Le Ombre Nella Nebbia 6r14j

PROLOGO

di Giovanni Fonteviva

In tanti mi chiedono da dove prenda le idee per i miei romanzi ed io rispondo in un solo modo: i romanzi nascono dai sentimenti. Dare vita ad una storia, dove le anime dei protagonisti e delle comparse si intrecciano, è paragonabile all’arte di un vasaio che plasma l’argilla informe nelle fattezze che vede chiare nella sua mente. Uno scrittore compie lo stesso lavoro, prende un sentimento, che nasce dal suo cuore, ed inizia a dargli corpo, forma ed anima. I suoi personaggi prendono vita attorno a quel sentimento da cui la storia è originata e da cui sono guidati, e saranno loro a proseguire la storia lasciando allo scrittore il mero ruolo di cronista dei fatti. In effetti che cosa è un racconto se non un prendere corpo di un sentimento che trova il proprio modo di esprimersi attraverso le parole che, vergate sulla carta, dipingono immagini nella mente di chi legge trasmettendogli quelle sensazioni ed emozioni da cui lo scrittore era partito per dare vita alla sua storia? In questo senso la scrittura è la forma di comunicazione perfetta; essa raggiunge l’animo di colui che ne è avvinto e dà vita e corpo a immagini, vicende e persone, in un modo che mai la televisione, regina di questo tempo, potrà mai fare. La celebre Marguerite Yourcenar ebbe a dire: “Lo scopo di ogni scrittore è comunicare un'impressione che non si potrà più dimenticare”. La televisione è più semplice del leggere, poiché non richiede sforzo ma il lavoro del dare vita alla storia lo compie interamente lei stessa lasciando allo spettatore il mero compito di osservare. Un libro, invece, è cibo per la mente del lettore, nutrimento per la sua fantasia, lasciando che sia essa a dare vita alle immagini, plasmandole sulla base della personalità e dei sogni di chi legge. Ecco, quindi, che nasceranno centinaia di eroi ed eroine, di cattivi e di compagni, a seconda di chi sia a leggere la medesima avventura. Il lettore diviene protagonista lavorando a fianco a fianco con lo scrittore nel plasmare l’argilla della mente. In questo modo le parole scritte, se scelte con cura e gravide di sentimento, che è al tempo stesso madre e padre di ogni storia, lasceranno un segno indelebile nell’animo del lettore in un modo tale che la televisione non potrà mai fare.

Ai miei genitori,

che, sin da piccolo,

mi hanno fatto amare la lettura …

NOTA DELL’AUTORE

Chiedo perdono fin da ora a coloro a me vicini, che per caso, si dovessero ritrovare nei protagonisti delle mie storie. In realtà vi ho preso solo il corpo e piccoli frammenti di anima sui quali ho costruito nuovi mondi ed universi, dando vita ai miei personaggi, i quali ora vivono di vita propria nelle pagine dei miei racconti.

CAPITOLO 1

30 Settembre 1976 – Mattino-

“Oh, ragazze! Sono così emozionata! Mi tremano le ginocchia!” - fece la prima ragazza. “Ma ci pensate? Tra poco saremo nella Las Vegas della Brianza!” – rispose la seconda. “La città dei balocchi!” – disse la terza. “Il paese dove è sempre festa” – concluse la prima mentre tutte e tre scoppiavano in una risata.

Il gruppo delle tre giovani era partito quella mattina presto col treno delle 7:30 da Brescia. Era la loro prima vacanza lontano dalle famiglie e dalla loro città. Le tre ragazze avevano trascorso gran parte della serata precedente a fare e disfare i bagagli che avevano preparato, provando e riprovando vestiti, abbinando scarpe e immaginandosi a danzare nelle eleganti sale di ballo di Consonno travolte dall’abbraccio di giovani stupendi. Inutile dire che anche la notte era trascorsa tra sogni e fantasie, nell’attesa che il sole sorgesse ed il loro viaggio potesse avere inizio. La partenza dalla stazione di Brescia era stata, forse, l’unico momento difficile di quella giornata gioiosa; quando, cioè, le tre ragazze avevano dovuto separarsi dai genitori. Ma il momento di tristezza era stato di breve durata. Non appena occupato il loro scompartimento e sistemate le innumerevoli valigie, borse e cappelliere che avevano con sé, la gioia e l’allegria avevano ripreso il sopravvento. Alla stazione di Bergamo, dove avevano dovuto cambiare treno, le tre ragazze si erano fermate a fare colazione al bar mentre aspettavano la coincidenza. Lì avevano letto i giornali e avevano discusso tra loro degli ultimi fatti di gossip tra le star del cinema. Era appena finita l’estate e sui giornali troneggiavano ancora le fotografie delle attrici in costumi da bagno. In particolare aveva destato scalpore la tenuta da mare della grande Gina Lollobrigida che aveva stupito molti con un due pezzi giallo con pizzi. In poco tempo, la conversazione delle ragazze era ritornata alla loro vacanza che era appena iniziata.

“Non posso credere che siamo state così fortunate da trovare una offerta con prezzi così bassi” – disse una delle tre, di nome Margherita. “In effetti ho sentito alcune voci che sostengono che il paese sia in difficoltà e che molte star inizino a preferire le nuove località di villeggiatura… Forse è per questo che abbiamo trovato posto subito all’hotel ed a prezzi così vantaggiosi!” - le fece eco Susanna. “Ragazze, ma cosa importa!” – le riprese la terza di nome Elisa – “Questa è la nostra vacanza e ce la godremo sino in fondo! Non dimenticate che stiamo andando a Consonno e che tutti i nostri amici ci invidiano per questa possibilità” – risata emozionata delle tre.

Conversazioni come queste parrebbero dare l’idea di un gruppo di giovani superficiali, interessate solo a vestiti e flirt, ma le cose non stavano affatto così. Le tre giovani, infatti, erano tutte brillanti studentesse universitarie. Da poco diplomate alle superiori con il massimo dei voti, avevano appena superato due importanti esami per i quali avevano studiato a lungo ed avevano davanti una promettente carriera nel campo della medicina. Le tre giovani, infatti, stavano frequentando il primo anno della facoltà di chirurgia coltivando il sogno di diventare dottoresse. Erano, quindi, soltanto tre ragazze felici, che si godevano la loro prima vacanza senza i genitori, dirette verso un paese di cui avevano tanto sentito parlare e da tutti definito “il paese dei sogni”.

La più giovane delle tre, Elisa, era quella più eccitata. Lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo, viso ovale che incorniciava due stupendi occhi verdi, pelle abbronzata ed un sorriso che illuminava il volto: era il genere di ragazza che faceva senza dubbio voltare i giovani che la incontravano per la strada. Non a caso, infatti, era anche la ragazza più desiderata del suo corso. Nonostante tutto, Elisa era interessata unicamente allo studio, dedicando ad esso il meglio delle sue energie e del suo tempo. Fiduciosa che il vero amore un giorno sarebbe arrivato, Elisa non ava da una storia all’altra come molte delle star del cinema di cui esse parlavano. Al contrario, non aveva mai dato troppa confidenza a nessuno comportandosi sempre in modo irreprensibile; cosa che faceva impazzire ancora di più i ragazzi che la conoscevano e che desideravano conquistarla. Le sue amiche, anch’esse, senza dubbio molto carine, non avevano il suo fascino ma cercavano di sopperirvi curando attentamente la scelta dei loro vestiti, il trucco e la pettinatura sulla base dei loro modelli, le

attrici di Hollywood e Cinecittà. Nonostante fossero consapevoli che molti dei ragazzi che si voltavano a guardarle lo fero più per Elisa che per loro, l’amicizia che le univa non ne veniva in alcun modo intaccata. Si conoscevano sin dall’infanzia ed avevano condiviso assieme molte esperienze.

“Calolziocorte! Prossima fermata Calolziocorte!” – ripeté più volte la voce del capotreno percorrendo i vagoni. Nello scompartimento occupato dalle ragazze l’attività si fece improvvisamente frenetica.

Mentre Susanna scaricava le valigie dalla reticella sopra i sedili, Margherita ed Elisa le accumulavano fuori nel corridoio preparandosi ad avviarsi verso la porta. Il treno rallentò mentre entrava nella stazione e le tre giovani guardarono fuori dal finestrino la città che si avvicinava. Il verde delle montagne circostanti, non era molto differente dalle zone dove erano cresciute, ma la vista del monte Resegone che si innalzava sopra la cittadina, con le cime che raggiungevano quasi i 2000 metri di quota, catturò la loro attenzione, proprio mentre lo stridio dei freni del treno preannunciava l’arrivo alla stazione. Scaricare tutte le valigie e le borse non fu facile e costò diverse fatiche alle tre ragazze nonché le dita di un piede di uno degli altri eggeri del vagone che aveva avuto la sfortuna di trovarsi sulla strada di Susanna. In ogni caso, proprio mentre il capostazione fischiava avvisando della prossima ripartenza del convoglio, le giovani riuscirono a scaricare l’ultimo beauty-case sul marciapiede. Il sole della tarda mattinata brillava alto nel cielo, rendendo quella giornata di inizio ottobre calda come una di fine estate. Carica sotto il peso di due borse ed una valigia, Margherita sbuffò nuovamente quando il bagaglio a rotelle le finì per la terza volta contro la gamba destra smagliandole la fine calza di rete, e lasciò cadere a terra il tutto.

“E adesso come arriviamo a Consonno?” – chiese Susanna rivolgendosi ad Elisa che stava consultando un plico di fogli stampati ed una cartina. “Credo che dovremo prendere un taxi” – concluse guardandosi intorno. “Beh, credo che sia il modo migliore per iniziare la nostra vacanza” – ribatté allegra Margherita mentre si sistemava le pieghe dell’elegante gonna bianca che aveva acquistato

pochi mesi prima – “Scegliamo un bell’autista che ci scarrozzi sino in paese come vere signore!”.

Le ragazze si guardarono attorno alla ricerca di un taxi. L’uscita della stazione dava direttamente sulla larga via Galli, dove, all’ombra di alcuni alberi dall’altro lato della strada, sostava una Lancia Fulvia verde scuro con l’insegna “Taxi” sul tettuccio. Un giovane autista, che non doveva avere più di venticinque anni, era seduto al posto di guida, intento a leggere “Il Manifesto”, quel nuovo giornale di estrazione comunista, divenuto quotidiano da poco più un anno. Susanna lo chiamò ad alta voce ed il ragazzo, alzato lo sguardo dalla lettura, si accorse delle tre ragazze e di tutti i bagagli davanti all’uscita della stazione. Rapidamente le raggiunse attraversando la strada e le aiutò a portare le valigie sino all’auto sulla quale, per fortuna, aveva avuto la provvidenza di installare tempo prima un portapacchi. Impiegò non pochi minuti a sistemare tutta la roba che le tre ragazze si erano portate appresso. Soprattutto il bagaglio di Susanna dava l’impressione di contenere un intero guardaroba.

“Avevi dubbi su come vestirti ed hai vuotato tutto l’armadio?” – chiese ironicamente Margherita all’amica mentre il giovane tassista lottava con una valigia che non voleva saperne di stare ferma sul portapacchi nonostante i diversi elastici che aveva teso per tenere insieme il tutto. “Non so voi, ragazze…” – rispose Susanna con fare civettuolo –“…ma io ci tengo ad apparire al meglio”.

La giovane indossava degli ampi pantaloni gialli a zampa d’elefante abbinati ad una maglietta verde che dava risalto al fisico magro e slanciato. I capelli corvini erano legati in una coda di cavallo fermata da un piccolo fiocchetto giallo che riprendeva la delicata tonalità del trucco attorno agli occhi. Susanna, delle tre, era quella più attenta al proprio aspetto. Mentre Elisa e Margherita si burlavano amichevolmente dell’amica ricordando divertenti episodi del ato, il giovane tassista, di nome Marco, aveva finalmente terminato di caricare tutti i bagagli e li aveva fissati al portapacchi.

“Bene, signorine, tutte le vostre valigie sono pronte. Se volete possiamo partire. Dove andiamo?” Fu Elisa a rispondere per prima. “Può portarci all’hotel Plaza di Consonno?”. “Dove il cielo è più azzurro, eh?” – rispose Marco aprendo la portiera posteriore per far salire le eggere. “Come ha detto, scusi?” – domandò Margherita sedendosi. “E’ uno dei motti per definire il paese dei divertimenti” – spiegò Marco – “Li troverete scritti sui cartelli che costeggiano la strada per arrivare al belvedere. Da quelle descrizioni sembrerebbe che, se non si vive a Consonno, tanto vale morire…” – concluse divertito. “Beh, i nostri amici che ci sono stati dicono che è fantastico!” – rispose Elisa. “In effetti fino a qualche tempo fa era stupendo. C’erano così tanti divertimenti, svaghi e concerti che andarci anche solo per un picnic nel prato davanti all’immensa fontana era bellissimo. Ci sono stato diverse volte, gli anni ati, con la mia ragazza. Ma adesso… come dire… è decaduto. La gente non ci và più come una volta ed in tanti hanno iniziato a lamentarsi della devastazione della montagna. Adesso poi che è finita la stagione estiva, non troverete molti altri ospiti”. Le ragazze si guardarono in silenzio. Un velo di preoccupazione aveva attraversato i loro sguardi ma l’eccitazione di essere comunque nel posto dei loro sogni, le rasserenò in pochi istanti. “Beh, sarà comunque una vacanza stupenda!” – disse decisa Margherita dal sedile posteriore ravvivandosi i ricci capelli castani.

Come spesso accadeva, le sue amiche, dai capelli lisci, avrebbero dato tutto per poterli avere ricci come quelli suoi e, per ottenerli almeno simili, erano pronte a ricorrere nelle occasioni speciali a piastre e bigodini. Margherita, invece, odiava quella sua caratteristica e cercava di lisciarli per farli simili alle altre ragazze dedicando un tempo almeno uguale a quello delle amiche ai processi inversi di parrucchiere. In effetti Margherita era quella più differente del gruppo. Di origini meridionali, risaltava con la sua pelle più abbronzata e gli occhi scuri. Sebbene la sua famiglia fosse emigrata al nord prima che lei nascesse, non riusciva a perdere l’inflessione napoletana nel parlare che la distingueva e che le era stata inculcata dai genitori mentre cresceva.

L’auto superò il lago di Olginate ed iniziò ad inerpicarsi sulle colline. La strada realizzata diversi anni prima dal conte Mario Bagno per portare agevolmente i turisti festosi nel suo paese delle meraviglie stava cominciando a dare segni di decadenza. La deforestazione causata dalla cementificazione, dagli sbancamenti

e dall’edilizia senza un progetto preciso e dettagliato, stava cominciando a far sentire le sue conseguenze e l’erosione del suolo stava diventando evidente nelle diverse chiazze brulle nei boschi circostanti. Numerose crepe si erano aperte nell’asfalto della strada ed alcune frane isolate stavano solcando i verdi pendii attorno alla città dei balocchi come ferite. Per le tre giovani, l’atmosfera che si cominciava a respirare, però, man mano che si avvicinavano alla sommità della montagna sulla quale sorgeva il paese, era talmente elettrizzante da non accorgersi di questi segnali del trascorrere del tempo. Arrivati all’ingresso della cittadina, le tre ragazze rimasero senza parole dalle grandi torri medievali che segnavano l’inizio di Consonno. Sembrò loro di entrare nel set di un film guardando le merlature ed il ponte che collegava le due torri. Mentre l’auto ava sotto il grande portale in pietra, le giovani emettevano gridolini eccitati alla vista dei due pupazzi vestiti da armigeri in alta uniforme che presidiavano la porta. Grandi striscioni metallici che sovrastavano la strada, proclamavano la bellezza del paese con le loro frasi poetiche, mentre il taxi si inerpicava lungo la salita: “Consonno è il paese più piccolo ma più bello del mondo”, diceva uno. Alla curva successiva un altro striscione diceva: “A Consonno il cielo è sempre più azzurro”. Alla loro sinistra, la stupenda vista del lago di Olginate, un punto azzurro nei boschi verdi, sembrava dare ragione a queste pretese di splendore. Superato un altro cartello che pareva promettere lunga vita ai visitatori della cittadina - “Chi vive a Consonno, campa più a lungo”, diceva - alla vista delle tre ragazze apparve la punta dell’improbabile minareto, la costruzione principale del paese. Improvvisamente, infatti, la vista si aprì davanti al gruppo ed il paese si mostrò loro in tutto il suo decadente splendore. Sulla destra faceva da padrone un ampio parco, nel quale troneggiava una fontana con stupendi zampilli a più piani, alti una decina di metri e con uno stagno attorno. Una dozzina di persone eggiava tranquilla nei vialetti non troppo curati, conversando tra loro oppure avviandosi verso la grande galleria commerciale che occupava l’intero piano terra del grande minareto che sorgeva dietro al parco. Marco prese la strada di sinistra, costeggiando il parco e la fontana e lasciando alle ragazze la possibilità di ammirare il paese ora completamente visibile sulla destra.

“Guardate, la pista da ballo!” – grido improvvisamente Elisa indicando l’edificio che sorgeva subito dopo il parco.

La costruzione, a forma di U rovesciata, era costituita da un corpo centrale, sul cui frontale faceva gran mostra di sé l’invitante scritta “Salone delle feste”, e da due ali laterali che avvolgevano la piazza, decorata con mosaici a pavimento, con le loro tettoie coperte sotto le quali gli ospiti potevano cenare comodamente seduti a tavolini mentre al centro della piazza la gente ballava. Poche coppie erano sedute ai tavolini, sorseggiando qualche bibita. Di fronte a loro si apriva una vista stupenda, quella delle prealpi lecchesi ora visibili grazie all’opera di sbancamento che il conte Bagno aveva attuato sul poggio di fronte, abbassandolo di una quarantina di centimetri.

“Cos’è quella?” – chiese Margherita indicando una piccola costruzione nel parco, mentre l’auto svoltava alla fine della strada di fronte alla vecchia chiesetta, unica superstite del paesino originale, per attraversare il paese nella parte interna. “Quello è il ‘missile Bagno’“ – rispose Marco scuotendo lentamente il capo. “L’ultima invenzione del conte. Un’assurda pagoda con un affusto di cannone messo sopra a mo’ di emblema di non so cosa…” “Forse rappresenta la voglia di combattere e resistere al tempo che a” – ipotizzò Susanna tanto per dirne una. “O forse non ha senso preciso come tutte le altre costruzioni del conte Bagno che hanno realizzato su queste montagne nel corso degli anni” – concluse il giovane tassista facendo emergere tutta la critica che stava dilagando sempre più frequentemente nella valli di Olginate alimentate anche dal cambiamento della giunta comunale in una nuova di estrazione socialista che aveva, da poco, soppiantato quella precedente di destra che era stata al governo della cittadina per tanti anni.

“Ma questa è la città dei divertimenti e della gioia” – rispose Margherita non avendo mai saputo nulla al riguardo. “Io credo che prima o poi queste montagne si ribelleranno. Ma questa è solo la mia opinione personale, per quello che può valere” – concluse seccamente Marco mentre fermava la vettura davanti all’entrata del Grand Hotel Plaza – “Eccoci arrivati”.

Le tre giovani scesero dall’auto guardandosi attorno. La vista dall’albergo era davvero stupenda. Diversi turisti stavano fotografando il panorama dal belvedere

o dalla pagoda in legno che sorgeva al centro del parco, mentre un gruppo molto allegro usciva dalla tavola calda a fianco dell’albergo per dirigersi al centro commerciale. Il paese sembrava davvero una bellissima località di vacanza, dedicata allo svago ed al divertimento. Improvvisamente una serie di spari risuonarono nell’aria attirando l’attenzione delle ragazze.

“Buongiorno e benvenute, signorine!” – disse il giovane usciere del Grand Hotel avvicinandosi per dare una mano al tassista che aveva già iniziato a scaricare le valigie. Accorgendosi del loro stupore per quegli spari che si ripetevano ancora, si affrettò a rassicurarle. “Queste esplosioni sono solo il campo di tiro al piattello nel bosco sopra di noi” – spiegò – “Forse… potreste mettere alla prova la vostra mira, più tardi” – concluse con tono un po’ civettuolo.

Le tre ragazze fecero una risata, divertite all’idea; poi, dopo averlo pagato per la corsa, salutarono il tassista che augurò loro una buona vacanza e ripartì per tornare al suo posto davanti alla stazione di Calolziocorte ad aspettare nuovi clienti. L’usciere iniziò a trasportare le valigie delle tre ragazze all’interno dell’ampio atrio dell’albergo, ammucchiandole a lato del bancone in legno della reception. La hall era illuminata dalla forte luce del sole del tardo mattino che filtrava dalle grandi finestre vetrate dalle quali si godeva la vista quasi sull’intero paese di Consonno. Una comitiva di giovani ava proprio in quel momento davanti al Grand Hotel, e l’attenzione delle tre ragazze fu distratta dal vociare dei ragazzi che ridevano e si prendevano reciprocamente in giro.

“Benvenute al Grand Hotel Plaza di Consonno” – disse l’addetta alla reception, una brunetta di circa trent’anni che indossava una uniforme nera sulla quale brillava la spilletta con inciso il nome: “Maria”. “Grazie” – risposero in coro le tre giovani girandosi nuovamente verso il bancone. “Abbiamo una prenotazione a nome Monforti” – spiegò Elisa appoggiando sul banco un foglio sul quale erano annotati gli estremi della prenotazione che avevano effettuato nell’agenzia di viaggi di Brescia dove si erano rivolte la settimana prima. “Sì. Le signorine Elisa Monforti, Susanna Benvenuti e Margherita Maffei. Una camera tripla per tutta la settimana con vista sulla vallata. La vostra camera è pronta. E’ la 105.” –

concluse Maria consegnando ad Elisa una chiave con attaccata una pesante targa in ottone sulla quale era inciso il numero della stanza. “Pensavo che sarebbe stato molto più difficile trovare posto in albergo in questa stagione” – disse Susanna alla receptionist mentre le sue due compagne sfogliavano i volantini pubblicitari delle numerose attrazioni, sia di Consonno che del vicino paese di Calolziocorte. “In effetti non abbiamo molti ospiti…” – rispose Maria un poco imbarazzata – “…ultimamente l’afflusso dei visitatori è un poco diminuito…” “Dite pure che è crollato!” – interruppe una voce dal fondo della sala. Una donna di circa cinquant’anni, dai capelli biondi, vestita di un elegante abito lungo color ambra, adornato da una spilla a forma di spiga di grano e con un cappello bianco a tesa larga, si fece avanti verso le tre ragazze. “La città sta avendo un declino sempre maggiore e sempre meno persone vengono qui a divertirsi…” – disse prima di presentarsi al gruppo. “La prego signora Colombini…” – disse la receptionist con un tono che lasciava trasparire una certa seccatura per quello che ella aveva detto. “Non è un segreto!” – ribatté questa tranquilla – “.Ed è la verità!” Poi, rivolgendosi alle tre giovani per presentarsi – “Sono la signora Domitilla Colombini, piacere di conoscervi”. Dopo che le tre ragazze si furono presentate a loro volta, la donna disse loro: “Tra una decina di minuti a il trenino per la visita guidata alla città. Volete venire con me? Da due giorni i miei amici sono tornati alle loro case ed io sono rimasta qui sola ad annoiarmi. Se non fosse che adoro questo paese e che lo trovo molto rilassante me ne sarei andata anche io”. Le tre giovani si guardarono per un attimo, come per decidere cosa fare, quindi dissero: “Signora Colombini, lei è molto gentile ma noi siamo appena arrivate. Dobbiamo ancora salire nella nostra camera per sistemare le valigie ed abbiamo fatto un lungo viaggio…” “Dovete scusarmi…” – le interruppe Domitilla – “…la mia esuberanza mi ha portato a non considerare le vostre esigenze. E poi capisco come preferiate stare assieme a giovani della vostra età…” “No signora Colombini” – si affrettò a dire Margherita – “Quello che volevamo dire era solo che preferiremmo salire in camera giusto per sistemare i bagagli poi… poi saremo ben liete di fare un giro assieme per il paese. Sicuramente lei saprà indicarci i posti migliori e più interessanti. Questo trenino a un’altra volta oggi?” – “Certo…” – rispose la donna con un gran sorriso di soddisfazione– “…il trenino di Consonno a ogni quindici, venti minuti per fare il giro turistico”. “Allora cosa ne dice se ci vediamo qui nella hall tra una mezz’ora?” – chiese Elisa. “Ne sarò felice…” – disse Domitilla – “così vi farò conoscere Giorgio e Thomas”. “Sono i suoi…figli?” – chiese timidamente Margherita immaginandosi già due giovani alti e affascinanti. “No…” – disse ridendo la signora Colombini – “… io non ho figli. Sono vedova e Thomas e Giorgio sono la mia sola compagnia. I miei amici più fidati. Sono i miei due

cagnolini. Adesso stanno finendo il loro pisolino in camera ma, dopo, li porterò con me a fare la eggiata; così li incontrerete”. “Che bello!” – esclamò Elisa, che amava gli animali. “Allora siamo d’accordo.” – concluse Domitilla voltandosi per tornare al tavolino al quale sedeva prima che arrivassero le tre ragazze e dove c’era ancora una teiera fumante, dei biscottini ed un paio di riviste di moda– “Ci vediamo tra una mezz’ora. Io vi aspetto qui”.

CAPITOLO 2

30 Settembre 1976 – Mezzogiorno-

Le tre ragazze afferrarono il carrello sul quale l’usciere aveva caricato ordinatamente le loro valigie e lo spinsero verso il corridoio segnalato da una freccia che indicava le camere dalla 101 alla 110. La moquette sul pavimento era segnata da numerosi solchi prodotti dai tanti aggi dei carrelli, delle valigie con rotelle e dei piedi stessi degli ospiti dell’albergo che avevano camminato in quei corridoi nel corso degli anni. Effettivamente, un osservatore distaccato e attento avrebbe notato i numerosi segni della decadenza del Grand Hotel Plaza; una decadenza che si andava accentuando mese dopo mese. Alcune lampade di vetro alle pareti erano crepate, gli eleganti divanetti posti ai lati del corridoio presentavano diverse macchie sulla tappezzeria che non erano state lavate e le piante, nelle aiuole che decoravano i davanzali delle finestre, ora erano in gran parte secche o apite. Ma nulla di tutto questo pareva preoccupare le tre giovani che, eccitate per essere finalmente nel Grand Hotel Plaza, il luogo di cui i loro amici avevano tanto parlato, l’albergo in cui tante stars avevano soggiornato, avevano solo voglia di iniziare la loro vacanza di divertimento.

La camera 105 era proprio la stanza d’angolo, con una grande finestra che dava sulla strada principale e con vista sulla vallata. I tre letti singoli sembravano comodi e spaziosi e le ragazze vi si gettarono sopra saltando e ridendo come ragazzine. Era la loro vacanza! Dopo alcuni minuti di calma sognando incontri galanti ed avventure emozionanti, Elisa si alzò ed iniziò a disfare i bagagli sistemando i vestiti nell’ampio armadio dalle linee moderne che occupava quasi un’intera parete della stanza. Le altre due ragazze la imitarono con apprensione, desiderose di uscire dalla stanza e gettarsi nella vita del paese. Susanna fu quella che, ovviamente, ci mise di più a svolgere quel compito, vista la mole dei propri bagagli. Comunque, alla fine, terminò anche lei, proprio mentre le sue due compagne finivano di sistemarsi i capelli e ravvivavano il trucco.

“Devo cambiarmi le calze!” – disse improvvisamente Margherita alle amiche che si stavano già preparando per uscire – “In stazione il bagaglio mi ha smagliato la calza e non posso assolutamente presentarmi in giro in queste condizioni!” Le altre due giovani si guardarono complici. “Ma non sai che è molto più affascinante la calza rotta? I ragazzi lo trovano eccitante…” – risata divertita. Margherita fece loro una linguaccia e, sfilati i collant rotti, ne infilò prontamente un paio nuovo, bianchi come la gonna che indossava, e si dichiarò pronta ad iniziare l’avventura.

Afferrate le borsette e gli ampi occhiali da sole, le tre giovani si chio la porta della stanza alle spalle dirigendosi di nuovo verso la hall dove le attendeva la loro nuova compagna di vacanze: la prorompente signora Domitilla Colombini. Quest’ultima era rimasta esattamente dove l’avevano lasciata: seduta al tavolino della zona bar del soleggiato salone d’ingresso. Sul tavolino ancora era sistemata la teiera con relativa tazzina ed il vassoino di biscotti ora vuoto. L’unica differenza al quadro precedente era la coppia di cani che ora sedeva in silenzio sotto il tavolino. Thomas e Giorgio erano due Volpini, l’uno di colore bianco e l’altro di colore giallastro, quella razza di cani dal caratteristico pelo lungo, musetto a punta e coda ritorta. Non appena li vide, Elisa affrettò il o chinandosi ad accarezzarli ed i due cani reagirono festosi iniziando a leccarle le mani ed a scodinzolare.

“Vedo che i miei nipotini la trovano molto simpatica!” –esclamò Domitilla accarezzandoli a sua volta. I due cani, eccitati da quelle attenzioni, iniziarono a correre attorno al tavolino ed a saltellare, chiedendo di essere presi in braccio e coccolati. “State buoni” – disse la signora Colombini ridendo. “Noi siamo pronte a visitare il paese” – disse Susanna desiderosa di lasciare l’albergo per conoscere e vivere il paese dei Balocchi che li aspettava fuori dalla hall. “Allora andiamo!” – disse Domitilla avviandosi verso l’uscita, seguita dai cani che non volevano allontanarsi da Elisa.

Non appena fuori dall’albergo, il gruppo attraversò la strada sommandosi ad un

gruppo di altri dieci/quindici turisti di tutte e età che aspettava il trenino sul marciapiede panoramico dove sventolavano diverse bandiere appese a pennoni di vari colori pastello. La giornata tersa e l’aria profumata di bosco, era ideale per godersi le bellezze dei panorami circostanti. E, mentre gli spari dei vicino campo di tiro al piattello riprendevano, lo stridio dei freni della locomotiva in miniatura con il seguito di carrozze, si fermava a fianco del marciapiede per raccogliere i gitanti in attesa.

“Adesso faremo un bel giro sino alla cima del monte Mario dove c’è il tiro al piattello ed una vista stupenda” – spiegò Domitilla accomodandosi in una delle carrozze assieme ad Elisa ed ai cani.

Qualche minuto di attesa ed il trenino partì risalendo la collina verso la sommità. Dopo alcuni minuti di viaggio il gruppo di turisti raggiunse un grande spiazzo, dove una ventina di giovani sedevano sdraiati sull’erba facendo picnic, leggendo o semplicemente prendendo il sole. In fondo al piazzale un gran fosso in cemento senza parapetto tagliava la collina, come una grande ferita grigia nel verde dell’erba. Era il canalone per il tiro al piattello, dove, cioè, finivano i resti, frantumanti dalle fucilate, dei piattelli colpiti dai turisti che si volevano improvvisare tiratori. L’attenzione delle ragazze fu attirata da una famiglia composta da padre e due bambini. I giovani volevano che i papà mostrasse la sua abilità col fucile ed insistevano, quasi urlando, per fargli provare e vederlo sparare. Diverse coppie di ragazzi salirono sul trenino dando il cambio a quelle che scendevano e, dopo qualche minuto di sosta, questo ripartì ridiscendendo la strada verso il paese che aveva lasciato poco prima. Le ragazze rividero l’albergo sulla destra e lo spiazzo panoramico che si affacciava sui giardini sulla sinistra. L’alto minareto della galleria commerciale troneggiava sulla fontana con i suoi alti spruzzi ed alcune famiglie, che villeggiavano negli appartamenti ricavati al primo piano dell’edificio, si godevano il sole sui terrazzini.

“Quella è l’unica parte del paese originale di Consonno che è rimasta intatta dal progresso del conte Bagno” – spiegò Domitilla ad Elisa, quando il trenino girò alla grande curva, indicando la chiesa romanica con il piccolo cimitero a fianco.

“Vuole dire che il vecchio paese…” – disse Elisa guardando il vecchio edificio. “L’originale paese di Consonno, che era un paese di contadini, fu acquistato dai vecchi proprietari e demolito per costruirvi il paese dei balocchi” – disse la signora Colombini con tono grave. “E tutti i contadini che fine hanno fatto?” – ribattè Elisa. “Stando a quanto mi hanno raccontato, dissero che avrebbero dato loro altre case ed altra terra ma sapete come vanno queste cose… La proprietaria di tutte le terre era diventata l’immobiliare Bagno ed i contadini erano affittuari… Bastarono poche ore per buttarli fuori, demolire le loro case e costruire questo paese” – replicò Domitilla. “Ma è una cosa terribile! Nessuno ha detto niente?” – chiese la ragazza sconvolta. “E chi? I contadini di questa che erano solo poche decine di persone? O gli abitanti di Calolziocorte che non conoscevano i progetti del conte ed ai quali veniva prospettata la prosperità del turismo e dei soldi? Ora, che la giunta è cambiata, sembra si cominci a parlare dello scempio che è stato fatto e sembra che anche la natura si stia ribellando. Il conte Bagno continua a voler costruire ed ampliare questo paese dei sogni e non pare rendersi conto che la gente sta cominciando a non venirci più. Anni fa in questa stagione era tutto pieno di gente ed adesso…” “Se quello che ha detto è vero…” – chiese Elisa – “…come mai lei continua a venire qui invece di dimostrare il suo sdegno per quello che dice che hanno fatto a quei poveretti?” “Mia cara ragazza!” – rispose Domitilla con un grande sorriso un poco imbarazzato – “perché qui ci si diverte ed alla mia età da soli ci si annoia a morte… Per fortuna adesso ci siete voi!”

Elisa non rispose. Quello che la signora Colombini le aveva raccontato l’aveva turbata. La giovane, infatti, aveva più volte partecipato a dimostrazioni di protesta nei confronti di industrie, grandi proprietari, o anche istituzioni che in nome del progresso calpestavano i diritti della gente. In una di queste occasioni era anche stata fermata dalla polizia ma, non avendo commesso nessun reato se non quello di sbandierare striscioni e urlare slogan, era stata presto rilasciata. Elisa dedicava il tempo libero che aveva dallo studio anche per aiutare i meno fortunati, in un vicino centro di assistenza per i senzatetto gestito dalla croce rossa. Immaginare quello che, solo una decina di anni prima, dovevano avere ato quelle famiglie che venivano cacciate dalla terra sulla quale erano nate e cresciute l’addolorava profondamente. Le sue riflessioni vennero improvvisamente interrotte da alcune alte grida.

“Bellissimo! Voglio andarci subito!”

A gridare era Susanna che aveva visto la pista per le macchinine a gettone; un gioco molto simile agli autoscontri. Quando il trenino si fermò, poco più in basso del salone delle feste e della discoteca, Susanna e Margherita scesero di corsa dal vagoncino eccitate all’idea del gioco. Attraversata la strada scelsero subito due minimacchine, Susanna gialla e Margherita Nera a strisce azzurre, ed inserirono le 100 lire nella gettoniera avviandole e gettandosi nella mischia della pista. Elisa e la signora Colombini le seguirono con più calma e si misero sedute su una panchina, tallonate strettamente dai due cani che si erano praticamente innamorati di Elisa. La pista era occupata da una decina di macchinine che si scontravano tra loro con fragore e grida divertite degli occupanti. Erano soprattutto Margherita e Susanna quelle più eccitate e spericolate. Giravano a tutta velocità investendo chiunque capitasse davanti a loro al punto che alcuni, vedendole avvicinarsi e puntarli, preferivano fermarsi a lato della pista piuttosto che farsi colpire.

“Posso suggerirvi di provare la tavola calda qui sopra, per pranzare?” – disse Domitilla quando le due amiche ebbero finito i giri sugli autoscontri e le ebbero raggiunte. “E’ una ottima idea” – rispose pronta Susanna – “ho una fame!”.

Il gruppo attraversò i giardini, seguito da Thomas e Giorgio che si gettarono nelle fontane giocando con gli spruzzi per poi ritornare dalla loro padrona, grondanti d’acqua. La tavola calda era presa d’assalto da un gruppo di ragazzi che chiedevano a gran voce degli hamburger, di gran moda seguendo l’uso americano, ma le tre ragazze e Domitilla riuscirono, comunque, ad ottenere tre risotti agli asparagi che gustarono sedute ad un tavolino sotto la tettoia in legno davanti all’entrata della baita in legno e pietra, nella quale era attrezzata la tavola calda. Una brezza leggera si levò ad un certo punto, facendo volare via alcuni dei tovaglioli di carta dalla tavola. Elisa rabbrividì e si strinse sulle spalle il leggero golfino di cotone bianco che aveva portato con sé. Improvvisamente, da dietro il portico, un ragazzo si fece avanti e, con gesto rapido, posò la propria elegante giacca nera di pelle, sulle spalle di Elisa.

“Una ragazza come te non dovrebbe prendere freddo” – disse il giovane presentandosi. “Mi chiamo Giovanni…” – disse.

Di età intorno ai 26 anni, alto, con i capelli castani, ed un sorriso da fare invidia a molti rotocalchi, il ragazzo si era piazzato proprio davanti al tavolino dal quale le quattro donne lo guardavano stupite. Oppure, per essere precisi, tre lo guardavano affascinate ma la quarta, Elisa, aveva una espressione che appariva infastidita da quella confidenza che il giovane si era preso. “Una ragazza come me sa badare a sé stessa” – rispose seria la giovane prendendosi una gomitata dall’amica Susanna che le sedeva a fianco e che la criticava sempre per il suo atteggiamento troppo rigido nei confronti dei ragazzi che le facevano la corte. “Non ho alcun dubbio su questo” – disse Giovanni senza perdere lo stupendo sorriso – “ma nessun uomo è un isola ma parte di un continente…” Per un istante Elisa non seppe come ribattere. Quindi disse: “… e allora non chiederti per chi suona la campana…” “… perché essa suona per te” – concluse la frase Giovanni per poi citarne l’autore “Ernst Hemingway…” “Jonh Donne” – lo corresse Elisa con tono ammirato ricordandogli che, nel suo celebre romanzo “Per chi suona la campana”, il grande scrittore aveva preso spunto dalle poesie del religioso inglese Donne. “Corretto…” – disse lui –“…mi fa piacere vedere che siete un’amante della buona letteratura”.

Elisa non sapeva cosa rispondere. Forse, per la prima volta, aveva davanti un giovane che univa alla sfrontatezza tipica di molti coetanei nei confronti delle ragazze, quella finezza intellettuale assai rara tra i giovani del tempo. Senza darle il tempo di replicare, Giovanni continuò, rivolgendosi al gruppo che aveva osservato in silenzio il dialogo: “Spero vorrete perdonarmi per questa intrusione mentre vi godevate il pranzo. Ma io ed i miei amici stavamo per andare a fare due i nella galleria commerciale e, quando ho visto che la signorina aveva freddo, non ho potuto impedirmi di correre in suo aiuto”. “Un atteggiamento da vero cavaliere” – affermò con un sorriso Domitilla al quale il giovane già piaceva. “Davvero un cavaliere…” – fece eco con tono sognante Margherita che non riusciva a staccare lo sguardo dagli occhi verdi del ragazzo. “Volete venire con noi?” – chiese ancora Giovanni sempre sorridendo. “Ne saremmo lieti” –

rispose per tutte la signora Colombini.

Le tre ragazze si guardarono tra loro in silenzio. Come suo solito riservata, Elisa era quella del gruppo più restia ad accettare gli inviti di quei giovani così intraprendenti. Tuttavia in quel ragazzo c’era qualcosa di affascinante e così accettò anche lei. Le quattro donne si alzarono dal tavolo, portarono i piatti sporchi sul bancone della tavola calda ed uscirono per unirsi al gruppo dei ragazzi che aspettavano in strada. La compagnia era abbastanza omogenea: c’erano una quindicina di ragazzi e ragazze tutti intorno ai venticinque anni, allegri e chiassosi. Era il classico gruppo di studenti universitari negli ultimi giorni dell’estate prima di riprendere il semestre autunnale.

Fatte le presentazioni di rito, il gruppo si avviò, attraversando nuovamente i giardini, verso il minareto, l’edificio che ospitava la galleria commerciale e gli appartamenti dei villeggianti. Dalla caratteristica forma orientaleggiante, spiccava per la sua assoluta incongruenza con gli altri edifici del paese di Consonno. Per un motivo spiegabile, probabilmente, solo sul lettino di uno psichiatra, il conte Bagno aveva partorito il paese dei Balocchi allo stesso modo con cui un bambino dava vita alle sue fantasie costruendo giocattoli con i Lego: un’accozzaglia di pezzi diversi a cui, però, il bambino non faceva caso. Al piano terra del minareto trovavano posto numerosi negozi che vendevano di tutto: dai souvenirs e cartoline del paese, agli arredi per la casa ed ai vestiti, a montagne di giocattoli per piccoli turisti. D’altra parte questo era Consonno: il paese dei balocchi. Il gruppo di giovani, parlando ad alta voce, eggiò all’ombra del colonnato guardando le vetrine. In particolare si fermarono a scegliere alcune cartoline da spedire ai loro amici rimasti a casa. Giovanni non lasciava Elisa nemmeno per un istante con non poca invidia di Margherita e Susanna, che avrebbero fatto di tutto per essere al suo posto. Dal canto suo la ragazza aveva trascorso diverso tempo conversando con il giovane di un’ampia varietà di argomenti: lei gli aveva parlato del suo corso universitario e dei suoi sogni di diventare dottoressa, e lui le aveva parlato del suo lavoro come assistente in uno studio di architettura che gli permetteva non solo di avere di che vivere ma anche di “respirare l’aria della fantasia nell’edilizia”, per usare le parole di Giovanni che studiava per diventare a sua volta architetto. Più i due giovani conversavano, più scoprivano di avere diversi interessi in comune. E più scoprivano di avere

interessi in comune, più Elisa era contenta di averlo incontrato. Dal canto suo, la signora Colombini non aveva problemi ad integrarsi nel gruppo. Di animo allegro e giovane, si inseriva senza difficoltà nelle conversazioni dei ragazzi che l’avevano presa a benvolere fin da subito. Anche Margherita e Susanna si erano rapidamente consolate dalla delusione del disinteresse di Giovanni verso di loro. Nella compagnia c’erano altri ragazzi affascinanti ai quali poter fare il filo! Tra un negozio e l’altro, il pomeriggio trascorse veloce, aiutato anche da un ottimo gelato gustato seduti ai tavolini del caffè nel quale si stava preparando la serata danzante. Ad essere sinceri la galleria commerciale, se non fosse stato per l’allegria della compagnia, si sarebbe rivelata deludente. Forse era il luogo del paese che maggiormente mostrava i chiari sintomi del decadimento in cui stava sprofondando Consonno. Dei numerosi negozi che il minareto poteva ospitare, infatti, solo la metà erano ancora locati. Numerose vetrine vuote e coperte di ragnatele, si affiancavano a quelle che ancora mostravano la loro mercanzia nella speranza di attirare un acquirente. Ma il sempre minore afflusso di visitatori al paese, anche dopo una stagione estiva con un così bel tempo, stava portando molti commercianti a valutare la possibilità di trasferire altrove i loro affari. Seduti nei tavolini del bar, i ragazzi stavano facendo proposte per la serata. Nella compagnia c’era chi proponeva di scendere a Calolziocorte per andare al cinema, chi di andare a mangiare in pizzeria e chi, come le tre giovani, voleva restare a Consonno attirato dalla pubblicità della cantante che si sarebbe dovuta esibire quella sera al caffè concerto per la serata danzante. Fu Giovanni a risolvere la questione ricordando alla compagnia di amici come le tre ragazze erano appena arrivate al paese e che sarebbe stato bello se fossero rimasti tutti insieme per lo spettacolo. Così si accordarono di vedersi davanti all’entrata del caffè non appena cenato: alle ventuno in punto.

Margherita, Susanna ed Elisa, assieme a Domitilla, ritornarono, quindi, in albergo dove avevano la cena compresa nel prezzo. Margherita e Susanna erano eccitatissime. Due dei ragazzi del gruppo erano proprio carini! E sembravano avere una simpatia per loro! E che occhi stupendi aveva uno dei due, che faceva di nome Luigi, diceva Susanna. “Perché non hai fatto caso ai muscoli di Demetrio” – ribatteva Margherita parlando dell’altro ragazzo. Elisa stava sempre fuori da quelle discussioni. Fu Susanna a destarla dai suoi pensieri chiedendole: “E tu, Ely, che ne pensi di Giovanni?” “Mi sembra che andiate mooolto d’accordo voi due…” – le fece eco Margherita. “Sembra simpatico…” – rispose evasiva la ragazza cercando di non far trapelare l’emozione che l’appuntamento

per la serata le aveva fatto, inspiegabilmente, nascere nel cuore. In realtà l’idea di rivedere quel ragazzo faceva piacere ad Elisa. Forse avrebbe potuto essere l’inizio di qualcosa… chissà…

CAPITOLO 3

30 Settembre 1976 – Serata-

La cena al ristorante del Grand Hotel non fu propriamente all’altezza del nome dell’albergo. A conti fatti fu, invece, piuttosto deludente. Alcuni dei piatti decantati dal menù non erano disponibili mentre altri arrivarono freddi o a malapena tiepidi. La signora Colombini, che aveva mangiato al tavolo con le ragazze, aveva spiegato che lo chef dell’hotel si era licenziato qualche settimana prima, per accettare una proposta di lavoro migliore in una località della costa ligure. La direzione dell’albergo, visti i tempi di crisi che stava attraversando, aveva ritenuto non necessario assumere un altro chef e la cucina veniva mandata avanti alla meglio dagli assistenti che facevano quello che potevano. In ogni caso, alle venti e quarantacinque precise, il quartetto stava ando davanti alle fontane illuminate per raggiungere il luogo dell’appuntamento con gli amici conosciuti quel giorno. Erano in anticipo anche se, all’ultimo minuto, Susanna ed Elisa erano ritornate in camera per prendere dei maglioncini pesanti, dal momento che il tempo, nel corso del pomeriggio, si era molto rinfrescato ed era sorto un forte vento freddo che aveva portato dense nuvole grigie nel cielo. I lampi che illuminavano la notte in lontananza facevano presagire un notte di pioggia degna di questo nome, ma le ragazze speravano che avrebbero avuto comunque la possibilità di godersi una serata spensierata nel loro paese dei Balocchi.

Con un ritardo di soli dieci minuti, il gruppo degli studenti, con in testa Giovanni e Luigi, il sogno di Susanna, si presentò all’appuntamento. La compagnia era allegra ed i giovani entrarono subito nel Salone delle Feste dal quale veniva già una vivace musica. Nella pista da ballo erano presenti una decina di coppie, che si dimenavano al ritmo del celebre “Roadhouse Blues” dei Doors. I ragazzi occuparono cinque tavoli ai lati della pista ed ordinarono al cameriere che era prontamente arrivato per prendere le comande, gelati e caffè. La serata stava divenendo sempre più cupa e fredda mentre le dense nuvole nere, che prima

apparivano ancora lontane, ora erano quasi sopra di loro e dei sordi rombi di tuoni si inserivano nei brani della musica come note stonate.

Verso le 21 e 15, il presentatore salì sul piccolo palco per presentare l’ospite d’onore: Raffaella Manenti, una giovane ma promettente cantante che era originaria proprio della zona del bresciano da cui le ragazze provenivano. La cantante, vestita con un corto abito viola pieno di lustrini e pailette, salì sul palco accolta da tenui applausi. Era chiaro a tutti che erano ormai lontani i tempi in cui ben altre celebrità del mondo della musica erano salite sul palco di Consonno: da Milva a Pippo Baudo, ai Dik Dik e persino Adriano Celentano che aveva scaldato il pubblico assiepato sotto le tettoie del cafè danzante. La giovane artista, che a voler essere onesti, aveva doti vocali davvero buone ed avrebbe potuto avere, probabilmente, un buon successo se avesse continuato in questa strada, iniziò il suo repertorio con una delle canzoni più amate dai giovani: “La prima cosa bella”, la famosa melodia che aveva dato grande successo al gruppo dei Ricchi e Poveri quando l’aveva presentata sei anni prima al festival di Sanremo. Dopo fu la volta di “Cuore Matto” di Little Tony che la ragazza eseguì molto bene proprio mentre il gruppo dei giovani terminava di gustare il gelato. Ma, quando la cantante cambiò genere, fu Giovanni a proporre a tutti di ballare. La comitiva accolse entusiasta la proposta.

Mentre il gruppo si lanciava sulla pista, la banda si mise a suonare il ritmo scatenato di “Dancing Queen”, grande successo degli Abba, subito seguito da altri famosi pezzi dal ritmo sincopato. La serata trascorreva veloce sulle note della musica. Furono due ore scatenate, nel corso delle quali i pensieri e le preoccupazioni del mondo, erano fuggiti lontano, come se non esistesse altro che la pista da ballo e la giovane età che accumunava tutti i presenti quella sera a Consonno, Per quanto in decadenza, nel cuore di Elisa, Susanna e Margherita, il paese era proprio la città del divertimento…

Alla fine, verso le undici ed un quarto, la musica era tornata lenta e tranquilla. Brani melodici dei Dik Dik e di Mina, scandivano i lenti i di danza delle coppie abbracciate. I testi delle canzoni raccontavano di storie d’amore

travagliate e tristi, felici e meravigliose. Alcuni ragazzi si erano appartati sul belvedere per ammirare, mano nella mano, il panorama delle vallate di notte mentre altri, come Elisa e Giovanni, continuavano a danzare abbracciati. Era una sensazione mai provata per Elisa che, con le braccia di Giovanni attorno a sé, sentiva qualcosa di nuovo stringersi nello stomaco. Lui la guardava fisso negli occhi e, quando la musica si fece più lenta e loro, danzando, furono arrivati in un angolo della sala con la luce soffusa, la strinse più forte tirandola più vicino sino a quando le labbra dei due non si toccarono. Per qualche istante il tempo si fermò e l’orchestra suonò solo per loro.

Ma, proprio mentre Giovanni stava per abbracciarla più stretta, un improvviso acquazzone squarciò il cielo. Come se avessero aperto un rubinetto fino a quel momento chiuso, il temporale che avevano visto quando era ancora lontano, aveva iniziato a scaricare tutta la sua forza. La band musicale smise subito si suonare mentre i musicisti si affrettavano a mettere al riparo i loro strumenti. I camerieri correvano da tutte le parti cercando di chiudere le finestre vetrate e vuotare i tavolini mentre le coppie di giovani, che fino ad un istante prima affollavano la pista da ballo, cercavano riparo sotto la vicina galleria commerciale o sotto le pagode in stile giapponese del giardino a fianco.

Con l’acqua che scorreva sui loro volti, Elisa e Giovanni rimasero per un istante immobili guardando il cielo poi Elisa disse: “Grazie della bellissima serata…” Il ragazzo le sorrise, le accarezzò il volto, poi i due si voltarono per mettersi a loro volta al coperto.

Il gruppo dei giovani si era notevolmente ridotto poichè molti erano già tornati alle loro auto per andare verso casa. Anche la signora Colombini non c’era più. Susanna e Margherita, invece, avevano atteso l’amica sotto la pagoda del cannone assieme ai loro due cavalieri della serata. Tutti erano abbastanza bagnati dalla pioggia che ora cadeva ancora più forte mentre lampi e fulmini illuminavano la notte. I giovani si salutarono velocemente dandosi sicuro appuntamento per la mattina dopo. Giovanni, assicurò ad Elisa il giovane, avrebbe atteso con ansia di rivederla. Le tre amiche tornarono in albergo,

attraversando la strada battuta dalla pioggia scrosciante mentre i ragazzi raggiungevano il parcheggio sulla cima della collina dove avevano lasciato le vetture. Dal momento che la strada che portava a Consonno non era in un ottimo stato, percorrerla con quel tempo destava una certa preoccupazione. Nel cuore di tutti c’era la speranza che l’indomani sarebbe stata una giornata stupenda come era stata questa. Una giornata per rivedersi che, magari, avrebbe potuto portare qualcosa di nuovo per il futuro.

CAPITOLO 4

30 Settembre 1976 –Notte-

L’albergo era già silenzioso. Sebbene l’ora non fosse troppo tarda, non essendo nemmeno mezzanotte, la presenza di pochi turisti ed il forte temporale aveva convinto gli ospiti dell’albergo a ritirarsi presto nelle loro stanze. Fuori dalle ampie finestre vetrate della Hall, si stava scatenando quello che davvero sembrava essere un diluvio mentre ruscelli d’acqua scorrevano giù per la strada trascinando fango e sassi. Alcuni rami degli alberi del giardino erano caduti, strappati dalla furia del vento che accompagnava quell’ondata di pioggia, mentre le bandiere sventolavano cariche d’acqua nella tempesta.

Mentre le ragazze percorrevano il corridoio scarsamente illuminato che portava alla loro camera, la luce vacillò per poi spegnersi per qualche istante. Un evento assolutamente normale in quel fortunale ma, nel corridoio silenzioso ed illuminato solo a tratti dai lampi, le tre giovani furono percorse da un brivido di timore e si affrettarono a raggiungere la loro stanza proprio mentre la luce si riaccendeva. Al sicuro della loro camera, le ragazze si sentirono più tranquille e si rilassarono un poco raccontandosi le reciproche esperienze e sensazioni della serata.

Ma l’attenzione di Susanna e Margherita era attratta dall’evento principale di quella giornata: cosa stava accadendo ad Elisa? Cosa era avvenuto di tanto speciale in quella pista da ballo?

La ragazza nicchiò un poco per poi lasciarsi andare e raccontare alle amiche le sensazioni mai provate che quel ragazzo le faceva vivere. Verso l’una di notte,

finalmente, il sonno e la stanchezza prevalsero sulle emozioni della giornata e le tre ragazze si addormentarono, mentre fuori dalla finestra il temporale non accennava minimamente a diminuire; anzi pareva crescere d’intensità. Ma il rumore dell’acqua non preoccupava le ragazze, ora al coperto ed al caldo, piuttosto sembrava parlare loro raccontando la favola della buona notte dopo una giornata speciale...

Fu verso le quattro del mattino che alcune grida provenienti dal corridoio, le svegliarono di soprassalto. Nella stanza illuminata solo dai lampi del temporale che ancora imperversava sopra il paese, le tre ragazze si alzarono a sedere sui letti cercando di capire cosa stesse succedendo. Urla eccitate, rumori indistinti, voci confuse, avevano riempito la notte fino a poco prima silenziosa. Susanna si alzò dirigendosi verso la porta per capire cosa stesse succedendo quando un grido, più forte degli altri, giunse ben distinto: “Al fuoco!” – gridava qualcuno. Distratte dal rumore le tre giovani non avevano fatto caso all’odore che permeava la stanza ma che era assolutamente riconoscibile: fumo e bruciato. Era chiaro che qualcosa stava succedendo da qualche parte nell’albergo.

Le ragazze non persero tempo. Presero i vestiti che avevano preparato per il giorno dopo e uscirono dalla stanza per raggiungere la hall. Il corridoio era già parzialmente invaso dal fumo che pareva provenire dalla zona delle cucine ma nella hall l’aria era ancora pulita. Circa trenta persone si erano radunate davanti alle porte di uscita, dove personale dell’hotel cercava di calmarle e contarle per verificare che ci fossero tutte. Margherita ed Elisa si guardarono attorno cercando di capire cosa stesse succedendo.

Fu Susanna ad accorgersi della mancanza della signora Colombini nella folla assiepata nella stanza. “Dov’è Domitilla?” – chiese preoccupata alle amiche. Elisa e Margherita la cercarono nella folla ma non la videro. Preoccupata, Elisa disse: “Forse è rimasta in camera. Forse non ha sentito questo trambusto! Ieri mi diceva che quando va a letto prende un leggero sonnifero per dormire e si mette i tappi nelle orecchie perché le dà fastidio il minimo rumore. Bisogna andare a chiamarla!” “Sei pazza?” – chiese Margherita – “Dobbiamo uscire subito

dall’albergo! C’è un incendio!” “Proprio perché c’è un incendio dobbiamo correre ad avvisarla!” – ribatté Elisa – “La sua stanza è solo a pochi metri dalla nostra. Ci metteremo un attimo!”

Senza aspettare la risposta delle amiche, la ragazza ritornò di corsa nel corridoio che conduceva all’ala destra dell’albergo, per raggiungere la camera della signora Colombini. Il fumo si era fatto più fitto ed Elisa dovette camminare quasi in ginocchio per poter respirare. In pochi minuti, nonostante tutto, riuscì ad arrivare davanti alla camera di Domitilla e prese a bussare alla porta ed a chiamare con tutta la voce che aveva. arono altri minuti preziosi, durante i quali Elisa stava per perdere le speranze, finché la porta si aprì lentamente. La signora Colombini era in vestaglia, con i capelli pieni di bigodini trattenuti da una reticella, ed alle orecchie aveva ancora dei tappi di spugna.

“Domitilla!” – gridò Elisa, spalancando la porta e scuotendola per svegliarla – “Dobbiamo uscire subito! C’è un incendio!” La signora Colombini si destò di colpo dal torpore e corse a chiamare i cani che si agitavano confusi attorno al letto nella stanza. Fu in quel momento che anche le due amiche di Elisa sbucarono dal fumo per dar loro una mano. “Non potevamo certo lasciarti sola visto che sei pazza!” – disse Susanna legando un fazzoletto bagnato sul viso di Elisa per aiutarla a respirare nel fumo. Nel frattempo Domitilla era uscita dalla stanza seguita dai due cani. “Dobbiamo andare…” – disse Susanna quasi gridando – “…gli altri sono già tutti fuori dall’albergo”.

Il gruppo si mosse lungo il corridoio verso la hall ripercorrendo la strada che avevano fatto poco prima. Ma quando arrivarono ad una svolta del corridoio sulla quale si apriva una finestra, un fulmine si scaricò a terra sull’erba a pochi metri dal muro, generando un’esplosione di scintille ed un gigantesco boato. Lo scoppio fu così improvviso che colse di sorpresa le donne che si fermarono un attimo impaurite da quella potenza. Thomas e Giorgio, come impazziti, corsero via. Ma mentre Giorgio fu furbo o fortunato da prendere la direzione della hall, Thomas si diresse nel senso opposto, nuovamente verso la stanza probabilmente alla ricerca della sua cuccia in un istinto di protezione. Domitilla lanciò un grido

cercando di richiamarlo ma senza successo. Le ragazze si guardarono in silenzio mentre la signora Colombini gridava in lacrime pregando il cane di ritornare.

“D’accordo” – disse Elisa improvvisamente, conscia di quanto quell’animale rappresentasse per la sua padrona. Proprio quel pomeriggio Domitilla aveva, infatti, raccontato alle ragazze come proprio la compagnia di quei cani era stata il suo unico conforto durante una lunga e penosa malattia che l’aveva afflitta per tanto tempo poco dopo la morte del marito. Era stata solo la vicinanza dei suoi ‘nipotini’ a non farla cadere in depressione durante i lunghi mesi difficili della chemioterapia che era stata necessaria per curare il cancro che aveva attaccato il suo seno. Se da un lato la rivoluzionaria scoperta della chemioterapia, avvenuta solo sei anni prima, aveva dato speranza a migliaia di persone ammalate, essa richiedeva una forza di volontà che poche persone sole al mondo riuscivano a trovare. Consapevole di tutto questo, Elisa si lanciò alla rincorsa del cane, scomparendo nuovamente nel fumo che ora aveva invaso quasi completamente l’intera ala dell’albergo.

Quali fossero le cause dell’incendio non era possibile stabilirlo e in quel momento non importava. Susanna e Margherita costrinsero quasi a forza la signora Colombini ad uscire dall’albergo per riunirsi, stringendo Giorgio tra le braccia, con il resto degli ospiti della struttura sotto la pioggia battente nello slargo del punto panoramico. Nel frattempo Elisa, ancora dentro l’edificio, era riuscita a raggiungere la stanza della Colombini ma il cane non era lì. La cuccia era vuota e non c’era traccia di lui da nessuna parte. Uscita nuovamente nel corridoio, cercò di scorgerlo nel fumo ma gli occhi le bruciavano e dovette proseguire a gattoni cercando di respirare. Quando ormai aveva perso le speranze di trovarlo, un uggiolio terrorizzato si levò sopra il rumore delle fiamme che avanzavano. Elisa si diresse pronta verso la direzione dalla quale il rumore proveniva, ancora più in giù nel corridoio che portava alle cucine. Thomas si era rifugiato dentro un armadio di servizio, ricavato in una nicchia del muro che serviva per contenere il materiale per le pulizie e le lenzuola di ricambio per le camere. Se ne stava tremante di paura, acquattato tra i secchi, nel disperato tentativo di nascondersi da quell’inferno del quale non capiva ovviamente la ragione. Elisa lo prese tra le braccia cercando di calmarlo e si voltò per ritornare verso l’uscita.

Fu proprio in quel momento che si verificò una esplosione. Forse una tubatura del gas della cucina, forse un condotto di ventilazione o forse, semplicemente, il fuoco aveva trovato una nuova fonte di ossigeno con la quale alimentarsi. In ogni caso la fiamma divampò con potenza sul soffitto del corridoio incendiando in pochi attimi il controsoffitto e la carta da parati con la quale il corridoio era rivestito. Pensare di riuscire a ritornare indietro era ora impossibile. La temperatura era troppo alta e tutt’attorno divampavano le fiamme. Cercando una via di fuga, Elisa con Thomas stretto tra le braccia, spalancò la porta di una delle stanze vicine pensando di poter uscire dalla finestra. La stanza nella quale era entrata, però, era diversa dalle altre. Le carenze di ospiti, e le cattive condizioni economiche nelle quali versava l’albergo aveva portato la direzione a decidere di chiudere quelle stanze che necessitavano di manutenzione e di utilizzare per gli ospiti solamente quelle ancora in buono stato. La camera nella quale Elisa aveva cercato rifugio era una di quelle che non si utilizzavano. I mobili erano accatastati da un lato della stanza, coperti di polvere e ragnatele. Il lampadario era stato tolto, probabilmente per rimpiazzare uno di quelli delle altre camere, ed i fili nudi pendevano dal soffitto. Ma era soprattutto lo stato della finestra che aveva terrorizzato la ragazza. Dal momento che i vetri erano rotti, il personale dell’hotel aveva deciso di impedire l’accesso dall’esterno inchiodando delle pesanti assi di legno al telaio dell’infisso. Quindi, sebbene attraverso le fessure arrivasse aria pulita e più respirabile, non c’era via fuga possibile se non cercando di divellere le assi che sembravano essere fissate, però, in modo assai solido...

La ragazza si guardò attorno alla ricerca di qualcosa da poter utilizzare come strumento mentre un denso fumo nero iniziava a farsi strada sotto la porta della camera che aveva richiuso alle sue spalle. Elisa corse in bagno cercando degli asciugamani per chiudere le fessure ma non trovò nulla. E, in ogni caso, anche se li avesse trovati, dai rubinetti dei sanitari non uscì una sola goccia d’acqua. Ritornata davanti alla finestra sbarrata, la giovane posò a terra il cane, che si ostinava a rimanerle attaccato alle gambe cercando una protezione che lei non poteva dargli in alcun modo. Afferrò con entrambe le mani una delle assi e tirò con tutta la forza che aveva, puntellandosi con i piedi alla parete. Dopo la terza volta l’asse parve muoversi di qualche millimetro e lei riprese con maggior vigore animata dal disperato tentativo di salvarsi. Fu il rumore delle fiamme a

farla voltare. Lingue di fuoco stavano divorando la porta di legno attraverso le fessure con lo stipite ed Elisa capì che non avrebbe avuto ancora molto tempo. Tirò ancora, con maggiore forza, e riuscì a staccare un lato di una delle assi. Cercò quindi di staccare anche l’altra estremità del legno, che era stato inchiodato di traverso sulla finestra, per crearsi un varco in cui are; ma il carpentiere che aveva eseguito quel lavoro non aveva risparmiato sui chiodi piantandone ben sei su quel lato. Elisa cercò di fare leva da sotto l’asse come per sollevarla dal muro, e si ferì le mani con le punte sporgenti dei chiodi che era riuscita a divellere poco prima. Incurante del dolore e del sangue che le bagnava le mani, provò ancora con più vigore a togliere l’asse di legno, incoraggiata dalla fresca aria della notte che entrava attraverso il vetro rotto e che le raffreddava la pelle bruciata dall’intenso calore dell’incendio.

Mille pensieri le affollavano la mente in quegli attimi, dalla sua famiglia che l’aspettava a casa, agli amici che attendevano con ansia il resoconto di quella vacanza a lungo sognata ed attesa, a Giovanni che avrebbe dovuto rivedere il giorno dopo. Non poteva finire così. Non doveva. Ma, proprio quando l’asse stava per cedere, un improvviso boato esplose dietro di lei. Elisa fece appena in tempo a voltarsi per vedere la porta della stanza cedere di colpo sotto il peso delle fiamme quando un muro di fuoco, alimentato dalla fresca fonte d’aria esterna della finestra rotta, proruppe verso di lei.

Fu solo un attimo e fu tutto finito.

Le amiche fuori nel parcheggio erano fuori di sé dall’ansia. Impotenti non potevano fare altro che fissare le porte di vetro della hall, ora completamente invasa dal fumo, pregando che la loro amica uscisse e le raggiungesse. La pioggia battente continuava a martellare il piazzale e tutti si chiedevano dove fossero finiti i vigili del fuoco di Calolziocorte che erano stati avvisati diverso tempo prima dal personale dell’hotel non appena si erano accorti dell’incendio.

Ma nessuno avrebbe potuto prevedere che la vendetta della natura, da tanto

tempo offesa e ferita dalla cementificazione selvaggia del conte Bagno, si sarebbe scaricata sul paese di Consonno proprio quella notte. Il forte temporale aveva trascinato fango e terra lungo i pendii delle montagne che erano stati disboscati per garantire ai visitatori del paese dei balocchi la vista sulle vallate circostanti. I torrenti di acqua avevano, infine, smosso un fronte franoso di diverse decine di metri che aveva reso inagibile la strada che saliva dal paese di Olginate a Consonno. I mezzi dei vigili del fuoco che stavano accorrendo all’albergo erano stati bloccanti dal fronte della frana ed erano stati a costretti a ritornare indietro per percorrere la vecchia strada del paese con un giro molto più lungo attorno alla montagna su cui Consonno sorgeva. Riuscirono ad arrivare al paese solo dopo quaranta minuti. Appena in tempo per fermare le fiamme prima che divorassero l’intero albergo, ma troppo tardi per salvare la vita di Elisa che venne ritrovata solo nel tardo pomeriggio con a fianco ancora il corpo di Thomas che aveva cercato di salvare.

Le amiche erano sconvolte. Cosa avrebbero potuto raccontare alla famiglia di Elisa? Come avrebbero potuto spiegare a suo padre e sua madre che la loro unica figlia era morta perché aveva cercato di aiutare un’altra donna? Però, forse, sarebbe stato proprio questo che avrebbero potuto dire. Perché Elisa era così. Per lei aiutare gli altri era naturale come respirare. Per questo aveva scelto la carriera di medico. Non per il denaro, la fama o il prestigio di cui questa categoria godeva in quegli anni. Ma per poter essere vicino a quelle persone che avevano bisogno di aiuto: persone come Domitilla che era riuscita a salvare a costo della vita.

Elisa fu sepolta nel cimitero di Brescia, accanto ai suoi nonni. Sulla tomba fu scritto: “amava la vita e l’ha data per gli altri”. Decine di persone furono presenti al suo funerale, compresi molti di quei ragazzi che aveva conosciuto al paese la sera prima della tragedia. Giovanni era in prima fila.

La storia dell’incendio all’albergo, che si scoprì poi essere stato causato da un fulmine che aveva colpito una catasta di legna accanto alla cucina, riempì le pagine dei giornali per alcuni giorni. Si scrisse della vita Elisa, del suo eroismo,

della storia di Consonno e del suo destino. Ma nel giro di poco la vicenda venne dimenticata. I fiori davanti all’hotel transennato apirono col tempo ed i curiosi che salivano a piedi alla cittadina, diminuirono sempre di più sino a scomparire.

Il destino del paese di Consonno negli anni avvenire è storia nota. Quella notte cambiò per sempre il destino del paese segnandone la fine. La frana che aveva bloccato la strada non venne mai rimossa e la nuova giunta comunale fece mettere una sbarra per bloccare l’accesso al paese da Calolziocorte. Ora che Consonno poteva essere raggiunto solo con la vecchia strada anche quei pochi turisti che ancora lo visitavano, sciamarono via del tutto scegliendo nuove mete di vacanza. I negozi che erano rimasti sino a quel giorno nella galleria commerciale chio i battenti come pure le altre attività di Consonno che divenne in poco tempo un paese fantasma. Solo alcuni turisti, affezionati alla zona, continuarono ad abitare per gli anni successivi alcuni degli appartamenti che si trovavano ai piani superiori del minareto, ma, alla lunga, smisero di venire anche loro. I cantieri ancora in costruzione, tra cui l’edificio rimasto scheletro del cosiddetto “Pavesino”, furono lasciati com’erano ed ancora oggi i macchinari e gli arredi originari si possono vedere dove sono stati lasciati. Nei decenni successivi il paese cadde in rovina. Solo l’albergo fu ristrutturato e trasformato in casa di riposo per anziani ma anch’esso fu poi lasciato al suo destino nel 2005. Un immenso rave party con centinaia di giovani distrusse tutto quello che era rimasto in paese l’anno dopo e gli edifici furono recintati per impedire a chiunque l’accesso. Consonno oggi non è altro che meta di turismo per gli apionati di archeologia urbana o per i pochi curiosi, un testimone silenzioso e abbandonato della follia dell’uomo quando si fa guidare solo dal denaro.

CAPITOLO 5

5 Giugno 2013 – mattina-

“Stia tranquillo, dottor Menzi” – diceva al cellulare il ragazzo mentre fermava la sua Alfa Romeo 157 nuova fiammante davanti alla sbarra che chiudeva l’accesso al paese di Consonno. “Sono proprio adesso davanti alla sbarra. Non appena sarò su in paese, prenderò le ultime misure che mi servono e, le prometto, che per domani pomeriggio, le farò avere la relazione che ci serve per il comune”.

Mentre cercava di chiudere questa telefonata, il cui contenuto era identico a quella del giorno prima e che durava ormai già da venti minuti, il giovane si frugava nelle tasche alla ricerca della chiave del lucchetto che bloccava la sbarra. La nuova giunta comunale del comune di Calolziocorte aveva installato quel blocco stradale dopo il rave party del 2006 in modo da impedire ad altri giovani di occupare gli edifici che tanti anni prima erano soliti risuonare pieni di grida di gioia dei turisti. Ora l’unico accesso al paese era la strada principale, ripristinata nel tratto franato quella tragica notte, ma chiusa al traffico. Una grande impresa edile stava aspettando da alcuni anni che le pratiche di aggio di proprietà tra gli eredi della famiglia Bagno e l’impresa edile stessa si concludessero in modo da poter dare inizio al più grande intervento edilizio dai tempi del conte Bagno ad oggi. Il progetto della ristrutturazione del paese di Consonno era stato affidato ad un famosissimo studio di architettura gestito dall’ingegner Menzi, celebre progettista di fama internazionale. Per poter dare inizio ai lavori, il comune di Olginate richiedeva, però, il rispetto rigoroso ai vincoli paesaggistici del piano regolatore comunale e della provincia. Dopo la devastazione delle idee visionarie del conte Bagno, la popolazione della Brianza non era disposta ad accettare un’ulteriore cementificazione del suo territorio. Ecco perché il giovane architetto Luca Ferretti si stava recando al paese quella mattina. Occorrevano altri rilievi in loco per stabilire meglio le distanze degli edifici da ristrutturare dal parco del paese che sarebbe stato conservato e ripristinato.

Quelle misure erano state richieste da uno dei tecnici della commissione nominata dal comune di Olginate per l’analisi del progetto. Si voleva verificare che l’aumento del volume edificato in alcune parti del paese, in particolare quelle dove si trovavano gli edifici mai terminati, fosse compatibile con le percentuali stabilite dal piano regolatore vigente. Per questo motivo il giovane Luca, primo collaboratore dell’architetto Menzi, aveva dovuto affrontare una levataccia quella mattina per andare ad effettuare quei rilievi prima di andare in ufficio.

Era già da quasi due anni che Luca lavorava nello studio del dottor Menzi. Uscito dall’università con il massimo dei voti, il giovane si era fatto rapidamente strada nel mondo della progettazione edilizia grazie ad alcune idee che lo avevano reso noto all’inizio tra i professori dell’università e poi gli avevano permesso di entrare in alcuni celebri studi architettonici. Era stato ad un party nell’occasione dell’inaugurazione di un grande centro commerciale che, in parte, aveva progettato lui stesso che il giovane Luca aveva conosciuto la ventiseienne Silvia Menzi. Era difficile non notarla: i lunghi capelli castani che le incorniciavano il volto, le ricadevano sulle spalle formando dei boccoli, resi più chiari da uno chatusch. Al collo la giovane indossava una stupenda collana di diamanti che luccicava nelle luci della sala e dava risalto ad un aderente abito nero a gonna corta con un profondo scollo a V sulla schiena. Al momento del suo ingresso nella sala in cui si teneva il party, molti uomini si erano girati a guardarla e diversi di loro erano poi stati severamente ripresi dalle proprie dame. L’affascinante figlia del celebre architetto, che gli era stata presentata da un suo collega, lo aveva dapprima coinvolto in un’avvincente discussione sulle nuove teorie stilistiche e poi lo aveva invitato a ballare.

Da quella sera i due ragazzi si erano visti sempre più spesso: avevano cenato assieme, erano andati in vacanza insieme, ed avevano collaborato in alcuni progetti. Quando ormai la loro relazione era divenuta di dominio pubblico, lei lo aveva presentato ufficialmente al padre che lo aveva attentamente valutato e messo alla prova per verificare se fosse degno di sua figlia. Come prima cosa lo aveva assunto nel proprio studio e gli aveva affidato alcuni progetti difficili che

il giovane aveva brillantemente e rapidamente risolto. La sua capacità di superare i problemi anche ricorrendo a mezzi non proprio “ortodossi”, ma che nello studio dell’architetto Menzi erano considerati abituali, e la sua assoluta indifferenza alle circostanze altrui pur di raggiungere i risultati richiesti, aveva convinto il grande architetto di aver trovato un eccellente erede. Aveva, quindi, promosso il trentenne Luca suo primo assistente e gli aveva affidato l’incarico di curare la realizzazione del progetto che avrebbe portato al nome “Menzi” la gloria che l’architetto aveva cercato da tutta una vita.

Così, mentre la relazione con Silvia andava avanti a gonfie vele al punto che i due si erano trasferiti a vivere nel grande appartamento di lui, Luca si faceva largo tra i collaboratori dell’architetto senza preoccuparsi di lasciarsi dietro una scia di malcontento e piedi pestati. La fama di freddo e meschino architetto non dava fastidio al rampante futuro genero che, anzi, ne faceva un vanto con l’avvenente fidanzata che lo approvava, sosteneva ed incoraggiava. La preparazione del grande progetto di recupero e ristrutturazione del paese di Consonno, stava occupando le giornate e parte delle nottate del ragazzo da diverse settimane. Il successo del progetto era vitale non solo per la sua carriera, ma per il suo stesso futuro con Silvia ed alla guida dello studio come successore incoronato del grande Menzi. Il comune, dal canto suo, non aiutava certo i propositi dell’architetto, continuando a chiedere relazioni, progetti, calcoli e certificati volti a tutelare in tutti i modi la montagna ed il territorio.

L’ennesima richiesta che bloccava l’avanzamento della pratica, era arrivata dall’ufficio tecnico della provincia il giorno prima ed il dottor Menzi aveva immediatamente spedito il suo delfino a risolvere il problema. Così, quella mattina, dopo aver trascorso gran parte della notte precedente in ufficio, Luca si era precipitato al paese per fare i rilievi necessari. Salutata in fretta Silvia, che ancora stava dormendo, Luca aveva percorso la stretta strada fino allo sbarramento, dove la telefonata di sollecito del futuro suocero, lo aveva raggiunto.

Chiuso il telefono e ripostolo nella giacca, Luca iniziò a frugarsi in tasca alla

ricerca della chiave del lucchetto che bloccava la sbarra, ma senza successo. Maledicendosi per la fretta e la sonnolenza di quella mattina, si ricordò di aver lasciato il mazzo di chiavi datogli dal comune sulla scrivania dell’ufficio.

“Per la miseria…” – pensò facendo subito seguire questo incipit da una sequela colorita di espressioni – “… adesso mi tocca farmela a piedi”.

Senza perdere altro tempo, Luca si fece coraggio e, presa la valigetta con gli strumenti di misura che aveva nel bagagliaio della sua nuova auto, si tolse la giacca e si avviò a piedi lungo la salita. Pensava di metterci di meno, a dire il vero. Quando si guida un’auto in grado di sviluppare 260 cavalli, non si presta particolare attenzione alle distanze chilometriche. Ma quella mattina, Luca stava imparando molto sull’arte del trekking che, comunque, amava praticare a livello amatoriale in montagna. Per fortuna la giornata si preannunciava nuvolosa, pur essendo già molto calda, per quel periodo dell’anno. Mentre il giovane architetto continuava a salire lungo la strada, il sudore gli imperlava a fronte e faceva comparire vistose macchie scure sulla camicia da 100 euro che indossava.

Ci vollero quasi due ore di cammino per arrivare allo spiazzo dove una volta sorgeva il portone medievale che segnava l’inizio del paese dei balocchi. Abbattuto quasi dieci anni prima perché pericolante, ne era rimasto solo il ricordo nelle vecchie cartoline in possesso dei collezionisti o dei nostalgici.

“Per fortuna in questi anni gli alberi sono ricresciuti…” – pensò Luca ringraziandoli per l’ombra di cui poteva godere mentre continuava a camminare. Dopo altri quindici minuti, raggiunse finalmente lo spiazzo del giardino orientale, al centro del paese.

Ben diversa era ora quella zona rispetto a trent’anni prima. Ora gli edifici erano recintati da alte reti metalliche, la vegetazione aveva preso il sopravvento

ovunque e nessun suono si poteva sentire eccetto il canto degli uccelli. Ironia della sorte, solo una volta che fu arrivato in paese, il sole si nascose dietro una coltre nuvolosa compatta concedendo un po’ di ristoro.

Aperto con una seconda chiave il rugginoso lucchetto che serrava una porta ricavata nella recinzione del vecchio minareto, Luca si avvicinò alla costruzione. Il tecnico della commissione comunale voleva sapere quanti alberi con il tronco di diametro superiore ai 30 cm erano cresciuti nel vecchio parco. Una legge provinciale del 1998 ne vietava, infatti, l’abbattimento senza giustificato motivo.

Maledicendo mentalmente quell’impiegato, Luca si accinse ad effettuare la sua conta con relativa misurazione delle posizioni delle alberature rispetto al minareto che, nelle intenzioni dell’architetto Menzi, sarebbe diventato un resort con spa e aree fitness. Non sarebbero stati certo degli stupidi alberi ad impedire la realizzazione di quel piano! Luca conosceva oltre dieci modi per aggirare quella legge, dalla semplice dimenticanza nel riportare nel rilievo un’alberatura particolarmente scomoda, alla classica ma sempre valida bustarella per convincere il troppo zelante addetto comunale a guardare da un’altra parte.

Ma almeno una parvenza di realismo ci doveva essere alla base di tutta la carta prodotta.

Per questo Luca era dovuto venire lì quella mattina. Immaginava già che sarebbe stato un lavoro lungo e faticoso. Ricordava bene dai precedenti sopralluoghi che la natura aveva pienamente riconquistato quei luoghi. Ma non immaginava che fossero così tanti gli alberi da mappare. Dopo due ore di lavoro e dopo essersi mentalmente maledetto per non aver incaricato qualche altro impiegato dello studio o, meglio ancora, il nuovo stagista di eseguire quell’incarico, Luca decise di velocizzare l’opera omettendo di riportare un albero ogni due. Tanto ci avrebbero pensato le squadre di operai a sistemare la situazione rendendo la popolazione verde della zona confacente ai progetti dell’architetto.

Aveva quasi finito la sua “selezione” quando un forte boato lo distolse dai suoi pensieri. Luca guardò il cielo rendendosi conto solo ora che il fronte nuvoloso, che tanto aveva ringraziato al suo arrivo in paese, si stava per tramutare in un pesante acquazzone estivo. Maledicendo la propria disattenzione, Luca si affrettò a recuperare i fogli degli appunti, gli attrezzi e la valigetta. Sperare di riuscire ad arrivare alla macchina prima che iniziasse a piovere era una pia illusione. I lampi sempre più frequenti e le prime goccioline di pioggia, facevano capire che di lì a pochi minuti sarebbe iniziato il temporale. Luca si guardò intorno alla ricerca del posto migliore in cui ripararsi ed aspettare che il tempo migliorasse. Optò per il portico sul davanti della vecchia tavola calda e si affrettò a raggiungerlo proprio mentre i primi goccioloni cadevano a terra.

In pochi minuti ruscelli d’acqua scorrevano giù per la strada ed un freddo vento scuoteva le cime degli alberi. Luca si riparò nell’androne della porta, ora bloccata da alcune assi di traverso, per cercare di evitare le gocce trasportate dal vento che spazzavano il portico.

Sorrise per un attimo davanti all’ironia del cartello ancora visibile al di là del vetro che annunciava ai turisti “Chiuso per rinnovo locali – Si riapre al più presto”. Era un’immagine divenuta famosa in molti siti che parlavano di Consonno, un’icona dell’abbandono. Luca sperava che, se il temporale si fosse sfogato rapidamente, altrettanto rapidamente sarebbe ritornato il sereno. Purtroppo la pioggia si fece più rada ma persistente e, invece, di tornare il sereno, si alzò una fitta nebbia che avvolse il paese. “Maledizione…” – pensò Luca guardandosi attorno e rimpiangendo di aver dovuto lasciare la macchina in fondo alla strada – “…guarda che tempo! Proprio oggi dovevo cacciarmi in questa situazione. Venisse un accidente a quel maledetto tecnico comunale!”

In poco tempo la nebbia aveva avvolto completamente il paese e, dal portico della vecchia tavola calda, si vedeva a malapena la punta del minareto. Era la classica giornata protagonista di molti dei racconti e delle leggende che, nel corso degli anni, si erano sviluppati attorno al paese fantasma. Molte di queste

storie erano simili tra loro, evidentemente frutto delle rimescolanze e delle aggiunte che, inevitabilmente, ogni favola assume nel aggio di bocca in bocca. Una tra tutte, però, si ripresentava ogni volta che forte temporale si abbatteva sul paese. Coloro che si trovavano a are per il paese, davvero pochi negli ultimi dieci anni a questa parte, raccontavano di aver visto una figura solitaria, un’ombra che camminava a o lento e triste nella foschia accompagnata solo dalla sagoma di un cane che, raggiunta la sommità della collina, lanciava un lungo e spettrale ululato.

Luca non aveva mai dato peso a quelle storie. In tutta la sua vita non aveva mai creduto a fantasmi, agli spettri come pure agli spiriti o a Babbo Natale. Credeva a quello che si poteva vedere e toccare. L’immaginazione non dava denaro. E, in ogni caso, se anche ci fosse stato un fantasma ad infestare quel paese dimenticato da Dio e dagli uomini, ci avrebbero pensato le ruspe da 20 tonnellate a renderlo inoffensivo.

Sorrise a quest’idea. E stava ancora sorridendo quando un ululato improvviso ruppe il silenzio.

Per quanto fosse sicuro di sé, Luca non poté trattenere un brivido a quell’improvvisa sorpresa. Ma si riebbe subito rimproverandosi per la propria momentanea debolezza. Era soltanto un cane! Probabilmente era un randagio che era stato spaventato da qualcosa in quella nebbia. Non c’era nessun motivo di allarmarsi. Ma un nuovo ululato si fece sentire all’improvviso. Luca si guardò attorno preoccupato. Anche se non voleva ammetterlo a sé stesso, il battito del suo cuore si era accelerato ed il respiro si era fatto più affannoso. Continuò a guardarsi attorno con maggiore insistenza e fu allora che la vide.

Davanti a lui, ad una distanza di una ventina di metri, una figura sfocata camminava lentamente nella nebbia, incurante della pioggia che continuava a cadere lenta e fine. La sagoma di un cane le camminava al fianco, uggiolando tristemente col muso basso. Luca si fermò a guardare quell’apparizione

trattenendo il fiato. In pochi istanti la figura solitaria si allontanò in silenzio scomparendo nella nebbia. Luca rimase immobile per quasi un minuto per poi accorgersi che aveva la bocca aperta dalla sorpresa e darsi dello stupido per il suo atteggiamento.

“Chi diavolo era quella? Chi si crede di essere? Come si permette di entrare in una proprietà privata?” – pensò improvvisamente.

Deciso a chiarire quella situazione assurda ed a far valere la propria posizione superiore, Luca appoggiò a terra lo zaino con la strumentazione e gli appunti e rincorse, sotto la pioggerella, quell’apparizione deciso a raggiungerla. La nebbia era fitta e non era facile orientarsi ma, dopo qualche minuto, la misteriosa figura gli apparve nuovamente alla sua destra spostandosi, questa volta, verso il vecchio salone delle feste, sempre seguita dal cane. Luca le corse dietro ancora una volta ma un ramo secco, nascosto da un mucchietto di foglie, lo fece inciampare. Cadde rovinosamente, strappandosi i pantaloni di cotone che si era fatto fare su misura solo la settimana prima da uno dei più prestigiosi sarti di Milano. Maledicendosi per quella situazione si rialzò sfregandosi via il fango dalle mani e ricominciando a correre nella direzione presa dalla figura prima della sua caduta. La vecchia pista da ballo era ora invasa da erbacce e rottami di quelle che una volta erano state le sedie ed i tavoli mentre parte della tettoia laterale era crollata sotto il peso di una grossa nevicata due anni prima. Luca si guardò attorno cercando quella che ormai era certo fosse un’intrusa con un cane al seguito. La vide camminare verso il vecchio parco dove c’era ancora la pagoda giapponese con l’affusto di cannone.

Gridò per richiamare la sua attenzione. “Ehi, lei! Questa è proprietà privata! Si fermi!” La sagoma scura non dette segno di essersi accorta di nulla, sebbene, da una distanza così ridotta, fosse impossibile pensare che non avesse sentito.

Luca la inseguì ancora verso il vecchio Grand Hotel Plaza e la vide che entrava nella vecchia hall. Ormai era dietro di lei e distinse chiaramente alcuni tratti

della figura sconosciuta: era una ragazza che aveva i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo. Gridò nuovamente cercando di attirare la sua attenzione ma, anche questa volta, non ci fu nessuna reazione da parte della ragazza. Luca si fermò un attimo sulla soglia dell’ex albergo chiedendosi se valeva davvero la pena di correre dietro ad una sconosciuta. Forse la situazione poteva diventare rischiosa… Dopotutto non era stato fatto nulla di male… Forse sarebbe stato meglio se fosse tornato alla vecchia tavola calda a riprendersi le sue cose e ad aspettare che la nebbia si levasse per tornare a casa. In effetti sarebbe stato molto meglio… Ma Luca non era il tipo da accettare di rinunciare davanti a nessuno. Si era fatto la fama di quello che fa di testa sua indipendentemente dagli altri e, ancora una volta, voleva dimostrare quello che valeva. Senza pensare al rischio, si lanciò dentro la vecchia hall.

Le tracce del grande rave party erano evidenti ovunque. I mobili rimasti dopo la chiusura della casa di riposo erano stati sfasciati ed i rottami sparsi in giro in mucchi scomposti. I pannelli in legno che decoravano il soffitto e le pareti, marciti in più punti, erano stati in parte divelti e bruciati in un angolo, forse per fare un falò su cui cuocere qualcosa o solamente per scaldare l’ambiente. Il quadro elettrico generale dietro al banco dell’entrata era stato sventrato di tutti i suoi componenti e le vetrate erano percorse da ragnatele di crepe se non addirittura spaccate o mancanti. Luca cercò con lo sguardo la ragazza e sentì l’abbaiare del cane provenire da un corridoio davanti a sé. Il giovane si avvicinò ma le finestre sbarrate e la nebbia che oscurava il sole, non permettevano di vedere molto. Camminò con circospezione guardando nelle buie stanze che si aprivano ai lati del corridoio: erano tutte vuote o ingombre di rottami e mobili distrutti. Ogni tanto mucchi di bottiglie in frantumi e lattine di birra ricordavano il rave party che aveva distrutto ogni cosa. I cocci di vetro scoppiettavano frantumandosi sotto i piedi man mano che Luca camminava sempre più inoltrandosi nel corridoio. Le ragnatele gli si attaccavano al volto ed alle mani ed una puzza acre di marciume riempiva l’aria. Sembrava che nessuno fosse ato da quella parte da diversi anni a quella parte, eppure il rumore che continuava a sentirsi provenire da un punto imprecisato davanti a sé non lasciava dubbi sul fatto che in quell’edificio abbandonato e fatiscente ci fosse qualcuno. Arrivato ad una svolta del corridoio sulla quale una volta si apriva una finestra con al di sotto quella che doveva essere stata una fioriera, Luca si guardò intorno nel buio e vide la sagoma del cane entrare in una stanza davanti a sé.

“D’accordo signorina…” – disse a voce alta e ferma – “Chiunque lei sia sappia che questo gioco è durato anche troppo. Questa è una proprietà privata e lei si trova dentro un edificio chiuso al pubblico. Potrebbe essere denunciata per questo. Venga fuori con il suo cane e se ne vada e le prometto che dimenticherò questa cosa.”

Detto questo attese qualche istante una risposta, che, però, non venne. Risentito ed offeso nell’orgoglio per questa palese sfida alla sua autorità, Luca fece tre i verso la stanza e si fermò sulla soglia di fianco ad una vecchia sedia a rotelle sventrata e rugginosa. Dentro la camera spoglia stava in piedi una ragazza, dando le spalle alla porta. La coda di cavallo bionda le scendeva lungo la schiena risaltando sulla canottiera bianca che indossava sopra un paio di gialli pantaloni di jeans ed un paio di scarpe da ginnastica bianche ai piedi. Non si poteva vedere molto con la scarsa luce che entrava nel locale e Luca le chiese ancora una volta di seguirlo fuori.

La ragazza si voltò verso di lui con un’espressione sorpresa sul viso. Lo guardò in silenzio un istante come per valutarlo, fissandolo negli occhi e Luca non poté fare a meno di notare, nei profondi occhi verdi della giovane che aveva davanti, una grande tristezza. Quindi la giovane disse con voce dolce: “Non è spaventato?” Luca fece un sorriso proprio come un padre si rivolge al bambino che ha sorpreso a compiere una marachella e le rispose: “Mi dispiace di non essere fuggito terrorizzato, signorina. Ma io non sono come uno degli altri turisti che lei o qualche suo amico si è divertito a spaventare. Non so se siate stati voi a creare la leggenda del fantasma solitario, o ne abbiate solo approfittato, ma questo non toglie nulla al fatto che state violando una proprietà privata e, per questo motivo, la invito ad andarsene prima che mi veda costretto a chiamare la polizia”.

Detto questo il giovane architetto incrociò le braccia al petto come a voler dare più vigore alle sue decise affermazioni. La ragazza lo guardò imibile poi, allargando le braccia, gli disse: “questa è la mia stanza…” “Intende dire che vive

qui?” – chiese Luca di rimando guardandosi intorno alla ricerca di qualche segno di uso abituale del locale, ma senza trovarne nessuno. In effetti, la stanza non era diversa dalle altre che aveva visto quando era entrato poco prima nel vecchio albergo inseguendo la giovane: solo un susseguirsi di mucchi di rottami, muffa e ragnatele. “Questa è la mia stanza…” – ripetè la ragazza – “…non ho altro posto dove posso andare”.

Eppure guardandola non sembrava essere una barbona, pensava Luca. Anzi; bisognava proprio ammettere che era una bellissima ragazza. Doveva avere circa vent’anni ma i suoi occhi parevano portare dentro il peso di una assai più lunga esperienza. Luca immaginò che forse doveva essere fuggita di casa, oppure era una drogata ma non riusciva, comunque, a capire come fosse finita lì. Non era la prima volta che dei disperati si stabilivano per qualche notte negli edifici della vecchia Consonno. Luca stesso aveva collaborato, quando erano arrivate le prime squadre di tecnici per i rilievi, a farne sfollare alcuni che erano entrati praticando dei buchi nelle recinzioni. Ma quella ragazza era diversa dagli altri. Sembrava essere… come fuori posto.

“Chi sei tu? Come ti chiami?” – le chiese, allora, facendo un o verso di lei.

Un asse del vecchio pavimento scricchiolò sotto il peso dei piedi di Luca ed un piccolo topolino di campagna corse fuori, spaventato dal rumore, da un buco nel muro che doveva essere la sua tana. Attraversò rapido la stanza infilandosi nel bagno. Fu un attimo ed anche il cane, che fino a quel momento era stato buono ai piedi della giovane, si lanciò ad inseguirlo. Ma, invece di girare attorno alla parete divisoria tra la stanza in cui si trovavano ed il bagno stesso, ando dalla porta, il cagnolino si lanciò verso la parete e la attraversò come se questa non esistesse.

Luca si fermò di colpo. Gli occhi sbarrati da quello che aveva visto, la bocca spalancata, era rimasto impietrito. Trascorsero alcuni secondi di immobilità e silenzio, rotti solo dal rumore della pioggia che fuori cadeva ancora. Poi la

ragazza, che si era chinata quando aveva cercato di prendere il cane nel momento in cui si era lanciato appresso al topo, si voltò nuovamente verso di lui, fissandolo con un tenue sorriso pieno di tristezza.

Luca aprì la bocca in un silenzioso urlo di terrore.

Fece un o indietro, verso la porta; poi un altro ed un altro ancora, senza riuscire a staccare gli occhi dalla ragazza che rimaneva immobile a pochi metri da lui. Guadagnato il corridoio, fece per girarsi e correre via ma, preso dal panico, posò il piede sopra una delle bottiglie di birra abbandonate lì da chissà chi e chissà quando, perdendo l’equilibrio e cadendo rovinosamente per terra. Cercò di attutire la caduta con le mani, ma non ci riuscì e batté la testa su di un pezzo di legno perdendo i sensi.

Mentre tutto diventava buio, l’ultima cosa che Luca vide, era la ragazza dai capelli biondi che si avvicinava su di lui.

CAPITOLO 6

5 Giugno 2013 – pomeriggio

Odore di umido e polvere, della terra sotto le mani, il gocciolare della pioggia. Il velo nero davanti agli occhi di Luca stava diventando più chiaro mentre lui cercava di svegliarsi. Provò ad aprire gli occhi ed a muovere un poco il capo ma sentì una forte fitta, come una pugnalata, nella testa e mille stelle gli esplosero davanti agli occhi. Sforzandosi di non svenire di nuovo, Luca strinse i denti e le mani e riprovò ad aprire gli occhi. Questa volta le stelle furono solo qualche centinaio e la fitta ò dal valore di una pugnalata a quella di un semplice ferro rovente sulla pelle. Quando ebbe messo a fuoco l’ambiente circostante, si ritrovò dove era caduto: nel corridoio del vecchio Grand Hotel.

L’atmosfera era un poco più luminosa di prima: evidentemente il cielo si era rischiarato un poco. Chissà quanto tempo era trascorso da quando era svenuto... Lentamente Luca mosse la testa guardandosi attorno. Davanti a lui, a solo un metro circa di distanza, lo fissava in silenzio la ragazza bionda. L’espressione del suo volto era un misto di preoccupazione e dolore.

Nel rivederla, Luca si ricordò di quello che era accaduto poco prima e si alzò di colpo a sedere cercando di allontanarsi da lei, trascinandosi con le mani ed i piedi, ma la testa iniziò a vorticargli furiosamente e dovette fermarsi dopo aver percorso solo pochi metri. La ragazza gli si avvicinò velocemente cercando di rassicurarlo: “Non ti preoccupare” – gli disse – “non voglio farti alcun male. E, anche se volessi, non potrei farti nulla”. “Chi sei? E… che cosa… sei?” – le chiese Luca con voce tremante senza riuscire a smettere di fissarla. “Mi chiamo Elisa…” – rispose la ragazza – “… e, per quanto riguarda che cosa sono… sono io. Non so dirti altro… So solo che sono qui… Ogni volta che piove e sale la nebbia su questo paese io… io appaio qui, nella mia stanza, con Thomas… il

cane della signora Colombini. Cioè… era il cane della signora Colombini… ora credo che sia mio… o forse di nessuno… Sono così confusa…”

Luca la guardò in silenzio. Si era stretta la mano sulla bocca e, tenendo lo sguardo fisso a terra, si dondolava nervosamente sulle gambe. Adesso non gli appariva così pericolosa. ato lo spavento iniziale, Luca si rendeva conto che l’orribile fantasma che aveva immaginato di vedere poco prima non era altro che una semplice ragazza. Certo, una ragazza… particolare… ma non sembrava essere pericolosa.

Ma che cosa stava pensando? Luca si sorprese della facilità con cui si stava adattando alla situazione. Fino a… ma quanto era ato? Beh, fino a qualche tempo prima Luca era convinto che si potesse credere solo a quello che si poteva vedere e toccare ma ora… Doveva senza dubbio ricredersi! Dio mio… quante volte aveva deriso, a volte ferocemente, compagni di università e colleghi di lavoro che asserivano di credere al sovrannaturale. Se lo avessero visto poco prima mentre si trascinava in preda al panico! Per fortuna era solo... O meglio… c’era lei con lui. Elisa era ancora in piedi davanti a lui, tormentandosi un labbro e continuando a fissarlo. Una lacrima le rigava il volto, chiaro segno del grande tormento interiore che la travagliava.

“Cosa ti è successo?” – chiese allora Luca. Lei si lasciò il labbro e disse: “ E’ una storia che risale a tanto tempo fa…” – rispose lei agitata – “…che anno è?” chiese interrompendosi improvvisamente. “E’ il 2013” rispose lui sorpreso. “Non lo sai?” – le chiese allora. “E’ da tanto tempo che non parlo con nessuno…” – disse allora lei tristemente. “Quando torno qui è sempre un giorno di pioggia e nebbia. Nessuno c’è più in paese da tempo. Quei pochi che si trovano a Consonno in giorni come questi, quando mi vedono corrono via spaventati. Ormai sono abituata a stare sola. Per fortuna c’è Thomas con me…”

Sentendo pronunciare il suo nome, il cane le corse vicino scodinzolando e si alzò sulle zampe posteriori aspettandosi una carezza. Elisa fece un triste sorriso ed il

cane, felice, si sdraiò sulla schiena cercando di farsi accarezzare la pancia.

“Lui è la mia unica compagnia…” – disse Elisa mentre grattava, con grande soddisfazione dell’animale, il ventre del volpino… - “E’ l’unico con cui posso parlare e che mi tiene compagnia nelle ore in cui sono qui in paese.” “Ma cosa vuol dire: quando sono in paese?” – domandò Luca che non capiva –“Dove sei nel resto del tempo?” “Da nessuna parte…” – rispose lei – “Io vengo qui in giorni come questo ma altrimenti… io non ci sono. Non so cosa significhi… Un attimo prima sono qui e poi… ci sono di nuovo ma è un altro giorno. Ho visto il paese cambiare tanto, ogni volta che ritorno qui. La mia stanza, questo posto, tutto è tanto cambiato… Nulla è più come l’ho conosciuto io. L’ultimo giorno che sono stata davvero qui era una stupenda giornata e c’erano tante persone felici… E’ da tanto tempo che non vedo più il sole…” Vedendo la sua tristezza, Luca si alzò, avvicinandosi a lei. “Raccontami cosa è successo…” – le chiese ancora una volta. Elisa si rialzò, lasciando andare Thomas quindi guardò Luca negli occhi e sorrise di gioia. “Davvero vuoi ascoltare la mia storia?” – chiese felice Elisa – “Non vuoi fuggire come hanno fatto tutti gli altri in questi anni? Che bello! Che gioia! Beh, come ti dicevo… è ato tanto tempo… Era una bella giornata del 1976, era settembre quando io e le mie amiche siamo venute a Consonno. Era la nostra prima vacanza insieme…”

E così, mentre fuori la pioggia continuava a cadere lenta e la nebbia ricopriva e nascondeva gli edifici fatiscenti, Elisa raccontò a Luca quello che era accaduto. Gli parlò del fuoco e del fumo, della paura e del dolore e quel boato alle sue spalle che l’aveva condannata a quell’esistenza. Dopo tanti anni di solitudine, l’ombra nella nebbia col suo cane, aveva trovato qualcuno con cui parlare: l’uomo che avrebbe raso al suolo e cancellato per sempre il suo ultimo luogo di dimora.

CAPITOLO 7

5 Giugno 2013 – pomeriggio inoltrato

Nonostante la pioggerella fine e la forte umidità, che ormai perdurava da alcune ore in quella zona della Brianza, fu strano per Luca essere trascinato in giro per il paese mentre Elisa, alla stregua di un fiume in piena che rompe improvvisamente ed inaspettatamente gli argini, non smetteva di parlare raccontandogli l’ultimo giorno che aveva trascorso con gli amici. Gli parlò di quanto aveva sempre desiderato venire a visitare il paese dei balocchi e delle conoscenze che aveva fatto in quelle poche ore che vi era rimasta. Gli descrisse la serata al caffè danzante, quando aveva ballato con Giovanni, e gli indicò il posto dove si trovava il tavolino in cui si erano seduti prima che lui, o forse lei, o forse entrambi, fero incontrare le loro labbra.

Luca la ascoltava in silenzio. Era strano per lui trovarsi in quella situazione. Tutti quei discorsi, normalmente lo avrebbero annoiato ed infastidito. Era una persona pragmatica e decisionista. Odiava perdere del tempo ascoltando altri parlare di fatti che non lo riguardassero e dai quali non potesse trarre nulla di utile.. D’altra parte la sua fidanzata, Silvia Menzi, era, sotto molti aspetti, proprio come lui. Oh certo, il rapporto fisico che c’era tra loro era qualcosa di travolgente e Luca non negava che vedeva in lei molti aspetti del suo stesso carattere. Anche Silvia possedeva quella qualità che molti sentimentalisti definivano stupidamente grettezza, ma che lui riteneva fondamentale per poter diventare quel qualcuno che voleva essere. Comunque fosse, tra loro non c’erano molti altri dialoghi. Avevano parlato per ore la sera in cui si erano conosciuti e nei giorni successivi. Avevano condiviso i loro sogni e le loro aspirazioni nonché alcune delle loro esperienze per arrivare dove erano ma adesso non avevano più molto di cui parlare. E, francamente, Luca doveva ammettere a sé stesso che era piuttosto deprimente conversare con qualcuno che non esponeva mai dei sentimenti. La ragazza bionda che lo stava trascinando in giro, invece, era così piena di gioia, di emozione, che lo aveva coinvolto nonostante ogni sua logica lo spingesse ad

andarsene e ritornare al proprio ufficio, prima che il grande architetto cominciasse ad irritarsi per il suo ritardo.

“Dio mio! L’architetto mi aspetta in ufficio!” – gridò Luca improvvisamente, rendendosi conto da quanto tempo non aveva controllato il cellulare e che non l’aveva nemmeno con sé perché l’aveva lasciato con i documenti sotto la tettoia della vecchia tavola calda. Elisa, che aveva smesso di parlare non appena lui aveva gridato, lo fissava ferma davanti a lui. “Devo recuperare la mia roba” – le spiegò tornando in fretta verso l’edificio in rovina dal quale aveva avuto inizio la sua caccia all’ombra misteriosa che l’aveva portato a conoscere Elisa. Lei lo seguì in silenzio, avendo capito che tra breve avrebbe perso l’unico compagno che aveva avuto da quasi trent’anni a questa parte.

Recuperata la sua roba e maledetto il cielo per tutta l’umidità che aveva rovinato il lavoro della mattina, Luca cercò di salvare gli appunti, asciugando l’inchiostro della penna che aveva cominciato a sbavare, usando la cravatta da 80 euro che aveva tenuto in tasca da quella mattina. Alle sue spalle, Elisa restava in silenzio con le mani giunte temendo il momento in cui lui si sarebbe girato e se ne fosse andato. Come intuendo la sua tristezza, Thomas si era accucciato ai suoi piedi con il muso appoggiato alle zampe.

Completamente dimentico della presenza del fantasma biondo alle sue spalle, Luca terminò di asciugare i suoi appunti. Consultò lo smartphone, constatando con una imprecazione, che lo studio aveva chiamato dieci volte e che l’architetto gli aveva lasciato tre messaggi in segreteria, uno più minaccioso ed irritato dell’altro. Lesse la mail di Silvia che gli intimava di richiamare suo padre il prima possibile, se voleva evitare una crisi famigliare, e cancellò i sette sms che gli aveva inviato sempre la fidanzata e che erano tutti dello stesso tenore. Maledicendosi per tutto il tempo perso fino a quel momento, e già elaborando una scusa valida per quel catastrofico ritardo, Luca si infilò in tasca il cellulare, afferrò la borsa e la giacca e si girò di scatto per tornare alla macchina.

Solo a quel punto si accorse di Elisa, che era rimasta a fissarlo immobile alle sue spalle e, notando la sua espressione triste, si fermò non sapendo cosa dire. Fu lei a parlare per prima: “Tornerai?” – gli chiese.

Lui non seppe cosa rispondere. Sapeva bene che quella doveva essere l’ultima volta che sarebbe venuto al paese. La volta successiva sarebbe stato in compagnia delle ruspe e degli operai. Ed era pienamente consapevole di tutta la mole di lavoro che lo attendeva in ufficio. Sarebbe già stato tanto se il dottor Menzi non lo avesse scuoiato vivo quando tornava in ufficio. Ma come poteva questa… ragazza… anche solo pensare che avrebbe mai potuto trovare un motivo valido per tornare a Consonno? E perché poi doveva tornare? Per parlare con lei? Per farsi raccontare delle altre storie assurde sul ballo e sulle sue amiche? Ma non sapeva chi era lui?

“Tra poco smetterà di piovere…” – disse lei interrompendo i suoi pensieri, guardando il cielo che si andava rischiarando e la pioggia che aveva smesso di cadere – “… ed io me ne andrò. Vorrei tanto che tu fossi qui la prossima volta che pioverà… E’ stato così bello stare con te, oggi…”

E si voltò a fissarlo nuovamente con quei suoi profondi occhi verdi. Luca esitò a rispondere. Forse per la prima volta nella sua vita, la ragione pareva non essere sufficiente per dargli la forza di fare quello che sarebbe stato logico per chiunque. Rimase in silenzio qualche istante mentre Elisa lo fissava immobile con lo sguardo supplice. Quindi, senza nemmeno rendersene conto, si stupì nel sentire la sua voce rispondere: “Ci sarò. La prossima volta che pioverà sarò qui ad aspettarti”. Il volto della ragazza si illuminò di gioia sentendo quelle parole. Fece un o avanti verso di lui, come se volesse abbracciarlo, ma si fermò ricordandosi che non avrebbe mai potuto farlo. “Grazie di cuore…” – gli disse – “…ma ricorda che deve esserci anche la nebbia. Proprio come la notte in cui la mia vita è cambiata. Ora devo andare… Ah, ma non ti ho nemmeno chiesto come ti chiami!”

Luca, sempre più stupefatto per quella situazione assurda in cui si era andato a cacciare le rispose senza nemmeno pensare: “Luca, Luca Ferretti…” “Piacere di conoscerti Luca… Io sono Elisa. A presto!”

E, detto questo, con il primo raggio di sole che rischiarò l’aria di quella giornata fuori dal comune, la misteriosa ragazza bionda, con il suo cane, si dissolse nell’aria proprio come il vapore generato da un’onda che si infrange sulla scogliera prima crea un arcobaleno di colori e poi scompare. Luca si ritrovò solo, proprio come era arrivato quella mattina. Quanto era accaduto sembrava essere così strano, così impossibile, che quasi credeva di aver sognato tutto. Cercò con lo sguardo la ragazza attorno a sé e si fermò ad ascoltare se per caso udisse ancora il latrare del cane, ma non vide e sentì nulla. Era solo, nel paese deserto di Consonno, sul quale risplendeva di nuovo il sole e gli uccellini cantavano allegri.

Scuotendo la testa come per liberarla da una nebbia che la avvolgeva ancora, si rimise in cammino per tornare alla macchina. Il vero miracolo di quella giornata sarebbe accaduto se fosse riuscito a terminare il lavoro che l’aspettava in modo da calmare le ire del grande architetto e della sua adorata figlia.

CAPITOLO 8

5 Giugno 2013 – sera

La scenata che Luca si era immaginato che il dottor Menzi avrebbe fatto al suo ritorno in ufficio, non era nulla rispetto a quella che avvenne in realtà. Non sarebbe nemmeno possibile ripetere gli improperi e le ingiurie che Luca Ferretti si sentì rivolgere quel pomeriggio davanti a tutti i colleghi mentre il grande architetto lo metteva in ridicolo e la sua fidanzata, invece di aiutarlo, dava man forte al padre. Mai si era sentito così umiliato, soprattutto perché la scenata era avvenuta davanti a tutti i colleghi dell’ufficio, ai quali Luca stesso, più volte, aveva fatto pesare il proprio rapporto preferenziale con il celebre architetto che ora lo stava così pesantemente redarguendo.

In questa situazione, Luca scelse di adottare la stessa tecnica che aveva sperimentato con successo altre volte sia con il dottor Menzi che con la figlia, quando capitava di litigare: mutismo assoluto, viso dimesso e preghiere che tutto finisse il prima possibile. Questo sollievo arrivò dopo circa tre quarti d’ora da che era arrivato in ufficio. A questo punto, l’architetto lo informò che la relazione che aspettava avrebbe dovuto essere sulla sua scrivania entro la mattina dopo, altrimenti – parole testuali – avrebbe potuto anche cercare un altro lavoro.

”Ed un’altra fidanzata…” – rincarò la dose Silvia Menzi che non si era nemmeno premurata di chiedergli cosa fosse accaduto quel pomeriggio ed il perché di quel ritardo. Quando l’architetto e sua figlia se ne furono andati per presenziare ad una cena di gala che si sarebbe tenuta quella sera a Varese, Luca rimase da solo nella sala riunioni dello studio meditando sull’accaduto.

Sebbene sapesse che, se fosse tornato subito a casa, invece di fare la eggiata turistica con Elisa al paese, avrebbe potuto non certo evitare ma quanto meno smorzare la sfuriata che aveva appena subito, Luca si sentiva in fondo felice. Era stato un pomeriggio speciale, come non ne viveva uno da tanto tempo, e la gioia sincera che aveva visto negli occhi di quella ragazza misteriosa mentre, dopo tanti anni, parlava finalmente con qualcuno, aveva riportato alla sua mente ricordi di tanti anni prima, quando, appena diplomato, amava uscire con gli amici e divertirsi dopo lo studio ed i primi lavoretti. Ma adesso era ora di tornare con i piedi per terra, si disse scuotendosi dai pensieri. Aveva solo la notte per terminare il lavoro e riconquistarsi la fiducia dell’architetto e della fidanzata. Stava per arrivare al successo e non avrebbe permesso a nulla di rovinarlo proprio ora.

Si alzò di scatto dalla poltrona di pelle sulla quale aveva sudato per l’ansia sino a quel momento, afferrò la borsa ancora bagnata nella quale si trovavano i suoi preziosi appunti, andò nel suo ufficio e si mise a lavorare. Fu solo dopo alcune ore ininterrotte di misurazioni, calcoli, cancellature e rifacimenti, che Luca si rilassò un poco appoggiando la penna e stirandosi i muscoli indolenziti della schiena. Guardò l’ora nel grande orologio appeso alla parete: le 19:35! Aveva lavorato ininterrottamente per quattro ore. Si alzò dalla scrivania ed attraversò l’ufficio. Nessuno dei suoi colleghi era ancora al lavoro. Probabilmente erano già alle proprie case assieme alle loro famiglie. Luca raggiunse la macchinetta del caffè che era sistemata in un angolo e selezionò un caffè doppio. Era quello di cui aveva bisogno in quel momento. Di tornare a casa non se ne parlava assolutamente. Avrebbe finito di sorseggiare il caffè e si sarebbe rimesso al lavoro subito per essere sicuro che il giorno dopo avrebbe potuto presentare all’architetto un lavoro eccellente. Non avrebbe avuto nulla da ridire! Non questa volta. A costo di dover impiegare tutta la notte in ufficio ce l’avrebbe fatta. Tanto poi a casa non aveva nessuno ad aspettarlo. Silvia era ancora al ricevimento con il padre e non sarebbe tornata prima di notte inoltrata, se lo avesse fatto. In effetti alcune sere non era tornata a casa e Luca era molto dubbioso su dove avesse trascorso quelle notti ma non aveva mai osato indagare troppo. Preferiva credere alle giustificazioni di lei quando gli diceva di essere rimasta dalle amiche con cui aveva trascorso la serata, piuttosto che rischiare di verificare come stessero realmente le cose. In fondo il suo rapporto con Silvia era fondamentale per la sua carriera e dava ad entrambi grandi soddisfazioni sul piano fisico. Scuotendo la testa come per allontanare questi pensieri, Luca tornò nell’ufficio per rimettersi

al lavoro. Anche se la relazione che l’architetto voleva era finalmente pronta, lui doveva terminare il modello 3D di rendering con cui sarebbe stato realizzato successivamente il plastico in scala che avrebbe fatto gran mostra di sé nella sera della presentazione ufficiale. Sistemandosi comodamente sulla poltrona in pelle, aprì le cartelline gialle con i documenti che gli servivano ed iniziò a consultarli mentre alle sue spalle il potente computer su cui aveva il programma di grafica 3d si avviava. Sarebbe stata una lunga notte...

CAPITOLO 9

6 Giugno 2013 – mattina

La notte era trascorsa duramente. Il computer si era bloccato un paio di volte quando Luca aveva cercato di spostare in un colpo solo un blocco di edifici e ci aveva messo del tempo per riuscire a completare la procedura. Ormai aveva perso il conto di tutte le maledizioni e di tutti gli accidenti che aveva rivolto, mentre le ore avano, agli inventori di quel programma grafico prima, ed ai suoi colleghi che non avevano completato il loro lavoro con quell’attenzione per le finiture ed i dettagli che l’architetto Menzi esigeva, poi. Solo verso le quattro del mattino aveva finalmente terminato il modello grafico e, sullo schermo davanti a lui aveva preso vita la nuova Consonno. Luca l’aveva controllata per bene e poi ne aveva stampate alcune copie in grande formato per mostrare il progetto completo al futuro suocero la mattina. Più volte aveva guardato il cellulare sperando in una telefonata della sua fidanzata che gli dimostrasse un poco di interesse e comprensione ma esso era rimasto muto. Così aveva continuato a lavorare, benché il sonno e la stanchezza avessero cominciato ad appesantire seriamente le sue braccia ed a ottenebrare la sua mente.

Fu solo alle 7:00, quando sentì il cellulare squillare, che Luca si accorse di essersi addormentato davanti al computer. Anzi, per la precisione, sul computer perché aveva la fronte posata sulla tastiera del portatile e lo schermo, con il documento word aperto della relazione finale, invaso da oltre trecento pagine di lettere a caso digitate dalle sue guance nella notte. Stordito da quel repentino risveglio, afferrò il telefono e rispose. “Spero che tu abbia finito perché mio padre sta venendo lì” – disse la voce di Silvia dall’altro capo dell’etere. “Sei tu, amore?” – chiese Luca non ancora sveglio del tutto. “E chi vuoi che sia?” – ribattè lei seccata – “Vedi di darti una svegliata e di fare bella figura, stamattina per rimediare a ieri.” “Non ti preoccupare, Silvia…” – rispose Luca con un tono quasi orgoglioso per il proprio lavoro notturno – “…ho stampato adesso le ultime tavole ed ho tutto pronto”. Dall’altro capo della linea non vennero, però,

le parole di lode che Luca sperava di sentirsi dire. “Lo spero proprio, Luca. Io non ho intenzione di stare con un incapace…” E la linea venne tolta.

Luca rimase a fissare il telefono nella sua mano per qualche istante poi si riscosse. Velocemente cancellate tutte quelle pagine di lettere a caso, sistemò il tavolo della sala riunioni ordinando tutti i documenti, appese le stampe della simulazione tridimensionale che aveva realizzato e si recò al bagno per cercare di darsi una sistemata prima che i colleghi ed il grande architetto arrivassero in ufficio. Non ebbe molto tempo per far questo. E anche se lo avesse avuto, una notte insonne più la pioggia, lo spavento e la fatica della giornata precedente erano ben evidenti nei vestiti stazzonati e macchiati che aveva addosso e nei capelli spettinati e sporchi. Mentre cercava di radersi con il rasoio d’emergenza che teneva sempre in ufficio per quando trascorreva notti come quelle, dal corridoio giunse un vociare dapprima sommesso e poi sempre crescente.

Luca guardò l’ora: le sette e quarantacinque. Dovevano essere i colleghi che arrivavano. In realtà l’orario di lavoro iniziava alle otto, ma, poiché l’architetto arrivava a sua volta a quell’ora, nessuno osava correre il rischio di arrivare dopo di lui per non incorrere nella sua ira.

Terminò in fretta di radersi, diede una rapida aggiustata ai capelli e si unì agli altri per il caffè d’inizio mattinata. Non poté non accorgersi degli sguardi stupiti che fioccavano attorno a lui, anche se nessuno gli rivolse parola. Ormai era temuto quasi come il suocero, visto il suo arrivismo, così nessuno gli chiese nulla. Alle otto spaccate, le porte a vetri del corridoio si spalancarono e il dottor Menzi fece il suo ingresso nello studio seguito dall’immancabile segretaria già impegnata in una conversazione telefonica. Non appena l’architetto vide Luca nello stato in cui si trovava, rabbuiò lo sguardo e si diresse a grandi i verso il suo ufficio agitando la ventiquattrore di pelle di coccodrillo che reggeva nella mano sinistra.

“Luca!” – gridò attraverso la porta di legno massiccio facendo sussultare tutti i

presenti nel corridoio. Il giovane si affrettò a raggiungere l’ufficio dove trovò Menzi seduto dietro alla pesante scrivania in mogano, intento a leggere alcune carte. L’ufficio era ingombro di carte, alle pareti erano appese fotografie con personaggi famosi della politica e dello spettacolo nonché una lunga serie di targhe e riconoscimenti della celebre carriera del famoso architetto e, dall’ampia finestra che si apriva alle spalle della scrivania, era possibile ammirare il panorama delle vallate bergamasche. Nonostante si fosse certamente accorto della presenza di Luca, il grande architetto non dette segno di averlo visto entrare. Era una vecchia tecnica che quel vecchio lupo utilizzava spesso con i sottoposti allo scopo di ricordare loro chi era a comandare. Luca rimase in attesa a mani conserte davanti alla scrivania per almeno cinque minuti prima che il dottor Menzi alzasse lo sguardo dai fogli che stava consultando e gli rivolgesse la parola.

“Allora ragazzo… Parliamoci chiaramente: a me non importa un fico secco del fatto che vai a letto con mia figlia. Mi importa unicamente che tu lavori in modo impeccabile. Mi sono spiegato? I-M-P-E-C-C-A-B-I-L-E!! Ieri mi hai molto deluso. Credevo di aver visto in te una persona di cui fidarmi, a cui affidare lo studio… Questo è il lavoro della mia vita, quello che deve dare gloria e onore al mio nome negli anni avvenire nonché mucchi di soldi e non sono disposto a tollerare persone che si impegnano meno di 25 ore al giorno. Chiaro? Posso contare su di te per questo o devo cercare qualcun altro?”

Luca, rimasto in silenzio sino a questo momento, era consapevole che il vecchio era un mastino: abbaiava sino allo sfinimento e bisognava lasciarlo sfogare. Ma sapeva anche che questo era il momento di assentire e garantirgli la propria devozione. “Assolutamente, dottor Menzi” – rispose – “Sa che ha sempre potuto contare su di me e sa che farò di tutto per non deluderla. Infatti ho trascorso tutta la notte lavorando sul progetto e sono certo che lo troverà di suo completo gradimento”. Il dottor Menzi emise un grugnito di assenso e si alzò dalla scrivania.

Uscito dall’ufficio, si diresse rapido verso la sala riunioni, dove Luca aveva

preparato tutto, e si sedette alla poltrona dirigenziale in attesa. In pochi istanti lo staff dei collaboratori dell’ufficio gremì la stanza occupando le poltrone disponibili richiamati all’ordine come pecore dal pastore. Luca entrò per ultimo, per sottolineare che quanto stava per essere mostrato era solo frutto del suo lavoro e che lui, ancora una volta, dimostrava di essere migliore di tutti gli altri messi assieme.

Certo un atteggiamento simile era un rischio: se al grande architetto il progetto non fosse piaciuto la responsabilità di quel lavoro sarebbe stata solo sua e gli altri colleghi lo avrebbero ringraziato per averli lasciati fuori. Ma, e Luca era certo che sarebbe stato così, se la presentazione fosse andata bene, per lui si sarebbe spalancato un orizzonte luminoso ed era deciso ad ottenerlo. Spente le luci della stanza, accese il proiettore collegato al pc su cui aveva realizzato la presentazione ed avviò power point. Mentre parlava, descrivendo un edificio dopo l’altro, lanciava di sfuggita occhiate al dottor Menzi che, però, restava imibile al suo posto ad osservare con le mani unite in grembo ed uno sguardo impenetrabile. Quando ebbe terminato le slide della presentazione, srotolò sul tavolo le planimetrie che aveva stampato quella notte ma si tenne per ultima quella che riteneva essere la sua carta vincente. Al centro di quello che adesso era solo il parco incolto ed abbandonato del paese di Consonno, sarebbe sorto un padiglione di vetro e acciaio adibito a centro di ricevimento per gli ospiti. Una statua a grandezza naturale dell’architetto Menzi troneggiava al centro di questa costruzione in maniera così reale che quasi pareva essere una fotografia e non una semplice proiezione realizzata al computer. Luca aprì il programma 3d e caricò una simulazione di visita del padiglione a 360°. Per i futuri visitatori del grande complesso termale/alberghiero/ residenziale era stata preparata una mostra su pannelli che illustravano con foto e diagrammi le opere più rilevanti progettate dall’architetto durante la sua carriera.

Sebbene questi avesse fatto di tutto per mantenere uno sguardo imibile, Luca non aveva potuto non notare il momento di stupore misto a compiacimento, che era ato negli occhi dell’uomo che gli sedeva dinnanzi. Facendo finta di non essersi accorto di nulla, Luca continuò nell’esposizione della sua idea per un’altra decina di minuti; quindi appoggiò la bacchetta che aveva usato per indicare i vari elementi del progetto durante la proiezione sul tavolo e rimase in

attesa di un’opinione.

Nessuno disse nulla. Tutti attendevano che a parlare per primo fosse l’architetto poiché era il suo parere ad essere assoluto. Il grand’uomo rimase in silenzio per qualche istante ancora, quindi disse: “Puoi procedere con questo progetto, Luca. Voglio vedere i disegni esecutivi di massima delle strutture e gli architettonici dettagliati, sulla mia scrivania entro un mese. Se riusciremo ad essere pronti per i primi di agosto con tutti gli incartamenti in modo da ottenere le autorizzazioni del comune e della provincia entro il 12 settembre, intendo presentare il progetto all’assemblea annuale degli architetti di Milano”.

Detto questo il dottor Menzi si alzò in piedi ed uscì dalla sala riunioni lasciando i presenti stupiti. Era la prima volta che accadeva che il progetto di un dipendente, per quanto fosse il fidanzato della figlia, fosse prescelto per l’assemblea annuale degli architetti. Quell’occasione era la porta per il successo perché introduceva nel mondo dorato dell’alta architettura assieme alla possibilità di ricevere proposte di lavoro dai più rinomati studi. Ed il fatto che su quel progetto il grande Menzi puntasse l’intera carriera, ne faceva un avvenimento storico. Il gruppo di collaboratori si guardava l’un altro incredulo, poi un applauso cominciò da uno di loro per poi divenire uno scroscio generale. Nessuno di quegli uomini poteva né voleva definirsi amico di Luca, poiché conoscevano bene il suo arrivismo e la sua prontezza a qualsiasi cosa pur di guadagnare punti nella stima del dottor Menzi.

Era ben vivo nel loro ricordo, quello che era accaduto alla giovane stagista di nome Marika che aveva lavorato allo studio sino al mese scorso. La ventiquattrenne ragazza era impiegata in quell’ufficio da appena tre mesi ma aveva grandi speranze di essere assunta e poter iniziare una carriera promettente. Mentre lei e Luca lavoravano allo sviluppo di un progetto che in quel periodo lo studio stava portando avanti, la giovane aveva avuto un’idea molto innovativa su come realizzare le strutture di copertura dell’edificio. L’idea di Marika permetteva di sfruttare al meglio la luce solare in modo non solo da risparmiare notevolmente sulle spese per l’illuminazione ma permetteva anche di rendere

molto felici e soddisfatti i committenti dell’opera, una multinazionale cinese, che credeva molto nel Feng Shui e nello Zen. Marika aveva esposto l’idea a Luca, chiedendogli se lei avesse potuto parlarne all’architetto. Lui ci aveva riflettuto e le aveva risposto che avrebbe presentato lui stesso la questione all’architetto in virtù del loro rapporto prefeMenziale e lei aveva acconsentito emozionata all’idea di fare bella figura. Nessuno sa bene cosa accadde nell’ufficio dell’architetto durante la presentazione del progetto tra Luca ed il dottor Renzi, tuttavia in seguito Marika venne licenziata per scarso apporto ideativo. Luca le spiegò che l’architetto aveva rigettato la sua idea e, così sdegnato per una tale assurdità, aveva deciso di licenziarla. Fatto sta che l’edificio, da quel momento in poi seguito unicamente da Luca, ora svetta nel centro di Milano come sede di una grande multinazionale dell'auto ed è molto noto in ambito architettonico proprio per il sapiente uso della luce ambientale attraverso le strutture di copertura. Queste esperienze non erano rare nello studio del dottor Menzi, e, per questo motivo, il tributo dei colleghi di Luca era più dettato dal timore e dal rispetto che dall’effettiva stima. Anche perché ciascuno di loro avrebbe dato qualsiasi cosa pur di essere al suo posto ed avere un tale onore.

Luca si guardò attorno nella stanza fissando ciascuno dei presenti che continuava ad applaudire. Era il suo momento di gloria. Aveva la possibilità di diventare finalmente quello che voleva essere. Non poteva perdere una simile possibilità.

“Bene signori…” – esordì quietando i presenti – “…abbiamo una grande opportunità e non possiamo permetterci di perderla. Quindi, dal momento che il tempo a nostra disposizione, è davvero poco, da questo momento si rimane a lavorare in ufficio sin quando c’è bisogno o non si cade a terra dalla fatica. La mia carriera dipende dal successo di questa impresa e, quindi, anche la vostra. Ora che avete tutti ben chiaro quello che dobbiamo realizzare, ci suddivideremo gli incarichi. Per qualsiasi dubbio venite da me. Voglio essere regolarmente aggiornato sull’avanzamento dei lavori. Chiaro?” – pausa per osservare la reazione del suo uditorio. Dal momento che non ve ne furono, continuò – “Bene, allora Kevin. Tu ti occuperai delle fondamenta degli edifici. Maria, tu penserai alle strutture principali assieme a Jessica. Mi raccomando: voglio materiali resistenti e moderni. Acciaio e vetro sono l’ideale. Sergio, tu penserai alle aree pubbliche…” “E tu cosa farai?” – chiese il ragazzo appena chiamato in causa,

interrompendo il discorso. “Io mi occuperò del padiglione di cristallo della reception poiché è il progetto principale e deve essere realizzato con cura e attenzione” – rispose di rimando Luca con tono piccato.

Sergio, un ragazzone di un metro e ottanta, di origini napoletane, che lavorava nello studio già da prima dell’arrivo di Luca, continuava a dare del tu al futuro genero dell’architetto, nonostante la posizione superiore di questi, per ricordargli il suo disprezzo verso chi faceva carriera comportandosi, appunto, come era solito fare Luca. Sebbene il suo atteggiamento irritasse profondamente il “grande” Luca, questi aveva sempre cercato di non far trasparire il suo disappunto allo scopo di non inasprire ulteriormente i rapporti con i colleghi di lavoro la cui collaborazione gli era essenziale per fare carriera. Ma questa volta, forte della benedizione del celebre Menzi, non era disposto a lasciar perdere.

“Voglio ricordarti…” – iniziò guardando fisso negli occhi il giovane Sergio per poi are in rassegna con lo sguardo tutti i presenti come per far capire loro che questo discorso valeva per tutti – “… che il dottor Menzi mi ha appena incaricato di occuparmi del progetto che io da solo ho concepito. Un progetto che darà gloria e fama al nome di questo studio… ed anche al mio. Per cui non sono disposto a permettere che piccoli ingranaggi come sei tu blocchino o rallentino l’avanzare di questo progetto. Se non sei disponibile a collaborare pienamente con me ed a avere il giusto rispetto nei miei confronti, dillo subito e farò in modo che la sofferenza di lavorare qui non sia più un peso per te.” Sergio rimase in silenzio. Per quanto fosse forte delle sue convinzioni e dei suoi principi, aveva altrettanto bisogno di quel lavoro. Per cui chinò la testa e disse non senza sforzo: “Mi perdoni, dottor Ferretti. Farò del mio meglio per collaborare in questo lavoro”. Luca lo guardò per un istante in silenzio poi assentì. “Bene. Risolta questa questione, procediamo con incarichi…”

CAPITOLO 10

4 Agosto 2013 – mattina

Era una strana sensazione per Luca svegliarsi senza una sveglia che squillava vicino. Il sole che filtrava attraverso le tapparelle lasciava intendere che fosse già mattina inoltrata ma, senza un orologio, non aveva idea di che ora fosse. D’altra parte sia lui che Silvia non sopportavano il ticchettio tipico degli orologi analogici e nella loro stanza da letto non ne avevano messo nessuno. Certo avevano delle sveglie digitali ma quella sul comodino di Luca aveva le pile scariche da due settimane e nessuno dei due aveva avuto un solo attimo di tempo per cambiarle.

Luca si girò verso Silvia che dormiva al suo fianco dandogli le spalle, e rimase ad osservarla in silenzio. L’unico indumento da notte che la ragazza indossasse era un piccolo tanga di pizzo nero che lei amava particolarmente. I lunghi capelli neri erano in parte scompigliati sul cuscino ed in parte le ricadevano sulla schiena nuda. Le gambe, lunghe ed abbronzate, erano coperte solo da un leggero lenzuolo che, muovendosi nel sonno, la giovane aveva accumulato in fondo al letto. Era tipico di Silvia. Sebbene Luca, prima che lei si fosse trasferita a vivere lì con lui, avesse fatto installare un sistema di condizionamento dell’aria costato oltre quattromila euro, Silvia era assolutamente contraria all’uso dell’aria condizionata. Sosteneva che respirare quell’aria fe male alla gola e provocasse assai frequentemente influenze e raffreddori. Dal momento che nelle discussioni finiva sempre per avere ragione lei, in quell’appartamento il condizionatore non era mai stato . In aggiunta a questo, la giovane e rampante figlia del dottor Menzi non riusciva a dormire senza sentirsi coperta almeno dal lenzuolo, così al caldo soffocante di quei giorni si sommava anche la tortura di quel pezzo di cotone.

“Ma perché dobbiamo tenere questo straccio, quando basterebbe indossare un pigiama, invece di dormire nuda?” – si chiese mentalmente Luca dando un colpo secco al lenzuolo che cadde a terra ai piedi del letto. Silvia si mosse un attimo, girandosi sull’altro fianco, rivolta verso di lui, come infastidita da quel gesto repentino ma si riaddormentò subito. Per un istante a Luca si gelò il sangue al pensiero che si svegliasse arrabbiata. La fissò senza muoversi temendo che aprisse gli occhi. Ma tutto era tranquillo ed il respirare lento e ritmico della giovane rassicurò Luca che tornò ad immergersi nelle sue riflessioni di quel mattino caldo.

La sera prima era rimasto in ufficio fin oltre le dieci, assieme allo staff, esattamente come avevano fatto quasi tutte le sere da quasi due mesi a questa parte. Era stato un periodo molto frenetico e, per preparare tutto il progetto completo, le ore di straordinario si erano sprecate. Lo stress, la fatica ed il sonno arretrato avevano duramente provato sia Luca che i suoi collaboratori durante le lunghe ore trascorse davanti agli schermi di un computer e seduti alle scrivanie. Pile di carta e cestini ingombri di rifiuti accanto alle macchinette automatiche svuotate, erano una chiara prova di tutto il lavoro che era stato fatto durante quel tempo. Ma, alla fine, proprio la sera prima, era stato completato l’ultimo file, era stata redatta l’ultima relazione ed il computer aveva sfornato l’ultima simulazione sismica per il genio civile. Forse la parte più complessa era stata l’adattare i dati relativi alla cubatura degli edifici per dimostrare che erano state rispettate tutte le normative circa i massimi volumi edificabili, ma alla fine tutto sembrava essere perfettamente in regola. E se anche qualche tecnico si fosse preso la briga di verificare, allo studio potevano contare sull’appoggio del responsabile tecnico provinciale che, dietro adeguato compenso, avrebbe messo a tacere il tutto.

Così, dopo aver telefonato all’architetto Menzi per annunciare di aver terminato il lavoro, Luca aveva mandato tutti i colleghi a casa ed era rincasato a sua volta assieme a Silvia. Quella mattina. Luca poteva sentirsi soddisfatto di sé stesso: era ad un o dal successo! Senza sapersene dare una ragione, tuttavia, Luca non si sentiva felice.

Si guardò attorno nella stanza arredata con mobili lussuosi e posta nell’attico di un condominio da lui stesso progettato alcuni anni prima nel centro di Bergamo. L’ampio terrazzo godeva di una vista unica sino alle alpi. Dal punto di vista economico sapeva di non potersi lamentare. La carriera era ad un punto di svolta e tutto sembrava volgere per il meglio. L’amore… beh, per quello Luca aveva abbandonato da tempo l’idea di potersi davvero innamorare di qualcuno. Con il tempo aveva abbracciato la convinzione che nulla potesse davvero durare per sempre e che tanto valeva godersi la vita e cercare di prendere il massimo da ogni relazione in cui si era imbattuto. E, lasciando scorrere lo sguardo sul corpo quasi nudo di Silvia che continuava a dormire serena al suo fianco, quello era davvero un ottimo compromesso.

Eppure… perché non si sentiva felice? Cosa gli mancava? Già da un po’ di tempo pensieri come questi si affacciavano nella sua mente. Quando ava per le strade del centro, la sera, a volte si fermava a guardare le giovani coppie che, mano nella mano, eggiavano tra i negozi. Sembravano così felici… Ovviamente tali attività con Silvia erano fuori discussione. Né lui aveva il tempo da dedicare allo svago per via del lavoro. Ma non poteva fare a meno di pensare che quelle persone parevano essere più felici di lui.

Stanco di rimuginare su queste cose, si alzò dal letto ed indossò un paio di boxer neri di Armani che teneva accuratamente piegati in un cassetto per poi uscire in terrazza alla ricerca di un po’ di fresco. Il sole che aveva illuminato la stanza quella mattina era scomparso dietro una grossa nuvola grigia dando un po’ di refrigerio dalla calura estiva. Se erano fortunati, si sarebbe scatenato un altro temporale come già ce ne erano stati diversi nei due mesi trascorsi. Solo la settimana precedente un forte acquazzone, che aveva portato anche grandine, aveva fatto saltare la luce per quasi due ore in alcune zone della città, mandando letteralmente fuori di testa Luca che non poteva procedere nel lavoro.

Ma adesso... adesso un bel temporale lo avrebbe tanto desiderato… Sarebbe stato bello are una giornata a casa a guardare la pioggia. Magari avrebbe potuto rilassarsi sul divano con Silvia ed ascoltare assieme il nuovo cd degli U2

che lui aveva acquistato durante una sosta in autogrill la settimana prima.

“Cosa pensi?” – chiese improvvisamente Silvia che era comparsa alle sue spalle senza fare rumore. Luca si voltò verso di lei, notando subito come Silvia non avesse indossato nulla prima di uscire in terrazza. Tranquilla, come se niente fosse, se ne stava immobile davanti a lui con addosso solamente il tanga. Anche questo era tipico della ragazza: non si interessava di quello che pensavano gli altri di lei. Anzi, pareva farle piacere essere guardata e ammirata. E, in ogni caso, l’attico era più alto di tutti gli altri palazzi vicini e difficilmente qualcuno avrebbe buttato lo sguardo lassù. “Sto pensando a come potremmo impiegare la giornata di oggi. Ora che ho finito il progetto pensavo che potevamo anche prenderci la giornata libera per trascorrerla insieme. Ho comprato il nuovo cd degli U2 e potremmo ascoltarlo sul divano e poi, magari, uscire a fare una eggiata” – propose speranzoso Luca avvicinandosi a lei e stringendola tra le braccia. “Mi dispiace tesoro…” – fece lei di rimando enfatizzando le parole con una espressione contrita e le labbra corrugate –“…ma stamattina ho una riunione con alcuni clienti si dello studio. Ricordi il lavoro che abbiamo fatto per la famiglia Touluc? Vengono oggi per incontrarsi con mio padre e sai che lui ha bisogno di una interprete.” “E’ vero… L’avevo dimenticato…” – ammise Luca deluso da quel contrattempo. “Però…” – fece lei abbracciandolo a sua volta al collo e baciandolo dolcemente sulle labbra- “…ti prometto che quando torno questa sera mi saprò far perdonare per dover andare via così presto…” Luca fece per baciarla a sua volta sperando che lei potesse rimandare la sua partenza, ma la ragazza si divincolò e tornò in fretta in camera. “Mi dispiace amore ma devo proprio andare…” – disse mentre si allontanava – “…ma ci rifaremo stasera…”

Luca rimase immobile a guardarla mentre quelle sensazioni che avevano occupato la sua mente poco tempo prima tornavano a farsi sentire. Tra lei e Silvia non c’era altro che un rapporto fisico, bisognava essere onesti. “E poi, con questo tempo che sta venendo su conviene stare in casa!” – disse lei comparendo nuovamente davanti alla portafinestra mentre indossava il reggiseno. Luca si guardò attorno fissando le nuvole nere che avevano riempito il cielo. Era stupefacente come fino a poco tempo prima il sole faceva da padrone ed ora si era levato un vento fresco che sapeva di pioggia. “Io vado…” – fece Silvia ora completamente vestita con un tailleur verde smeraldo a firma Calvin Klein,

tornando in terrazza – “…ti chiamo quando esco dall’ufficio”. Mentre Silvia pronunciava queste parole un improvviso e forte tuono risuonò sulla città. “Mamma mia! Sembra quasi un giorno di autunno, se non fosse per il caldo. Vabbè. Vado. Ciao!”.

Rimasto solo Luca si chiese come impiegare la giornata. Era strano per lui non avere nulla da fare. Non c’era abituato. Un altro tuono risuonò forte e le prime gocce di pioggia iniziarono a cadere sulla terrazza. Prima solo alcune, rare, poi sempre più fitte e grosse e Luca fu costretto a correre dentro l’appartamento al riparo. Le montagne in lontananza erano scomparse, coperte dalle fitte nuvole di quel temporale estivo così repentino e violento. Se non fosse stata estate, si sarebbe detta davvero una giornata di autunno con la nebbia e la pioggia…

La nebbia e la pioggia? Fu questo pensiero a far tornare alla mente di Luca gli strani avvenimenti che aveva vissuto due mesi prima a Consonno. Elisa… l’aveva dimentica! Eppure le aveva promesso di tornare da lei… Ma come poteva fare con il lavoro? Quel periodo è stato così pieno di attività! E cosa avrebbe dovuto fare? Sacrificare il lavoro per andare a fare due chiacchiere con una fantasma,m per quanto carina e misteriosa? Perché carina era carina… Anzi… Luca dovette ammettere a sé stesso di essere rimasto affascinato dal sorriso, dal viso, dalla gioia e dalla spontaneità di quella ragazza vissuta in un’altra epoca...

Ma che cosa stava pensando? Lui, Luca Ferretti, futuro nuovo Menzi, era qui, seduto sul divano del suo appartamento da 350.000 mila euro, e si dispiaceva di non essere ato a trovare un fantasma? Cosa gli succedeva?

Quasi senza accorgersene, si mise a vestirsi. Indossò i pantaloni da trekking, le calze spesse ed una maglietta sportiva. Prese l’impermeabile che teneva sempre nello zaino da montagna e scese in garage per prendere la sua auto. Sarebbe arrivato al paese di Consonno in un’ora e mezzo circa. Sapeva che probabilmente il temporale sarebbe ato prima che lui fosse riuscito ad

arrivare ma nel cuore si ritrovò ad avere una speranza, un desiderio: rivedere quella ragazza che non riusciva a dimenticare.

CAPITOLO 11

4 Agosto 2013 – mattina

Per arrivare in paese aveva impiegato quasi due ore. Come sempre accadeva, quando piove, la gente pare dimenticare come si guida e pare credere di stare guidando sul ghiaccio tanto và piano al punto che le code ed i rallentamenti sono cosa normale. Fortunatamente, questa volta Luca aveva ricordato di prendere la chiave della sbarra che bloccava la strada, così riuscì ad arrivare sino alla piazza centrale con l’auto.

Pioveva ancora e le nuvole basse parevano far rivivere la giornata di due mesi prima. Elisa aveva detto che lei ritornava al paese ogni volta che pioveva e c’era la nebbia. Luca sperò che il particolare fenomeno atmosferico di quella giornata potesse valere per realizzare quelle circostanze. Sceso dall’auto, il giovane si calcò in testa il cappuccio dell’impermeabile e si guardò attorno, cercando quell’ombra nella nebbia accompagnata da un cane che tanto desiderava rivedere, anche se non riusciva a spiegarsi il perché.

“Elisa!” – chiamò a gran voce una prima ed una seconda volta ma non ebbe risposta. “Elisaaaa!” – gridò ancora senza smettere di girare su sé stesso guardandosi attorno nella nebbia. Il silenzio attorno a lui, rotto solo dalla pioggia, era assoluto. Stava quasi per rinunciare, dandosi dello stupido per la follia di quella giornata e pensando a cosa avrebbe detto Silvia se, tornata a casa, lui le avesse raccontato dove era stato; quando sentì un latrato alle sue spalle.

Si girò di scatto, giusto in tempo per vedere la sagoma di Thomas corrergli incontro. Il cane doveva averlo riconosciuto, anche se era ato del tempo dal

loro precedente incontro, perché fece un balzo verso di lui come se volesse saltargli in braccio. Istintivamente Luca aprì le braccia per accoglierlo ma il cane lo attraversò ricadendo a terra alle sue spalle. Spaesato, per quel fenomeno cui, peraltro, aveva già assistito Luca si girò per seguire le mosse del cane quando una voce lo costrinse a voltarsi di nuovo:

“Sei tornato…” – disse la voce rotta dall’emozione. Il ragazzo si voltò e si ritrovò davanti la stupenda ragazza bionda che era venuto a trovare. “Pensavo ti fossi dimenticato di me…” – continuò la ragazza mentre una lacrima le scendeva su una guancia. “Quando ci sono stati gli ultimi temporali ed io sono tornata qui,,. speravo di trovarti. Ti ho cercato a lungo, per tutto il paese. Mi avevi promesso che saresti venuto. Ma tu non c’eri… Ormai pensavo che non saresti più ritornato…”

Mentre Luca la guardava piangere nel pronunciare quelle parole, la stretta al petto che avvertiva si faceva più opprimente. Per quanto sembrava assurdo, gli dispiaceva tremendamente vedere Elisa soffrire. “Ho avuto molto da lavorare…” – disse tentando di giustificarsi ma senza troppa convinzione. “Grazie…” – rispose lei cogliendolo di sorpresa – “…grazie perché sei tornato.”

E il sorriso che illuminò il volto di quella giovane fece quasi commuovere a sua volta Luca che non seppe dire nulla. I due rimasero per qualche istante a fissarsi in silenzio mentre attorno a loro la pioggia continuava a cadere poi fu la ragazza a rompere il silenzio.

“L’altra volta avevo così tanta voglia di parlare con qualcuno che ho praticamente sempre parlato io. Chissà come ti sei annoiato!” “Ma assolutamente no!” – rispose Luca con grande enfasi senza nemmeno rendersi conto di averlo fatto – “Anzi ho apprezzato davvero tanto l’entusiasmo che mettevi nei tuoi discorsi, quando mi parlavi della tua vita e del tuoi sogni…” “Sei un cavaliere…” – disse allora lei continuando a sorridere – “…oggi, però, voglio che sia tu a parlare. Non so nulla di te. Non so nemmeno cosa ci facevi il

giorno che ci siamo incontrati qui a Consonno.” “Beh, questo è presto detto” – rispose Luca felice di poter mostrare il proprio prestigio – “sono l’assistente del celebre architetto Menzi e mi sto occupando del progetto di ristrutturazione del paese. Quel giorno ero qui perché dovevo prendere delle misure che mi servivano per i miei progetti. Hai mai sentito parlare degli edifici progettati dal dottor Menzi?” – chiese infine, sperando che la ragazza gli fornisse l’opportunità per elencare i successi dell’architetto e, di conseguenza, i propri. “No…” – disse lei timidamente – “…francamente non mi intendo molto di architettura e poi, ricorda che io vengo dal 1976 e, forse, allora non era ancora famoso.” Luca si rese conto della correttezza di quel ragionamento e decise di cambiare argomento ma fu lei a precederlo chiedendo preoccupata: “Prima dicevi che stai curando il progetto di ristrutturazione di Consonno. Cosa intendevi dire? In che senso ristrutturazione?”

Il giovane non si accorse del tono ansioso dietro quella domanda e si lanciò in una entusiastica e dettagliata spiegazione del suo progetto senza trascurare alcun dettaglio. Mentre le mostrava con ampi gesti enfatici come sarà il nuovo assetto della zona con l’insediamento del grande centro turistico, Luca, tuttavia, si accorse con stupore che l’espressione della ragazza si incupiva sempre più. Ad un certo punto, notando che il labbro inferiore le aveva iniziato a tremare, Luca si interruppe e le chiese cosa si sentisse.

“Mi dispiace…” – disse lei girandosi di spalle per non fargli vedere che stava piangendo di nuovo – “So che ti sembrerò pazza. Ma l’idea di perdere questo paese, per quanto abbandonato, mi terrorizza. Questi scheletri di case, queste rovine, è tutto quello che mi rimane… E’ la mia vita, se di vita si può parlare nel mio caso…” – sorrise –“…che farei se domani questo posto non fosse più così? Se la prossima volta che mi ritroverò qui, al prossimo temporale, scoprissi che tutto è cambiato, che è pieno di gente e l’albergo con la mia stanza è distrutto, cosa mi rimarrebbe? Comparirei ancora qui se tutto il paese cambiasse?”

Il giovane architetto guardò la ragazza e si rese conto, per la prima volta dopo tanto tempo, che a volte quello che lui desidera può provocare dolore agli altri.

Fu in quel momento che iniziarono a tornargli alla mente i visi di coloro che aveva schiacciato nel corso della sua carriera, nella ricerca del successo. Si ricordò di Marika, la giovane stagista, e di Sergio che aveva licenziato poche settimane prima semplicemente perché era stufo di averlo tra i piedi. Ripensò a quella famiglia che due anni prima non voleva vendere il proprio appartamento, l’unico non ancora venduto di un edificio da abbattere, per poter edificare un grande centro commerciale progettato dall’architetto Menzi. Fu lui a suggerire che sarebbe stato facile obbligarli a vendere se l’edificio avesse mostrato segni di cedimenti strutturali. Anzi avrebbero dovuto svendere la loro casa. E allo studio avevano quell’amico al genio civile che si occupava delle ispezioni agli edifici… Dove sarà adesso quella famiglia? Saranno riusciti a trovare un altro posto in cui vivere con quella miseria che gli diedero? A proposito di posto in cui vivere… come poteva non ricordare anche quella vecchietta che lui aveva fatto ricoverare a forza in una casa di riposo pur di entrare in possesso del suo terreno che il figlio voleva vendere ma del quale non era proprietario? Come si chiamava? Lisetta, forse… Quante vite aveva segnato con la sua ostinazione?

“Quando cominceranno i lavori?” – chiese improvvisamente Elisa interrompendo il flusso dei suoi pensieri. “Non sono in programma… Il progetto è solo uno studio per l’università di architettura di Bergamo che vuole presentarlo ai suoi studenti come materia di studio per l’anno in corso. Non c’è alcun programma di lavori, stai tranquilla. Nessuno toccherà il paese, te lo prometto…” – rispose una voce.

Ma chi aveva risposto? Chi stava parlando? Chi stava mentendo in questo modo così spudorato? Luca si rese conto di essere stato lui a parlare. Cosa stava facendo? Invece di gloriarsi delle sue idee, le stava nascondendo, come se se ne dovesse vergognare. Ma quel giorno non voleva fare del male a qualcun altro essere umano. E soprattutto non voleva fare del male ad Elisa che tanto aveva già sofferto.

La ragazza, rassicurata da quelle promesse, si asciugò gli occhi e gli disse: “Perdonami se mi sono lasciata andare. Oggi, a dire il vero, è già la seconda

volta che te lo chiedo, vero? E’ che sono così contenta di averti qui e sono sola da tanto…Beh, adesso lasciamo perdere questi discorsi… Ho scoperto un posto stupendo che volevo farti vedere. Certo con queste nuvole non è uno splendore come dovrebbe essere col sole ma… se vuoi… se ti và… posso accompagnarti”. “Certo che lo voglio…” – rispose prontamente Luca –“… sono venuto apposto per stare con te.”

Lei fece per prendergli la mano, ma all’ultimo momento si ritrasse ricordandosi che non poteva. Fece un sorriso timido e si avviò, con Luca al fianco e Thomas che correva avanti ed indietro, verso il torrente che scorreva vicino al paese, a fianco della zona del tiro al piattello alla fine della strada che attraversava saliva da Consonno. I due entrarono nel bosco: Elisa facilmente, dato che non doveva schivare gli alberi, e Luca con maggiore difficoltà, dato che l’impermeabile si impigliava nei rami e nei cespugli i quali che gli scaricavano, così, litri di pioggia proprio giù per il collo e le maniche. Ma il ragazzo non si lamentava. Al massimo ogni tanto lanciava qualche accidente soffocato, che facevano ridere Elisa mentre seguiva le manovre di svuotamento delle maniche e della camicia.

Dopo un centinaio di metri i due giunsero di fronte ad una piccola cascata che formava un laghetto alla base. Tutt’attorno i pini, l’erba alta ed il muschio faceva da cornice verde per quel piccolo angolo di paradiso. Elisa aveva ragione. Se ci fosse solo stato il sole quel posto sarebbe stato stupendo. Anche sotto la pioggia e con la nebbia, l’acqua appariva di un verde trasparente, con la superficie increspata dalle migliaia di gocce che cadevano attorno alla coppia di giovani. Thomas si lanciò nell’acqua cercando di prendere qualcuno dei pesci che si muovevano sul fondo; cosa che, ovviamente, non riuscì a fare.

I due ragazzi lo guardavano ridendo. Per quanto assurdo quello che stava vedendo, Luca era felice di essere lì. Forse non era mai stato così felice da tanto tempo...

Luca ed Elisa sedettero su una roccia sporgente a lato del laghetto e, cullati dal

rumore dell’acqua che cadeva, iniziarono a parlare. Elisa voleva conoscere tutto della sua vita, così lui le raccontò della sua scelta di iscriversi alla facoltà di architettura, degli anni ati a fare gavetta nello studio di Menzi e dei suoi successi assieme alle sue sconfitte. Elisa era un ascoltatrice attenta e riflessiva. Non si accontentava di conoscere dei fatti ma continuava a fargli domande introspettive. Ogni volta che lui le parlava di una scelta, lei voleva sapere perché l’aveva fatta. Dopo tanti anni ati a rincorrere il successo e la ricchezza, lei gli stava facendo riscoprire i motivi che l’avevano spinto a dedicarsi all’architettura, i suoi sogni ed i suoi ideali che spesso aveva sacrificato nel nome del profitto. Quella mattina trascorsa davanti a quella cascata, fu un tuffo nel ato per il grande Luca Ferretti. Fu un incontro con il suo vero io, che aveva messo da parte da tanto tempo.

“Tornerai la prossima volta che piove?” – chiese lei ad un certo punto interrompendo la conversazione. Luca guardò il cielo che si stava schiarendo. Era evidente che di lì a poco avrebbe smesso di piovere e sarebbe tornato il sole. Guardò Elisa che lo fissava in silenzio aspettando una risposta, e disse con tono fermo: “La prossima volta terrò d’occhio le previsioni meteo e sarò qui ancora prima che cominci a piovere. Te lo prometto. Voglio davvero rivederti. E… grazie per avermi portato qui. Questo posto è davvero stupendo”. Elisa fece un grande sorriso e mormorò: “Grazie a te…” Poi aggiunse: “Sai… in fondo io e te siamo molto simili. Io volevo migliorare il mondo dedicandomi alla medicina e tu… volevi migliorarlo dedicandoti all’architettura…”

Fu su queste ultime parole che un raggio di sole trafisse le nuvole illuminando il laghetto attorno al quale si trovavano Luca ed Elisa. Bastò quell’istante perché il giovane si distraesse un attimo. Quando si voltò nuovamente la ragazza ed il cane erano spariti e lui si ritrovò solo. Solo con i tanti pensieri che quell’incontro gli aveva fatto nascere nell’animo. Sopra di lui il sole aveva prepotentemente aperto il cielo e la temperatura stava rapidamente crescendo. Sotto l’impermeabile che indossava l’umidità si faceva sentire sempre più forte anche a motivo del fatto che gli abiti erano completamente bagnati.

Ma a Luca nulla di questo importava.

Aveva trascorso un altro pomeriggio speciale. Ogni incontro con Elisa lo faceva sentire diverso, nuovo, o forse… vecchio, autentico come era una volta. Mentre si incamminava per tornare alla vettura, si promise di non perdere un’altra possibilità di rivedere quella ragazza.

CAPITOLO 12

4 Agosto 2013 – sera

“Si può sapere cos’hai?” – chiese Silvia girandosi nel letto e appoggiandosi sopra il petto di lui per guardarlo in faccia. “Da quando sono tornata questa sera sembri sempre assente, distante. Sembri in preda a pensieri profondi. Che ti succede? Sei arrabbiato perché sono tornata tardi?”

Luca la fissò con lo sguardo. Non c’è che dire: Silvia era davvero bellissima, anche adesso con tutti i capelli scompigliati che gli facevano un poco di solletico ricadendo sul suo petto. Aveva il viso di lei a pochi centimetri dal suo e poteva quasi percepire il suo respiro mentre i suoi grandi occhi lo guardavo scrutatori. Il suo profumo, una essenza di mughetto e biancospino, gli stuzzicava le narici.

Tuttavia, per quanto fosse vicina, Luca la percepiva lontana. Lontana dai suoi pensieri e dal suo cuore.

Quando quella sera era rientrata, lei aveva iniziato a raccontargli dell’incontro di lavoro, delle innovazioni che aveva apportato al progetto in corso, assieme a suo padre e gli aveva parlato delle richieste assurde che questi industriali avevano rivolto in nome “dell’armonia zen”! E aveva continuato a parlare dei progetti dell’ufficio anche mentre mangiava qualcosa che aveva portato dal ristorante a 3 stelle michelin sotto casa - non sia mai che cucinasse lei! – poi aveva continuato mentre si struccava nell’ampio bagno di marmo di Carrara che aveva voluto pieno di specchi, e mentre si spogliava nella stanza guardaroba per venire a letto, indossando questa volta solo un minuscolo perizoma di seta rossa. Lavoro e solo lavoro… Non esisteva altro per lei. Certo lei gli aveva chiesto come avesse

trascorso la giornata, e indubbiamente lui non le aveva raccontato nulla della sua ‘eggiata’ a Consonno ma, anzi, le aveva detto di essere rimasto a casa a guardare la pioggia cadere mentre studiava alcune relazioni al computer sistemato strategicamente davanti ad una grande veranda che si apriva sul terrazzo e sotto uno split dell’aria condizionata che adesso era, ovviamente, spenta. Ma quella era stata una domanda di cortesia. Un preludio frivolo prima di are alle cose serie: il lavoro.

Certe volte Luca si chiedeva cosa Lei trovasse in lui, perché stessero insieme, a parte, ovviamente, l’aspetto fisico del loro rapporto. “Perché facciamo questo lavoro?” – chiese improvvisamente Luca dando voce ai suoi pensieri mentre lei gli baciava il collo. Silvia lo guardò stupita, come se non si aspettasse mai che domande come quella potessero venire fuori dal ragazzo che aveva a fianco. “In che senso?” – gli chiese di rimando. “Perché ci siamo dedicati all’architettura?” – spiegò lui cercando di farsi capire – “Perché lavoriamo così tanto per degli edifici?” Lei sorrise. “Sei stanco, vero?” – gli chiese giocherellando con i peli del petto di lui. “In effetti in questi mesi hai davvero dato il massimo di te stesso. Sono fiera di te. E lo è anche papà”. “Non è questione di stanchezza…” – ribatté lui accarezzandole la mano e incrociando le sue dita con quelle di lei. “E’ solo che, quando ho iniziato a fare questo lavoro avevo dei sogni… delle speranze. Volevo rendere il mondo migliore con i miei progetti… Ma ora…” “Ora…” – lo interruppe lei posandogli un dito sulle labbra– “… ora non sei più un bambino. Ora stai raggiungendo ciò che conta davvero: la fama ed il successo. Stiamo raggiungendo tutto questo insieme… Solo questo deve importare. E adesso basta con queste domande assurde. Abbiamo parlato sin troppo per questa sera. Adesso voglio farmi perdonare per essere stata lontana tutto il giorno…”

Chiudendo così la conversazione, Silvia riprese a baciarlo. Prima di lasciarsi andare tra le braccia di quella ragazza, Luca non poté fare a meno di rendersi conto di quanto lei fosse diversa da Elisa e di quando lui si fosse lasciato cambiare dal mondo dorato nel quale lei lo aveva introdotto…

La mattina dopo giunse presto. Il dottor Menzi aveva concesso un giorno di

permesso al suo brillante assistente ed al suo staff ma non di più. Quello era il grande giorno. Quella mattina Luca e Silvia si sarebbero recati in comune per consegnare tutta la documentazione relativa al progetto “Consonno: un oasi di benessere e vacanza”. Il benestare del comune era cosa già fatta. I dati ben falsificati e le amicizie di cui il grande Architetto godeva lo rendevano praticamente già approvato. Ciononostante era necessario salvare le apparenze burocratiche. Così Luca si alzò, indossò il suo vestito di Armani con cravatta Versace mentre Silvia si infilava in un tailleur Chanel con un’ampia scollatura davanti. Silvia adorava le scollature. Diceva che se l’uomo aveva molto da vedere, aveva meno da pensare e poteva essere più facilmente manipolato.

Per anni Luca non aveva fatto a caso a queste cose. Ma adesso… adesso si chiedeva come avesse fatto a darle sempre per scontate. Prima di uscire di casa, i due ragazzi riempirono le loro valigette di pelle di coccodrillo abbinate, regalo del padre di lei per il loro secondo anniversario di fidanzamento, con tutta la documentazione necessaria e scesero alla macchina. La colazione all’elegante bar Maurizio, fu rapida e dedita al lavoro. Silvia spiegò chiaramente che sarebbe stata lei a dirigere la conversazione ma che lui sarebbe potuto intervenire quando voleva. Anzi, doveva intervenire per darle man forte nei diversi aspetti tecnici che sarebber potuti venire fuori. Soprattutto con il tecnico della provincia che sarebbe stato presente all’incontro e che loro non conoscevano. Gli ricordò che da quel lavoro dipendeva il futuro dello studio, del nome del padre e di loro due come coppia. Quindi gli diede un rapido bacio sulle labbra e si avviarono verso gli uffici del comune, dove erano attesi.

L’incontro fu lungo e noioso. Silvia annegò in un fiume di parole i due tecnici incaricati, spiegando con diagrammi, tabelle e grafici attentamente falsificati che le cubature degli edifici erano le stesse di quelli attualmente esistenti e che la costruzione del nuovo albergo e dei tre ristoranti panoramici sul fianco e sulla cima della collina, non avrebbero danneggiato in nessun modo l’estetica della valle. Soprattutto, Silvia puntò sull’aspetto economico della faccenda facendo notare come, in tempi di crisi come quelli in cui si viveva adesso, l’arrivo nella zona di centinaia di turisti italiani ed esteri, attirati dalle offerte lussuose e dagli splendidi edifici, sarebbe stato un colpo perfetto per il comune e la provincia. Di fronte a tutta quell’eloquenza e quella superficialità, Luca non aveva molto da

dire.

Sebbene quello fosse il suo grande momento, non sentiva quel fremito che si aspettava di provare. In alcune occasioni Silvia gli lanciò occhiate di fuoco, obbligandolo ad intervenire per spiegare qualche punto su cui lei era in difficoltà. Alla fine, dopo un paio d’ore di questo tipo, i due tecnici comunali, assieme al responsabile provinciale che era intervenuto nell’incontro, si dichiararono soddisfatti e promisero che, entro fine mese nonostante le ferie, avrebbero fatto pervenire al dottor Menzi, oppure a Silvia direttamente, se lei avesse lasciato il suo cellulare - dissero in modo malizioso - tutti i permessi necessari per iniziare i lavori.

Silvia e Luca ringraziarono e si accomiatarono. Il giovane era abbastanza soddisfatto. Sebbene non provasse quella gioia che pensava di provare, era contento di aver ottenuto quel successo. Ed era convinto che anche Silvia lo fosse. Fu mentre uscivano dal palazzo del comune che lei lo assalì all’improvviso:

“Si può sapere che accidenti ti è preso?” – chiese con rabbia puntandogli il dito contro. Luca fu così sorpreso da quella reazione che fu preso alla sprovvista e rimase muto. “Sembravi un idiota, lì dentro. Stamattina pensavo che saresti stato un leone invece sembravi una pecora spaventata. Per la miseria, Luca, questo è il tuo progetto ma in quell’ufficio pareva che ti vergognassi di aver messo le tue firme su questi fogli! Che accidente hai? Se non fosse stato per me potevamo scordarci questo successo. Hai sentito cosa hanno detto alla fine? ‘Potete aspettarvi il permesso per iniziare i lavori entro fine mese!’ Credi che se non fosse stato per me avremmo ottenuto questo risultato?”

Silvia era come un fiume in piena. Quando discutevano lei lo travolgeva di parole, come aveva fatto con i due tecnici prima. Forse per lei anche le discussioni di coppia non erano altro che sfide da vincere, nelle quali, infatti, risultava spesso trionfante per rinuncia da parte di lui. Generalmente le loro

discussioni degeneravano in furiose litigate che poi si concludevano con l’uscita di casa di uno dei due per sbollire la rabbia. Ma quella mattina Luca non aveva intenzione di litigare.

“Non so cosa dirti, Silvia…” – disse con voce triste e dispiaciuta – “…mi dispiace per non esserti stato d’aiuto come ti aspettavi” . “D’aiuto???” – fece lei ancora più irata con il tono che saliva di un’ottava, mentre lui si rendeva conto della gaffe che aveva commesso – “… io non avevo bisogno d’aiuto. Ero perfettamente padrona della situazione. Ma sarebbe stato opportuno che anche il grande architetto Luca Ferretti intervenisse ogni tanto; giusto perché era il progettista dell’intero complesso, non credi?”

Luca abbassò lo sguardo. In quel momento sapeva che nessuna cosa che avesse detto avrebbe potuto calmarla. Aveva bisogno di sfogarsi, così la lasciò parlare, o forse il termine più opportuno era urlare, per qualche minuto. Quindi detto tutto quello che pensava, tacque sedendo sulla panchina sulla quale si era seduto lui.

“Perché fai così?” – chiese quindi Silvia con tono più calmo – “Questo è il momento che hai sempre voluto… che abbiamo sempre voluto: il nostro momento…” Luca non sapeva cosa rispondere. L’abbracciò dolcemente e le disse: “Perdonami. E’ solo che… non lo so… Forse lavorare mi farà bene. Dai… Andiamo allo studio per dire a tuo padre che è andato tutto bene”. Lei annuì poi si alzò e, senza aspettarlo, si diresse alla macchina.

Inutile dire che l’incontro con l’architetto Menzi allo studio fu un successo. Non appena Silvia riferì al padre che i tecnici avevano garantito l’ottenimento del permesso entro fine mese, il rugoso viso del vecchio si aprì in un grande sorriso. “Questo è un grande giorno per il nostro studio” – annunciò trionfale – “Questo progetto ci porterà gloria, onore, ed un sacco di soldi… Ora non ci resta che preparare il tutto per presentare il grande complesso Consonno all’assemblea degli architetti. Luca, so che hai lavorato molto con il tuo staff nei due mesi ati ma te la sentiresti di curare anche la preparazione della presentazione per

questa occasione? Sarà il momento in cui cederò il o a te, figliolo”.

Quell’annuncio aveva dell’incredibile. Non solo perché il grande architetto Menzi aveva annunciato di andare in pensione per lasciare tutto al giovane Ferretti, ma anche perché lo aveva chiamato ‘figliolo’. Era una cosa nuova, mai udita. Sin dall’inizio della storia di Luca con Silvia, Il vecchio Menzi aveva chiarito con il giovane che accettava la sua relazione con la figlia perché ‘era consapevole che gli ormoni vanno soddisfatti’. Ma adesso... pareva dare la sua benedizione. Silvia guardò il padre sorridendo. Pareva felice ma a Luca non sfuggì il lampo di desiderio che era apparso nei suoi occhi. La ragazza sapeva bene che con quel cambio di direzione nello studio e con l’introduzione di Luca nello star system degli architetti, lei stessa ne avrebbe tratto enormi vantaggi sia economici che di prestigio. Non che Silvia non fosse una valente architetta lei stessa. I suoi lavori e le sue idee erano assai apprezzate nel campo. E, come il padre, godeva della capacità di convincere le persone della bontà delle proprie idee. Tuttavia era una donna. E difficilmente, ancora nell’anno duemilatredici, si tendeva ad affidare grandi progetti ad una donna ritenendo che l’inventiva dell’uomo fosse maggiore e più raffinata. Con il aggio di consegne al quale il padre aveva alluso, sarebbe stata lei a tenere in mano lo studio assieme a Luca. Anzi, era lei la Menzi dello studio…

Senza accorgersi dello sguardo preoccupato di Luca in questi pensieri, Silvia lo abbracciò e gli diede un bacio sulla sguancia mentre l’anziano padre, sempre seduto alla scrivania, non smetteva di sorridere.

“Che ne pensi, tesoro?” – chiese lei aspettando che il ragazzo desse al padre una risposta. “Ne sarei onorato, signore…” – rispose con voce tremante Luca. “E allora è fatta…” – annunciò il dottor Menzi alzandosi agilmente dalla poltrona. “Andiamo a riunire il tuo, anzi il vostro staff, per cominciare i lavori…”

Seguito a ruota dalla figlia, l’architetto uscì dallo studio ed iniziò a chiamare i dipendenti. Rimasto solo nell’ufficio, Luca lanciò lo sguardo fuori dalla finestra,

verso le montagne all’orizzonte. Da qualche parte tra quei boschi, riposava in silenzio il paese di Consonno. E, tra quegli edifici abbandonati, c’era Elisa che aspettava. Era così diverso con lei… Luca pregò che arrivasse presto un bel temporale…

CAPITOLO 13

12 Agosto 2013 – pomeriggio

Le previsioni erano sicure… Per la quarta volta in quella giornata, Luca consultò il suo nuovo smartphone che mostrava le previsioni del tempo per la zona di Consonno. Era chiaro: precipitazioni a carattere temporalesco dal pomeriggio. Era da una settimana che il ragazzo aspettava quel momento. Quando aveva visto l’annuncio di temporali per quel mercoledì, quasi era saltato sulla sedia. Non era stato facile prendersi il pomeriggio libero. Non con Silvia che lavorava con lui nel team per la preparazione delle slide e dei plastici per la grande convention. In più si erano dovuti recare alla provincia di Lecco tre volte per dei colloqui con diversi uffici ed enti volti a velocizzare le pratiche per l’ottenimento di tutti i permessi necessari. In più c’era da organizzare le squadre di operai. Un progetto del genere richiedeva una grande quantità di manodopera e di macchinari che doveva essere programmata per tempo con accuratezza. In questo Silvia era davvero brava. La stesura dei crono-programmi dei lavori era da sempre sua prerogativa anche perché riusciva a calcolare con estrema precisione la durata di tutte le varie attività di cantiere in modo da ottenere una previsione delle necessità di manodopera, materiali e mezzi assai rispondente a quello che si verificava in realtà.

Ma quel pomeriggio nessuno avrebbe potuto impedire a Luca di ritornare al paese.

Non solo perché aveva fatto una promessa che già in ato non aveva mantenuto, ma soprattutto perché sentiva il bisogno di parlare. Di parlare con qualcuno che potesse capirlo, capirlo per quello che era realmente. Aveva bisogno di parlare con qualcuno che poteva leggere i suoi sentimenti, riscoprire le sue ioni, far rivivere i suoi ideali, dal momento che erano gli stessi, anche

se diversamente indirizzati, che provava Elisa.

Così, approfittando di un’assenza di Silvia che aveva un appuntamento con il capocantiere per stilare l’elenco del personale richiesto, si era preso una pausa dal lavoro dicendo che usciva andare a ritirare i primi bozzetti dalla ditta che eseguiva le stampe in 3d. Certo era una scusa poco credibile, dal momento che quella ditta consegnava a domicilio e lui era il capo-team, ma Luca non era riuscito a trovarne una migliore e sperava che l’incontro di lavoro di Silvia andasse per le lunghe.

Giunto in paese si fermò un attimo nella piazza riflettendo su dove avrebbe dovuto aspettare. Nel cielo le nuvole grigie promesse andavano facendosi sempre più cupe e sordi brontolii in lontananza lasciavano presagire l’arrivo del temporale tanto atteso. Luca indossò l’impermeabile, preparandosi alla pioggia, e decise di aspettare nel luogo dove si erano lasciati la volta precedente: il piccolo laghetto con la cascata che lei gli aveva mostrato. In meno di dieci minuti vi fu giunto.

Sebbene non piovesse ancora ardeva dal desiderio di rivedere Elisa e di poter parlare ancora con lei. Sedette sulla roccia della volta precedente, ammirando il panorama circostante. Elisa aveva ragione: se già adesso, con il cielo cupo, quel posto era un piccolo angolo di paradiso. Con il sole sarebbe stato stupendo. Era il posto ideale in cui avrebbe portato la sua ragazza… rifletté. Sarebbe stato bello rimanere lì insieme, magari facendo un picnic…

Ovviamente Silvia non sarebbe mai venuta in posti come quelli... La sua idea della montagna era quella di arrivare con la macchina davanti al grande albergo o al ristorante, scendere percorrendo i pochi i dall’auto alla struttura e prendere posto al tavolo, in camera o nello sdraio della struttura.

Da quanto tempo Luca aveva rinunciato al suo amore per le eggiate nei boschi per tenere in piedi il loro rapporto! Con Elisa sarebbe stato certamente diverso…

Un rana – o forse era un rospo? – saltò improvvisamente a fianco del suo piede spaventandolo. Resosi conto della sua ingenuità, Luca rise di sé mentre l’animale guadagnava la riva dell’acqua. In quell’istante le prime gocce incresparono la superficie: il temporale tanto atteso era iniziato. Quanto avrebbe dovuto aspettare? E come sarebbe successo? Avrebbe visto una luce? Si sarebbe aperta una porta con l’aldilà? Sarebbe stato pericoloso?

“No…” – pensò – “…Elisa mi avrebbe avvisato in questo caso. Non devo fare altro che aspettare. Speriamo che arrivi presto…” Non fece in tempo a terminare questo pensiero che una voce lo chiamò: “Ciao Luca! Sono così felice di vederti!” Elisa era in piedi davanti a lui. Era bellissima, come sempre.

In quel momento al giovane sembrò che non fosse ata una settimana ma che, semplicemente, loro due stessero continuando la conversazione che avevano lasciato in sospeso la volta precedente. “Ciao Elisa… Come vedi non sono mancato…” – le disse emozionato come un ragazzino al suo primo appuntamento. “Mi dispiace che anche oggi non possiamo goderci questo posto con il sole…” – disse lei con tono dispiaciuto. “Và benissimo così…” – ribatté prontamente lui avvicinandosi a lei chiedendosi se era il caso di continuare con quello che tanto desiderava dire. “Se qui tu e questo basta a fare di questo luogo un posto bellissimo…”

Come avrebbe reagito lei? Si sarebbe offesa? E poi cosa stava facendo? Stava facendo la corte ad un fantasma? Elisa sorrise senza dire nulla, schermendosi da quel complimento tanto dolce e galante. “Vorresti raccontarmi qualcosa di questi tempi, Luca? E’ ato tanto tempo dall’ultima volta che ho sentito un telegiornale. Come vanno le cose nel mondo?”

La solita Elisa che si preoccupava del prossimo, pensò Luca davanti a quella domanda. Ma il ragazzo trovò molto utile quel desiderio. Avrebbe parlato di tutti i problemi sociali di questi anni e sarebbe stato un buon modo per vedere come ragionava la giovane tanto attraente che aveva dinnanzi. Così, sotto la pioggia che cadeva fitta, mentre Thomas abbaiava ai rospi che parevano deriderlo posati su alcune larghe piante acquatiche vicine alla riva, Luca raccontò ad Elisa delle vicissitudini politiche ed economiche degli ultimi decenni.

Mentre il giovane parlava, lei lo ascoltava attenta, facendo domande per capire ed analizzando le situazioni che lui le narrava. La ragazza si rattristò non poco quando Luca le spiegò che non si era trovata nessuna cura per l’AIDS, che grande diffusione aveva avuto proprio negli anni ‘70 con la cosiddetta rivoluzione sessuale. Ancora più triste fu la descrizione di molte nazioni del terzo mondo nelle quali malattie e povertà erano endemiche, così come la notizia del dilagare della disoccupazione e della crisi economica anche nei paesi sviluppati e soprattutto in Italia.

Quando Luca finì di parlare, Elisa pareva molto addolorata. “Mi dispiace per quello che ti ho raccontato…” – fece Luca non sapendo cosa dire. “Non è colpa tua. Ti avevo chiesto io di raccontarmi queste cose. Mi addolora, però, vedere che tutti gli ideali che avevamo noi ragazzi negli anni ‘70 sono finiti in cenere… E ancora di più mi dispiace sapere che il mondo è nelle mani di gente peggiore di quella che volevamo cambiare quando… beh, quando… quando ero qui. Sai Luca…” – continuò Elisa accarezzando il cane che si era messo davanti a lei a pancia all’aria in cerca di attenzione – “…quando ho finito le scuole superiori e mi sono iscritta a medicina, pensavo davvero di poter fare qualcosa di buono per il mondo. Io e le mie amiche ci immaginavamo di scoprire la cura per qualche malattia, per aiutare qualcuno… Certe sere ci trovavamo solo per parlare di quale malattia avremmo voluto studiare per prima...” – sorrise.

Luca la ascoltava in silenzio rivedendo in questi discorsi i suoi stessi pensieri di quando frequentava l’università. Anche lui aveva trascorso delle serate con gli

amici sognando di progettare edifici rivoluzionari, che avrebbero dovuto fondere i principi del risparmio energetico e dell’efficienza con l’obiettivo di dare alla gente anche più povera un alloggio a basso costo da poter davvero considerare “casa”. Sembrava ata davvero una vita intera da allora… E quanto era diversa la sua vita di adesso da quei sogni di ragazzo…

Quel pomeriggio sotto la pioggia, Luca ed Elisa parlarono a lungo. Il temporale era più forte di quanto previsto dai metereologi e la zona del paese di Consonno venne colpita da un vero nubifragio. Ad un certo punto un fulmine colpì un albero ad una decina di metri di distanza dal punto in cui i due giovani si trovavano.

Ripresisi dallo spavento, i ragazzi, seguiti dal cane, decisero di spostarsi in una zona più tranquilla anche perché la violenza dell’acqua era riuscita a are attraverso l’impermeabile di Luca che, ora, aveva iniziato ad avere freddo. I due tornarono verso il paese e si ripararono sotto il porticato commerciale del minareto dove continuarono a parlare.

Era per questi momenti che Luca era venuto lì.

Quel pomeriggio, mentre la pioggia continuava a cadere, come le altre volte che si erano incontrati, Luca ed Elisa parlarono a lungo. Sembravano non terminare mai gli argomenti tra loro. Anche perché Elisa era una compagna brillante. Quando lui le descriveva i progetti che stava ancora pensando, lei gli dava consigli e suggerimenti che non soppesavano solo l’aspetto economico della questione ma anche quello umano. E quando era lei a parlare delle sue ioni letterarie, teatrali e di svago, lui si ritrovava in molti di quegli interessi, sorprendendosi di come fosse bello condividere anche queste cose all’apparenza semplici e frivole.

Ma il momento più sentito di quella giornata speciale, fu quando Luca, raccontandole uno degli ultimi libri di Johannes Mario Simmel che aveva letto da poco, citò le parole di Hemingway, che facevano da titolo all’opera, così care alla ragazza: “nessun uomo è un isola ma siamo tutti parte di un continente”. Le aveva dette distrattamente, inserendole nella conversazione come se nemmeno se ne fosse accorto. Fu lei ad interromperlo chiedendogli se sapesse chi le aveva pronunciate. Luca, leggermente stupito da quella domanda, rispose tranquillamente: “Beh, molti risponderebbero subito Hemingway, ma sbaglierebbero. Pochi sanno che il vero autore è un certo Donne che amava aggiungere “Quando senti una campana non chiederti per chi suona perché…” “Perché suona per te” – concluse Elisa con voce emozionata. “Lo sapevi?” – chiese Luca stupito e ammirato. “E’ una delle mie frasi preferite.” – rispose la ragazza – “Ci ricorda che ciascuno di noi ha bisogno di qualcuno di amare. Non possiamo rinunciare ai nostri sentimenti. E quando suona la nostra campana… dovunque ci porti dobbiamo cogliere quella occasione…”

Queste parole, dette dal profondo del cuore, fecero davvero emozionare Luca che sentì il cuore accelerare mentre fissava Elisa nei suoi intensi occhi verdi. Quando la pioggia smise di cadere ed la ragazza scomparve come al solito, Luca si ritrovò nuovamente solo. Ma anche questa volta, il suo cuore era più ricco e pieno. Le ore trascorse con Elisa erano sempre più preziose ed attese con ansia.

Quella sera, al suo ritorno in ufficio, a Silvia bastarono alcune scuse che Luca si era preparato durante il ritorno in auto. Erano le solite cose ovvie: il traffico, un errore degli addetti della ditta che lo avevano costretto ad obbligarli a rifare alcune cose, aveva sbagliato strada… Lei aveva accorto quelle giustificazioni con freddezza, ricordandogli che il team aveva bisogno del suo capo e che se gli occorreva un galoppino avrebbero potuto assumere un immigrato per quello, con tutti quelli che venivano in Italia… Luca la lasciò sfogare per qualche minuto poi riprese a lavorare.

Fortunatamente aveva portato un vestito di ricambio ed un paio di asciugamani nel bagagliaio e si era sistemato nel bagno visitatori del piano terra dello studio

dell’architetto prima di farsi vedere. Non riuscì a concentrarsi molto quella sera. Nonostante attorno a lui fervesse l’attività dei suoi collaboratori sotto il vigile controllo di Silvia, la sua attenzione era concentrata sull’immaginare scuse più convincenti e valide per le prossime volte che si sarebbe recato da Elisa. Le previsioni meteo indicavano in arrivo un fronte temporalesco, le cui avvisaglie avevano portato al temporale di quel pomeriggio, con piogge frequenti e ripetute per alcuni giorni. I metereologi cercavano di rassicurare il pubblico che quel periodo di brutto tempo non sarebbe durato a lungo e che potevano prenotare tranquillamente le ferie. Dopo le tante polemiche delle associazioni del turismo per i crolli delle prenotazioni in concomitanza delle allerta meteo, spesso lanciate senza motivi validi ma solo per fini pubblicitari, che avevano portato a richieste di risarcimento danni, le previsioni di brutto tempo nei periodi di ferie erano sempre ridotte e acquietate.

Luca era, forse, una delle poche persone che, invece, speravano che quei giorni durassero il più a lungo possibile. L’aria in quell’ufficio diventava sempre più opprimente e le sue responsabilità e decisioni sempre più difficili da portare. Oramai sentiva di poter essere sé stesso solo quando scendeva dall’auto in mezzo al bosco, mentre l’odore della pioggia si spandeva nell’aria ed il cielo si inscuriva.

Quando arrivò quella perturbazione Luca era pronto. Il primo giorno simulò un problema di salute. Quando Silvia si svegliò quella mattina, Luca si era tenuto un fazzoletto imbevuto di acqua bollente sulla fronte per alcuni minuti. Aveva anche messo alcune gocce di collirio per avere gli occhi lucidi. Con alcuni colpi di tosse ben inscenati, riuscì a convincere la fidanzata del suo malessere al punto che lei gli permise di rimanere a casa quella mattina dietro la promessa che, febbre o non febbre, sarebbe venuto in ufficio quel pomeriggio dopo pranzo.

La volta successiva il maltempo cadde di domenica pomeriggio e lui uscì di casa spiegandole che voleva rilassarsi facendo un giro nei boschi. Silvia, ovviamente, non si sognò nemmeno di dirgli che voleva venire con lui e lo lasciò uscire a patto che tornasse a casa presto in quanto quella sera voleva provare il nuovo

ristorante consigliato dalla guida Gambero Rosso che aveva aperto da poco all’ultimo piano di un grattacielo nel centro di Como.

Scene come queste si ripeterono altre volte nelle numerose varianti che la mente di Luca riusciva ad elaborare.

La sua doppia vita andava prendendo forma in modo sempre più preponderante. L’ufficio e la carriera assorbiva la maggior parte del suo tempo ma l’ombra nella nebbia aveva la maggior parte del suo cuore.

Quando Agosto arrivò al termine, il giovane che aveva completato il lavoro di preparazione della presentazione per il congresso, con il quale il grande architetto Menzi si stava congratulando sentitamente davanti a tutto l’ufficio, non era altro che una maschera, una facciata. Proprio come quando una farfalla lascia il bozzolo che ha costruito attorno a sé e che è stata la sua vita sino a quel momento, Luca stava cambiando il cuore cercando di raccogliere il coraggio e la forza per fare quelle scelte che tanto tempo prima aveva abbandonato nella ricerca della carriera da cui ora voleva fuggire.

Non era facile, per quanto lo desiderasse, e Luca aveva paura. Gli tornava alla mente la morale del vecchio padron ‘Ntoni, protagonista del celebre libro dei Malavoglia di Giovanni Verga che a lui piaceva molto e che aveva letto diverse volte: “non si deve lasciare la strada che si conosce per qualcosa di nuovo”. Il problema era che la strada che Luca conosceva non la voleva più percorrere ma, al tempo stesso, temeva cosa avrebbe significato imboccarne una nuova. Il giovane architetto Luca Ferretti non sapeva che il destino stava per decidere al suo posto…

CAPITOLO 14

12 Settembre 2013 – mattina

“…ed è con grande emozione che presento a tutti voi il progetto del nuovo centro turistico e benessere Consonno Oggi!”

Uno scroscio di applausi accolse queste parole pronunciate dall’architetto Menzi in piedi sul palco di fronte all’assemblea internazionale degli architetti riuniti a Milano. La grande convention era iniziata da due giorni e diversi erano stati gli interventi che avevano attirato l’attenzione dei presenti. I nuovi progetti esposti da architetti ed ingegneri di fama internazionale, come Renzo Piano, avevano dati di che scrivere ai giornalisti esperti del settore che erano presenti. Tuttavia la voce che sarebbe stato presentato qualcosa di grande e rivoluzionario serpeggiava tra i convenuti che, ai tavoli del ristorante, nei bar, e nei salottini fumatori, discutevano tra loro su cosa si trattasse effettivamente.

Quando il dottor Menzi aveva preso la parola, durante quel galà serale, ed aveva tracciato a grandi linee la storia del paese di Consonno, l’attenzione di tutti era stata magnetizzata dalla slide che era apparsa proiettata alle spalle dell’oratore.

In questa immagine si vedeva la montagna del paese come appariva attualmente, con il suo degrado ed il suo abbandono, ma la scritta, che troneggiava al di sopra della figura lasciava spazio a ben pochi dubbi sul significato di quella scena: “Costruire il futuro dal ato”. All’annuncio del dottor Menzi del grande centro turistico che sarebbe sorto al posto del paese, l’ampio tendaggio alle sue spalle sul quale era proiettata l’immagine, si aprì rivelando un plastico immenso del nuovo assetto della zona. Gli organizzatori della convention, i soli al corrente

del progetto, una volta compresa pienamente la portata e la natura del lavoro, avevano deciso di riservare a quell’annuncio il momento clou della XXII assemblea italiana degli architetti e dei designer, e non avevano sbagliato.

Il modello in scala, che Luca ed il suo team avevano realizzato nel mese precedente, era sbalorditivo. Pareva davvero essere una scena reale, tanto era curato nei dettagli. I grandi edifici bianchi e gialli con le vetrate panoramiche, gli ascensori esterni vetrati, e le terrazze animate da decine di piccoli omini nelle varie pose ed atteggiamenti, sembravano essere veri. I viali alberati con i giardini zen e le fontane con percorsi Kneipp all’aperto, la grande pagoda centrale in onore dell’architetto Menzi, i bar ed i ristoranti con i loro tavolini disposti tra zone relax e aree fitness, circondavano il nuovo paese che ora si apprestava a divenire meta del turismo del benessere per l’intera zona del nord Italia e d’Europa sorgendo a nuova vita.

La scoperta che l’acqua che alimentava la cascata dove Luca ed Elisa erano ormai soliti incontrarsi aveva notevoli proprietà curative, aveva fatto scattare l’idea nel grande designer, Menzi. Effettivamente il progetto si configurava come un immenso investimento che, in un periodo di crisi e recessione come quello in cui versava l’Italia ed il resto dell’Europa, pareva essere una scommessa contro la propensione al risparmio oggi generale. Ma proprio per sopperire a questo, Menzi aveva ideato il nuovo Consonno come un centro caratterizzato sì dal lusso e dall’attenta cura dei particolari, ma che coniugava, in modo sapiente, spazi dedicati a chi aveva meno possibilità economiche con aree più lussuose e riservate, facendo della nuova cittadina un luogo ideale per le vacanze di tutti i livelli sociali. L’acqua termale, raccolta direttamente dalla sorgente, veniva ora portata non solo all’interno del grande stabilimento balneare/curativo che sarebbe sorto al posto del vecchio minareto commerciale, ma anche all’interno di ogni stanza e abitazione del nuovo paese alimentando ampie vasche idromassaggio e persino le semplici docce. L’uditorio era silenzioso ed attento mentre il dottor Menzi illustrava il progetto. Era il suo momento e sembrava essere deciso a goderlo sino in fondo.

Quando da giovane aveva presenziato al suo primo convegno all’estero, l’allora sconosciuto Menzi aveva giurato a sé stesso che avrebbe fatto di tutto per prendersi il prestigio che riteneva di meritare. Ed ora, pareva avercela fatta.

Nei posti di prima fila, davanti al palco, sedevano Luca, che indossava un completo nero lucido con una cravatta ambassador, e Silvia, bellissima in un abito di gala rosso scuro sorretto e decorato da una sola spallina sulla quale splendeva una spilla con un grande rubino porpora al centro. Nella sala erano presenti anche tutti i principali membri dello staff dell’ufficio, in completi da sera, che erano stati invitati in occasione di quella presentazione. L’emozione di Silvia era palpabile mentre Luca la osservava seguire rapita il padre che continuava a parlare indicando con una bacchetta le varie parti del progetto che venivano, contemporaneamente, proiettate a grande schermo sulla parete alle sue spalle. La giovane aveva la fronte bagnata da un velo di sudore per l’emozione e stringeva i braccioli delle poltroncine di velluto tra le dita come Luca era solito fare in aereo durante i decolli e gli atterraggi.

Il ragazzo non era altrettanto eccitato. Finalmente il momento che aveva atteso da tutta una vita pareva essere giunto. Tra breve il dottor Menzi lo avrebbe chiamato sul palco per ricevere il tributo della folla: sarebbe stata la sua consacrazione. Luca già poteva immaginare il buffet che ci sarebbe stato quella sera, subito dopo la conclusione dei lavori: incontri, domande, colloqui e proposte di lavoro intervallate da un’immensa sequela di lodi finte che nascondevano dietro di esse una profonda invidia per quel successo. Era quello l’ambiente in cui Silvia pareva trovarsi perfettamente a suo agio.

Già prima dell’inizio della conferenza, e nelle pause durante il programma, lo aveva trascinato da un gruppo all’altro per presentargli ora quell’ingegnere americano, ora questo architetto se, ora quel ministro italiano. L’immagine che Luca ebbe di quelle giornate lo lasciò turbato. Improvvisamente, mentre Silvia lo presentava ad un famoso designer d’interni inglese descrivendo i progetti che lui aveva realizzato ed il suo ruolo nello studio del padre, Luca si ritrovò a pensare di essere al mercato dove lui era l’oggetto delle trattative e

Silvia cercava di venderlo traendo il massimo profitto. Oramai aveva perso il conto delle volte in cui lei lo aveva ripreso, invitandolo ad essere più sorridente e partecipe nelle conversazioni. Una volta, addirittura, gli aveva rifilato, non vista, una pedata sul piede con il tacco a spillo, quando si era accorta che lui stava fissando il cameriere con i tramezzini anziché tessere lodi al celebre architetto con il quale lei stava conversando. La verità era che quel mondo non sembrava più appartenere al giovane Luca Ferretti o, almeno, non era più sicuro di voler continuare a farne parte.

Immerso nei suoi pensieri, Luca non si accorse che il dottor Menzi lo aveva invitato a salire sul palco assieme a Silvia. “Ed ora voglio presentarvi due persone che renderanno possibile tutto questo: il mio futuro genero, Luca Ferretti e mia figlia, Silvia” – aveva detto Menzi facendo loro cenno di salire.

Ci aveva pensato Silvia a richiamarlo alla realtà. Le unghie conficcate a forza nella mano mentre con estrema noncuranza si alzava dalla poltroncina erano state molto efficaci. Con un grande sorriso stampato a forza sulla faccia, Luca aveva seguito la fidanzata a fianco del padre ed ora erano in piedi davanti agli oltre trecento congressisti presenti a quel galà serale mentre la grande scritta “Costruiamo il futuro dal ato” troneggiava su di loro. Silvia lo prese a braccetto sorridendo mentre il dottor Menzi ava a Luca il microfono invitandolo a dire qualche parola.

Sebbene poco propenso a parlare, Luca aveva preparato un breve discorso, steso sotto la guida attenta di Silvia, che voleva mostrare come l’opera traeva spunto dai lavori di alcuni dei maggiori presenti: un chiaro ma efficace tentativo di catturarne la benevolenza. Il discorso poi proseguiva illustrando quali sfide progettuali era stato necessario superare e come ci fossero riusciti con sforzo e dedizione nel tentativo – parole testuali di Silvia che lo aveva obbligato ad inserire – di rendere il mondo un posto migliore per l’umanità.

Mai gli era sembrato di essere così falso, pensava Luca mentre pronunciava

quelle parole. Il progetto di Consonno poteva essere tante cose ma certo non voleva rendere il mondo un posto migliore. Ovviamente per un osservatore superficiale poteva davvero sembrare stupendo, armoniosamente inserito nel contesto e utile alla società.

Ma Luca conosceva bene i retroscena di quell’immensa opera. La sua realizzazione avrebbe comportato la deforestazione di ampie zone dei boschi che ora troneggiavano attorno al paese, la cementificazione di migliaia di metri cubi di terreno nonché la distruzione del torrente termale che sarebbe stato completamente prosciugato per permette all’opera di funzionare. Sebbene le restrittive normative comunali e provinciali fossero volte proprio ad impedire una simile speculazione, Luca, Silvia ed il padre, avevano lavorato duramente a suon di bustarelle e relazioni false per ottenere il permesso ai lavori.

“E poi…” - diceva sempre Silvia – “… l’acqua è tutta uguale. Nessuno si accorgerà mai se noi aspiriamo tutta l’acqua termale, invece di prenderne solo il 30% come previsto da quella stupida legge, e lasciamo scorrere via l’acqua di scarico una volta trattata per la depurazione…”

E quello era solo uno dei tanti aspetti illeciti del progetto che, se attuato, avrebbe portato le zone a valle del complesso ad inaridirsi e divenire meno produttive, se non addirittura inquinate, con conseguenti danni economici e di salute per i contadini che le abitavano. Il profitto era ciò che faceva muovere tutto, Luca lo aveva imparato bene. Eppure, quella sera, stava in piedi davanti all’uditorio spiegando i benefici che l’opera avrebbe portato per la gente della valle, di Olginate, della provincia, e per la regione intera.

Nel complesso il suo intervento duro non più di venti minuti, durante i quali Silvia non lo lasciò un solo istante mentre, senza smettere di sorridere, si faceva immortalare dai fotografi abbracciata a lui. Ma furono i venti minuti più lunghi che avesse mai vissuto.

Al termine del discorso venne il momento della ragazza che illustrò, brevemente, l’importo economico dei lavori e l’organizzazione che era stata prevista per la realizzazione della nuova Consonno concludendo che, una volta che fosse stato ottenuto il permesso di avviare i lavori, tutti ne avrebbero tratto ampi vantaggi economici. Luca sperava che tutto questo finisse presto...

Quella sera, prima di prepararsi per la serata, mentre Silvia faceva la doccia, aveva dato una occhiata alle previsioni meteo dell’area di Olginate. Un fronte temporalesco era in arrivo e avrebbe portato temporali su Consonno due giorni dopo. Per fortuna quell’estate era così piovosa! Sentiva il bisogno di evadere da quel mondo in cui non voleva più vivere e voleva chiedere aiuto e consiglio ad Elisa che sempre più di frequente ritornava nei suoi pensieri e compariva nei suoi sogni.

Ma fu proprio mentre il dottor Menzi concludeva l’intervento per dare il via al buffet che la bomba tenuta in serbo fino a quel momento venne sganciata. Con una pausa enfatica il grande architetto stava per sparare l’ultima cartuccia: “Sono felice di annunciare a tutti i presenti che la regione, la provincia ed il comune di Olginate, hanno dato ieri unanime parere favorevole a questo immenso progetto. La nuova Consonno sarà presto una realtà. L’inizio dei lavori è già stato fissato per i primi di ottobre quando le ruspe avvieranno la demolizione… scusate… il recupero strutturale…” – si corresse con un sorriso generale facendo riferimento alla pratica comune nell’edilizia per aggirare i vincoli paesaggistici di conservazione degli edifici che prevedeva di chiedere i permessi per la ristrutturazione per poi demolire il tutto pagando l’eventuale multa se scoperti e ricostruire come si voleva – “…di tutti gli edifici della vecchia Consonno. Come l’araba fenice muore e risorge più splendente di prima dalle sue ceneri, presto il paese abbandonato di Consonno nascerà più splendente che mai, a gloria e vantaggio di ciascuno di noi!”

Mentre Silvia abbracciava il padre, entusiasta per questo annuncio, e tutti i presenti si alzavano in piedi in una standig ovation, Luca si guardò attorno

spaesato. Se fino a quel momento aveva vissuto come due realtà separate la sua vita di lavoro e carriera e i suoi momenti di evasione con Elisa, ora le due realtà si incontravano.

Presto una delle due sarebbe dovuta soccombere e lui avrebbe dovuto fare una difficile scelta. Mentre la folla festeggiava i tre scesi dal palco, accalcandosi attorno a loro in un mare di strette di mano e complimenti ai quali Luca rispondeva meccanicamente, la sua mente era già proiettata al suo prossimo incontro con Elisa nel quale avrebbe dovuto dirle la verità sul suo lavoro e sul destino del suo paese…

CAPITOLO 15

14 Settembre 2013 – tardo pomeriggio

Era un Luca diverso dal solito quello che saliva a piedi la vecchia strada per il paese di Consonno mentre il cielo rimbombava di tuoni e lampi. Quel pomeriggio non aveva nemmeno inventato una scusa per uscire. Silvia era così felice del successo ottenuto alla convention che da due giorni non aveva fatto altro che parlare di tutte le persone famose che erano venute a complimentarsi per il progetto. Entusiasta gli aveva mostrato i tanti biglietti da visita di studi di fama internazionale che erano intenzionati ad avere un colloquio per delle proposte di lavoro e gli aveva raccontato di come addirittura un celebre architetto ci avesse provato sfacciatamente con lei quando fino a quel momento di successo non l’aveva nemmeno degnata di uno sguardo.

Tutto quello a Luca non interessava.

Ciò che lo preoccupava era piuttosto cosa avrebbe potuto dire ad Elisa per spiegarle quanto stava per accadere. Come avrebbe potuto dirle che le aveva mentito sul suo lavoro? E lei come avrebbe reagito nel venire a sapere che proprio lui era l’artefice del progetto che avrebbe distrutto l’unico luogo dove ancora poteva sentirsi “a casa”?

Con questo peso nel cuore, il giovane Luca Ferretti continuava la sua salita. Sebbene avesse le chiavi della sbarra sempre pronte nel cruscotto dell’auto, quella volta aveva deciso di fare l’intera salita a piedi, proprio come aveva dovuto fare la prima volta, nel tentativo di avere più tempo per trovare le parole giuste e nella sciocca speranza di rimandare il momento della verità.

Proprio mentre le prime gocce di pioggia iniziavano a cadere, Luca raggiunse l’ingresso del paese. Si guardò attorno, nel silenzio quasi sperando che Elisa, quella volta, non comparisse. Ma non fu così. Thomas, che aveva avvertito la sua presenza da lontano, gli corse, festoso come sempre, incontro. Dietro di lui, anch’ella correndo, arrivava Elisa, col viso felice di rivederlo. L’ultima volta che si erano lasciati, lei lo aveva guardato negli occhi e aveva mormorato, prima di scomparire, “…se solo potessi toccare qualcosa… ti darei un bacio…”

Sarebbe stato ancora così, dopo che lui le avesse parlato?

Elisa si fermò a nemmeno un metro da lui e disse: “Sono così felice di vederti, Luca! Non vedevo l’ora che tu tornassi! Sai… ormai… sei così importante per me… è così bello stare in tua compagnia…” Un inizio così mise in seria difficoltà Luca che, durante tutta la salita, era riuscito solo a raccogliere una piccola dose del coraggio necessario per rivelare la verità alla ragazza. Non riuscendo a dire nulla si limitò a rispondere con un sorriso. Fu Elisa a continuare: “In tutte le volte che ci siamo incontrati non ti ho mai fatto visitare la chiesa del paese. E’ davvero molto bella. Pensa che all’interno ci sono degli affreschi che risalgono al ‘300. Vuoi visitarla?” “Mi farebbe molto piacere…” – rispose il giovane sperando che nel corso di quell’incontro sarebbe riuscito a trovare la forza per parlare.

Mentre Elisa si avviava verso la chiesetta di San Maurizio che sorgeva ai margini del paese, Luca decise di fare il più possibile finta di niente sino a quando non si fosse creato il momento più opportuno. La vecchia chiesetta del paese, vista dall’esterno, non pareva essere molto diversa da uno dei tanti edifici religiosi disseminati nelle vallate del bergamasco e di tutte le altre montagne alpine. Mura in pietra squadrate, finestre piccole, un basso campanile a fianco con il tetto ricoperto di lastre in pietra ed una staccionata di legno marcito e rovinato dal tempo tutt’attorno. Il pesante portone in legno massiccio si aprì sui cardini arrugginiti con un sinistro scricchiolio mentre, da un buco in una delle vecchie grondaie, l’acqua cadeva in una grossa pozzanghera sulla sinistra

dell’entrata. I due ragazzi si fermarono all’ingresso della navata assaporando l’odore delle candele che ancora, dopo tanti anni, rimaneva nell’aria. Dalle finestre i lampi illuminavano per alcuni istanti l’interno della costruzione nella quale erano ancora disposti i banchi per i credenti anche se coperti da uno spesso strato di polvere. Luca estrasse dallo zaino la fedele torcia a batteria, che già aveva utilizzato nel corso delle visite precedenti, e fece scorrere la lama di luce sulle pareti. Di fronte a loro, ad una ventina di metri di distanza appeso alla parete dell’abside alle spalle dell’altare, un grande crocifisso troneggiava sulla stanza vuota. Dietro di esso, degli affreschi dai colori vivaci che, probabilmente vista la presenza del diavolo rappresentavano il giudizio universale, decoravano l’abside stessa.

Elisa gli indicò le pareti laterali della chiesa e, mentre Luca le illuminava, apparivano via via dipinti con scene di vita religiosa, santi ed episodi biblici. Per ciascuno di essi, Elisa sapeva illustrare alcune caratteristiche salienti che ne provavano la derivazione dallo stile giottesco. Seduto a terra di fianco a lei, sul freddo pavimento di pietra consunto dal tempo della chiesa, alla luce solo di una torcia, mentre fuori imperversava il temporale, Luca la ascoltava affascinato dall’entusiasmo della ragazza e dalla sua ione per l’arte. Era una situazione assurda ma al tempo stesso meravigliosa. Silvia considerava l’arte semplicemente una perdita di tempo se non si trattava di investimenti in opere rare. E, ad essere sinceri, anche lui non era mai stato particolarmente apionato da quell’argomento dato che lo aveva visto solo come una seconda materia di storia, che lui odiava, dove tutto si deve imparare a memoria e basta.

Ma come era diverso il modo di spiegarla di Elisa!

Non era solo la ione e l’amore che la ragazza vi instillava, ad attirarlo. Era il fatto che dalle sue parole, si comprendeva che l’arte era espressione di sentimenti, di pensieri, del periodo di tempo in cui gli artisti erano vissuti. Era il simbolo del tempo in cui fu realizzata. Era un modo di comprendere la storia. Era affascinante e, a volte, anche divertente…

“Forse ti sto annoiando…” – disse ad un certo punto Elisa dopo quasi venti minuti di spiegazioni su stili e colori. “Assolutamente no” – ribattè lui deciso – “Anzi… è bello vedere la ione che metti. Come fai a sapere tutte queste cose?” “Sai quando andavo al liceo, ho avuto due professori di storia dell’arte che erano davvero apionati della materia che insegnavano. Riuscivano a farcela vivere, a farci penetrare nei modi di pensare dell’epoca ed a comprenderne i sentimenti ed i pensieri che c’erano dietro le opere. E’ stato grazie a loro che mi sono innamorata dell’arte. Certo, non ne ho vista molta dato che non sono quasi mai uscita dal mio paese. Però ho letto un sacco di libri e di opere al riguardo che mi hanno reso la noiosa secchiona che vedi adesso…” – sorriso. ”Due professori?” – chiese Luca guardandola negli occhi. “Sì…” – rispose lei – “…la prima è stata la mia insegnante nel biennio. Era un’archeologa. Molto strana e particolare, a dire il vero… Ma apionata, innamorata della storia e dell’arte nel corso dei secoli. Fu lei a darci il primo approccio e farci conoscere davvero cosa significava studiare l’arte del ato. Poi, dopo un breve intermezzo con un professore sostitutivo, c’è stato il secondo. Completamente diverso dalla prima ma animato dallo stesso amore. Amante della letteratura e del teatro, ci aiutò ad entrare nella mente degli artisti, aiutandoci a comprendere che studiare storia dell’arte non è solo imparare a memoria opere, nome e date ma è ione, sentimento e pensieri… E’ stato grazie a lui che ha completato quello che la prima professoressa ha iniziato, che sono rimasta innamorata dell’arte. Ma, a proposito di pensieri, Luca…” – concluse Elisa improvvisamente sorprendendo il giovane di punto in bianco – “…Se vuoi parlarmi di quello che ti angoscia, ne sarei felice.” Il ragazzo la guardò stupito. Come si era accorta del suo tormento interiore? Era convinto di essere stato bravo a nasconderlo e di essere stato normale come al solito… Con Silvia funzionava sempre. “Come lo hai capito?” – le chiese dopo un lungo sospiro e due finti colpi di tosse. “Luca…” – rispose lei sorridendo come a dire ‘credi non ti conosca’ – “…da quando ci incontriamo ho avuto modo di conoscerti bene. Sei stato bravo, lo ammetto, a mascherare i tuoi pensieri. Forse questo tuo modo di fare funzionerà con chi non si interessa davvero di te e di quello che senti. Ma non con me… Cosa ti angoscia? Vuoi parlarmene?”

I sentimenti che Luca aveva iniziato a provare per quella ragazza, e che si erano alimentati nel corso del tempo, man mano che i due si incontravano, lo avrebbero portato a parlarle di qualsiasi cosa. Ma quella sera, quello che sapeva di doverle confessare, proprio non riusciva a venire fuori. Luca fece un profondo

respiro, deglutì, aprì più volte la bocca come per iniziare a parlare per poi richiuderla non riuscendo a trovare le parole giuste. Poi disse:

“Elisa… Da quando ti conosco non ho fatto altro che pensare a te. Man mano che ci incontravamo, ogni volta, cresceva in me il desiderio di rivederti. Aspettavo il momento del prossimo temporale per tornare qui e poter di nuovo parlare con te. Ci tenevo a poter stare con te, capisci? E, nel timore di perderti… ti ho mentito…” “Cosa vuoi dire?” – gli chiese di rimando Elisa preoccupata da quello che una frase simile poteva voler dire. Luca capì che quello era il momento che aspettava e temeva al tempo stesso. Non ci sarebbe stata un’altra occasione. E così, mentre fuori la pioggia continuava a cadere, nella buia chiesa abbandonata del solitario paese di Consonno, il giovane Luca Ferretti decise di liberarsi del peso che portava dentro, sperando che la ragazza che lo ascoltava potesse perdonarlo.

Ma non fu così semplice.

Elisa lo ascoltò in silenzio sino alla fine, mentre Luca le spiegava che le aveva mentito solo… solo per non perderla, per non farla soffrire. O almeno era quello che cercava di dire. Ma parlare era sempre più difficile perché, man mano che spiegava la verità su Consonno, il suo progetto che di lì a poco avrebbe portato alla distruzione del paese, ed il suo vero ruolo nella vicenda assieme… oh Dio… assieme alla fidanzata con cui viveva, il viso della ragazza si rigava di lacrime, sempre più abbondanti che lui non poteva, in nessun modo, asciugare.

Quando smise di parlare, dopo averle confermato che le squadre di demolizione sarebbero arrivate entro tre settimane, rimase in attesa che lei dicesse qualcosa. Elisa continua a guardalo in silenzio. Il volto rigato dalle lacrime e le labbra tremanti dal dolore. “Ti prego, scusami…” – le disse lui sollecitando una risposta qualsiasi dalla ragazza. “Mi hai fatto credere di essere un universitario che collaborava con uno studio di architettura…” – iniziò lei con voce decisa, la rabbia che traspariva dalle parole – “…mi hai detto che eri qui solo per un

progetto di ricerca. Mi hai parlato di sogni, ideali, progetti per cambiare il mondo… Ed ora di punto in bianco mi dici che, invece, sei un uomo in carriera, con una fidanzata, che vive per il lavoro e che sta per distruggere la mia… la mia casa… e questi stupendi boschi, per profitto. Come puoi pretendere che ti scusi, così di punto in bianco? Ma chi sei veramente? Dici di tenere a me, ma in tutti questi mesi mi hai mentito! Mi hai ingannata! Venivi qui, ad ascoltare la povera ragazza sola, con il suo stupido cane fantasma, per… per cosa? Per quale motivo? Ti facevo pena? Ti sentivi in colpa? Volevo qualcuno con cui vantarti? Ti divertivi, grande architetto?” “Io venivo perché volevo vederti! Volevo stare con te!” – gridò Luca disperato. “Davvero?” – ribattè lei con rabbia – “E allora perché non dirmi la verità? Perché raccontarmi tutte quelle bugie?” Luca cercò di mettere ordine nel suo animo. Fissando il pavimento, rispose mettendoci tutto il sentimento di cui era capace: “Perché avevo paura di perderti… perché tu mi hai fatto scoprire chi sono davvero, chi ero ed avevo dimenticato. Tutto quello che ti ho detto di me era vero. Cioè ero io ma mi ero perso… Tu mi hai fatto ritrovare…” Un discorso certo non molto chiaro, pensò Luca spaventato all’idea di perderla, cercando di calmarla e convincerla della bontà dei suoi motivi e sentimenti. Ma la ragazza non aveva intenzione di credergli. “Sono stata sola per tanti anni, Luca… Quando sei arrivato credevo fossi un dono da quel cielo che penso mi abbia dimenticata. Avevi riportato la gioia nel mio cuore. E, forse… anche qualcosa d’altro… Ma ora… vattene! Non voglio vederti più… Mi hai mentito, Luca Ferretti, proprio tu che con me hai parlato tante volte di onestà e sincerità. Non ti credo… Vattene… E non tornare mai più qui…” – e con queste parole la giovane si girò di spalle continuando a piangere.

Luca rimase immobile in piedi in mezzo alla navata. Non sapeva cosa dire. Il più terribile degli scenari che aveva immaginato quel pomeriggio salendo al paese aveva trovato conferma e si era realizzato e lui non sapeva come porvi rimedio.

“Elisa, ti prego…” – mormorò. “Vattene Luca! Non lo capisci? Torna a casa da Silvia e parla con lei, se proprio hai bisogno di qualcuno con cui confidarti. Finchè non smette di piovere io non posso scomparire. Ti prego di andartene tu…”

Senza riuscire a dire nulla, Luca raccolse il suo zaino da terra. Prese la torcia che aveva appoggiato sopra di un banco, e, senza nemmeno indossare l’impermeabile, uscì dalla chiesa ritrovandosi immerso nelle nuvole ed in una fitta pioggerella che in pochi istanti lo bagnò da capo a piedi. Senza nemmeno accorgersi di essersi inzuppato, il grande architetto Luca Ferretti, il progettista e direttore dei lavori della nuova Consonno, l’erede designato del dottor Menzi, il nuovo talento italiano, prese a discendere la vecchia strada che lasciava il paese. Una strada che, presto, avrebbe sentito nuovamente il rombo di auto e camion sopra di essa. Un rombo che avrebbe portato con se la morte del paese e che, forse, aveva già portato quella del cuore del giovane che oggi la percorreva lento e solitario in discesa.

CAPITOLO 16

14 Settembre 2013 – sera

Mai tornare a casa fu più triste e difficile per Luca. Parcheggiata l’auto nel garage sotterraneo, Luca rimase per qualche minuto seduto al posto di guida cercando di riordinare le idee. Durante il viaggio di ritorno, aveva pianto, disperato per aver perso l’unica persona che l’aveva fatto rinascere. L’unica persona che apprezzasse ciò che sapeva essere davvero. L’unica che realmente gli leggeva dentro, nel suo io interiore.

Come aveva potuto essere così stupido? Come aveva potuto mentirle?

Continuando a porsi queste domande, Luca diede un vigoroso colpo con entrambi i pugni sul volante facendo risuonare il clacson nel garage deserto poi, sbattendo la portiera, si avviò verso l’ascensore.

“Dove diavolo sei stato?” - gli urlò a mo’ di benvenuto Silvia. La ragazza, sdraiata sul divano del salotto strategicamente posto davanti al grande camino, ovviamente spento data la stagione, indossava una vestaglia di seta rosa e teneva in mano un bicchiere di Martini Dry con l’olivetta. L’ira traspariva dal suo volto mentre lo fissava con occhi di fuoco aspettando una risposta. Quando si accorse dello stato in cui Luca versava, bagnato fradicio e sporco, la sua ira crebbe ancora di più. “Ti ho chiesto dove diavolo sei stato!!” – gridò ancora più forte. “Questo pomeriggio sei sparito e ti abbiamo cercato dovunque! Mio padre aveva bisogno di parlarti per organizzare il via dei lavori e ti ha cercato il capocantiere e il direttore della squadra elettricisti. Tu dove accidenti eri? Ti avrò lasciato almeno trenta messaggi alla segreteria. A cosa serve un cellulare se poi non

rispondi??”

Luca non aveva la forza per rispondere nulla. Senza alcun interesse estrasse dalla tasca il cellulare bagnato e lo accese. Per un puro miracolo funzionava ancora e, dopo qualche secondo, come una sinfonia, iniziarono ad arrivare le decine di messaggi che Silvia gli aveva lasciato. “Lo avevo spento…” – rispose mentre lo strumento elettronico continuava a suonare un’aria di Mozart. “Spento?” – chiese Silvia alzandosi dal divano e avvicinandosi a lui. “Luca! Io non so cosa ti stia succedendo! Fino a poco tempo fa eri preso da questo lavoro come non mai. Animato dal sacro fuoco ed a un o dal successo. Ti rendi conto che stai rischiando di buttare tutto alle ortiche? Ti rendi conto che siamo ad un o dalla ricchezza e dalla fama e tu vai in giro non so dove come un idiota qualunque??”

Luca la guardò quasi spaventato. Non aveva mai visto Silvia così arrabbiata. Stringeva tanto il bicchiere tra le dita che, ad un certo punto, il sottile calice si spaccò e la ragazza lo gettò a terra riempiendo il pavimento in legno di frammenti luccicanti come diamanti.

“Perché non rispondi?” – urlò ancora poi, vedendo che lui la continuava a fissare con occhi spenti disse: “Sentimi bene, Luca Ferretti, non mi importa dove tu sia stato. Non mi interessa se sei andato a comprare le sigarette, sei andato al cinema o sei stato a trovare la tua amante, se anche ce l’hai. Ma non ti permetterò di rovinare la mia carriera! Ho aspettato la gloria che mi deriverà da questo progetto per tutta la mia vita e non sarai tu a buttarla nel cesso! E’ chiaro?”

Dopo questo discorso, Luca la fissò attento.

Forse, per la prima volta nella vita, vide chiaramente quello che aveva attorno: una vita vuota fatta di persone senza valori.

Per un istante si stupì che quella potesse essere davvero la vita che aveva costruito per sé. Ma, al tempo stesso, fu proprio in quel momento che capì cosa doveva fare.

“Chiarissimo…” – rispose con voce più decisa – “Sei stata molto chiara, Silvia. Ho dedicato anni ad arrivare dove sono e adesso mi hai aiutato a vederci chiaro, finalmente. Mi dispiace di essere sembrato strano in questo periodo. Ora non ho dubbi in merito”.

La ragazza lo fissò stupita da quel cambio repentino di comportamento. Lo sguardo di Luca ora non trasmetteva più tristezza e dolore come quando era entrato. Ora i suoi occhi brillavano di una determinazione che, forse, non aveva mai visto. Interpretando questo cambiamento come un rinsavimento del fidanzato, Silvia si acquietò e si diresse verso il minibar del salotto per servirsi un altro drink.

“Sono felice che ti sia tutto chiaro, Luca… Francamente mi hai preoccupata in questi giorni. Ma sono disposta a are sopra a tutto e a ricominciare da zero se sei deciso”. Il ragazzo rispose: “Sono deciso. Domani in ufficio torneremo in sella. Ho avuto un periodo difficile per dei pensieri che mi tormentavano ma adesso è tutto risolto, grazie a te…”

Silvia sorrise a quella risposta e gli offrì da bere ma il ragazzo rifiutò preferendo recarsi in camera per cambiarsi e farsi una doccia mentre lei ordinava la cena al solito ristorante al piano terra del condominio. L’avrebbero consegnata direttamente a casa entro venti minuti. Luca entrò nell’ampia stanza da letto, arredata con mobili dallo stile moderno ed elegante. Dopo essersi spogliato, aprì l’acqua nella grande doccia di cristallo e, coperto dal rumore dell’acqua che scrosciava, sollevò la cornetta del telefono di servizio della camera. Il numero lo sapeva ormai a memoria, dal momento che nelle settimane ate diverse volte

l’aveva composto per poi riattaccare prima che qualcuno dall’altro lato rispondesse. Il timore l’aveva sempre fermato.

Ma non questa volta. L’atteggiamento e le parole di Silvia l’avevano convinto. Aveva perso Elisa ma non avrebbe permesso a quella vita che aveva scelto sino a quel giorno di portargli via anche la sua anima.

Il telefono squillò un paio di volte poi una voce rispose dall’altro capo del filo: “Comando guardia di finanza di Milano. Sono il brigadiere Serra, con chi desidera parlare?” Per un istante Luca rimase senza parlare, incerto. Ma fu solo un attimo. Prima ancora che la voce all’apparecchio chiedesse nuovamente chi fosse a chiamare, disse: “Sono l’architetto Luca Ferretti, primo assistente dell’architetto Menzi. Vorrei un appuntamento con il capitano Venturi. Ho delle cose importanti da dirgli…”

CAPITOLO 17

4 ottobre 2013 – mattina presto

Arrivarono alle prime luci del giorno. Improvvisamente il silenzio del bosco fu infranto da un rombo sordo che andava crescendo sempre di più. Gli uccelli, che fino a quel momento avevano riposato tranquilli nei loro nidi, si alzarono in volo spaventati lanciando i loro striduli richiami nell’aria. La terra iniziò a vibrare mentre grosse ruote e cingoli la mordevano nella loro marcia di avvicinamento al paese. Mentre il rumore andava facendosi sempre più forte, per chiunque si fosse trovato nel paese di Consonno divenne chiaro cosa stava succedendo.

Una fila enorme di camion, automezzi, scavatori ed altri mezzi da lavoro stavano risalendo la strada verso l’ingresso del paese. All’inizio della colonna, un grande fuoristrada nero guidava la marcia. Una volta che la massa di uomini e mezzi fu all’altezza del vecchio belvedere, il fuoristrada si fermò e quattro persone ne scesero. Riconoscibili per i loro caschetti bianchi nel gruppo sempre più numero di quelli gialli degli operai, il grande Architetto Menzi accompagnato dalla figlia, dal rinato professionalmente primo assistente Luca Ferretti e dal capocantiere, fecero raccogliere gli uomini in cerchio attorno a loro. Quando il gruppo di operai, che dovevano essere quasi una sessantina, ebbe fatto silenzio, il dottor Menzi iniziò a parlare:

“Oggi siamo qui per costruire il futuro!” – disse mentre un applauso caloroso scoppiò spontaneo nella folla. “Oggi hanno inizio i lavori che trasformeranno questa vallata da luogo di abbandono, degrado e perdizione in oasi di pace e prosperità. Voi siete il mezzo per rendere possibile tutto questo! E allora… diamo inizio ai lavori della nuova Consonno!”

Altro scroscio di applausi. Mentre una prima squadra di operai si accingeva a scaricare i mezzi da lavoro dai camion, altri gruppi di uomini avevano iniziato ad allestire il cantiere sistemando le baracche ufficio, pronto soccorso, mensa e bagni, nel terreno che altri uomini stavano ripulendo a fianco dell’albergo. Inutile descrivere il sorriso di gioia che illuminava il viso dell’architetto Menzi in quel giorno. Sua figlia, anch’essa raggiante, teneva a braccetto Luca che, con in mano una planimetria dell’aera, discuteva con il capocantiere su come procedere alla sistemazione delle baracche.

I giorni ati erano stati pieni di attività per Luca. Ritornato alla grande in ufficio, aveva ripreso a lavorare a pieno ritmo per definire tutto per quel grande inizio. Sebbene diversi giorni di pioggia e tempo instabile si fossero presentati durante quelle due settimane trascorse, Luca non aveva mai abbandonato l’ufficio assieme a Silvia, definendo ogni dettaglio rimanente dell’opera mastodontica che stavano per iniziare.

Proprio la sera prima, durante l’ultima riunione con lo staff con Silvia e con il padre di lei, Luca aveva avuto conferma dall’ultima ditta che aveva in appalto i lavori, della disponibilità ad iniziare la mattina dopo.

Quel giorno lui e Silvia si erano alzati molto presto. Il tempo non era dei migliori ma, almeno rispetto alla settimana che era appena finita, non pioveva. Nulla, comunque, avrebbe potuto fermare la marea di uomini che stava confluendo al paese di Consonno che, finalmente dopo quasi mezzo secolo, era pieno di vita ed attività. Già alcune motoseghe erano al lavoro per abbattere gli alberi che erano cresciuti nel parco delle fontane in modo da prepararlo a divenire il deposito materiale del cantiere.

Dopo che il capocantiere si fu allontanato per andare a seguire i suoi uomini, Silvia prese per mano Luca e lo portò fino al vecchio parapetto della zona panoramica. “Guarda…” – gli disse indicando il cantiere che ferveva di attività sotto di loro – “ … questo è merito nostro!” Luca si guardò attorno, quindi,

sorridendo si voltò verso di lei e le accarezzò la guancia. “No, Silvia…” – disse dolcemente – “…è merito tuo se mi hai aiutato a capire cosa è davvero importante.” “Complimenti Luca…” – disse la voce del dottor Menzi alle loro spalle. I due giovani si voltarono mentre il vecchio architetto li raggiungeva con o arzillo e svelto. Pareva che quel giorno lo avesse ringiovanito almeno di dieci anni. “Quest’opera ci darà gloria e successo! Oggi è un grande giorno!”

Un boato attirò la loro attenzione.

Alcuni operai avevano iniziato ad abbattere le saracinesche in ferro che chiudevano i negozi abbandonati della galleria commerciale del minareto. Era necessario verificare che l’edificio fosse sgombro prima di iniziare la demolizione. Poteva esserci un qualche senzatetto all’interno e non si poteva rischiare.

Mentre gli addetti della sicurezza entravano nell’edificio seguiti e controllati dal capocantiere, Una grande gru che portava appesa al braccio una palla da demolizione si fece avanti verso la costruzione. Secondo le previsioni del crono programma dei lavori, tutta la zona sarebbe stata spianata entro una settimana. In poco tempo della vecchia Consonno non sarebbe rimasto nulla e avrebbe avuto inizio il futuro sognato da Menzi.

Pesanti gocce di pioggia iniziarono a cadere sul cantiere mentre venivano portati avanti i lavori preparatori per la messa in sicurezza dell’area in vista della prossima demolizione. Luca aprì un grande ombrello rosso che recava la scritta “L’Oasi di Consonno: il vostro futuro”. Era stata una idea di Silvia farne preparare un centinaio che erano stati distribuiti nel corso della cena con alcune autorità, con gli sponsor e con i titolari delle imprese esecutrici dei lavori, che si era svolta tre giorni prima in un famoso ristorante di Varese segnalato sulle guide del Gambero Rosso. Ben riparati, i tre progettisti, rimasero a guardare mentre la rete arancio che delimitava l’area dei lavori, veniva stesa attorno all’area del minareto.

Proprio quando gli ultimi addetti alla sicurezza uscivano dall’edificio, confermando che si poteva iniziare la demolizione, alcune auto apparvero lungo la strada e si diressero verso il paese. Si trattava di tre auto della Guardia di Finanza con i lampeggianti accesi. “Che accidenti ci fanno questi qui?” – borbottò con un filo di preoccupazione nella voce il dottor Menzi mentre le tre macchine si fermavano ad una decina di metri da loro e numerosi militari in divisa ne scendevano.

Dalla vettura di testa scese anche un uomo in abiti civili che, accortosi della presenza dei Menzi e di Luca si avvicinò loro cercando di ripararsi sotto il piccolo ombrello tascabile che un militare gli aveva prestato. Sembrava essere il classico pubblico ministero. Occhiali neri, soprabito beige, cravatta rossa ed una leggera barbetta del giorno prima. Non doveva avere più di quarant’anni.

“Buongiorno. Sono il dottor Castellani, questore di Varese. E’ lei il dottor Menzi?” – chiese presentandosi. “Sono io” – rispose il vecchio sulla difensiva – “Come posso aiutarla?” “Sono qui, dottor Menzi, per notificare a lei e sua figlia questo mandato di comparizione. Siete ufficialmente indagati per truffa ai danni dello stato, falso in atti d’ufficio, corruzione e minacce. Altri capi di imputazione sono questo momento al vaglio della magistratura che sta analizzando una ponderosa documentazione, che ci è stata fatta pervenire, nella quale sono descritte molte attività delle quali dovrete rendere conto. Da questo momento il cantiere è sotto sequestro. Vi invito a seguirci al comando della finanza dove dovremo farvi delle domande. Se volete potete contattare il vostro avvocato durante il ritorno a Varese”.

Una nota di soddisfazione era evidente nella voce di quell’uomo. D’altra parte era da tempo che cercava invano di mettere sotto indagine il grande architetto Menzi e la sua impresa. Troppe volte aveva dovuto desistere a fronte dell’omertà di coloro che erano stati minacciati o del silenzio di quelli che si erano venduti. La documentazione che Luca Ferretti gli aveva fatto pervenire due settimane prima dopo che si erano segretamente incontrati, e che il giovane architetto

aveva continuato a raccogliere lavorando sino a tardi in ufficio, era assai dettagliata e precisa. Forniva nomi dei corrotti, cifre pagate con date e coordinate bancarie anche di politici influenti; comprendeva dettagli sulle truffe nei bilanci per ottenere maggiori sovvenzioni e rimborsi dallo stato e dagli enti pubblici e riportava persino registrazioni audio degli incontri per i lavori di Consonno con le varie ditte di operai che erano disposte a farsi corrompere per risparmiare sui materiali e sulle norme di sicurezza. Ce n’era abbastanza per far crollare per sempre l’impero dei Menzi.

Non si potrebbe descrivere il viso del grande architetto mentre i militari della finanza facevano uscire gli operai dal cantiere e li radunavano nella piazzetta davanti alla vecchia chiesa per dare loro istruzioni. Il vecchio Menzi stringeva tra le mani l’ombrello sul quale spiccava orgoglioso il motto del nuovo Consonno, come se non volesse lasciar andare quell’ideale, senza riuscire a dire una parola tanta era stata la sorpresa. Fu Silvia a reagire per prima con il suo solito tono arrogante e ostile:

“Lei non sa chi siamo noi!” – disse puntando il dito verso il questore. “Si sbaglia signorina…” – la corresse quest’ultimo senza perdere il sorriso compiaciuto con cui si era presentato – “…io so benissimo chi siete voi. Ed è proprio per questo che sono qui”. Fu quindi la volta del padre che tentò con un altro di minaccia: “Lei sta facendo un grosso sbaglio! Il mio caro amico, il senatore Farnani, parlerà con il suo capo e sistemerà le cose”. “Credo invece…” – rispose ancora una volta il questore – “…che il senatore Pagano abbia altri problemi per la testa. Sappiamo tutto delle tangenti che gli avete versato negli ultimi anni e di tutti i favori che vi ha fatto. In questo momento i miei colleghi della procura di Roma gli stanno notificato lo stesso mandato di comparizione che io ho portato a voi. Ma, per favore, adesso lasciamo perdere queste discussioni. Qui piove e sta calando la nebbia. L’umidità sta diventando insopportabile. Come vi ho già detto avremo modo di parlare di tutto in questura. Vi prego di seguirmi senza fare storie”.

Luca, approfittando della confusione generata dall’arrivo della finanza, si era

allontanato dal gruppo. Per quanto fosse orgoglioso di quello di che aveva fatto, non aveva intenzione di affrontare direttamente la fidanzata e il padre di lei. Almeno non adesso. Da quando aveva iniziato a collaborare con la questura nell’indagine sulle malefatte della famiglia Menzi,il questore ed i suoi collaboratori avevano concordato che Luca avrebbe testimoniato al processo. Lui si era detto disponibile a tutto ed aveva raccolto le preziose e scottanti informazioni che avevano permesso di ottenere quella vittoria. Avrebbe avuto modo di scontrarsi ancora con Silvia e suo padre. Ma non quel giorno. O almeno lo sperava…

Aveva assistito allo scambio di battute tra il questore ed i due Menzi da sotto un piccolo pino, cresciuto proprio a fianco della vecchia pagoda cinese che ornava il parco delle fontane voluto dal conte Bagno a fianco della quale avevano parcheggiato quando erano arrivati.. Gli operai stavano tutti raggiungendo la piazzetta dove i finanzieri li stavano raccogliendo e lui stava per incamminarsi a sua volta per unirsi a loro quando una voce gli disse:

“Sei stato tu a far questo?”

Luca avrebbe riconosciuto quella voce tra mille. Al suo fianco riconobbe subito Elisa, come sempre bellissima, che sorrideva guardando i militari apporre i sigilli al cantiere. “Si” -, rispose Luca senza voltarsi e senza aggiungere altro. “Era il tuo progetto. La tua vita…” – osservò lei senza chiedere nulla. “”Hai detto bene… Era… Ma tu… tu mi hai insegnato che esistono cose più importanti da ricercare nella vita. E… una di queste cose… sei tu…”. Senza darle il tempo di rispondere, Luca continuò: “In questi mesi mi hai insegnato a guardare dentro di me riscoprendo quello che ero e confrontandomi con quello che invece sono diventato. Questa analisi mi ha sconvolto. Il Luca che ha progettato tutto questo non sono io. Non voglio più esserlo. E… so che questo è assurdo… ma sei stata tu a fare questo e per me… sei la persona più importante della mia vita.” Elisa lo guardò senza parole, commossa e profondamente turbata per quelle parole così sentite. “Mi dispiace per quello che ti ho detto l’ultima volta che ci siamo visti…” – cominciò la giovane non sapendo cosa dire – “… sono stata così dura

e… cattiva con te.” “No, avevi ragione” – rispose lui – “Avevo bisogno di sentirmi dire quelle cose”.

Mentre avveniva questo scambio di battute, Luca non si era accorto che Silvia accompagnata dal padre e dal questore si erano avviati verso le auto che stavano parcheggiate a pochi metri da loro ed avevano sentito tutto. Come era ovvio fu Silvia ad aggredire per prima:

“Sei un bastardo!” – gridò contro il fidanzato - “Come hai potuto tradirmi in questo modo? Come hai potuto fare questo a mio padre? Hai rovinato la nostra vita e la tua!” “No!” – ribattè lui deciso e secco – “L’ho salvata…” Silvia parve non sentire nemmeno la risposta del giovane e continuò più forte e decisa: “Hai fatto tutto questo per cosa? Per questa puttana? E chi è lei? La tua amichetta da due soldi? Vestita così deve essere una battona!” – urlò Silvia girandosi verso Elisa.

Sentendosi offesa in questo modo, la ragazza non si trattenne. Fece due i avanti e sferrò a Silvia uno schiaffo che si sentì a distanza e che lasciò tutte e quattro le dita segnate sulla sua guancia abbronzata. Poi, rendendosi conto di quello del miracolo che era appena accaduto, si ritrasse afferrandosi la mano come non credendo che potesse essere la sua. Anche Luca era rimasto esterrefatto di quell’evento. La giovane che per tanto tempo era stata solo un’ombra nella nebbia, ora aveva di nuovo la capacità di toccare, afferrare, sentire. Mentre il questore faceva salire in macchina la giovane Menzi per impedirle di reagire e scatenare una rissa si raccomandò a Luca perché si presentasse in questura il giorno successivo per formalizzare tutti i verbali e le dichiarazioni.

Il giovane nemmeno lo sentì.

Lui ed Elisa continuavano a fissare la mano con cui la ragazza aveva colpito Silvia come se fosse una reliquia.

“L’ho… l’ho colpita!” – disse quasi gridando di gioia Elisa. “L’hai fatto!” – confermò Luca ancora incredulo – “ed è stato bellissimo!” Elisa si avvicinò al ragazzo e, tremando per l’emozione, gli sfiorò il volto con la mano avvertendo la ruvida barba di due giorni sotto le dita. “Posso toccarti!” – disse lei commossa iniziando a piangere dall’emozione.

Per un istante i due giovani rimasero a guardarsi poi, come una diga che cede sotto la forza di una piena che più non riesce a trattenere, si gettarono l’uno tra le braccia dell’altro. Luca la prese in braccio e, mentre la pioggia bagnava i volti di entrambi e Thomas graffiava i pantaloni di Luca alla ricerca di coccole senza rendersi conto di quello che anche a lui stava accadendo, le labbra dei due ragazzi si sfiorarono, prima timidamente poi apionatamente si unirono dando sfogo a quell’amore che li aveva finalmente uniti...

CAPITOLO 18

4 ottobre 2013 – mezzogiorno

Gli operai avevano già lasciato il cantiere da tempo, ritornando in città dopo che gli uomini della finanza avevano apposto i sigilli a tutti i mezzi, le baracche della strada stessa di accesso a Consonno. Dopo il caos di quella mattina, la montagna su cui il paese sorgeva era tornata tranquilla e silenziosa. Anche la pioggia aveva smesso di cadere ed era rimasta solo una fitta foschia per colpa delle nuvole basse. Luca ed Elisa erano bagnati fradici ma sembravano non accorgersene nemmeno.

Come bambini nell’ora della ricreazione seguiti da Thomas che non smetteva di abbaiare, si rincorrevano tra gli alberi e nei prati, si afferravano e si gettavano a terra, incuranti del fango che li sporcava da capo a piedi, abbracciati per baciarsi di nuovo.

Anche se nessuno dei due sapeva spiegarsi cosa fosse accaduto o per quale motivo, era stato fatto loro un grande e meraviglioso dono che non volevano perdere. Fu solo quando Luca, senza farci caso, oltreò il confine del paese che Elisa si fermò spaventata. Tutte le volte, infatti, che negli anni trascorsi aveva fatto la sua comparsa nel paese abbandonato, non le era mai stato possibile lasciarlo. Alcune volte ci aveva provato, specie all’inizio, ma non appena metteva piede oltre la piazzola dove un tempo sorgeva il grande portale medievale di accesso, semplicemente scompariva per poi riapparire al successivo giorno di pioggia e nebbia.

Luca si voltò indietro e, quando vide l’espressione di terrore sul volto della

ragazza, tornò indietro. Le prese dolcemente la mano mettendosi al suo fianco e le disse: “Facciamolo insieme.” Lei lo guardò per un istante poi, senza dire una parola, annuì. Luca contò sino a tre, lentamente, poi fece il primo o, seguito da un altro e da un terzo ancora.

Quasi senza rendersene conto, i due giovani furono presto fuori dal paese. Raggiunta la prima curva della strada, quando ormai Consonno era fuori dalla vista, coperto dagli alberi del bosco, che si fermarono. Elisa si voltò lentamente poi, piangendo, si inginocchio a terra. Lui si mise al suo fianco abbracciandola, quindi le rialzò dolcemente il viso, le deterse le lacrime con la punta delle dita sporche di fango, e le disse: “Adesso inizia la nostra vita… Sei pronta a scoprire il mondo assieme a me?” Lei rimase immobile ancora per qualche secondo poi, deglutendo per l’emozione, gli rispose: “Portami via con te…”

Il giovane non se lo fece ripetere due volte. In un attimo se la caricò sulle spalle e prese a scendere lungo la strada mentre Elisa rideva tenendosi stretta a lui. Alle loro spalle Thomas li seguiva da vicino, anche lui bagnato e sporco di fango.

Ma quella terra che per molti sarebbe stata solo un fastidio da lavare il prima possibile, per Luca ed Elisa aveva invece ben altro significato: era il simbolo della libertà e della vita che quel giorno rinasceva per entrambi.

Impiegarono nemmeno un’ora per arrivare alla fine della strada. Ma ci misero molto di più per trovare il modo di tornare a casa. Luca quella mattina era arrivato in cantiere con il fuoristrada dell’architetto Menzi e dovette scarpinare non poco per arrivare ad una casa dove, nonostante lo stupore e la preoccupazione della padrona di casa visto l’aspetto dei due ragazzi, riuscì a chiamare un taxi che arrivò in una decina di minuti. Convinto il conducente a lasciarli salire sull’auto dopo che si furono lavati nella fontana del cortile ed ebbero steso un telo sui sedili, Luca disse al taxista di portarli a Lecco, in via del Sagrato, dove c’era uno dei suoi negozi preferiti, il Marasi Abbigliamento, dove avrebbero potuto acquistare abiti nuovi e puliti.

Inutile dire che per tutto il viaggio Elisa non fece altro che guardarsi attorno stupendosi per il progresso ed i cambiamenti che il mondo aveva fatto nei trent’anni nei quali era rimasta prigioniera nel paese abbandonato. Luca, al suo fianco, le teneva la mano e le descriveva ciò che vedevano are oltre i finestrini.

Arrivati in centro a Lecco, il taxi si fermò di fronte alla all’elegante negozio che da oltre 40 anni sorgeva nella cittadina. La diffidenza della commessa del negozio di abbigliamento in cui entrarono, si trasformò presto in completa collaborazione e disponibilità non appena Luca estrasse la sua carta American Express Oro che dava un credito senza limite di spesa. Elisa non stava in sé dalla gioia. Tutto per lei era nuovo, bellissimo, affascinante e Luca non poteva fare a meno di guardarla mentre si emozionava anche solo per la vetrina davanti a cui si era fermata. Anche se Elisa era una ragazza di altri tempi, nel vero senso della parola, la ione per lo shopping non era minore di quella delle ragazze dei giorni odierni al punto che i due giovani trascorsero oltre due ore nel negozio. Elisa coinvolse Luca in ogni scelta: dalla biancheria intima, che la lasciò sorpresa quando la commessa le mostrò gli ultimi arrivi della moda dai tanga ed i perizoma, ai pantaloni ed ai top che provò in gran quantità. Sebbene la moda fosse cambiata molto nel corso degli anni, la ragazza mostrò un gran senso gusto nella scelta optando, alla fine, per un top di Moschino beige senza maniche con collo ampio, scollatura sul retro e tante frange dello stesso colore che ne decoravano in modo originale la parte superiore. Abbinò a questo un paio di semplici pantaloni di cotone bianchi. La scelta di questi due colori faceva risaltare in maniera maggiore il biondo dei suoi capelli. Prese le proprie decisioni, anche ascoltando i consigli di Luca sul tipo di vestiti, fu la volta del giovane , dietro suggerimento della ragazza, optò per uno stile sportivo con dei pantaloni grigio chiaro di cotone, ed una T-shirt a maniche corte verde oliva sulla quale campeggiava la scritta “Save the green”, che lui reputò molto azzeccata considerato quello che era accaduto proprio quella mattina.

Rimessi a nuovo, i due ritornarono al taxi e Luca chiese al tassista di portarli alla vicina frazione di Abbadia Lariana, nella quale si trovava una spiaggetta di cui

poco erano a conoscenza. Al giovane, infatti, non era sfuggito che la temperatura in città era notevolmente più alta che sulla montagna di Consonno e che il cielo, che fino a poche ore prima gettava pioggia, ora si andava aprendo e stava per spuntare il sole.

Quello sarebbe stato il primo giorno in cui la ragazza che amava - e questa volta sentiva di poterlo dire davvero – avrebbe rivisto quello spettacolo dopo tanto tempo e lui voleva che potesse apprezzarlo non da un posto qualunque ma da uno speciale. Nel giro di dieci minuti l’auto li scaricò vicino alla spiaggia libera, caratterizzata da lisci ciottoli bianchi. Qui Luca si fece dare il numero di telefono del tassista il quale si allontanò garantendo che quando lo avessero chiamato sarebbe tornato a riprenderli. La mancia lasciatagli da Luca garantiva che lo avrebbe fatto senza farli aspettare troppo.

Elisa era raggiante di gioia. Non appena vide l’acqua del lago e la spiaggia che ospitava solo alcuni bagnanti visto il tempo, si tolse le nuove scarpe di tela che aveva acquistato e si mise a correre verso la battigia. Luca la seguì con calma gustando con lo sguardo lo spettacolo della giovane che gridava mentre le piccole onde le bagnavano i piedi. La raggiunse e, porgendole un sacchetto che aveva preso, senza essere visto da lei, nel negozio di abiti, le disse: “Penso che questo ti potrebbe servire…”

La ragazza aprì la busta ed estrasse un bikini Chiarugi nero molto particolare. Mentre il top era abbastanza classico, forse un poco ridotte le coppe dei seni di forma triangolare unite da un semplice cordoncino, quello che rendeva originale era lo slip. Costituito sul modello di un tanga, con i nodi dei cordoncini sui fianchi, presentava sulla parte davanti del cordoncini argentati che partivano dai fianchi e si univano al centro dove un nodo argentato teneva ferma una piccola piuma anch’essa nera rivolta verso l’alto. “Non ho mai messo uno di questi…” – disse Elisa guardando il costume tra le mani. “Allora potresti provare, non credi?” – le chiese lui con un sorriso indicando una cabina vuota a pochi metri di distanza.

La ragazza accolse la proposta e, dopo nemmeno cinque minuti, uscì nuovamente sulla spiaggia dove Luca, nel frattempo, si era tolto i vestiti rilevando a sua volta un boxer da bagno elasticizzato dello stesso colore del vestito della ragazza. Al vederla con quel costume Luca rimase senza parole: era davvero bellissima. Per quanto la pelle di Elisa fosse pallida per il tanto tempo senza prendere il sole, il costume dava risalto alle forme armoniose del suo corpo e la piuma nera dello slip rivolta verso l’ombelico, aggiungeva un tocco di eros di cui la ragazza non aveva comunque bisogno.

“Come mi trovi?” – gli chiese timidamente sulla porta della cabina. “Sei bellissima…” – rispose Luca dandole un bacio. “Vieni!” – le disse quindi – “Abbiamo poco tempo!”.

Tenendola per mano, il ragazzo la condusse con o svelto lungo la riva del lago, attraversarono il parco di villa Guzzi con gli ombrosi salici ed ulivi, sino al punto più lontano dal e sconosciuto dal paese. Una piccola spiaggia di fine sabbia bianca si apriva davanti a loro. Elisa rimase senza parole anche per la perfetta scelta dei tempi del giovane che la accompagnava. Proprio mentre mettevano i piedi sulla soffice sabbia il sole uscì dalle nubi rivelando la sua presenza ed il suo calore. Quello stupendo spettacolo era troppo per la ragazza: erano così tante le emozioni di quella giornata che non resse. Gettò le braccia al collo di Luca e pianse mentre il ragazzo la teneva stretta a sé accarezzandole i lunghi capelli dorati.

Non c’era nessuno in quel punto del lungolago: in pochi, infatti, tra i tanti turisti che normalmente frequentano le spiagge del lago di Como in estate, sono a conoscenza di questo luogo.

I due ragazzi rimasero abbracciati per quasi dieci minuti mentre Elisa continuava a singhiozzare senza lasciarlo andare. Quindi, superato il momento la giovane si riprese e Luca la invitò a fare un bagno con lui. Senza aspettare una risposta, la sollevò prendendola in braccio e scese in acqua mentre lei gridava tra il divertito

e lo spaventato. Nonostante la pioggia del mattino, l’acqua era piacevolmente calda grazie all’estate appena finita ed i due nuotarono per quasi un’ora prima di tornare a riva dove si sdraiarono esausti sulla battigia.

Il sole, alto nel cielo, aveva spazzato via le nubi della giornata, come se assieme ad esse avesse allontanato anche il tempo ato. Nella spiaggia di sassi bianchi che avevano percorso poco prima già si vedeva più gente attirata dal sole che prometteva un pomeriggio di tarda estate. Ma nessuno si avviava verso il loro lido solitario. Girandosi su un fianco, Elisa lo baciò e mormorò: “Grazie di avermi portata qui e grazie per essere con me…” Luca sorrise e, scostandole una ciocca di capelli bagnati dal viso, le accarezzò il volto. Quindi la attirò su di sé baciandola nuovamente mentre la abbracciava. Sulle prime Elisa rimase immobile mentre lui le sussurrava all’orecchio dei dolci ‘Ti amo’ poi si lasciò andare alla ione tra le sue braccia nella spiaggia deserta.

CAPITOLO 19

4 gennaio 2014 – tarda mattinata

Fu il profumo del caffè a svegliare Luca. Dalla cucina l’aroma si era diffuso fino alla camera da letto. Il ragazzo aprì gli occhi e, nella penombra, si accorse che Elisa non era più al suo fianco. Guardò l’ora nella sveglia del comodino: le otto e trentasei. La sera prima avevano fatto tardi e per quello Luca, abituato ad alzarsi presto, era ancora letto a quell’ora. Elisa lo aveva portato a teatro dove era in cartellone una classica ma sempre apionante operetta: “Il paese dei camli”. Una trama divertente che raccontava lo sconvolgimento nella vita quotidiana di una piccola isoletta, dove su ogni porta di casa è sistemata una camla che suona magicamente se la donna tradisce il marito, con l’arrivo di una nave carica di militari americani durante la seconda guerra mondiale. Tra canzoni e balli animati, divertenti battute e dialoghi, l’amore trionfava fino al gran finale.

Terminata la commedia erano ritornati a casa e si erano sistemati davanti al grande camino protetti da una morbida coperta di pile, a coccolarsi sino a che non si erano addormentati.

Ma quella mattina era l’inizio di un giorno particolare: erano trascorsi tre mesi esatti da quando Elisa aveva lasciato il paese di Consonno e si era stabilita a casa di Luca. Ma quante cose erano cambiate da allora! Silvia non si era più fatta vedere. Aveva semplicemente lasciato tutto come era e Luca aveva riposto ogni cosa della ex fidanzata in alcuni scatoloni che aveva provvisoriamente accumulato in garage. Una delle ultime cose che era finita in quelle scatole era stato proprio il tanga nero così a lei caro. Liberarsene era stato per Luca come chiudere un capitolo della sua vita del quale ora avrebbe fatto volentieri a meno. Era certo che la ragazza non sarebbe mai venuta a riprendere nulla. Innanzitutto

perché era troppo orgogliosa per tornare da lui e poi perché in quel periodo aveva ben altro a cui pensare. Di lì a poco avrebbe avuto inizio il processo a carico di lei e del padre che, nel frattempo, si era arricchito di altri capi di imputazione man mano che gli inquirenti analizzavano a fondo le numerose prove fornite da Luca e scavavano nel ato dello studio Menzi. L’ultimo colloquio che Luca aveva avuto con il pubblico ministero incaricato delle indagini, si era svolto in segreto tre giorni prima e, durante questo incontro, il ragazzo ed il suo avvocato, avevano ottenuto un patteggiamento vista la sua collaborazione totale. Luca Ferretti non sarebbe andato in prigione. Non che questo gli importasse di per sé ma non poteva assolutamente perdere ancora Elisa.

Sebbene la ragazza fosse indubbiamente viva sotto tutti gli aspetti, e diversi esami medici avessero confermato il suo stato di salute ottimale, ella non riusciva ancora ad accettare la sua nuova condizione. Luca le aveva proposto già due volte di andare a trovare la madre di lei che il ragazzo aveva rintracciato e risultava essere ancora viva nel loro paese natale, ma la giovane aveva sempre rifiutato. Temeva la reazione dell’anziana madre di fronte al suo apparire per miracolo dopo tanti anni e, ancora di più, temeva di doversene un giorno andare come era arrivata lasciando un dolore ancora più grande. Solo una volta i due ragazzi si erano avvicinati alla vecchia casa di famiglia ed erano rimasti a guardare dall’auto parcheggiata ad una ventina di metri di distanza. Ma Elisa non era scesa. Era trasalita quando la madre, che tirava dietro a sé un girello per la spesa, era apparsa all’improvviso svoltando l’angolo. La ragazza l’aveva seguita con lo sguardo mentre apriva il cancello del cortile, cigolante per la ruggine dopo tanti anni senza nessuno che se ne prendesse cura, e mentre cercava la chiave del vecchio portone dal mazzo che aveva in tasca.

Luca era rimasto in silenzio potendo solo lontanamente immaginare il tormento interiore che stava vivendo Elisa in quel momento. Poi, quando la madre ignara aveva chiuso la porta alle spalle, aveva rimesso in moto l’auto ed era ritornato a casa dove Elisa si era lasciata andare ad un pianto mentre lui la teneva stretta sul divano.

Altro tempo era ato da allora e la presenza della ragazza aveva portato un’aria di cambiamento e freschezza nell’attico dove i due vivevano. Non solo erano apparse decine di piante dai fiori colorati e profumatissimi che avevano abbellito e dato calore al terrazzo, alla sala ed alla cucina, fino ad allora inutilizzata; ma ella aveva ridipinto – si! lo aveva fatto lei, altro che squadra di imbianchini e decoratori! – la camera da letto in un delicato color rosa ed il salotto in un caldo arancio pastello. Il freddo del bianco e del laccato che, fino ad allora, aveva regnato tra quelle mura quasi ad esprimere l’aridità del cuore di colei che la occupava, era svanito.

Persino il titolare del ristorante sotto casa si era preoccupato non sentendosi quasi più rivolgere ordinazioni, ora che Elisa faceva funzionare i cinque grandi fornelli della cucina in muratura che sino a quel momento era rimasta come un mausoleo incompiuto.

Erano stati giorni meravigliosi per i due giovani. Non avendo più un lavoro a cui presentarsi ed avendo sufficiente disponibilità economica per non doverne cercare uno per diverso tempo, Luca si era dedicato anima e cuore alla ragazza che amava ogni giorno di più. Avevano viaggiato percorrendo chilometri su chilometri alla scoperta di città d’arte e panorami stupendi. In occasione del loro primo “mesiversario”, Luca le aveva fatto una sorpresa: aveva affittato per cinque giorni una baita solitaria sulle Dolomiti, nella zona della Val Laurina, ad una altitudine di circa 1800 metri a ridosso di uno stupendo bosco di abeti. La malga, raggiungibile solo con una piccola strada privata, aveva un grande prato davanti permettendo di gustare, dalla terrazza, la vista sulla vallata. In quel posto isolato i caprioli venivano in giardino a cercare da mangiare senza timore dei due ragazzi che li guardavano affascinati. Mai lo spettacolo della natura era stato talmente bello per il giovane Ferretti. E che momenti meravigliosi avevano trascorso solo loro due eggiando nei boschi o facendo il bagno nel vicino torrente dall’acqua freddissima che scendeva a valle! Erano ricordi da non dimenticare…

Sentendosi in forma e riposato, Luca abbassò le calde coperte di flanella, che

avevano sostituito nel grande letto matrimoniale le fredde di seta che sino a quel momento vi aveva imperato incontrastate. Quelle piccole scoperte facevano ritornare alla mente di Luca la sua adolescenza quando, a casa dei genitori, non vedeva l’ora di infilarsi a letto accarezzato dal calore di quelle morbide coltri. Per troppo tempo aveva permesso che le sue ambizioni lo cambiassero.

Non avrebbe più fatto errori come quello.

Indossò una vestaglia di spugna, che Elisa gli aveva regalato una settimana prima e sulla quale lei stessa aveva ricamato le lettere LE – Luca Elisa – sul petto, e si diresse in cucina cercando di non svegliare Thomas che ancora dormiva nella sua cuccia ai piedi del letto. Non c’era stato verso di convincerlo a dormire in un’altra stanza. Il cane si ostinava a voler dormire assieme ad Elisa.

Così, alla fine, Luca aveva acconsentito a quella convivenza a tre nella camera da letto, per quanto trovasse irritante e imbarazzante, soprattutto nei momenti di intimità con Elisa, essere perennemente osservato da Thomas seduto ai piedi del letto.

Chiusa la porta della stanza dietro di sé, il ragazzo sentì dei rumori provenire dalla cucina e vi si diresse. Elisa era indaffarata nel preparare la colazione e non si accorse del suo arrivo. Luca si appoggiò alla porta rimanendo a guardarla in silenzio. La ragazza, con indosso una tuta da ginnastica azzurra ed un grembiule rosso scuro sul quale campeggiava la scritta “Oggi cucino io!” seguita dal simbolo universale del pericolo radioattivo, stava spolverando di zucchero a velo quelle che doveva essere frittelle di mela, a giudicare dal profumo, e canticchiava sottovoce una delle ultime canzoni di Eros Ramazzotti che lui le aveva fatto ascoltare e della quale lei si era innamorata.

Era così bello vederla felice! E quella casa aveva bisogno di felicità!

Quando lei arrivò alla penultima strofa di “Per me, per sempre” fu lui a terminarla andando verso di lei e prendendole le mani. Dopo averle dato un bacio le disse:”Che bello svegliarsi in questo modo”. “Anche per me lo è” – rispose lei dolcemente. “Ma io parlavo delle frittelle di mela!” – fece allora lui scherzosamente afferrando uno di quei dolci ancora caldi. “Brutto arido di cuore!” – disse allora lei facendo il gesto di picchiarlo con un cucchiaio di legno mentre lui fingeva di soffrire dal dolore dei colpi. “Adesso che mi hai punito a sufficienza per la mia insensibilità, posso sapere a cosa devo tutto questo?” – chiese lui indicando con un gesto la tavola apparecchiata sulla quale, oltre alle frittelle appena fatte, era stata posta anche una torta al cioccolato anch’essa sfornata da poco. “Oggi hai in programma una giornata difficile…” – spiegò lei ricordandogli l’impegno in tribunale per prepararsi per l’udienza – “…e voglio che tu abbia le energie sufficienti per affrontare questa sfida”.

Lui sorrise compiaciuto da quelle attenzioni e si misero a sedere a tavola iniziando a servirsi. Effettivamente Luca avrebbe avuto bisogno di energie. Quella mattina avrebbe potuto facilmente incontrare Silvia o il padre di lei negli uffici del tribunale e, se ciò fosse accaduto, non sarebbe stato un momento facile. In ogni caso avrebbe dovuto sottoporsi ancora ad una lunga serie di domande e contro domande e, per esperienza già vissuta, sapeva che sarebbe stato sfiancante.

Un po’ preoccupato da questi pensieri, addentò la prima frittella, sporcandosi il mento con lo zucchero a velo che Elisa vi aveva appena sparso sopra prima che lui arrivasse. Era deliziosa!

A Luca tornarono immediatamente alla mente quelle che avevano mangiato per la prima volta nel corso del loro romantico weekend sulle Dolomiti. Elisa aveva detto che avrebbe voluto provare a rifarle. Si apionava così tanto per le ricette che imparava e, la maggior parte delle volte, riusciva a riprodurle in modo magistrale. Certo, c’erano anche le volte in cui qualcosa andava storto, come quella volta in cui l’arrosto all’aceto balsamico, dimenticato nel forno, si era

leggermente carbonizzato riempiendo la cucina di un denso fumo nero che vi era rimasto per giorni.

Quando avevano riso quella volta! Era stato Luca ad accorgersene e, per poco, non aveva chiamato i vigili del fuoco pensando ad un incendio! Ma quella mattina tra la torta al cioccolato, che lui già conosceva, e quelle frittelle, Elisa si era superata. “Buone?” – chiese lei porgendogli una tazza di caffè. “Sono buonissime…” – rispose lui dandole un bacio che la lasciò sporca di zucchero sulla guancia.

Terminata la colazione i due si vestirono per uscire. Ovviamente Elisa non avrebbe potuto accompagnare Luca all’interno del tribunale. Il giovane non aveva ancora trovato una soluzione per la strana situazione legale in cui si trovava Elisa che era ufficialmente morta e sepolta. Non disponendo di documenti, la ragazza non avrebbe mai potuto superare i controlli di sicurezza all’ingresso e così i due avevano deciso che lei avrebbe atteso che Luca finisse le sue deposizioni su una panchina nel vicino parco pubblico.

Mentre il giovane faceva il nodo alla cravatta, lei raccolse alcuni giornali e riviste che aveva acquistato il giorno prima. Da quando era libera, Elisa era ansiosa di aggiornarsi sulla situazione del mondo e leggeva un sacco. Prima di uscire di casa, lei sistemò la cravatta di Luca, gli diede un’ultima frittella avvolta in un tovagliolo di carta e si avviarono all’auto.

La mattinata trascorse veloce. Dopo circa tre ore di attesa, durante le quali Elisa, terminati i tre giornali che aveva portato con sé, aveva fatto un giro in un grande centro commerciale lì vicino doveva aveva acquistato alcune bellissime camicie di cotone per Luca ed un abito per sé, Luca l’aveva chiamata al cellulare che le aveva regalato dicendole che entro poco tempo avrebbe finito.

La ragazza tornò ad aspettarlo all’uscita, sulla grande scalinata che conduceva all’ingresso del complesso giudiziario e, dopo nemmeno venti minuti, lui uscì dalla porta. Si abbracciarono e, mentre lei gli chiedeva come fosse andata, il portone si aprì di nuovo e ne uscì Silvia Menzi accompagnata da due agenti di polizia penitenziaria che la scortavano. La ragazza si fermò a fissare la coppia poco distante. Lo sguardo di ghiaccio che lanciò loro era molto eloquente ma Luca non si fece intimidire. Abbracciando più stretta Elisa, sostenne quell’occhiata di odio poi, quando le due agenti ebbero fatto salire la ragazza sul furgone cellulare, Luca spiegò ad Elisa che il giudice aveva negato la libertà su cauzione ad entrambi i Menzi concordando con la tesi del PM che i reati erano troppo numerosi e le probabilità di fuga troppo alte per permettere tale rischio. Il processo, che avrebbe avuto inizio di lì ad una settimana, pareva non lasciare scampo dal momento che anche diversi dei politici e dei funzionari corrotti nel corso del tempo stavano trattando con la procura, per evitare il processo, scaricando quante più responsabilità possibili su padre e figlia.

Secondo l’opinione del pubblico ministero, la testimonianza di Luca sarebbe stata richiesta solo in caso di necessità, essendo già chiare le prove che lui aveva fornito. Per ora, probabilmente, il giovane poteva chiudere quel capitolo della sua vita, guardando solo al futuro con la persona che amava. Dando ad Elisa un bacio sui capelli, Luca le disse: “Andiamo a casa. E’ finita…”

CAPITOLO 20

12 febbraio 2014 – sera

Fu il 12 febbraio che cadde il quadro. Come quei grandi dipinti, che rimangono appesi per anni e anni alla parete sulla quale sono stati posti, per poi, all’improvviso e senza una ragione apparente, staccarsi e cadere rovinosamente a terra in un mare di vetro infranto; così la vita felice di Luca ed Elisa stava per scontrasi con fatti nuovi e repentini.

Quella sera i due ragazzi eggiavano ignari nel centro storico di Bergamo. Nel pomeriggio avevano visitato la città alta, la parte originale della città, di origine cinquecentesca, durante la dominazione veneziana. Le strette scalinate – dette Scorlazzini, che portavano alla zona fortificata dominata dal mastio della rocca sorta sul colle di Sant’ Eufemia, lasciavano intravedere scorci della città sottostante, ed Elisa si era lasciata trascinare dall’impeto della fotografia scattando quasi 70 istantanee con fotocamera digitale di Luca.

Ora si stavano dirigendo verso la piazza Vecchia, dove avrebbero proseguito il tranquillo pomeriggio per negozi sino a terminare con la cena che Luca aveva prenotato nella piccola ma assai pittoresca ‘Osteria della colomba bianca‘ dalla tipica cucina regionale. Era stato un pomeriggio molto simile agli altri che aveva trascorso nei mesi ati ma sempre pieno di gioia e sorprese. Certo i due giovani avevano già litigato tra loro nelle settimane ate. L’unione di due caratteri, per quanto simili, non è mai semplice e priva di difficoltà. Ma l’amore che provavano l’uno per l’altra e le tante cose che avevano in comune li portavano a superare questi momenti conservando e rinnovando i sentimenti che provavano tra loro.

Circa a metà della piazza, di fronte ad una piccola gioielleria incuneata tra i diversi bar, il comune aveva fatto installare una coppia di pannelli espositori, che venivano utilizzati per le affissioni pubbliche. Sebbene fossero ormai le sei ate, un operaio era ancora al lavoro, intendo ad incollare un grande manifesto giallo che stava coprendo quelli ormai superati pubblicizzanti una svendita in un vicino negozio di abbigliamento.

Fu il titolo ad attirare l’attenzione dei due ragazzi che si fermarono ad attendere che l’operaio terminasse il proprio lavoro. “Quale futuro per Consonno?” – chiedeva il titolo a grandi caratteri in cima al manifesto. Luca ed Elisa si avvicinarono per leggere e scoprirono che, bloccato ed insabbiato ormai definitivamente l’ambizioso e devastante progetto di casa Menzi, il comune di Calolziocorte aveva deciso di indire un bando di concorso aperto a coloro che fossero interessati a presentare un nuovo progetto di sistemazione dell’area purchè in armonia con le normative di tutela ambientale.

Mentre scorrevano le righe, divenne chiaro che il comune, la provincia e la regione non erano intenzionate a perdere le opportunità di guadagno che le idee di Luca avevano fatto assaporare loro. Così erano decisi a cavalcare l’onda del momento offrendo la possibilità di una demolizione e recupero dell’area del vecchio borgo all’impresa che avrebbe presentato i progetti più interessanti entro il 31 marzo 2014. Mentre proseguiva nella lettura del bando, Luca sbirciava lo sguardo di Elisa, preoccupato di come la ragazza avrebbe reagito a questa notizia.

“Mi dispiace di non poter fare qualcosa, questa volta…” – disse alla fine. “Non ti devi preoccupare… “ – rispose lei dolcemente. “Ma Consonno è la tua… la tua casa…” – disse allora lui prendendole la mano. “Ti sbagli…” – lo interruppe lei posandogli delicatamente un dito sulle labbra – “…la mia casa adesso è qui con te. Sai, tanto tempo fa conobbi un ragazzo, un certo Marco. Era dolce, simpatico e sembrava avessimo tante cose in comune. Ma… non era come te. Quello che ho visto in te sin dalla prima volta che ti ho conosciuto è…speciale, Tu finalmente mi hai fatto scoprire l’amore e non intendo lasciarti mai più…”.

Luca la guardò sorridere, piena d’amore, e la baciò. Fu una serata speciale. Forse molto più di tutte le altre che l’avevano preceduta nelle settimane ate. E non solo per l’atmosfera intima e romantica dell’osteria che li aspettava a poche centinaia di metri, ma, soprattutto, per un particolare affiatamento che Luca ed Elisa avevano creato tra loro.

Fu in quell’istante che Thomas lanciò un lungo ululato, subito imitato dagli altri cani del quartiere. Erano le 18:27. Un momento che pochi avrebbero dimenticato.

All’improvviso un rombo sordo riempì l’aria. Era come se un forte temporale improvvisamente si fosse scatenato ma senza pioggia o fulmini: solo tuoni. La terra iniziò a tremare sotto i piedi dei due innamorati e la gente, che fino ad un attimo prima eggiava serena, si fermò spaventata guardandosi attorno. Mentre il rombo cresceva di intensità i vetri iniziarono a tremare, gli allarmi delle auto a suonare e i clienti dei negozi e dei ristoranti a fuggire in strada ribaltando tavoli e sedie. Alcuni calcinacci iniziarono a cadere mentre le grida spaventate si moltiplicavano mentre la gente scappava senza una meta precisa.

Luca rimase fermo, lontano dagli edifici prospicienti la piazza in cui si trovavano, abbracciando stretta Elisa spaventata. In tutto la scossa durò solo pochi secondi ma, a parere quasi unanime di coloro che la vissero come sempre accade in questi casi, furono eterni.

Repentina come era iniziata, la scossa finì così come il rombo che l’aveva accompagnata. La notte ritornò silenziosa e calma.

Iniziò allora il canto lamentevole delle sirene dei mezzi di soccorso che

correvano per la città e dei latrati dei cani che, come Thomas, erano spaventati da qualcosa che non potevano comprendere. Guardandosi attorno Luca vide che nessuno degli edifici pareva aver subito danni. Erano caduti alcuni calcinacci, di certo dei soprammobili o dei quadri si erano rotti, e la luce in molte zone era saltata ma, a parte questo, sembrava che non ci fossero state gravi conseguenze.

“E’ tutto finito…” – disse sottovoce ad Elisa accarezzandole i capelli.

La ragazza lo guardò con occhi pieni di spavento poi, trattenendo le lacrime annuì abbozzando un tenue sorriso. Mentre attorno a loro la piazza si andava riempiendo dei residenti dei palazzi su di essa prospicienti, i due giovani si incamminarono verso il parcheggio dove avevano lasciato l’auto. Per quella sera la cena romantica all’osteria avrebbe aspettato. Ora entrambi volevano solo tornare a casa e sdraiarsi abbracciati davanti al camino scoppiettante.

Ci misero molto tempo per ritornare. Le strade erano invase di gente che aveva paura di rientrare a casa per timore di nuove scosse. Ad un incrocio il muro di un vecchio edificio abbandonato era crollato invadendo la strada. Il conducente di un’auto che, per pura sfortuna, stava transitando proprio in quel momento, trovandosi improvvisamente davanti quel crollo aveva sterzato bruscamente sulla destra nel tentativo di evitarlo ma la sua manovra era stava fermata da un lampione. Nel momento in cui Luca ed Elisa avano di lì, i vigili del fuoco assistiti da paramedici stavano cercando di estrarre il conducente dall’auto. La vistosa macchia rossa che occupava tutto il parabrezza infranto lasciava poche speranze circa lo stato di salute di quell’uomo che, probabilmente, non portava la cintura di sicurezza.

Elisa ebbe un sussulto a quella vista. Cercando di muoversi il più in fretta possibile in quel caos, Luca arrivò a casa quasi un’ora dopo. Diversi dei loro vicini si erano radunati nel parco davanti al condominio, sebbene il palazzo di nuova costruzione non avesse subito alcun danno. Non appena entrati nel loro appartamento, Luca ed Elisa accesero la televisione che trasmetteva su tutte le

reti delle edizioni straordinarie dei telegiornali informando di quella notizia.

Nel cuore di tutti erano ben vivi i mesi del terremoto in Emilia Romagna, i cui strascichi si trascinavano ancora nella vita di molte persone nonostante fossero ati due anni da quegli eventi. Gli esperti, presenti in tutte le trasmissioni, cercavano di spiegare come in una zona classificata a basso rischio sismico si fosse potuto verificare un tale evento. Le stesse domande che si ponevano per il terremoto in Emilia. Troppo era stato dato per scontato in relazione all’analisi geologica dei suoli – sostenevano in molti – e troppo era stato supposto solo in base agli eventi ati riportati nelle cronache e nella memoria popolare. Ma non erano solo le discussioni degli esperti a tenere banco. L’attenzione era concentrata soprattutto sulle operazioni di soccorso delle frazioni più vicine all’epicentro del sisma che, sembrava dalle prime notizie, avessero subito numerosi danni.

Uno degli inviati di rai3, probabilmente dalla sede locale, era già sul posto, nella frazione di Valgreghentina, una piccola località vicina ad Olginate, le cui origini si perdono sin dal lontano 1600. Gli edifici, per la maggior parte antiche case in pietra contadine, non possedevano certo le caratteristiche antisismiche degli edifici più moderni e molte di esse erano state lesionate, in modo più o meno grave, della scossa di due ore prima. Secondo una stima appena elaborata e certamente molto approssimativa, quasi la metà delle abitazioni era stata danneggiata ma, soprattutto, si contavano già sei morti accertati nel crollo di una vecchia struttura in cima a via Molino, una zona isolata arrampicata sulla montagna verso il paese fantasma di Consonno. A quella notizia, trasmessa mentre dietro all’inviato continuavano a are mezzi della protezione civile e dei vigili del fuoco, Elisa ebbe un fremito di terrore.

Accortosene, Luca spense il televisore, si sedette sul divano a fianco della ragazza che tremava, la prese tra le braccia, distese su di loro la coperta di pile sempre pronta a fianco del divano e, mormorandole parole dolci cercò di farla tranquillizzare mentre in lontananza le sirene continuavano a cantare il loro acuto verso.

Prima che Elisa si fosse calmata ci vollero alcune ore durante le quali, con grande amore, Luca continuò ad accarezzarla e tenerla stretta a sé. Infine, verso l’una del mattino, la giovane parve essersi addormentata e Luca, badando a non svegliarla, la distese sul letto togliendole le scarpe per poi mettersi vicino a lei.

Circa alle quattro di quella notte, Luca aprì gli occhi e, tastando pigramente il letto al suo fianco, si accorse di essere solo. La stanza era buia così accese la luce e, in fretta, si diresse al salotto preoccupato. La porta-finestra del terrazzo era aperta, lasciando entrare nella stanza il freddo pungente della notte invernale. Elisa, con addosso soltanto il maglione che aveva la sera prima per proteggerla dal vento, era fuori, appoggiata con le braccia alla balaustra fissando l’orizzonte. Luca uscì a sua volta e, quando le fu a fianco, accortosi che la ragazza aveva gli occhi gonfi di pianto e rabbrividiva per il freddo, le chiese preoccupato:

“Cosa succede amore mio?” Elisa non si mosse, continuando a fissare le lontane montagne nel buio della notte. Ad un secondo sollecito di Luca a spiegargli cosa stesse succedendo, lei rispose singhiozzando: “E’ colpa mia Luca… quello che è successo è solo colpa mia…” Sulle prime il ragazzo non seppe cosa rispondere poi le chiese deciso: “Cosa ti fa pensare che sia così? Come fai ad esserne sicura? Perché?”

Piangendo, Elisa gli ricordò che il terremoto aveva avuto epicentro vicino a Consonno e che lui stesso aveva affermato che quella non era zona sismica. Tutta la loro storia era basata su qualcosa che… non aveva base. Era un sogno, un miraggio, un dono del cielo, e quindi qualcosa che poteva finire da un momento all’altro. Quell’evento doveva per forza essere qualcosa di straordinario; qualcosa che aveva relazione con lei: era un segno.

Luca non rispose nulla. Rimase a fissarla per qualche istante mentre lei scoppiava in un nuovo pianto a dirotto; poi, stringendola a sè in modo

rassicurante, le disse: “Amore mio, smettila con questi pensieri. Non c’è nessun motivo per dire questo. Sono perfettamente consapevole che la nostra unione è straordinaria e speciale. Ma credo che se il cielo o chissà chi al suo posto, ci abbia voluto fare questo regalo, ci sarà un motivo. E non posso credere che ora ce lo vogliano togliere. Tu non lo sai ma tre anni fa c’è stato un terremoto devastante in Emilia Romagna, nella zona di Modena, benché tutti dicessero che quella non era zona sismica. Ne hanno parlato anche prima diverse volte alla televisione, ricordi? Fidati di me… sono un architetto e conosco bene queste cose. Solo il 20% del territorio italiano è stato sottoposto a rigorosa analisi geologica. Il resto è solo frutto di analisi storiche e supposizioni che possono facilmente essere sbagliate. Non possiamo pensare che sia un miracolo solo perché le affermazioni dei geologi si sono rivelate sbagliate. Questa è la vita di tutti i giorni! Non permettere che questi casi diano vita a pensieri infondati. Mi ascolti?” – concluse, con un tono forte, Luca sollevando il mento della ragazza per guardarla negli occhi. Elisa continuava a piangere ed il giovane le disse con tono dolce e pieno di amore: “Io non credo che Dio, o chi per lui, voglia farci soffrire. Mi ha dato te che mi hai insegnato cosa significa davvero vivere e sognare. E che io sia dannato se permetterò a qualsiasi cosa di portarti via da me. Soprattutto non ad un semplice terremoto. Lasciamo che domani sorga il sole su questa notte scura e vedrai che tutto ti sembrerà diverso. Torniamo a letto, al calduccio bimba?”

Elisa sorrise tra le lacrime guardando l’uomo che amava in piedi al suo fianco poi annuì decisa. Abbracciati i due ragazzi tornarono in casa chiudendo fuori il gelido freddo della notte e riscaldando corpi e cuore sotto le calde lenzuola di flanella che Elisa tanto amava.

CAPITOLO 21

27 febbraio 2014 – mezzogiorno

Erano ate già due settimane dalla sera del terremoto e la vita sembrava essere tornata alla normalità. Nella città i pochi danni del sisma erano già in corso di riparazione e, sebbene alla televisione si parlasse ancora dell’evento tra teorie e contro-teorie di geologi ed esperti, per la maggioranza della gente era ormai acqua ata. Certo, nelle frazioni più danneggiate la vita non sarebbe tornata normale tanto presto. Decine di persone erano ancora costrette a vivere fuori casa in alloggi di fortuna o tende allestite dalla protezione civile e, per loro, si prospettavano tempi lunghi per la messa in sicurezza degli edifici e delle case. Ma l’attenzione dei media si era spostata su una nuova crisi in Egitto con un riacutizzarsi degli scontri e della guerra civile e, solo ogni tanto, veniva messo in onda un servizio sulle difficoltà che queste persone affrontavano ogni giorno. Per la maggioranza degli italiani, e anche per molti che abitavano in quelle zone, si era tornati alla normalità.

Anche Elisa e Luca stavano riprendendo la vita quotidiana. Il giovane era stato bravissimo nell’aiutare la ragazza a distrarsi dai pensieri che la tormentavano. Due giorni dopo, alla mattina, era stato lui ad alzarsi prima ed a farle trovare la colazione pronta sul tavolo. Sotto il piatto di lei, Luca aveva nascosto un foglio con la fotografia di un hotel a 4 stelle a Riva del Garda, dove aveva prenotato una camera per tre giorni. Inutile descrivere l’espressione di stupore della giovane quando, sollevando il piatto per andare a prendere una brioche, trovò quel biglietto. Era una veduta stupenda della terrazza panoramica dell’albergo sulla quale troneggiava una piscina con idromassaggi e cascatelle. Dopo che Luca le ebbe spiegato il significato di quella sorpresa, lei gli saltò in braccio gridando di gioia ed eccitazione. Ed in effetti furono giorni stupendi. La spa e le acque termali, assieme alla pace del posto, contribuirono molto ad aiutare Elisa a ritrovare la serenità.

Fu un giorno particolare quello in cui Luca la portò in cima al Monte Baldo, sopra Malcesine, con la cabinovia. Lassù, di fronte alla stupenda vista del lago in quella giornata serena, il ragazzo le insegnò a sciare. O almeno provò ad insegnarle a sciare. Apionato di sport invernali da diversi anni, Luca affrontava senza troppa paura anche le piste nere, ed aveva ormai dimenticato come ci si sente le prime volte che ci si trova in cima ad una montagna con una discesa bianca davanti a sé e nessuna idea chiara su come si faccia a frenare! Dopo numerose cadute, ma anche tante risate, finalmente Elisa aveva imparato almeno la posizione dello spazzaneve e, ad essere sinceri, ci aveva anche preso gusto. Ormai affrontava senza troppo timore le piste verdi ed aveva superato anche una rossa che aveva voluto comunque provare perché terminava in un piccolo ma accogliente rifugio caratterizzato dalla presenza di dieci camini per riscaldare la sala ristorante.

Il pranzo, con piatti tipici montanari, era ben preparato e la bontà della cucina era testimoniata dalla fila di avventori in attesa di un tavolo fuori sulla neve. Luca ed Elisa finirono di mangiare verso le due e, dopo un caffè al banco, uscirono di nuovo sulle piste. Il cielo si era rannuvolato e, dopo nemmeno mezz’ora che avevano ripreso a sciare, una fitta coltre di nuvole basse e nevischio, coprirono il centro sciistico costringendo la maggioranza dei turisti presenti a ritornare agli alberghi. Anche i due ragazzi fecero lo stesso.

Per fortuna questo era il loro ultimo giorno sul lago e decisero di avviarsi verso casa. Man mano che si avvicinavano a Brescia, il tempo peggiorava e la pioggia diveniva più intensa. La sera sopra la città imperversava un vero e proprio nubifragio con forti tuoni e fulmini. Luca parcheggiò nel garage sotterraneo del condominio ed i due innamorati si rifugiarono in casa davanti al grande camino. La pizzeria di fiducia che di solito Elisa contattava per farsi fare consegne a casa, era chiusa a causa del tempo inclemente ed i ragazzi si accontentarono di alcuni panini che consumarono sul divano guardando la televisione.

Fu verso le dieci e venti che la luce saltò facendo piombare interi quartieri nel

buio. La luce dei fulmini illuminava a tratti la stanza attraverso le grandi vetrate del balcone mentre l’intensità dei boati cresceva con l’andar del tempo. In alcuni casi il rumore era così forte che i vetri vibravano. Elisa e Luca, alla luce di una torcia, andarono a letto dove, abbracciati sotto le lenzuola con Thomas che si era rifugiato spaventato sotto il letto, cercarono di prendere sonno.

Ma quella notte il destino dei due giovani stava per cambiare.

Ed ancora una volta stava per succedere tutto alle quattro del mattino.

Un’improvvisa esplosione svegliò di soprassalto i due giovani mentre la stanza pareva illuminata a giorno da una serie di lampi molto ravvicinati tra loro. Luca armeggiò con l’interruttore dell’abat-jour del comodino ma la lampadina non si accese, Evidentemente non era ancora stata ripristinata la corrente da quando era saltata la sera prima. Il ragazzo, allora, si alzò di scatto, correndo alla finestra del balcone preoccupato dal forte boato della pioggia che si avvertiva intorno a loro.

Lo spettacolo all’esterno era spaventoso: un vero e proprio diluvio d’acqua cadeva incessante e le caditoie dei pluviali del terrazzo non erano in grado di scaricare la mole di acqua che copriva ormai per sei-sette centimetri la pavimentazione. Ancora poco ed avrebbe iniziato ad entrare dalla porta-finestra che era rialzata solo per una decina di centimetri dal piano del terrazzo. In tutta la città non si vedeva una sola luce accesa e nelle strade, illuminate a tratti dalla sola luce dei lampi e dei fulmini, nessuno transitava anche perché parevano essere invase dall’acqua. Era una cosa mai vista prima…

Anche se non voleva farlo vedere e cercava di stare calmo, Luca era spaventato. Per non far preoccupare Elisa, il ragazzo tornò in camera dove trovò la giovane ancora a letto che piangeva stringendo al petto il cuscino di lui. Pensando che fosse spaventata dal temporale, Luca le accarezzò la spalla dicendole di non

preoccuparsi e che presto tutto sarebbe ato. La ragazza si voltò verso di lui e gli disse con voce tremante: “Devo andare,amore mio… Ora è tutto chiaro… Il mio tempo qui è finito…” E scoppiò nuovamente a piangere nascondendo il volto nel cuscino.

Preso alla sprovvista da quel discorso così sconclusionato che sperava fosse stato sepolto per sempre, sul momento Luca non disse nulla. Poi, dopo un profondo respiro, disse: “Principessa, pensavo che avessimo ormai superato queste idee… In questi giorni abbiamo ato dei momenti stupendi e credevo che, dopo tutto questo tempo, ti fossi dimenticata di questi pensieri… Cosa ti succede? E’ solo un temporale e…” Proprio in quel momento un'altra esplosione rimbombò nel cielo facendo tremare tutti i vetri per alcuni secondi. “D’accordo…” – continuò Luca alzando le mani – “… non è un temporale come tutti gli altri. Forse è un po’ più violento e persistente ma… ma da questo a dire che è un segno divino ce ne a!” Mentre la pioggia continuava battente, il giovane rimase in attesa di una risposta che non venne. Così cercò di continuare: “Amore mio ti prego…” Elisa rialzò la testa e, singhiozzando, cominciò a parlare: “Luca… quello che ci è stato dato è qualcosa di meraviglioso, di bellissimo… E’ stato un periodo indimenticabile e darei tutto per poter rimanere assieme a te. Ma ora il nostro tempo è finito… E questa volta, purtroppo, ne ho la certezza.” “E cosa ti dà questa sicurezza?” – le chiese dolcemente Luca –“Cosa rende questo giorno diverso dagli altri? Cosa rende questo temporale… speciale? Perché oggi e non… domani o… ieri?” “Oggi non è un giorno come gli altri…” – replicò la ragazza –“oggi…” – attimo di esitazione ed incertezza – “…oggi è il mio compleanno.” Una rivelazione del genere era così sorprendente che Luca non potè far altro che chiedere: “Mah… Perché… Perché non mi hai detto nulla? Avrei potuto organizzare qualcosa di speciale… avremmo potuto festeggiare assieme.” Elisa fece un sorriso amaro e rispose: “Credi che per una ragazza sia piacevole ricordarsi che ormai ha… ehm… oltre 58 anni? Potrei essere tua madre!” “Beh… mamma… devo dire che li porti proprio bene i tuoi anni! Sei bellissima.” – e fece per darle un bacio, ma Elisa si schermì. “D’accordo…” disse allora Luca – “… ma cosa c’entra il tuo compleanno con il temporale?” – chiese cercando di ragionare con calma. Elisa sospirò e ricominciò a parlare. “Hai visto che ora è?” – chiese volgendo lo sguardo verso la sveglia digitale sul comodino – “Sono le quattro del mattino… E questa tempesta, che è iniziata ieri sera, sta esplodendo nella sua potenza proprio all’ora in cui… beh… l’ora in cui… non è facile da dire… è l’ora in cui sono morta tanti anni fa. Era una sera

proprio come questa, sai? Aveva iniziato a piovere in serata, proprio come ieri, per diventare un vero fortunale nella notte. Fu un fulmine ad innescare l’incendio che distrusse il Grand Hotel di Consonno. Un fulmine proprio come uno di quelli che vediamo adesso. E’ come se mi venisse ricordato che questo non è il mio posto, non lo è più”. “Ma cosa è cambiato?” – chiese Luca senza capire il senso di quel discorso che pareva così assurdo e raffazzonato alla bell’e meglio. “Amore mio…” – disse allora Elisa prendendogli la mano e stringendola tra le proprie –“ Ricordi quando ci fu il terremoto? Anche allora non era un giorno come gli altri. Quello era un giorno speciale… Era il giorno in cui vedemmo il manifesto per il bando di demolizione di Consonno e tu mi chiedesti come mi sentivo sapendo che questa volta non avremmo potuto fare nulla per impedirlo. Ricordi?” Luca fece un cenno di assenso. “Ma ricordi la risposta che ti ho dato?” – continuò lei mentre un altro forte tuono esplodeva all’esterno. “Io ti risposi che non mi importava. E lo disse perché, per la prima, vera, volta nella mia vita non mi interessava dove fossi o cosa stessi facendo. Mi importava solo che fossi con te: il ragazzo di cui mi sono innamorata. Tu mi hai fatto conoscere quello che mi era mancato, che quel temporale mi aveva negato strappandomi via dalla mia vita: la possibilità di provare l’amore. Fino a quando non ti ho conosciuto per la prima volta, ero in attesa, aspettavo che arrivasse il momento che il destino mi aveva riservato per amare. Ma ora, perciò, mi viene ricordato che il mio posto non è qui: questo è stato un dono, un regalo meraviglioso che per sempre porterò nel cuore. Ma che non posso continuare a vivere perché il mio posto non è con te”. “E in tutto questo io non importo?” – chiese Luca ferito –“In tutto il tuo discorso di doni, di destino… I miei sentimenti non contano? Se il cielo è stato così buono con te da farti questo regalo, a me non ha pensato?” “Amore mio…” – rispose Elisa dolcemente – “…anche a te è stato fatto un grande regalo. Hai riscoperto la vita, i sogni, gli ideali, che avevi ma che l’illusione della ricchezza ti avevano fatto dimenticare. Eri diventato così schiavo del successo e del denaro al punto da diventare quel genere di persone che hai sempre detestato da ragazzo. Ora puoi ricominciare a vivere per quello in cui credi, per i tuoi sogni ed i tuoi ideali, per quello che insieme abbiamo immaginato e rincorso in questo poco ma meraviglioso tempo che abbiamo avuto assieme”. Un groppo alla gola impedì a Luca di rispondere subito. Sapeva che quello che Elisa gli stava dicendo era vero. Da quando l’aveva incontrata la sua vita era cambiata, era diventata meravigliosa. E lui stesso sapeva bene che la loro unione, così assurda e irrazionale, così fantastica ma al tempo stesso reale, non avrebbe potuto essere per sempre. Ma era proprio questo che non poteva accettare di perdere. “Io non posso lasciarti… Non ora che ti ho trovato… Non lo accetto… Non me la sento…” Elisa, continuando a sorridergli e stringergli la

mano, disse: “Luca, non pensare che per me tutto questo sia facile da accettare. Il tempo trascorso assieme a te è stato il più bello della mia vita. Ma adesso il mio posto non è più qui…” “E cosa farai?” – chiese Luca con la voce che tremava quasi iniziando a piangere a sua volta – “Tornerai a Consonno?” “No…” – rispose Elisa scuotendo la testa – “…il tempo ato a Consonno è stato solo un’attesa. Un luogo nel quale ho aspettato… ho aspettato te. Ed è stato anche un luogo ed un tempo in cui tu hai aspettato me, anche se non lo sapevi ancora. Ma adesso, che il tempo è finito, non devo tornare lì. Posso finalmente andare incontro al mio destino, qualunque esso sia”.

Una grossa lacrima scese sulla guancia di Luca, che cercava di trattenerla, mentre le labbra gli tremavano. Distolse lo sguardo da Elisa, incapace di guardarla negli occhi. Rimase a fissare il pavimento per quasi un minuto, tormentandosi le mani, mentre anche il temporale all’esterno pareva essersi acquietato ed attendere; poi, improvvisamente, scosse la testa con vigore e, alzandosi repentinamente in piedi, disse: “Beh, se questo è il destino che ci aspetta o se è Dio o chi per lui ad averlo deciso allora che io sia pure dannato ma non ho la minima intenzione di lasciarti andare! Andiamo!”

Quasi trascinando letteralmente Elisa dietro di sé, Luca attraversò l’appartamento, spalancò la porta del ripostiglio e tirò fuori i due zaini da montagna che avevano accompagnato i loro weekend d’amore ad alta quota. Li mise in mano ad Elisa, che lo fissava stupito, senza capire, poi ritornò di corsa nella camera da letto dove iniziò a prendere vestiti ed altri oggetti personali e ficcarli negli zaini.

“Ma cosa stai facendo?” – chiese la ragazza di fronte a quell’attività frenetica. “Ce ne andiamo da qui!” – rispose lui senza smettere di lavorare – “Ce ne andiamo il più velocemente possibile ed il più lontano possibile”.

Prima che la ragazza potesse rispondere qualsiasi cosa, Luca le mise in mano uno degli zaini e, prendendole dolcemente il viso tra le mani, la baciò e le disse:

“Devo provarci. Non posso pensare di lasciarti andare così… Andiamo!”

Mentre nel cielo un altro fulmine squarciava l’aria, i due giovani alla luce delle torce elettriche, tallonati da Thomas che li seguiva spaventato, si lanciarono giù per scale del palazzo.

CAPITOLO 22

28 febbraio 2014 – mattina

Quando i due ragazzi, ebbero sceso l’ultimo gradino della rampa di scale che portava al garage, si ritrovarono con l’acqua che arrivava sopra le caviglie. Almeno 15 cm di acqua si erano accumulati sul pavimento del parcheggio sotterraneo del condominio. Sulla superficie nera come la notte di fuori, galleggiavano alcuni stracci, secchi, ed altri oggetti trasportati dall’acqua che scendeva torrenziale dalla rampa.

Avanzando a fatica, Luca seguito da Elisa, aprì il portellone del proprio garage e caricò in auto gli zaini. L’acqua ormai arrivava all’altezza delle portiere ed una parte di essa si riversò all’interno dell’abitacolo quando Elisa aprì la portiera del eggero e salì. Thomas, bagnato fradicio dopo aver nuotato nell’acqua fredda, si accoccolò sul sedile posteriore.

Fortunatamente il motore si mise in moto senza problemi e, avanzando lentamente nell’acqua scura, i due ragazzi iniziarono a salire la rampa. Un torrente scendeva rapido dalla discesa rendendo molto difficoltosa l’uscita della vettura. Non poche volte le gomme fecero per scivolare nel fenomeno dell’acquaplaning rischiando di far sbandare l’auto contro le pareti in cemento. Alla fine, dopo quasi dieci minuti di lotta, Luca riuscì ad uscire in strada.

I tergicristalli faticavano a mantenere pulito il vetro e la visibilità era davvero scarsa. Le strade, buie ed illuminate solo a tratti dalla luce dei lampi e dei fulmini, erano un unico torrente d’acqua. In alcuni incroci delle auto, abbandonate di traverso sulla carreggiata dopo essere rimaste bloccate,

ostacolavano il aggio. Luca dovette fare diverse deviazioni prima di riuscire a raggiungere la strada principale che portava fuori dalla città. Non una luce era accesa nelle case e nei condomini e per la strada non si vedeva nessuno che osasse avventurarsi fuori in quella tempesta a quell’ora del mattino. Il ragazzo guidava lentamente, cercando di mantenere la vettura in strada. Era davvero un’impresa...

Già due volte aveva urtato ora un lampione, ora un’altra auto, ma continuava deciso ad avanzare nella pioggia incessante verso la periferia di Brescia. Ci arrivarono verso le sette e venti di mattina.

Il temporale continuava ad imperversare ma l’aria iniziava a diventare più luminosa facendo sperare in un miglioramento di quel tempo spaventoso. L’acqua però continuava a cadere con violenza e diverse, zone anche della periferia, erano allagate. Più di un corso d’acqua aveva tracimato nella notte sommergendo campi e giardini e, mentre avano, Luca ed Elisa assistevano sempre più di frequente a scene di persone che caricavano in auto poche cose cercando di mettersi in salvo. Alla radio le poche stazioni che si riuscivano a captare nello strazio della statica dei fulmini che riempivano l’etere parevano essere bollettini di guerra mentre annunciavano già diversi morti e milioni di danni. Nessuno dei due ragazzi aveva più detto una parola da quando erano partiti. Solo Luca, ogni tanto, si voltava verso Elisa rivolgendole dei sorrisi d’incoraggiamento. La ragazza, spaventata e preoccupata, teneva lo sguardo fisso davanti a sé. Sul sedile posteriore il cane guardava fuori dal finestrino senza fare nessun rumore, come se avesse capito la gravità della situazione.

Verso le otto del mattino, i due giovani arrivarono all’altezza della zona di Carcina. Anche qui la pioggia aveva allagato ogni cosa ed una decina di persone stavano cercando di costruire una barriera di sacchi di sabbia lungo l’argine del fiume Mella, nel disperato tentativo di ritardarne lo straripamento. Un’esondazione del fiume avrebbe, quasi certamente, invaso l’intera cittadina. Guardando la violenza dell’acqua torbida di fango ed i miseri trenta centimetri scarsi di argine ancora scoperti, pareva una battaglia persa in partenza...

Luca continuò a guidare tenendosi al centro della carreggiata. In tutto il viaggio avevano incontrato al massimo una decina di altre auto, tutte dirette nella sua stessa direzione: lontano da Brescia alla ricerca della salvezza. Arrivati al ponte sul Mella, pochi chilometri più avanti, un’auto che li precedeva sbandò nella curva all’uscita del ponte finendo contro il guard-rail e bloccando la strada. Gli occupanti stavano per scendere quando un fulmine colpì il suolo a pochi metri di distanza facendoli rientrare precipitosamente nell’abitacolo. Altre due auto si fermarono sul ponte. Luca ed Elisa assisterono alla scena da una quarantina di metri di distanza. La massa fangosa del fiume colpiva con violenza i pesanti piloni sui quali si poggiava il ponte, arrivando quasi all’altezza della carreggiata.

Fu un attimo: l’arcata centrale del ponte si piegò come trascinata via dalla furia della corrente. L’acqua stava, infatti, portando con sé il pilone centrale di cemento, che, piegandosi su un lato, aveva fatto inclinare anche la carreggiata sovrastante, facendo scivolare le due auto con i loro occupanti contro il guardrail. Fortunatamente questa barriera impedì alle vetture di cadere nell’acqua tumultuosa. Le otto persone a bordo gridavano terrorizzate cercando di sfondare i finestrini per uscire.

Luca corse fuori dall’auto ma, percorsi pochi metri, si fermò rendendosi conto che non poteva fare nulla per loro. Se si fosse avventurato sul ponte sarebbe certamente caduto nel fiume prima ancora di essere arrivato alle auto. Disperato, non poteva fare altro che assistere mentre il peso dei veicoli piegava lentamente il guard-rail che era l’unica cosa che separava gli occupanti delle auto da una morte orribile.

Con una fitta terribile al petto, Luca si accorse che due di coloro che si trovavano sulla seconda vettura erano bambini di nemmeno dodici anni. Fu in quel momento che si accorse della presenza di Elisa al suo fianco. Bagnata fradicia dalla pioggia battente, lei gli prese la mano e, con un sorriso amaro, gli disse: “Non possiamo lasciarli morire, Luca…”

Il giovane la fissò mentre il tempo pareva essersi fermato. Era uno di quegli attimi che, a volte, si vedono nei film, quando la telecamera compie un giro completo attorno ai due protagonisti e nessun rumore si sente in sottofondo. Attimi interminabili fatti solo di parole non dette e di cuori che battono assieme. Attimi in cui gli sguardi fanno da padroni e che dicono tutto eppure niente. Elisa annuì, come rispondendo ad una domanda non fatta, e accarezzò dolcemente la guancia di Luca con mano.

Il giovane, immobile, non rispose subito poi, dando voce al suo cuore, disse piano: “Ti amo…” Elisa, sorridendo, rispose con le uniche parole che possono completare una tale dichiarazione: “Anch’io… per sempre.”

Poi, come riprendendo vita l’azione circostante, il temporale fece nuovamente sentire la sua voce mentre un altro fulmine cadeva vicino a loro. Il ponte gemette in uno stridio lamentoso mentre l’arcata danneggiata si piegava ancora facendo per spezzarsi. Luca si distrasse girando lo sguardo verso le auto intrappolate e, in quella frazione di secondo, Elisa gli lasciò le mani.

Fu un attimo.

“Addio,amore mio…” si sentì dire il giovane.

Si voltò di nuovo, capendo cosa stava per avvenire ma era tardi. Davanti a lui, la ragazza che amava divenne luminosa, iridescente. Pareva un’apparizione fatata, quasi composta di migliaia di piccole, luminosissime, lucciole. Sul volto di lei, sorridente, i grandi occhi azzurri lo fissavano brillando mentre lo sciame di lucciole si disperdeva salendo verso il cielo sempre più velocemente.

“Nooooo!” – gridò Luca cercando di afferrarle nuovamente la mano ma riuscendo solo a stringere l’aria.

La luce si lanciò verso il cielo e oltreò le nubi forandole con il suo splendore. Come quando un rubinetto viene chiuso, che continua per poco a gocciolare ma poi l’acqua cessa di scendere, così parve fare il temporale. Quella violenta tempesta, che tanto male aveva fatto, parve spegnersi come il fuoco di un pagliaio che ha divorato ogni cosa.

Il sole squarciò le nubi ed un immenso, splendente, arcobaleno riempì la vallata. In pochi istanti, le tumultuose acque del fiume iniziarono a scendere di livello e gli occupanti delle auto riuscirono a scendere ed a mettersi in salvo.

La gioia di quegli uomini, di quelle famiglie, che avevano visto la morte in faccia occupò la scena, e nessuna di quelle persone, fece caso al giovane che, inginocchiato a terra, continuava a fissare il cielo piangendo. Così il giovane che nella vita aveva dimenticato cosa fosse l’amore, si ritrovò senza colei che glielo aveva rammentato e che, proprio in virtù di quell’amore, la vita l’aveva ceduta due volte. Mentre gli uccelli tornavano a cantare tutt’attorno, Luca non potè fare a meno di ricordare le immortali parole del poeta che scrisse:

Amore,

insegnami ad amare,

perché possa imparare a sognare…

Amore,

insegnami ad amare,

perché possa vivere di valori e di ideali…

Amore, insegnami ad amare,

perché anche se il fato o il destino

dovesse portarti via da me,

io possa conservarti intatta, per sempre,

nel mio cuore.

POSTFAZIONE

Consonno esiste davvero. La sua storia, descritta in questo romanzo, corrisponde a quanto sono stato in grado di trovare nei numerosi siti internet e articoli di giornale che ho consultato per ricostruire gli eventi che hanno portato alla nascita, alla gloria ed al successivo declino di questo paese dei balocchi italiano. L’elenco completo delle fonti che ho consultato per la mia ricostruzione storica e per la definizione della personalità del conte Bagno è indicato al termine di questo romanzo. Allo stato attuale, tuttavia, non esistono reali e concreti progetti di recupero dell’area la quale giace nello stato di abbandono dopo il rave party, descritto nelle pagine di questo libro, che lo ha devastato. L’idea di un centro wellness è nata dalla tesi di laurea dell’ing. Veronica Besana, di cui è possibile vedere pubblicato un estratto sul sito internet www.consonno.it, dove si possono trovare anche immagini del paese com’era durante gli anni ruggenti e come è oggi, nonché testimonianze di coloro che vi hanno vissuto e che ne sono stati testimoni dello splendore e della decadenza vissuta da questo angolo di Brianza.

La leggenda dell’ombra nella nebbia, accompagnata da un cane, esiste realmente, sebbene nella fantasia popolare del luogo non sia altro che l’anima del conte Bagno stesso condannata a vivere in eterno nel luogo da lui concepito.

Non si hanno, invece, notizia di incendi la notte della frana che segnò la fine del paese né di morti avvenute in quel periodo. Questi eventi, infatti, sono frutto della fantasia dell’autore e non fanno riferimento a nulla di realmente accaduto; almeno a quanto all’autore sia dato conoscere al momento attuale.

Tutti i fatti e le persone descritte in questo romanzo sono frutto di completa fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti accaduti o similitudini con essi è puramente casuale.

FONTI:

Nella stesura di questo romanzo l’autore ha fatto riferimento alla storia del paese di Consonno così come essa viene riportata dalle numerose cronache che è stato possibile consultare. L’autore, pertanto, non asserisce che le vicende relative alla storia del paese corrispondano effettivamente alla verità storica ma soltanto a come esse sono riportate nelle fonti bibliografiche indicate di seguito. L’elenco che segue riporta solo alcuni di tutti gli articoli che sono stati presi in esame come fonti per i fatti storici menzionati.

L’autore non intende in nessun modo giudicare l’operato e le scelte del conte Mario Bagno né quelle della giunta comunale dell’epoca o degli eredi attuali che non sono nemmeno menzionati nel libro. Tutti i fatti storici servono unicamente come contorno delle vicende di fantasia che sono descritte in questa opera. L’autore è pienamente disponibile a rivedere, modificare o rimuovere parti di questo romanzo qualora venga richiesto da coloro che sono in qualche modo legati a queste vicende di storia italiana.

Sito internetwww.consonno.itche contiene numerose fotografie sia storiche che attuali della zona nonché un dettagliato percorso storico di questo affascinante ma spettrale paese.

Sito internet di wikipedia alla voce consonno

Sito internet di “Lombardia in rete” alla voce: “Consonno: storiaccia di una speculazione”

Sito internetwww.italiaperduta.comnell’articolo dedicato alla storia di Consonno dove si trovano dettagliate descrizioni delle attività del conte Bagno in merito alla trasformazione del paese.

Articolo del giornale “La Stampa” del 20 agosto 2008 consultabile sul sito del giornale con il titolo: “Sesso e droga nel paese dei balocchi”.

Articolo del giornale “Il Giorno” del 5 dicembre 2011 consultabile sul sito del giornale con il titolo: “Nella città dei balocchi il fantasma del conte bambino”

Articolo del giornale “Il Corriere” del 2 marzo 2002 consultabile sul sito del giornale con il titolo: “Consonno: il paese che non c’è”.

Blogwww.unadonnasenzaimportanza.wordpress.comnell’articolo del 1 settembre 2012 dal titolo: “Consonno ed il conte Amen”

Sito internetwww.consapevolmente.orgnell’articolo dedicato alla città fantasma di Consonno.

Articolo del giornale “La tribuna di Lodi” del 7 giugno 2013 consultabile sul sito del giornale con il titolo: “Slot city: la storia (vera) della città vuota”

Articolo del giornale “Il Foglio” pubblicato in data17 aprile 2008 e consultabile sul sito internet www.ilfoglio.it