutazioni non si sarebbero dovute verificare; né sulla Terra né in qualunque altro luogo. «Ho una teoria in merito…» un ghigno comparve sul volto di Kirie, «pantropia!» Quel termine mi suonava più alieno del cadavere disteso. «Pantropia?» ripeté Hitaj. Doveva rappresentare un mistero anche per la sua formazione erudinica. «Che la sua sapienza ci illumini… Maestro.» Sorrisi. «Cosa ordinarono i nostri leaders, dopo l’occupazione della Terra?»

Invece di chiarire il concetto di pantropia, Kirie propose un altro quesito. Mh… tipico degli erudin, l’ostentazione di conoscenze superiori… la divagazione e sempre pronti a ingaggiare sterili sfide intellettuali. Incominciavo a spazientirmi.

«Cancellammo tutte le obbrobriose megalopoli dei terrestri,» dissi, «erano solo rovine che soffocavano il pianeta.» «Questa cancellazione a cui si riferisce rientra fra le procedure di formazione ambientale, ma non è quello che intendevo.» «Allora? Cosa sta cercando di dirmi, maestro Kirie?» incalzai. Conoscevo le tecniche di formazione ambientale, ma non riuscivo capire dove voleva arrivare l’erudin. «Se mi permette Maestro, vorrei spiegare io al supremo Weiza» Hitaj s’insinuò nella conversazione. Kirie fece segno di sì sfarfallando con i centrocchi. Ci risiamo, ecco un’altra saccente egocentrica. Mi indispettii. «Supremo comandante, presumo che il Maestro si riferisca alle prime azioni messe in atto per rendere questo pianeta più adatto alla fisiologia dharjen. Quindi a processi di trasformazione, non di distruzione.» «Certo… dopo aver eliminato il pericolo numero uno per la nostra incolumità, i terrestri, abbiamo alterato l’ecosistema. Volevamo rendere questo pianeta più simile a Dharje» insistetti sarcastico, mentre controllavo la mia ira. Forse, se non fosse stata così bella, l’avrei cacciata dal laboratorio per insolenza. Poi, la sua pelle sull’occipite virò bruscamente su tinte colleriche. «Vuole dire che gli umani non si sono estinti per cause ambientali?» Trasalì. Interessante… quest’ingenua è troppo giovane per aver la disponibilità di tutte le informazioni. Pensai di ripagare la sua sfrontatezza con una dose di

cinismo. «Ebbene sì, è proprio quello che intendevo!» risposi. Le iridi della giovane brillavano, ma nessuna lacrima in vista. La sua collera si mutò in disperazione.

Forse ho esagerato, ma prima o poi avrebbe saputo. Riconobbi i simboli tatuati sui pariecipiti frontali di Hitaj; apparteneva a una famiglia di erudin d’alto rango, e un giorno, avrebbe sostenuto il peso della conoscenza con gli innesti memo-atavici. «Non posso credere che il nostro popolo si sia macchiato di un genocidio…» una lunga pausa d’interdizione per metabolizzare quelle informazioni, «miliardi di terrestri sterminati per la vita di circa tredicimila dharjen?» «Sì, ma abbiamo solo accelerato il processo» giustificai, nemmeno troppo convinto delle mie stesse affermazioni, «gli scienziati scoprirono che i terrestri avrebbero trovato altri modi per estinguersi.» «Estinguersi!» disse Hitaj, «i terrestri si stavano evolvendo, avevano sviluppato una civiltà avanzata, o forse si tratta di un’altra menzogna?» Rimasi ad ammirarla, rapito dalla sua ione. «È vero… ma il loro sviluppo fu grazie a un sistema economico bizzarro che li avrebbe condotti a un inesorabile declino» Kirie mi diede ausilio. «Apprendemmo che il loro unico motore che muoveva ogni proposito, che li spronava per il raggiungimento di nuove frontiere era basato sulla sola estrazione di ricchezza. Ma per pochi, solo per la casta dominante; la maggior parte della popolazione era costretta a stili di vita inaccettabili.» «Spietati guerrafondai che avevano persino devastato il loro pianeta sotto la spinta di una continua ricerca di nuove risorse,» dissi, «ecco cos’erano i terrestri.» «E dopo aver dilapidato tutte le risorse della Terra? Semplice, si sarebbero scannati a vicenda… esseri illogici!» Disprezzai.

Così conclusi la serie d’interventi che giovavano alla causa del genocidio umano. «Mi domando… con che diritto pochi leaders dharjen abbiano progettato lo sterminio di un’intera razza! I terrestri sono descritti come indegni guerrafondai, alieni, demoni e noi ci proclamiamo un popolo illuminato. C’è molta incoerenza in tutto questo» Il suo sguardo s’indurì, il suo corpo s’irrigidì, percepii dei pensieri molto più infuocati delle parole che uscivano dalla sua bocca. «Ritorni nei suoi ranghi, apprendista Hitaj,» intervenne Kirie «non può permettersi d’oltraggiare il Supremo comandante d’Armi Weiza con le sue irriverenti insinuazioni.» Il tono di Kirie si fece severo. «Altre conoscenze aiuteranno ad ampliare gli orizzonti della sua mente, aggiungendo altre prospettive. Solo allora sarà pronta per affrontare questo tipo di discussione» Kirie concluse perentorio.

Non mi sentii oltraggiato, al contrario Hitaj parlava bene, ma tremila cicli or sono, quando la scelta era la sopravvivenza o la morte, l’etica dharjen era venuta meno. Senza speranze concrete perdemmo ogni orientamento morale, e persino la dignità. Dopo quelle rivelazioni che sapevano di morte, Hitaj non osò più guardarmi, non accennava ad abbassare il tono del suo grugnito di disapprovazione. Tempra forte e vitale, va diretta al punto… non si è fatta intimorire nemmeno dal mio blasone. Mi ero lasciato ammaliare da quella femmina, i miei pensieri s’infiammarono. Sarà madre di grandi dharjen – ero sicuro. Peccato che non appartenga alla casta degli armigen, sospirai.

Tutto quel dibattere sul ato stimolò la mia memoria atavica. Vidi il

tempo scorrere all’indietro, gli avvenimenti sovrapporsi l’uno sull’altro, ma senza confusione. Riaffiorarono prepotenti le memorie dei miei illustri antenati. Non le bloccai, come sempre mi avrebbero aiutato a comprendere alcune scelte del mio popolo. I ricordi dei miei antenati sono i miei ricordi. Mi concentrai per facilitare il processo di interazione con gli innesti memo-atavici. Un formicolio risaliva dalla base cranica, la mia corteccia cerebrale era iper-stimolata. Sprazzi di vite ate transitavano chiarissimi nella mia mente, eppur condensati in brevi frammenti temporali. Con la rapidità del pensiero, tutta la storia dei dharjen assunse forme più nitide. Percepii il susseguirsi di numerosi stati d’animo. Il vitale pianeta Dharje, e tutto il fervore di due miliardi d’individui. La dilaniante angoscia degli astrofisici nell’osservare un abnorme aumento del volume della stella Dha. In breve, il mantello stellare avrebbe raggiunto un’espansione critica. Tutta la sapienza dharjen non sarebbe bastata contro una natura matrigna. Percezioni di disordine, di coscienze corrotte; odio e rabbia e poi la follia delle guerre fraticide. I dharjen tirarono fuori il peggio che nessuno si aspettava. La rassegnazione di chi pensava che la fine di una specie fosse inevitabile, prevista dalle sacre Leggi Universali. Poi Dharje si trasformò in uno sterile deserto infuocato. Il popolo Dharjen si risollevò, decise di ritornare nobile e di sopravvivere. Ma le città sotterranee erano solo una soluzione provvisoria, il volume della stella Dha avrebbe continuato la sua espansione. Un giorno il pianeta intero sarebbe stato disintegrato. L’orgoglio per la storia gloriosa, imprese clamorose, forse impareggiabili,

ma nulla avrebbe avuto più senso. L’obliò incombeva.

Una tenue speranza sopraggiunse. Avevamo le conoscenze scientifiche per lasciare il nostro sistema stellare. La ione e l’ingegno per la costruzione della grande nave-arca. I radiotelescopi scandagliarono milioni di sistemi stellari, finalmente uno spettro elettromagnetico amichevole, apparivano nitide le righe dell’ossigeno e del vapore acqueo. «Abbiamo localizzato un pianeta con le combinazioni pro-vita. Si tratta di 300400AP e ci sono elevate probabilità che sia un mondo verde e caldo, con dimensioni e atmosfera simili a Dharje» proclamò il gran cancelliere Drunie a tutta la popolazione. Quei freddi caratteri alfanumerici rappresentavano l’ultima speranza per la sopravvivenza. Ma la salvezza non era per tutti. Nell’impossibilità di trasportare due miliardi d’individui in un luogo distante centinaia di cicli-luce, prendemmo una dolorosa decisione: solo centomila dharjen avrebbero intrapreso il lungo viaggio. Un’incredibile impresa che sarebbe durata almeno cinque generazioni. L’universo non ci avrebbe concesso altre opportunità. Nessuno degli imbarcati su Dharje sarebbe sopravvissuto fino al raggiungimento di 300400AP, nessuno di loro avrebbe gioito per aver messo piede sulla nuova casa. Paura e solitudine, durante i trecento cicli a bordo della nave-arca, un viaggio fino allo stremo delle forze. Si fecero strada dei pensieri abbastanza definiti. Erano le introspezioni del Magnifico Shkelq che rifletteva sulla vana nostalgia provata per la patria distrutta. Gelidi rimpianti per una terra mai calpestata, sconosciuta. Condannati a non dimenticare la sofferenza degli antichi abitanti di Dharje. Erano gli effetti indesiderati degli innesti mnemonici.

Poi, l’arrivo nel sistema stellare di Dharje II, così avevamo ribattezzato 300400AP. La vibrante trepidazione per il giorno più emblematico della nostra storia. Sentii ritornare la forza e il calore nei pensieri del Magnifico Shkelq. «Finalmente abbiamo raggiunto la nostra nuova casa. Il nostro popolo è stato degno di sopravvivere» era l’introduzione dell’entusiastico discorso all’arrivo nel Sistema Solare.

Ancor prima di superare il grande pianeta anellato i sensori a lungo raggio ci regalarono un’amara sorpresa: Dharje II emetteva una vasta gamma di segnali d’origine artificiale. «Ci aspettavamo la vita, ma non l’intelligenza. Ci aspettavamo di trovare esseri striscianti, volanti, o saltellanti, e non esseri costruttori di città.» Note di delusione nei pensieri di Shkelq, durante il suo primo congresso con ordine del giorno: la specie indigena. La grande nave-arca rimase nascosta sull’orbita alta del secondo satellite del gigante anellato; luna ghiacciata e inospitale, ma con sottosuolo ricco d’acqua allo stato liquido.

Per qualche tempo spiammo quella sgradita civiltà presente sull’agognato pianeta, chiamato Terra (denominazione indigena). Elaborammo i primi dati… La scoperta della differenza di VFV; la curiosità e la meraviglia nell’apprendere quello strano fenomeno. Nessuno avrebbe immaginato che le creature di un pianeta, all’altro capo della galassia, si fossero evolute in modo da agire, pensare e vivere a velocità multipla della nostra. In confronto ai terrestri, la vita dharjen, e tutti i processi fisici e mentali scorrevano a rallentatore. Stimarono che il nostro VFV era 3.2 volte più basso.

Impossibile sopravvivere in un ecosistema composto da specie super-rapide. Anche gli animali, innocui per i terrestri, ci avrebbero predato. Saremmo stati spazzati via nel giro di poco tempo. I dharjen erano un popolo rispettoso di tutte le forme di vita, disdegnavamo la violenza, ma l’istinto di sopravvivenza ci trasformò in malefici strateghi di morte, distruttori di specie. Toccò alle tre caste prendere le decisioni difficili, esistevano per tale ragione. Non potevamo assaltare il pianeta; la nave-arca non era stata concepita come nave da guerra, non poteva tener testa alla potenza bellica di un intero mondo-armato come la Terra; dovevamo agire con astuzia. Pianificammo lo sterminio dell’umanità, successivamente ci saremmo occupati della fauna. Il genocidio fu perpetuato con poche risorse, grazie al rilascio di un virus ingegnerizzato. Lo liberammo in vari punti della bassa atmosfera. Il virus indusse una serie di complesse alterazioni nel DNA umano. I terrestri si accorsero degli effetti della terapia genica quando era troppo tardi. L’intera specie s’indebolì e venne resa sterile. In apparenza, non compresero di essere sotto attacco. Studiando i segnali che trasmettevano, ci accorgemmo che attribuirono la sterilità a fantomatici agenti inquinanti causati dal loro stile di vita. «Abbiamo devastato il nostro pianeta contaminando il ciclo della vita. Ogni ecosistema è compromesso; il nostro stesso corpo è stato intossicato rendendoci sterili» sostenevano ingenuamente alcuni dei loro scienziati.

Pochi cicli di Dharje (cento cicli del Sole) per fare piombare l’umanità nel buio dramma dell’estinzione. Alla fine ci impadronimmo del pianeta sbarazzandoci degli ultimi sopravvissuti. Preservammo tutte le denominazioni geografiche indigene, ma la Terra

diventò nostra. La versione della contaminazione ambientale fu imposta alla nostra storia. Per convenienza, solo una ristretta cerchia di leaders dharjen conosceva i dettagli dell’occupazione della Terra. Il tempo spazzò via dalle coscienze tutte le colpe, lasciandovi solo nuove speranze e confortanti certezze.

I cicli si accumularono all’insegna della pace e del benessere nel nostro nuovo mondo-giardino. Sicuri di essere riusciti nei nostri intenti, non avevamo previsto che i terrestri sarebbero ritornati, sotto le spoglie di demoni assetati di vendetta. «Comunque…» Kirie divagò, forse il dibattito stava volgendo su sentieri scomodi. All’istante, la mia mente ritornò nel presente. «Quanti gli insuccessi, troppe le vittime nel vano tentativo di rendere la Terra più simile a Dharje.» «Ce l’abbiamo fatta; ormai, questo mondo è diventato la nostra nuova casa, abbiamo l’accomodante sensazione che la Terra sia nostra, da sempre» dissi. «Però, duemila cicli del Sole or sono, qualcuno ebbe un’idea tanto geniale quanto ambiziosa: data la difficoltà d’adattare la Terra alle nostre esigenze, perché non fare il contrario?» Compresi che Kirie stava cercando di spiegare il concetto di pantropia a una povera mente armigen come la mia. «Perché non modificare i nostri geni, per adattare noi stessi a vivere sulla Terra? Non il contrario…» Affascinante teoria, sembrerebbe più semplice che attuare le interminabili procedure della formazione ambientale.

«Sono queste le tecniche pantropiche, ovvero cercare l’affinità con altri mondi modificando parte del nostro codice genetico. Per esempio, potevamo convivere con la fauna terrestre, invece di sterminarla. Semplicemente adattando la nostra VFV» ci spiegò Kirie, «ma tutti gli esperimenti fallirono, il progetto venne abbandonato.»

«Maestro, ci sta dicendo che gli antichi terrestri sono riusciti dove noi abbiamo fallito? Hanno messo a punto tecniche pantropiche e si sono adattati velocemente alla vita nel sottosuolo?» Hitaj ruppe il silenzio, forse aveva compreso che quelle argomentazioni erano troppo interessanti per non parteciparvi attivamente. «Le mie sono solo teorie, oppure congetture» rispose cauto il maestro Kirie. «L’appurerò nei miei prossimi studi.» Intanto il bisturi di Kirie scorreva preciso sul corpo dell’alieno. I miei recettori biochimici impazzivano a causa dell’incredibile gamma d’odori ed esalazioni provenienti dal cadavere; avevo commesso l’errore di togliere la fastidiosa maschera. Kirie continuò l’autopsia mostrandoci una serie di peculiarità della fisiologia terranea. In diverse fasi, elogiò la resistenza dell’endoscheletro, i muscoli, la velocità e la grande potenza che riuscivano a generare (rispetto ai nostri tubi osmotici); nuovi sensi (sensibilità alle variazioni elettrostatiche e agli infrarossi), l’aumentata capacità cranica e l’intelligenza. Kirie era precipitato in un surreale stato d’ammirazione per quegli esseri, quasi fanatica. Invece, pensai che le sue argomentazioni erano quasi irrilevanti se non avevano il fine di avvantaggiarci; dal punto di vista di un armigen, lo scopo dell’autopsia era quello di determinare i punti deboli dei terranei e non di elogiarne i punti di forza. «Supremo, potrebbe interessarle il fatto che i terranei sono esseri dalla fisiologia nettamente più complessa della nostra, ma anche più difficile da riparare in caso di lesioni. Difficilmente, un terraneo sopravviverebbe a una mutilazione di un arto» mi disse.

«E questo sarebbe il punto debole che ridimensionerebbe la minaccia terranea?» chiesi sarcastico. Nuovi sensi, forza, velocità e intelligenza… cos’altro dobbiamo aspettarci? Pensai che il tempo ci avrebbe consegnato tutte le risposte. Se i terranei ce ne avessero concesso.

Nonostante tutti gli sforzi per comprendere i segreti della fisiologia terranea, non guadagnammo nessun vantaggio tattico. Gli attacchi continuarono e s’intensificarono. I terranei divennero sempre più audaci, le loro strategie si affinavano. Solo pochi cicli del Sole per portare lo scompiglio sulla superficie. La Terra diventò un luogo ostile per i dharjen e osservammo un forte decremento demografico. Anche la giovane Hitaj rimase uccisa durante uno dei frequenti agguati. Proprio nella Sala delle Mille Generazioni, durante il rituale dell’assimilazione della conoscenza degli antenati (atavasia). Una strage nel giorno simbolico per un giovane dharjen d’alto rango. L’uccisione di tutti quei rampolli destinati ai ruoli di potere inflisse un duro colpo al nostro popolo Per la prima volta stringevo Hitaj tra le mie braccia, ma erano gli ultimi istanti della sua breve esistenza. Le iridi purpuree e verde-screziate mi fissarono comionevoli. Luccicavano. «Supremo… il genocidio dei terrestri… è stato un errore… ne pagheremo le conseguenze… che il Divino ci perdoni» ansimò le sue ultime parole e spirò. I suoi filamenti le sfioravano il volto, erano tiepidi e profumati; era esanime tra le mie braccia, ma ancora molto bella; lei, la Terra azzurra, e la pace erano tutto quello che avrei voluto in quel momento. Compresi d’amarla sin

dal nostro primo incontro. Le lacrime annebbiarono la mia vista per diverse ore. Ero bramoso di vedetta.

Tutti concordavamo: i terranei stavano combattendo per riappropriarsi del pianeta appartenuto ai progenitori umani. Da tempi immemorabili, i dharjen erano un popolo unito e senza nemici, ma era stata preservata l’antica tradizione guerriera, per questo esisteva la gloriosa casta degli armigen; era giunta l’ora di combattere. Ancora una volta, era in pericolo la nostra sopravvivenza.

Una decisione storica fu presa dalle tre caste riunite in seduta comune, durante il Gran Consiglio Unico: Guerra! I vertici delle tre caste sapevano che la tattiche d’armi erano sempre state una peculiarità dei membri della mia famiglia; per questo mi nominarono Altissimo d’Armi. Il Magnifico Shkelq, mio antenato in linea retta, era colui che aveva guidato lo sbarco sulla Terra. La mia carica mi concedeva l’onore di presiedere il Consiglio di Guerra che stabilì di contrattaccare con le armi più distruttive. La più alta tecnologia di cui disponevamo fu messa al servizio di una nuova industria bellica. I cieli e la terra si saturarono di migliaia di unità pronte a contrattaccare. Usammo ogni mezzo dotato di propulsione: da quelli progettati appositamente per il combattimento a quelli destinati alla logistica e ai collegamenti. Predisponemmo una rete satellitare in sinergia con i nuovi bio-scanner di macro-aree. «Monitoreremo tutta la superficie del pianeta, e tutti gli spostamenti d’ogni

singolo terraneo» i più illustri strateghi militari studiavano come contrastare quegli attacchi fulminei. Ma nessuna strategia risultò efficace. I successi furono esigui. «Siamo indifesi contro la loro guerriglia, non riusciremo a contrastarli con armi convenzionali» affermò il gran cancelliere Noiwa. Non vi furono mai scontri diretti, con i quali potevamo far valere la superiorità bellica. «Se le armi convenzionali non funzionano, cercheremo d’inventarne altre.» «Cos’ha in mente supremo Weiza?» mi domandò il gran cancelliere durante l’ennesima seduta del Consiglio di Guerra. «Li combatteremo nel loro stesso habitat: il sottosuolo.» «E come intende procedere con questa strategia così… creativa?» Sorrise il comandante delle forze di terra, il supremo Guinak. «Costruiremo dei mezzi scavatori e andremo a scovarli nei loro nascondigli.»

Tanta soddisfazione nel vedere realizzato il primo prototipo di termotrivella; il nostro veicolo sotterraneo riusciva a penetrare nelle profondità della terra grazie all’impiego di uno scudo termico. Allo stesso tempo, era anche in grado di lanciare torpedini perforanti, armi micidiali che non avrebbero dato scampo ai terranei.

Grazie alle nuove termo-trivelle vincemmo diverse battaglie, ma soprattutto realizzammo una serie d’interessanti scoperte. La prima fu un’intricata rete di gallerie che si diramava in ogni direzione in tutti i continenti. «Questo è il risultato di centinaia di cicli d’attività nel sottosuolo» teorizzarono gli scienziati erudin. Durante la loro espansione, i terranei avevano scavato sotto vaste superfici, era lecito pensare che avessero colonizzato gran parte del sottosuolo del pianeta.

La mappatura delle gallerie ci avrebbe aiutato a prevedere i luoghi di raccolta, o addirittura quelli dai quali avrebbero lanciato i loro attacchi; ma anche tale operazione dimostrò il suo scarso valore tattico; i terranei erano abili scavatori, avrebbero continuato a scavare all’infinito. Invece, grazie al maggiorante Diurho e la sua seconda squadriglia di termotrivelle, riuscimmo a fare un ritrovamento illuminante. «Ecco quello che terrestri chiamavano NUEK; un antico sito, ormai disabitato, rinvenuto nelle profondità della terra d’Islanda» annunciai, mentre degli ologrammi mastodontici di quei luoghi scorrevano al centro della sala del Gran Consiglio Unico. «Dalla datazione, abbiamo stabilito che si tratta di una cittadella vecchia di tremila cicli; è lì che visse un congruo numero di terrestri, dopo il rilascio del virus ingegnerizzato» dissi orgoglioso, ben conscio della grande scoperta.

Studiammo a lungo gli archivi del NUEK ed estrapolammo delle preziose informazioni. Avevamo sottovalutato i terrestri. Sin da subito compresero di essere sotto l’attacco di forze extraterrestri, ma i fatti non furono divulgati alle masse. Solo pochi umani sapevano. A causa di questa segretezza ignoravamo di essere stati scoperti. Non intercettammo mai alcuna comunicazione che faceva riferimento a un’invasione aliena. Nel NUEK, le migliori menti terrestri collaborarono per cercare di sconfiggere le alterazioni genetiche causate dal nostro virus; ma quella tecnologia genica era fuori dalla loro portata. Allora cercarono altre soluzioni: studiarono il modo di vincere la sterilità ibridandosi con primati e vari mammiferi, i più vicini nel piano dell’evoluzione. Ma ancora, tutto l’ingegno umano si dimostrò insufficiente e fallirono. Agli umani non restò che morire.

Correva l’anno 2154 AD, secondo il calendario terrestre, quando il sistema di monitoraggio automatizzato del NUEK stimò la morte dell’ultimo essere umano. Ma nella cittadella qualcosa era sopravvissuto. Al loro posto, gli umani lasciarono migliaia di creature, frutto d’innumerevoli sperimentazioni. «Abbiamo decodificato ed esaminato numerosi video-archivi dalla cittadella,» disse Kirie, nel frattempo nominato Altissimo Erudin, «si notavano esseri sgraziati e deformi la cui vista è un insulto a tutto ciò che si può chiamare Creazione.» Ci stavamo avvicinando alla verità.

Kirie e i suoi prescelti erudin cercarono di ricostruire l’intero percorso evolutivo dei terranei. Scoprirono che per primo si verificò un processo di speciazione, innescato dall’isolamento ambientale e geografico; ci furono grandi adattamenti evolutivi in tempi rapidissimi, ma accettabili, solo duemila cicli. Due specie distinte si differenziarono a partire da un antenato comune. Una continuò a essere composta da pseudo-primati-ibridati, l’altra diventò qualcosa di nuovo: proto-terranei. Dopo aver convissuto una di fianco all’altra, la nuova specie prevalse. L’evoluzione continuò per altri mille cicli, una generazione dopo l’altra, veloce, troppo veloce. I proto-terranei erano geneticamente differenti dai terranei, o neoterranei; il aggio da una specie all’altra avrebbe richiesto, notoriamente, milioni di cicli del Sole.

Kirie dedicò diversi cicli ad analizzare ogni tipo di dato proveniente dal NUEK.

«Non c’è nessuna prova che i terrestri abbiano sviluppato tecnologie per il controllo dei geni come le tecniche pantropiche. Tantomeno,» disse l’Altissimo Erudin «i proto-terranei avrebbero potuto farlo, a malapena riuscivano a costruire manufatti di pietra.» La comunità degli erudin era interdetta. Abbandonata la teoria delle mutazioni genetiche artificiali, cosa aveva spinto l’evoluzione di quella specie a procedere così repentina?

Ci avvicinammo alla risoluzione del mistero proprio quando usammo un’arma, vincente in altri tempi: i virus ingegnerizzati. Stavolta la terapia genica si rivelò inutile. Gli scienziati attribuirono questo fallimento a inattese capacità d’adattamento dei terranei. Infine la svolta: «Riescono ad adattarsi in poco tempo anche se sottoposti ad agenti chimici intossicanti.» Kirie mi comunicò entusiasta, dopo una fase di sperimentazione su alcuni terranei catturati vivi. La mente degli erudin s’illuminò. Compresero l’imprevisto, l’intervento risolutivo della madre di tutte le madri: Madre-Natura, e il suo tentativo di preservare la sua progenie, di privilegiare una specie indigena per il dominio del pianeta. Scoprirono che non si trattava di una tecnologia, ma di processi naturali e di tipo volontario. Era questa la grande scoperta. Quegli esseri avevano una dote naturale mai osservata prima: quella di poter decidere la mutazione dei loro geni per aumentare le possibilità di sopravvivenza. Tutta la comunità scientifica teorizzò che i proto-terranei svilupparono una sorta di coscienza genetica a cui accedevano per mutare il DNA. Così, adattamento dopo adattamento nacquero i terranei (neoterranei).

«Abbiamo svelato il mistero…» dovette dichiarare Kirie alla popolazione,

dopo aver presieduto il Congresso della Scienza, «non demoni e nemmeno umani, ma soltanto dei reietti. Degli scarti di laboratorio e degenerazioni.» Il morale dei dharjen era già basso, senza svelare che lottavamo contro una super-specie invulnerabile ad alcune delle nostre armi più terribili. I terranei erano creature nuove, non discendenti di una civiltà morta. Il contributo genetico umano era da considerarsi trascurabile rispetto a quello dovuto a innumerevoli altri mammiferi. Nel DNA di questa nuova specie, vi era solo l’impronta dell’ingegno umano, un piccolo contribuito alla genesi. Forse Kirie aveva detto una parziale verità, si trattava di scarti di laboratorio, ma questo solo al principio. Ormai dovevamo competere con esseri strabilianti, dotati di un’arma straordinaria: l’adattabilità. Nonostante la sapienza e padronanza delle tecnologie geniche, non avevamo previsto che si potessero verificare simili prodigiosi processi. Madre-Natura si era presa gioco delle leggi della statistica. Tutte le casualità più improbabili comparteciparono alla nascita di un nuovo essere. La casta degli erudin catalizzò ogni sforzo per comprendere tutto il complesso fenomeno di speciazione-pantropia-cosciente. Soprattutto i matematici e i genetisti erano in fibrillazione per i nuovi orizzonti che si prospettavano dopo le nuove scoperte.

Intanto, la guerra proseguiva e il nemico avanzava. Ci domandammo se scendere a compromessi, se potevamo trovare il modo di convivere; forse era giunta l’ora d’accordarsi con un nemico agguerrito. I terranei comunicavano con un linguaggio simile a quello dei terrestri. Potevamo comprenderci a vicenda, grazie alle giuste strumentazioni; ma non ci fu mai comunicazione tra le nostre specie. Più volte inviammo loro dei messaggi, ma non ricevemmo risposte. Nonostante i nostri buoni propositi, sembrava che fossero interessati solo a sterminarci. Quasi costringemmo i prigionieri ad ascoltare i nostri argomenti, ma solo i loro occhi ci comunicavano qualcosa: un odio viscerale.

Esso non era stato covato, era giunto da un lontano ato. Un sentimento atavico la cui forza distruttiva era diretta verso i dharjen. Forse, ci odiavano senza comprenderne la ragione. Piuttosto preferivano suicidarsi che vivere in cattività.

«In un lontano ato gli esseri umani, in un ultimo tentativo di sopravvivere, cercarono d’ibridare il loro DNA. Ma alla fine, odio e violenza sono le uniche caratteristiche che la loro maldestra tecnologia è riuscita a trasmettere a questa nuova specie» fu uno degli ultimi messaggi dell’Altissimo Maestro alla popolazione, «per istinto combattono per scacciare gli alieni invasori del loro pianeta; per questo non si fermeranno fino a quando ci avranno annientati completamente.» I terranei continuavano a mietere vittime senza pietà.

«La forza antica e profonda della Terra ha scelto di combattere al loro fianco. Come poter sperare di vincere contro simile alleata?» si confidò Kirie durante il suo ultimo Consiglio Triumviro, prima di diventare l’ennesimo leader assassinato. Fu allora che comprendemmo che non potevamo più batterli. Indeboliti, continuavamo a morire. Loro diventavano sempre più forti.

Sono ati cinquanta cicli del Sole e siamo rimasti in pochi, invece la popolazione terranea è cresciuta in maniera esponenziale. Hanno distrutto i nostri eserciti, rendendoci inermi. Hanno incendiato i nostri villaggi. Ci hanno dato la caccia nei luoghi più remoti della Terra, trucidandoci a milioni.

L’ultima roccaforte della civiltà dharnjen è Hintunie, la città fortificata fra i ghiacci della Groenlandia. Resteremo qui nascosti in attesa dell’ultimo

battito dell’ultimo dharjen. Per uno strano scherzo del destino i ruoli si sono invertiti; ora siamo noi a doverci nascondere. Hintunie è inaccessibile ai terranei. Ma per quanto? Presto ci assedieranno. Presto troveranno il modo per scovarci anche tra i ghiacciai perenni. Nel frattempo hanno il via libera per colonizzare la superficie dell’intero pianeta. Sono la specie dominante, i padroni della Terra. La fine dell’antico popolo Dharjen è vicina.