IL GIORNO DEL MALE
di Lorenzo Fabre
Prima Edizione Ebook
Il Giorno del Male Copyright © 2014 Lorenzo Fabre. Tutti i diritti riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale, senza l’esplicito consenso scritto dell’autore. Prima edizione Ebook: Aprile 2014. ISBN: 9788891141934 Youcanprint Self-Publishing Per richieste, commenti o informazioni, contattare l’autore direttamente dal sito web: http://lorenzofabre.com
Ai miei cari Amici sco e Tullio
per le giornate ate a fantasticare storie da noi create, senza le quali questo romanzo e “uno o due” dei suoi personaggi, non sarebbero mai venuti alla luce.
L’autore vuole inoltre ringraziare inoltre tutti quegli Amici che si sono prestati all’opera di lettura e correzione, con dedizione più che apprezzata.
Prefazione
Affacciarsi nel già vasto panorama della narrativa fantastica non è facile. Fin da quando l’uomo ha immaginato e rielaborato la storia di Re Artù e Merlino, la vicenda di Beowulf o quella del Paladino Orlando, le produzioni letterarie e cinematografiche hanno confinato il fantastico in stereotipi ormai così radicati nell’immaginario collettivo da renderlo inevitabilmente prigioniero dei cliché. Le pagine abbondano di castelli incantati, maghi, vampiri, streghe bellissime e creature demoniache.
Questo romanzo invece mira a raccontare ciò che sarebbe potuto succedere in una città simile a quelle dell’Europa medievale e in particolare in una delle Repubbliche Marinare italiane: Genova. Il mondo in questione è quindi pesantemente ispirato a quello storicamente esistito tra l’undicesimo e il quindicesimo secolo, rendendo perciò questo romanzo (in parte) figlio dei libri di storia, più che di quelli fantastici.
Ma perché questo dovrebbe essere diverso dagli altri libri che trattano di temi fantastici?
Gli abitanti della città dov’è ambientata la vicenda, vivono in nazioni ben lontane dalla “Frontiera”, dove abbondano le creature favolose delle più tipiche storie fantasy. Ecco che i draghi e i restanti esseri favolosi sono visti come irraggiungibili e inimmaginabili dai protagonisti di questo racconto, proprio come noi moderni li percepiamo come elementi di pura leggenda.
E cosa accadrebbe se in questa città tipicamente medievale, accadessero eventi
fantastici?
Questo è stato lo scopo: raccontare un mondo conosciuto sui libri di storia ma contaminato da creature ed elementi magici. Il tentativo di chi vi scrive, inoltre, è stato quello di dare un taglio “cinematografico” alle vicende ed ai dialoghi, dando solo alcuni elementi descrittivi essenziali perché possano essere immaginati facilmente dal lettore senza esagerare con le descrizioni troppo dettagliate tipiche del genere.
La speranza è di avvicinare i lettori al genere fantastico offrendogli un “antipasto” ovvero un substrato storico ad essi già noto, per poterli convincere ad assaggiare pietanze più “fantasiose”, con garbo e a loro piacendo. Nel romanzo troverete anche molte citazioni riconducibili a libri, giochi, film o musica che mi hanno ispirato; laddove vi fossero, esse devono intendersi come sinceri tributi di gratitudine al genio di chi le ha partorite e non banali copiature. Ne è un immediato esempio la frase d’apertura del romanzo e celebrante la Liguria, che in versione mitizzata rivive fortemente in queste pagine.
Dato che mi considero più un “raccontastorie” che uno scrittore, come tale avrò di sicuro commesso diversi errori che vi prego di segnalarmi contattandomi sul sito ufficiale http://lorenzofabre.com, per le prossime edizioni.
Ed ora vi auguro semplicemente buona lettura.
Lorenzo Fabre
Prima di cominciare
La teoria della “Impronta”.
Come potreste già aver letto dal sito LorenzoFabre.com, il Mondo di Fabre e il Mondo Reale dove viviamo e agiamo noi, sono collegati. Un evento che accade in uno dei due mondi lascia una “Impronta” o meglio “Impronta Storica” sull’altro. Questo significa che ciò che accade nel nostro Mondo potrebbe accadere in maniera simile anche in quello di Fabre (forse potrebbe accadere anche l’opposto). I due Mondi procedono sfasati ovviamente di un periodo di tempo non noto e questo può alterare l’insorgenza degli eventi. Qualcosa successo qui nel 1500 potrebbe accadere precocemente nel Mondo di Fabre, specie se si trattasse di un evento grandioso che quindi lascerebbe un’Impronta decisamente grande. Grandi eventi, come guerre mondiali o grandi conquiste o scoperte, tendono ad avere una sorta di “ansia storica” e a verificarsi più presto che possono nel mondo di Fabre. Questo non vuol dire che i mondi procedano come copia l’uno dell’altro perché fortunatamente esistono eventi spontanei insorti in ambedue i mondi che non necessariamente si verificano nell’altro mondo.
La Pronuncia dei nomi
Nel Continente immaginario dove è ambientata la vicenda, che è simile all’Europa medievale, si parlano numerose lingue. È quindi parso necessario trovare un modo per rendere la pronuncia dei nomi la più facile possibile senza abbandonarsi a grafie estranee all’idioma parlato dal lettore. La lingua che la maggioranza dei protagonisti del romanzo parla è il “volgare del sud”, nella sua variante lenvare, una lingua derivata dalla lingua imperiale
sabana: quest’ultima è diventata una lingua dotta e universale che potremmo paragonare al latino (o all’odierno inglese). Nel Continente si utilizza ancora discretamente la lingua imperiale sabana, come fu per il latino medievale, “storpiato” da quello antico attraverso contaminazioni successive. Il volgare lenvare, similmente a quello medievale italiano, è parlato dal popolo e ha sostituito gradualmente il sabano come lingua comune nella Repubblica di Lenvar, dove si svolgono le vicende. Nel romanzo questa lingua è tradotta come l’italiano corrente, mentre le parole in lingua sabana sono riportate come latino per consentire una più adeguata immedesimazione al lettore. Alcuni personaggi provenienti da altre nazioni “sporcano” occasionalmente con alcune parole prese in prestito da inglese e se.
Per verificare come si pronunci il nome proprio di un personaggio o di una famiglia è sufficiente controllare nell’appendice apposita alla fine del libro: non v’è pronuncia dei nomi alla se o all’inglese (perlomeno in questo romanzo), ma sono tutti da pronunciarsi all’italiana. Per alcuni personaggi che non provengono da Lenvar (pron: Lénvar), i nomi saranno scritti con alcune lettere prese in prestito dall’alfabeto inglese (come la y o la w), per sottolineare un’appartenenza etnica più esotica.
L’enciclopedia online del Mondo di Fabre
Sul sito LorenzoFabre.com troverete una enciclopedia online che contiene ogni informazione utile riguarda a questo libro e sul mondo dove è ambientato.
Le appendici in fondo al libro
In esse troverete una piccola enciclopedia dei nomi dei personaggi con una loro
sommaria descrizione (ottima se vi siete dimenticati qualche nome), una piccola descrizione di come è la vita nel Continente (ma se immaginate l’Europa tardomedievale siete già a buon punto), di come funzioni la Repubblica di Lenvar e la religione, per poi are alla parte più misteriosa. Le appendici non rivelano grossi particolari della trama e quindi potete decidere di leggerle in ogni momento.
La misurazione del tempo
Nel Continente è in uso un sistema di misurazione del tempo leggermente diverso dal nostro: il calendario sabano. Troverete una tabella comparativa nelle appendici.
“E quésta a l'é a mæ stöia, e ta-a véuggio contâ 'n pö prìmma ch'a vegiàia a me péste into mortâ”
“E questa è la mia storia, e te la voglio raccontare un po’ prima che la vecchiaia mi pesti nel mortaio.”
-- Fabrizio De André Sinan Capudan Pascià
Parte I: Gioventù.
“La vita è un'attesa tra un esame e l'altro.”
-- Sergio Leone
1. Prologo
Stringere bene lo scudo
Molti secoli fa, esisteva il Continente: un enorme affioramento di pianure, fiumi, monti e alberi, che si estendeva per decine di migliaia di leghe da est a ovest. Varie etnie di uomini lo abitavano a sud, mentre misteriose creature dimoravano a nord. L’Impero di Saba, che un tempo dominava tutto, si era dissolto da secoli, ma le sue vestigia di gloria erano portate avanti da regni, principati, comuni e repubbliche, che attraverso la spada o l’intrigo di corte tentavano di ritagliarsi il loro posto sul podio delle civiltà. Affacciata sul Mare del Sud, c’era la Repubblica di Lenvar: nazione di marinai e commercianti che prosperava grazie alle sue colonie d’oltremare e all’ingegno dei suoi mercanti, rivaleggiando con le altre potenze marittime. Tra le sue mura e i vicoli stretti sorvolati da gabbiani urlanti, alcuni dei suoi giovani abitanti avrebbero vissuto vicende che mai avrebbero potuto immaginare da uomini, accompagnati da veterani che già avevano assaggiato il potere del male sulla propria pelle. Questa è la vicenda di alcuni di questi individui che non ebbero paura di impugnare la spada per difendere i loro ideali e conquistare i loro sogni.
Si dice che un soldato in guerra sia un eroe oppure il peggiore dei malvagi. È curioso come pochi pensino a qualcuno che combatta in altra maniera rispetto a questi due estremi. Tra il folto schieramento dei Crociati, uno dei ragazzi appena ventenni che vestivano la tunica bianca con il Solecroce sopra l’armatura, non pensava ad altro che alla sua paura. "Stringere bene lo scudo". Valen Galron, questo il suo nome anche se tutti lo chiamavano Val, si mise a riare mentalmente tutti i consigli che il Sergente Caviled gli aveva dato. "La spada va allentata nel fodero, pronta all'estrazione. Controlla che l’elmo sia allacciato saldamente. Pianta i piedi per terra, esponi il corpo di tre quarti e alza lo scudo all’altezza della spalla. La lancia va impugnata... "
In quel momento Val Galron comprese che quel giorno avrebbe ucciso qualcuno, oppure sarebbe stato ucciso. Forse entrambi. "Perché sono qui?!" pensò. "Perché non me ne sono restato a casa con la mia famiglia?! Perché?!" Era solo un ragazzo, un abitante di Lenvar: quello era il nome della sua cittàstato, circa quarantamila anime, senza contare il territorio su cui governava il suo Doge e le numerose colonie d’oltremare. Quel giorno Vale se ne stava in mezzo ad un’orda di soldati strepitanti, molto anche più giovani di lui. Osservava il folto schieramento di Gaberne, di fronte a quello lenvare. Val allora alzò la testa e guardo il cielo: fissò la croce rossa con i grifoni di Lenvar che sventolava sopra il suo capo. “È per questa croce che sono qui,” pensò. La piana brulicava di decine di migliaia di uomini ammassati come formiche, disposti in blocchi grossolanamente rettangolari, che esponevano numerosi stendardi al vento e portavano tuniche di vari colori. Chiasso e nitriti, urla e tintinnii facevano da accompagnamento alla scena che si presentava davanti ai suoi occhi. Spade, bandiere, elmi luccicanti. Frecce incoccate, lance e scudi: tutto era pronto su quel palcoscenico per la strage che stava per accadere. A meno di ottocento i da loro, l’armata gabernica si stagliava lontana ma minacciosa. C’erano molti cavalieri tra le sue file e questo complicava le cose.
Sulla pelle Val indossava una sottoveste: sopra portava una cotta di maglia di ferro rinforzata da un corpetto borchiato e due spallacci di metallo battuto. Indossava pantaloni di maglia, bracciali e schinieri, una cuffia di maglia che aveva lasciato ricadere sotto il collo (lo infastidiva parecchio indossarla) e l’elmo “a barbuta” che proteggeva quasi tutto il viso. Sopra il corpetto era fissata con una cintura la tunica bianca con il simbolo del sole a quattro raggi: il Solecroce di Sant’Isior, simbolo della sua Ecclesia. Sullo scudo, diviso in quarti da una croce rossa, c’erano i simboli del Solecroce e il grifone rosso della Repubblica di Lenvar. Portava poi la spada di acciaio che si era forgiato e gli era stata consegnata all’investitura (una buonissima lama, dato che il Sergente
Caviled lo aveva aiutato nella forgiatura). L’armatura pesava ed era imbottita, ma nonostante questo Val aveva freddo e i brividi. Era la paura: la conosceva e la odiava ed essa lo invadeva. I chierici avano rapidamente per lo schieramento con i loro incensatori:
“Ego vos absolvo ab omnibus peccatis vestris. Aeternus Rector dona eis vim. Ad tuum Paradisum, filios tuos defunctos recipe.”
Lo dicevano cercando di fare presto: tante anime sarebbero ascese al cielo e non c’era tempo da perdere. Gli uomini erano spaventati: dietro alle file dei contadini, i “Motivatori” gridavano come cani furibondi, le loro voci amplificate all’interno di grossi coni di rame. Essi erano uomini appartenenti alla ricca borghesia o alla nobiltà della Repubblica, con amicizie in genere influenti che gli garantivano un posto lontano dalle prime linee. Erano anche chiamati Asce d’Oro, perché il loro equipaggiamento, pari a quello dei Crociati per qualità, li dotava di una grossa ascia dalla testa dorata. Il loro compito era di coordinare ed incitare i coscritti delle campagne, poco addestrati e spesso indisciplinati e impedirne la ritirata: a questo servivano le asce che portavano sulla schiena. Erano odiati da tutti i soldati Lenvari (che li chiamavano “mastini” o “bavosi”) e appartenere a questo corpo non era certo motivo di vanto o pregio, ma segno di codardia. La stessa codardia che essi dovevano impedire.
Val guardò l’erba alta. Adesso che aveva paura gli sembrava così bella e florida mentre il vento la muoveva appena. Mista ai cardi, alle ginestre, alle eriche, ai denti di leone. Si ricordò dei crochi d’inverno quando l’erbetta è bassa che quasi finge di essere incollata alla terra. Gli alberi erano belli e verdeggianti, da soli o a gruppetti sulla piana che estendeva fino al Mare del Sud, così blu da sembrare di zaffiro. Qualche muretto a secco giaceva abbandonato, costeggiando piccole stradine battute che dividevano i poderi. Fu l’urlo del Sergente Caviled a riportare il giovane alla nuda realtà della guerra.
«Avanzano! Issate gli stendardi! Muro di lance frontale! Gli elmi ben allacciati: la prima linea prenderà parecchie sberle, specie sul capo. Tenete gli scudi alti e occhio ai fendenti. State saldi, non cedete alla paura! Ogni fratello è responsabile di chi gli sta accanto oltre che di se stesso! Per la Repubblica, San Vardem e Sant’Isior!» Val si dispose piantando i piedi a terra, lo scudo alto e la lancia tenuta saldamente. Alzò gli occhi al cielo, come per chiedere forza: a Sant’Isior e a suo padre, al nonno, a tutti coloro che gli avevano voluto bene e non c’erano più. Il tamburo batteva sordo a intervalli regolari a segnalare di mantenere la posizione, i corni squillarono il medesimo comando. La paura e la frenesia si mescolavano nell’aria, le armature cozzavano l’una con l’altra, qualcuno intonava canti e frasi per darsi coraggio. Le bandiere azzurre dei gabernici si avvicinarono. I balestrieri avevano teso le loro corde ed erano pronti a trucidarli. Ser Ianos, sul suo splendido cavallo nero poco bardato, cavalcò davanti allo schieramento dei Crociati, incitandoli. «Pronti! Impartite le vostre benedizioni! Proteggete con le preghiere le prime file! È l’ora dei Miracoli!» Val prese il suo Cerìse e intonò le parole rituali in antico sabano:
Sancte: in nomine tuo credo; cum tua vi, resisto! Ne permìttas ab te separàri. Anima Isioris, sanctìfica me!
Di fronte ai crociati un polverone come un enorme sciame di vespe, avanzava inesorabile: una massa di cavalli mandati al galoppo selvaggiamente, le lance dei cavalieri gabernici ormai basse. Val osservò i cavalieri guadagnare mero su metro, diventando sempre più grandi, mano a mano che si avvicinavano. Il rombo delle centinaia di zoccoli ammutolì tutti. “È la fine”, pensò il ragazzo. “Qui finisce la mia vita. Ti chiedo perdono per tutto
ciò che di male ho commesso, Eterno”. L’urto quasi spezzò un braccio a Val, che fu travolto e finì a terra. La sua lancia si conficcò ciecamente nel corpo d’un animale: si vide arrivare i denti del cavallo a pochi centimetri dalla faccia, la bocca spalancata dal morso tirato selvaggiamente dal cavaliere. Fu schizzato di sangue. Sperava non fosse suo, ma non ne era certo: era come se avesse perso ogni sensibilità. Attorno a lui, mentre la sua lancia si spezzava, corpi si ammassavano gli uni sugli altri. Il clangore del metallo su metallo era assordante, ma la linea aveva tenuto. I gabernici rimasti in sella menavano fendenti sulle teste dei Crociati, ma erano disarcionati e uccisi senza pietà. Dopo una prima esitazione, Caviled gridò di ingaggiare liberamente il nemico: «All’attacco! All’attacco!». I corni e i tamburi ribadirono l’ordine. Val sguainò la spada e corse contro il suo destino, urlando.
2.
Amici di vecchia data
Aveva solo tredici anni il nostro Val, quando era entrato al Grande Tempio di Sant’Isior. Sua madre, Milesia, era contraria a vedere il figlio brandire una spada e rischiare la morte contro chissà quali creature mostruose, come si confaceva ad un vero Crociato di Sant’Isior. Ma di creature non ne erano rimaste molte in quei tempi “civilizzati”: gli esseri crudeli e malvagi delle fiabe erano spariti dal Sud del Continente e la razza Umana aveva proliferato senza sosta fondando numerosi regni, ducati e repubbliche. Niente draghi, niente mostri: solo la politica, le guerre di confine, carestie, matrimoni reali, epidemie e i litigi tra i nobili.
La sua terra, Lenvar, era una Repubblica da qualche secolo: da quando aveva cacciato il Re, colpevole di avere ostacolato (si disse) il suo sviluppo. Le grandi famiglie feudali avevano preso il controllo di tutto e con l’avvento delle Grandi Guerre e delle Crociate, avevano esteso il controllo su numerosi porti e isole in tutto il Mare del Sud. Si erano quindi creati “nuovi ricchi”: i mercanti. Lenvar disponeva di una delle più grandi flotte militari e commerciali del Continente ed era sempre in lotta contro chiunque si affacciasse sul mare e osasse ostacolarne i commerci. Le famiglie mercantili diventarono sempre più ricche e iniziarono a litigare tra loro e contro le casate nobili per il governo della città e del territorio. Lenvar era una città che profumava di sapori e mestieri, la sera; l’aria di mare, densa e salata, pervadeva i suoi stretti vicoli fatti di case alte che toglievano la luce alle strade. Val amava la sua terra e non avrebbe voluto lasciarla per nulla al mondo. La storia si dimostrò piuttosto diversa.
Si mise di buona lena a percorrere la lunga rampa ad arcate di pietra che scavalcava le case di Via della Grande Madre e saliva verso la Collina del Tempio Rosso. Mentre camminava, Val osservava il caotico vivere della capitale della Repubblica: i pescatori gridavano spingendo logori carretti di legno esaltando il gusto dei frutti del mare ed offrendoli a quello che per loro era “un ottimo prezzo”. La segatura veniva spazzata fuori dalla bottega di un carpentiere
mentre due garzoni trasportavano verso il porto un gigantesco remo, destinato ad una potente galea da guerra. Un corpulento caporale degli Alabardieri tentava di allacciare maldestramente la sua cintura, mentre il fodero della spada ballonzolava da tutte le parti. Il cielo era nuvoloso e c’era tanta umidità in quell’inizio d’autunno. I vicoli erano densi dell’andirivieni di mercanti, artigiani, mendicanti, prelati e soldati che li percorrevano.
Val si fermò e si appoggiò al parapetto in pietra: osservò la Cattedrale Matriana che si ergeva in lontananza. I suoi campanili si stagliavano proprio al centro della città vecchia. Ai bordi della rampa v’erano statue fatte con diverse qualità di pietra che illustravano le gesta dei grandi uomini dell’Ecclesia, Crociati e Paladini, che avevano reso ai Santi, all’Eterno Reggente o alla Repubblica grandi servigi e compiuto leggendarie imprese. “Io non voglio diventare un vecchio curvo che ha visto il mondo soltanto sui libri: io voglio fare la storia, non assistervi”, ripensò tra sé. Come aveva detto alla madre Milesia, quando lei amorevolmente tentò di opporsi al suo voler tentare la carriera militare.
In cima alla rampa eccolo infine: il Grande Tempio di Sant’Isior, o Tempio Rosso, l’edificio di culto più grande dopo la Cattedrale. Era quadrato, costruito con pietra dipinta di rosso ed ornata da splendidi marmi, nicchie, colonne e statue di stupenda fattura. Era sormontato da grossa cupola rotonda, come imponeva la moda architettonica sabana e due giganteschi campanili laterali color crema torreggiavano sulla struttura. Si affacciò all’interno: grandi finestroni colorati sulle pareti laterali trasmettevano sul pavimento decorato un tripudio di luci gioiose. Dietro l’altare sorgeva un grosso monolite di porfido, interamente scolpito di scene sacre e sormontato dal simbolo del Solecroce, il sole a quattro raggi che il culto di Sant’Isior aveva come simbolo. Sopra di esso, la Clessidra Spaccata, il simbolo dell’Eterno Reggente, la divinità che poteva tutto e centro della religione dell’Ecclesia Matriana. Annesso al Tempio vero e proprio, vi era il Convento, con un bellissimo chiostro e un altro piazzale interno, dove gli accoliti o i fedeli si riunivano per addestrarsi o pregare e dove i Chierici e i Crociati vivevano.
Valen si addestrava al Tempio Rosso da qualche mese ormai. Mentre cresceva era inquieto: nonostante dovesse, come tutti gli altri ragazzi, apprendere le lezioni così come gli erano proposte (“mangiare la sbobba”: così lui stesso definiva il metodo di insegnamento datogli dai prelati), la sua mente diveniva sempre più critica. Alcuni dogmi gli apparivano stupidi e arcaici ed egli era sempre più avido di sapere. Era simile a suo padre in questo: si documentava da solo e ascoltava ciò che gli veniva detto anche dai prelati minori che avevano meno voce in capitolo, o dai Conversi (la fanteria “laica” dei Crociati). Tuttavia, Quando provava a parlare dei suoi dubbi teologici ai Chierici, essi sviavano il discorso, non gli davano spiegazioni soddisfacenti o peggio gli intimavano di “non fare domande” e questo lo frustrava ancora di più. E le volte che Val discuteva le sue visioni filosofiche con gli amici, essi non davano molta importanza alla cosa. L’unico dei maestri che andava a genio a Val era il Sergente Caviled. Un giorno particolarmente caldo aveva sete; perciò si era avvicinato al pozzo nel chiostro e aveva visto un Crociato in uniforme da Ufficiale che vi stava armeggiando. Era un uomo sulla trentina, di bell’aspetto: alto e slanciato, con i capelli castani e il viso rassicurante. «Ragazzo, aiutami, prendi un attimo la corda mentre io tiro su. Si è rotta la maniglia» rispose l’uomo. Val prese la corda con una sola mano: pensava vi fosse appeso un normale secchio e non un intero bacile. Non riuscì nemmeno a tenere la fune per un istante e il contenitore ricadde fragorosamente in fondo al pozzo. «Diamine! Non hai molta forza, vero?» gli disse l’uomo, senza alcun sarcasmo nella sua voce, preoccupazione piuttosto. «Beh, un Crociato di Sant’Isior deve essere forte di braccio, certo, ma soprattutto di mente. Questa prova non vuole dire nulla. Come ti chiami?» «Valen Galron.» «Io sono il tuo Sergente, mi chiamo Caviled. Adesso però devi aiutarmi meglio di prima: impugna con due mani la corda e tira con tutta la forza.»
Val obbedì ed infine il bacile emerse. «Ogni sfida è proporzionata a ciò che sei, finché ti addestri: ma quando sarai fuori, le sfide semplicemente ti saranno poste innanzi con ben poca facoltà di scelta e sarai tu a decidere quali potrai affrontare. Per questo devi essere sempre preparato all’imprevisto. Hai capito?» «Sissignore!» «Sii gentile: porta l’acqua al confratello furiere. Mi raccomando, nei prossimi mesi fa’ tanto esercizio, come spaccare la legna o portare questi secchi pieni nel refettorio. O aiuta i Conversi con i sacchi di farina. Sembra una sciocchezza, ma se lo farai a lungo ti irrobustirai. Io l’ho fatto e non sono poi da buttare, no?» «Oh no, affatto!» disse Val. Trovava così simpatico quest’uomo. «Devo andare ora, Sergente: ho lezione di teologia!»
Tutti gli accoliti parlavano di Caviled: «Il Sergente è sempre così gentile» disse Dagovir. «Pensavo fosse più giovane ora che lo vedo bene» disse Val. «Oh, non farti ingannare: io l’ho visto usare la spada, prima che tu arrivassi al Tempio» disse Dagovir. «È rapido e lascia stancare l’avversario finché non gli bastano uno o due colpi per metterlo al tappeto.» Dagovir, o semplicemente Dago, era diventato uno degli amici di Val. Robusto, mento squadrato e uno sguardo rassicurante, portava i capelli in un caschetto biondo paglia. A Valen piaceva il modo di fare di Dago: era gentile quando era necessario ma mai fastidioso. Spesso Val cominciava a parlare di storia, di battaglie e draghi; Dago si metteva lì ad ascoltarlo, quasi sognante e alla fine di ogni racconto diceva: «Demoni degli Inferi, Val, quante cose che sai!» E a Valen piaceva che glielo dicessero. «Però, tutti dicono che Caviled dovrebbe essere già cavaliere e invece è ancora Sergente» disse Val. «Mi chiedo perché non abbia deciso di far carriera.» «Perché non può» disse una voce boriosa. «Ha combinato qualche guaio in
ato» aggiunse Marsten irrompendo con arroganza nella scena. «Non si sa esattamente cosa, ma mio padre me l’ha detto. Non c’è da fidarsi di lui.» «È impossibile» ribatté Val. «Sei un ingenuo, Valen. Lo sanno tutti che ha un ato pieno di ombre. Stagli vicino e un giorno ti troverai nel pozzo a faccia in giù!» rispose il nobile. Galco Marsten III era il classico prototipo del nobile viziato e tiranno di cui sono piene le favole: quello che alla fine della storia viene sempre sconfitto dal povero. Ma nella realtà, Galco faceva il bello e il cattivo tempo come voleva: non aveva potuto aspirare ad un titolo nobiliare valido, non essendo il primogenito e così aveva tentato anch’egli la carriera militare-religiosa, come Valen e Dago. La famiglia di Val era di estrazione patriziale e quella di Dago era mercantile, mentre i Marsten erano una delle casate più antiche ma non molto benvolute. Marsten era castano con il naso un po’ a patata e freddi occhi azzurri, il sorriso beffardo e una faccia letteralmente da schiaffi, da “so tutto io”. Non dormiva nelle celle con gli altri accoliti, ma grazie ad una “donazione” fatta dal padre al Tempio, aveva una stanza propria, come gli Ufficiali o i Cavalieri. A Val non importava molto l’opinione di Marsten: anzi sapere che il ragazzo non stimava il Sergente lo rendeva ancora più simpatico.
Oltre a Dagovir, l’altro amico di Valen era Salaran Mornei, soprannominato Ran: un ragazzo muscoloso, dai capelli castani raccolti in una coda e profondi occhi scuri. Salaran aveva solo tredici anni come Val, eppure parlava già come un uomo e gli sembrava più grande. Una cosa strana dato che Val stesso si sentiva più vecchio quando stava con ragazzi della sua età. Avrebbe imparato conoscendolo che Salaran era un po’ tronfio eppure c’era sempre del vero in ciò che diceva, per quanto venato da screziature di cinismo e senso pratico. Val era in fondo un illuso idealista: per lo meno all’inizio della sua carriera. Quando Val l’aveva conosciuto, Ran stava litigando con Padre Adis. «Per l’ultima volta, Mornei: non puoi saltare le lezioni di teologia per andare nel ginnasio ad addestrarti!» gli aveva detto il chierico. «Quando ci manderanno a combattere, cosa racconteremo ai nemici? Di come San Matri ha trasformato in oro un ago di ferro? O sarà più utile sapere come
mulinare una spada?» era stata la risposta sfrontata di Ran. «Blasfemo! Io ti… ti…» aveva bofonchiato Padre Adis. Val era divertito: Padre Adis era un buffo personaggio, austero e conservatore. Era di indole buona: diceva sempre di sì e tutti sapevano che non avrebbe mai punito neppure un’offesa del genere. Nessuno lo rispettava proprio per questo. «D’accordo Padre, non fatevi venire un infarto. Vado a leggere un po’ delle vostre… leggende.» «Chi è quel chierico?» aveva chiesto Val sorridendo mentre Adis se ne andava ostentando soddisfazione. «Forse potremmo usare i libri più pesanti per lanciarli con le catapulte!» aggiunse Val. Salaran gli sorrise: era stato proprio quel sorriso reciproco ad avvicinare i due ragazzi.
Interi anni erano trascorsi scanditi da preghiere e campane. I ragazzi crebbero e i loro caratteri maturarono. Marsten era sempre più insopportabile. Era prassi dei maestri di combattimento dividere i ragazzi in gruppetti: uno era composto da Val, Ran, Dago, Marsten e altri due ragazzi, Fagril e Patri. Quest’ultimo rovinava spesso tutto nelle esercitazioni fisiche: era troppo ansioso. Salaran che era di certo il migliore del gruppo, si arrabbiava spesso e litigava con Patri. Marsten non era particolarmente dotato ma era visibilmente contento che ci fosse qualcuno peggiore di lui e non mancava di schernirlo. D’altra parte Marsten non veniva mai sgridato da nessuno dei Chierici e la cosa non stupiva: quando il padre visitava il Tempio, era accolto in pompa magna e quasi sempre elargiva un obolo consistente, ufficialmente per motivi religiosi, praticamente per comprare il silenzio sulle mancanze del figlio. Fu per Caviled che Val e Marsten, il cui rapporto era ormai logoro, arrivarono alle mani dopo l’ennesima battuta di Marsten sul ato del Sergente. Questa volta il nobile andò a dire che il Sergente era un sodomita, costretto a fare il combattente perché eunuco. I due ragazzi si picchiarono selvaggiamente lontani dagli occhi dei prelati e fu Salaran a dividerli. Disse a Val che non ne valeva la pena, che Marsten era protetto, intoccabile. Andava così in quel mondo: Ran era sempre pragmatico.
Disse a Val che semmai avrebbe dovuto lavorare per acquisire potere e un giorno restituire a Marsten il suo disprezzo con gli interessi. O più probabilmente lasciare perdere.
Quella fu la notte di uno di quegli incontri che cambiano la vita ed accadde proprio questo ai due accoliti. Il sole era tramontato da un pezzo mentre Ran accompagnava Val a casa: i due ragazzi discussero a lungo mentre percorrevano i vicoli tra gli odori ora di cibo, ora di spezie, ora di escrementi e urina. «Non reggo più Marsten. Guarda: ho anche la tunica nuova strappata, adesso.» «Che t’importa di quella! E poi tu non hai fatto mai molto per andare d’accordo con lui» lo rimproverò Salaran. «Potrei dire lo stesso di te» ribatté Val. «Non mi curo di lui: lui ha visto in te un’opportunità di scontro e non vede l’ora di sfruttarla. Io non gli ho dato motivo di attaccarmi come fai tu.» «Con oggi direi che gli darò ulteriori motivi, allora.» «Non ci guadagneresti nulla e poi…» Mentre Ran diceva questa parole, Val urtò una persona che correva trafelata. «Scusi, signore» disse Val. «Sono mie le scuse...» rispose il tizio che era stato urtato. Era poco più basso di Val e portava una zazzera di capelli castano chiaro, tutti arruffati. Doveva essere un poeta o un bardo poiché era ben vestito di colori sgargianti ed aveva un certo portamento teatrale. I suoi occhi azzurri guizzarono in direzione del Crociato. «Hai fretta di romperti il collo? Ti puzza forse la vita?» commentò Ran che era decisamente meno incline al perdono di Val. «Non proprio» rispose frettoloso il ragazzo urtato. «La aiuto a raccogliere la borsa» disse Val.
«Grazie, ma è poca cosa» disse il giovane. Fu fulmineo, si chinò e raccolse il fagotto, che tintinnò quando fu alzato. «Oh, non intendevamo rubarvelo, siamo Crociati» disse Val. «O meglio accoliti, veramente.» Dietro di loro, udirono un forte vociare. «Bene allora parlatemi del vostro mestiere» disse il giovane tirando Val per un braccio nella direzione opposta a quella del vocio. «A che pro?» disse Ran incuriosito da tanto sospetto interesse. «Beh» disse Val colto alla sprovvista, «non credo sia il luogo…» «Oh sì, interessante» disse il giovane facendosi sempre frettoloso. Non aveva ascoltato mezza sillaba e continuava a tirare Val. «Ehm, come vi chiamate, Signore? Io sono Galron, Valen Galron ma potete chiamarmi Val» rispose l’adepto tirando via il braccio dalla presa del giovane. «Corvin» rispose il giovane. «Corvin... Siblei» disse dopo una certa esitazione. «Siblei? Dunque siete...» disse Ran. «Non proprio: sono Corvin Siblei il Giovane. Quello che intendete voi è…» rispose Corvin guardando dietro di sé preoccupato. «Che onore conoscervi! La vostra famiglia onora la Repubblica e scusate per avervi arrecato disturbo» disse Val fermandosi di botto e facendosi sorridente. «Va bene, sei perdonato Var... Garr, insomma: nessun problema» disse Corvin. «Vogliamo andare a bere qualcosa? Offro io. Però per piacere allontaniamoci da qui.» «Fermi voi laggiù!» disse una voce dietro di loro. «Ecco fatto» disse Corvin alzando gli occhi al cielo. «Ci mancava questa!» «È solo un Alabardiere» disse Val. «Ehilà Signore!» disse l’accolito.
«Manf, porta il lume, vediamoli in faccia!» disse l’Alabardiere ad un collega, che portava una lanterna. Illuminò in volto Val, quasi accecandolo. «Ladruncoli! Bene, riceverete tante scudisciate da farvi are la voglia di rubare!» disse il primo Alabardiere, agguantando Val. Un terzo alabardiere prese per le spalle Salaran che rimase fermo con un’espressione accigliata. «Tre pronti per la gogna» ghignò il terzo alabardiere «Dirò a mio figlio di portarsi un bel sacco di sterco di cavallo da lanciare a questi bastardi!» «Non siate ridicoli!» tuonò Salaran. «Come!? Di cosa siamo accusati?» disse Val preoccupato. «Slacciate i cinturoni! Portate spade dentro le mura. E dopo il tramonto per giunta!» tuonò quello che sembrava essere il comandante. «Forse possiamo farvi sbattere in galera qualche mese, se la vostra mamma non viene ad implorarmi… personalmente.» «Tu là! Vieni qua subito o ti infilzo come un tordo!» disse il secondo Alabardiere andando verso Corvin che non si era mosso. «Siamo Crociati, possiamo portare le spade!» ribadì Val. L’atmosfera era confusa: da un lato Ran e Val tentavano di protestare, dall’altro le urla degli alabardieri e il loro fare minaccioso li stava preoccupando. «Sono il figlio del Doge, Sua Eccellenza Oberius Corvin Siblei» disse solenne Corvin. «Chi mi intima di muovermi?» «Certo e io sono il Patriarca! Ora ti dò la benedizione a furia di sberle! Forza canaglia, vediamo la tua faccia» disse la Guardia. La lanterna illuminò il volto torvo di Corvin. Egli alzò regalmente il pugno in avanti e mostrò un anello con sigillo che l’Alabardiere guardò con attenzione. «Questo dove l’hai rubato?» chiese la guardia. «Fate attenzione a ciò che affermate! Se le vostre parole fossero nel torto, di certo avreste da ridire con i superiori sulla legislatura voluta dall’Eterno, che ha
preposto omnia cosa affinché la vostra perizia fosse infallibile.» La guardia lo fissò sbigottita. Chi parlava in maniera così incomprensibile doveva per forza essere un nobile, era chiaro. O un guitto. Ma l’anello non lasciava dubbi. «Perdonate, Sire. Cercavamo un ladro che ha rubato in una bottega qui dietro. A quanto pare questi due furfanti stavano per aggredire anche Vossignoria!» disse il secondo Alabardiere indicando Ran e Val. «Questo scricciolo non ha niente indosso a parte la spada e il borsello. Porta una cappa, sembra da Chierico!» disse il primo Alabardiere squadrando Val e spingendolo malamente contro un muro. «Questi è Varlon, un mio caro amico ed è stato in mia compagnia tutta la sera, come il suo amico ehm… Dàghee, sì. Stavamo eggiando amabilmente per questi vicoli, prima che ci bloccaste come comuni ladri» disse alterato Corvin. «Lasciali» disse il comandante. «Perdonate, Vostra Grazia, ma capirete, è nostro dovere...» «L’avete fatto, per quanto brutalmente. Continuate a cercare il ladro, noi ce ne andiamo. Ringraziate che non proferirò reclamo ai vostri superiori, tsè!» disse Corvin. Corvin si allontanò velocemente per la discesa seguito da Salaran e da Val che si riallacciavano i cinturoni, voltandosi ancora increduli. «Dàghee?» chiese Salaran «Ehm… era il nome del secondo cane di mio zio. Gran cacciatore: dovresti essere onorato che abbia inventato per te un nome così regale.» «Mi avete chiamato come un cane?!» fece Ran un po’ contrariato. «Grazie Sire Corvin, vi ringrazio per avere detto la verità!» disse Val. «Dammi pure del tu, Varlon.» «Galron, mi chiamo Galron. Ed è il cognome, Valen è il nome, Val se vi
aggrada.» «Scusa, Val, ho capito. E voi “Dàghee”? Qual è il vostro nome? «Salaran… Ran.» «Quasi quasi preferivo Dàghee. Allora Varrol, a quale Ecclesia appartenete?» disse Corvin, ma quando ebbe finito di parlare qualcosa gli cadde dal fagotto. «Valen, non Varrol…» «Sire, avete perso un... bracciale?» disse Ran raccogliendo un ornato pezzo di metallo, forse d’oro. «Sì grazie ecco lo metto qui dentro con discrezione, non vorrei il ladro ci stesse seguendo» disse Corvin. Val sbirciò sotto il lembo del fagotto e vide che dentro c’era qualcosa che luccicava. Si fermò, guardò in faccia Corvin e disse: «Un momento: voi... non sarete il ladro?» «Diamoci del tu, ripeto. Prima che tu salti a conclusioni affrettate, non ti ho ancora detto che restituirò questi al proprietario. Ho fatto solo un po’ di esercizio per il VERO impegno di stasera. Venite» disse Corvin spostando delicatamente Val che gli ostruiva la strada. «Anzi potreste anche accompagnarmi!» Val non sapeva se era una buona idea: Corvin era il figlio del Doge ma era anche un ladruncolo! Guardò Salaran in cerca di consenso; il suo amico alzò le spalle e disse sospettoso: «Diteci che avete in mente.» Corvin iniziò a camminare per gli stretti vicoli con i due adepti. «Sire, perché fate questo? È un modo per controllare che la Ronda Cittadina funzioni?» chiese Val. «Mi hai di nuovo dato del “voi”. Comunque, in risposta alla tua domanda: no, semplice divertimento personale» rispose Corvin sfoderando un sorriso a trentadue denti. «Non danneggio troppo nessuno e per me è un ottimo modo per sfuggire alla noia. Non tengo per me niente... che non mi piaccia davvero,
s’intende e questa roba è troppo pacchiana.» «È pur sempre furto! Io ora dovrei denunciarvi!» disse Val. «Certe volte sei noioso, Val» disse Ran. «Va benissimo, Val, è il tuo dovere. Non v’insegnano questo al Tempio di... di quale tempio siete?» disse Corvin. «Sant’Isior. In effetti, voi potevate non fare niente per scagionarci... Difficile decisione…» «Non fartene colpa Val, sei in una di quelle situazioni che vedono scontrarsi fedeltà a qualcosa e onore. Cosa scegli?» «Sempre l’onore. Le istituzioni a cui ci affiliamo per credenza o riparo non sempre possono darci le garanzie di vera giustizia» rispose l’adepto, con voce impostata, come se sapesse a memoria quella frase. «Che belle parole! Le condivido!» disse Corvin. «Me le disse una persona saggia» disse Val guardando il cielo. «Venite: riconsegnerò questi ori a chi appartengono realmente.»
Di fronte a loro si trovava il portale per il Ghetto dei nani. La sera il portone era chiuso e un alabardiere sostava davanti alla porta. I nani erano curiose creature. Alti un metro e mezzo, tarchiati e robusti, avevano cura solo per due cose: le ricchezze e le loro barbe che curavano come le belle fanciulle umane curavano i loro capelli. Si erano confinati in città nel loro ghetto, preferendo vivere tra loro e la notte avevano ottenuto di chiudere i portoni di accesso alla loro area. Il grosso di loro erano mercanti di gioielli o minerali, ma una discreta fetta dei nani praticava l’usura con interessi a volte esorbitanti. «Devo entrare lì» disse Corvin. «Se non avete un lasciaare, ne dubito» disse Ran.
«Uomo di poca fede. Venite.» Corvin fece il giro del quartiere e mostrò ai due adepti una serie di mattoni che sporgevano a varie altezze di un muro. «Io mi arrampicherò su: sembra tutto tranquillo, perciò… se volete venire con me…» «Cosa? Introdurci di notte nel ghetto significa farci ammazzare dai nani o arrestare!» obiettò Val. «D’accordo, andrò io. Aspettatemi qui e dopo berremo qualcosa assieme!»
«Eccoli qua, i piccoli bastardi!» disse una voce. L’accento non era lenvare. «Tombola!» disse Corvin mettendosi le mani sul volto. «Questi sono belli carichi» disse un altra voce. «C’hanno la roba nostra!» «Lo sai a chi hai rubato?» ripeté la prima voce. «A un criminale che opprime le persone e le sfrutta quando sono in difficoltà» rispose Corvin voltandosi lentamente e mettendo mano al pugnale. «Frega meno di niente! Lo avevamo visto prima noi e ora ce la ridai!» Val e Salaran fissarono il buio: la voce sembrava provenire dal nulla. Poi un sibilo e Val fu colpito in pieno. Sentì un dolore atroce alla testa, e il rumore di un sasso che colpiva il selciato dopo avere rimbalzato sul suo cranio. Tre giovani individui vestiti di abiti rozzi e unti uscirono brandendo bastoni e coltelli, urlando. Val si toccò la tempia e vide il sangue sulla mano. Infuriato sguainò la spada e così fece Ran. Uno dei teppisti gli si avventò contro mulinando un grosso bastone. Colpì Val a una mano e la spada gli cadde. Ran menò un fendente dall’alto al suo avversario:
la lama gli si conficcò nel bastone che rimase attaccato e così disarmò il malvivente. Corvin teneva a bada il terzo con il pugnale. Val si trovò l’assalitore sopra di lui che lo percuoteva col suo bastone: ebbe la prontezza di afferrarlo con due mani e strapparlo via mentre con lo sguardo cercava la spada. Il criminale si chinò su di lui per strangolarlo: aveva i denti gialli e puzzava di sudore e alcol come se ne avesse scolato una damigiana intera. Le mani si strinsero attorno al collo e Val emise dei gemiti gutturali. Chiuse gli occhi e fece quello scatto. Il ginocchio colpì qualcosa di morbido e le mani si aprirono dal suo collo lasciandolo boccheggiante ma libero. Il criminale si rotolava al suolo con le mani sul pube. Val era accecato dall’ira: prese il bastone e cominciò a colpire e colpire. Ogni urto un grido di dolore, poi: “basta! Basta! Aiuto!” Ma non ascoltò e continuò finché non si formò un silenzio quasi surreale. Allora Val lasciò cadere il bastone a terra e vide la scena: Corvin stava ancora puntando il pugnale contro il suo avversario che si teneva la spalla insanguinata. Ma ciò che lo colpì fu lo sguardo di Ran: gli occhi spalancati e la bocca semiaperta. Anche il suo oppositore aveva lo stesso sguardo ma respirava a boccheggi, come se avesse fame d’aria. Val abbassò leggermente lo sguardo: dalla schiena gli usciva la punta della lama di Salaran. Quest’ultimo lasciò l’elsa, incredulo. Il criminale lo guardò un istante: poi cadde in ginocchio, e alla fine si afflosciò sul fianco tossendo. Finché non si mosse più. Quello ferito da Corvin scappò via. Il terzo era una maschera di sangue al suolo, ma era ancora vivo. «Ran…» disse Val tendendo una mano verso l’amico. Egli non rispose. «Io testimonierò che mi avete aiutato a resistere a una rapina» disse Corvin. Ma Salaran continuava a guardare il cadavere di fronte a lui. «Non credo che quel bastardo andrà dagli Alabardieri a denunciarci» disse Ran, freddamente. Estrasse la spada e un fiume rosso uscì dalla pancia del morto. Ran la pulì sul cadavere. «Ran…» ripeté di nuovo Val. «Guarda che lo so il mio nome» gli rispose bruscamente l’amico. «Dovrei far vedere il corpo a Padre Adis e chiedergli se non sono stati utili gli esercizi extra.»
«Come ti senti?» gli chiese Corvin. «Che cosa vuoi che mi freghi di questo qua?» rispose Ran. Ma la voce a Val sembrò essere un po’ tremolante. «Era la nostra vita o la sua. No, non sono pentito e poi beh… sono un Crociato o meglio lo sarò. Devo abituarmi.» Ran non aveva ancora realizzato cosa avesse fatto e Val lo capì. Aveva spezzato una vita: non era importante che fosse per difesa o meno. A Val venne in mente la parola “assassino”. E Ran aveva ragione: un Crociato doveva essere pronto ad uccidere. Si chiese se lui lo sarebbe stato.» «Vado a casa a lavarmi, adesso» disse Salaran. «Ti accompagniamo» disse Val. «No, vado da solo. Ho bisogno di… pensare.»
Val insistette un paio di volte ma Ran rispose bruscamente di lasciarlo perdere. E se ne andò. «Accompagnami a bere qualcosa, Galron» gli chiese Corvin. «Ne ho davvero bisogno.» Val acconsentì. I due parlarono fino a tardi, a poche ore dall’alba. Corvin era, in effetti, il terzogenito di Oberius Corvin Siblei, secondo Doge in carica biennale della città. Lenvar aveva avuto diverse fasi politiche: prima i Consoli eletti dal Consiglio delle Compagnie, poi il Capitano del Popolo che doveva difendere l’interesse delle classi popolari e mercantili (figura che era rimasta comunque attiva); poi un Podestà chiamato da fuori, perché fosse imparziale. Poi il Doge in carica a vita (che non di rado finiva spezzata anzitempo da veleno o pugnale) e infine quello in carica biennale. Corvin però non s’interessava troppo della politica cittadina, bensì amava circondarsi di molti piaceri e dello studio. Era un provetto cavallerizzo, o almeno così andava dicendo ed un discreto mercante e contrattatore. Aveva studiato al locale Ateneo e si era distinto per la sua cultura economica e nelle arti. La sera tuttavia, adorava esercitarsi in una particolare “arte”, come la riteneva: quella del furto. La voglia di sfida era molta e Corvin rubacchiava sempre a persone molto abbienti, spesso oppositori della sua
famiglia. Ma stando a quanto diceva, restituiva sempre il bottino, o almeno la gran parte di esso; quello che gradiva finiva nella sua “riserva personale”. Talvolta i templi vicini ai luoghi dei furti trovavano generose offerte in oro da dare ai poveri. Nessuno l’aveva mai scoperto finora, anche perché era estremamente prudente; tranne quella sera in cui si era attardato a parlare con quel simpatico accolito Crociato sconosciuto. Era anche vero che i furti che si sceglieva erano piuttosto facili e ben studiati: mercanti ubriachi (si definiva un buon borseggiatore), scantinati poco protetti e così via. «Beh, Corvin sei davvero di compagnia ed io ti ringrazio per non avermi fatto incriminare al posto tuo. Ma devo dirti che ciò che fai comunque è scorretto. Il magistrato si deve occupare di questi casi.» disse Val. «Ed io rispondo che continuerò a farlo finché avrò forza nelle dita. E poi non è più scorretto che prendere in giro chi se lo meriti» rispose Corvin. «Vedi, il nano che ho derubato è uno dei pochi che vive fuori dal Ghetto dei nani. Quel bellimbusto ha denaro che gli arriva fino alla punta della barba e fa lo strozzino ai clan di nani che arrivano in città. Gli presta i soldi per comprare una dimora con interessi esorbitanti e questi poveretti devono lavorare duro per mesi interi, a volte anni, per restituire il denaro. E l’usura a questi tassi è legale per lo Statuto delle Compagnie se l’usuraio è straniero, specie se nano. È indegno che esistano leggi di questo genere.» «È indegno che esistano uomini di questo genere. Beh, nani di questo genere, in tal caso» rispose Val. «Sai che c’è? Purtroppo i nani non si fidano a ricevere prestiti dagli uomini, per cui si affidano consapevolmente agli usurai della loro razza. E il bello è che sanno perfettamente a cosa vanno incontro, ma valli a capire quelli; amano solo lavorare come formiche e si godono giusto la loro birra o lo stinco alla salsa piccante. Ecco perché qui la legge tutto sommato c’entra poco: è una questione di civiltà.» «Non c’è civiltà neanche tra noi, non siamo di certo un buon esempio» disse Val guardando la tunica strappata. «Credevo che i religiosi fossero uomini di pace… forse non i Crociati, in effetti. L’alabardiere ti ha strappato la tunica? Puoi portarla dalla mia sarta, è brava!» «No, è stato Marsten oggi, un mio compagno.»
«Marsten ?! È il cognome, presumo… e di nome come fa?» disse Corvin. «Galco…» rispose Val. «Galco II o III?» «Il terzo… lo conoscete?» «Certo! Quella serpe… le nostre famiglie si battono da anni per questioni di confine, nei Feudi di Levante. Galco il Vecchio ha due figli che portano il medesimo nome. Ridicolo.» «Tu non porti per secondo nome quello di tuo padre?» «Sì ma io con più grazia!» disse Corvin. «Quei due idioti dei suoi figli, dicevo, si divertono a cavalcare per i nostri possedimenti spaccando tutto, rubando le uova ai contadini… A volte portano via persino qualche pastorella … e la restituiscono alla famiglia coperta di lividi. O incinta. Galco II ha anche tagliato un orecchio a uno dei nostri braccianti, due anni fa: fu detto al magistrato che era stato provocato e non li dovette nemmeno risarcire. Nobile contro plebeo, sai cosa significa. Bestie su due zampe, a parer mio, morissero domani! Sentire il suo nome mi ha messo di malumore. Ti accompagno, coraggio che è tardi.» Val salutò il nuovo amico: quando ci si conosce per la prima volta, non si sa mai esattamente fin quanto durerà, ma il giovane aveva la sensazione che quella sarebbe andata avanti per molto, molto tempo. L’indomani Val si allenò duramente: ogni volta che ava Marsten lo guardava storto ancora di più ora che conosceva le sue malefatte. Finse che il fantoccio che stava malmenando fosse lui. Tornò nella sua celletta e vide il letto di Salaran privo del pagliericcio: tutta la sua roba era sparita. Val cercò l’amico ma non lo trovò. Aspettò la sera e poi sgattaiolò fuori a cercarlo: lo vide sotto casa, vestito in borghese. «Ran? Che è successo… non dormirai al Tempio?» «Mai più. Mio zio Damian è venuto stamattina: non sopporterò oltre la dittatura di questi vecchi prelati idioti!» «Cosa… perché…?» farfugliò Val.
«Abbiamo discusso tante volte di quanto loro vogliano tenerci a bada con i loro precetti: io non ho tutto questo tempo da perdere. Mio zio è un seguace di Kària: un Kard. Ha detto che mi insegnerà cose ben più utili. Ho fatto fuori un bandito da solo, perché mi sono allenato.» «Veramente c’eravamo anche io e Corvin» obiettò Val. «Hai capito cosa intendo.» «Senti… so che questa cosa ti ha segnato e ti capisco» cercò di dirgli Val. Ma fu interrotto. «No, non mi ha segnato: mi ha aperto gli occhi! Conta la forza, non le preghiere. I Kard mi daranno il resto dell’addestramento che mi serve. Vuoi venire anche tu? Parlerò a zio Damian e sarà felice di avere un altro apprendista! Pensa cosa combineremmo assieme!» «I Kard… sono dei sanguinari, lo sai! Non posso credere che…» «Beh, resta pure lì a farti comandare a bacchetta e a berti le storie sui Santi buoni e miracolosi che amano i loro carnefici. Io non porgo l’altra guancia: restituisco le nocche.» Val non sapeva che dire: da tempo vedeva che Ran era insofferente ben più di lui ai dogmi inspiegabili e tutto il resto. La rissa e l’uccisione di quel bandito avevano dato il colpo di grazia alla sua già magra fede. «Resto tuo amico, non preoccuparti» lo rassicurò Salaran. Val annuì. In fondo era la cosa più importante, ma perdere la presenza di Salaran lì al Tempio era un duro colpo per lui. Salutò l’amico e l’abbracciò. Tornò indietro, pensieroso. Guardò Lenvar tingersi del rosso e viola del tramonto sul mare: sospirò e richiuse la porticina dell’immenso portale del Tempio.
3.
Non lo faranno più altri per te
Quando essa si riaprì anni dopo, Valen Galron era ormai un giovane uomo e portava la tunica bianca con il Solecroce dei Crociati sul petto. Il giorno dopo la sua nomina era confuso: non si aspettava che la sua vita cambiasse da un giorno all’altro, ma non sapeva cosa avrebbe fatto ora. Al riparo tra le mura del Chiostro, il mondo gli sembrava più facile e bello: ora portava un fodero con la spada che si era forgiato secondo il costume, una spada affilata capace di uccidere e di affrontare altre spade. Era diventato un giovanotto di corporatura piuttosto robusta, alto poco meno di un metro e ottanta: portava suoi bei capelli mossi di color castano chiaro con riflessi biondi, lunghi fino alla base del collo. Appariva sempre piuttosto serio e capire cosa stesse pensando fissando i suoi occhi grigio-azzurri era complicato. Non era stato facile ricevere la nomina: la sua poca voglia di imparare la lezioncina a memoria senza discutere gli era costata cara parecchie volte. Il suo rendimento nello studio era spesso insoddisfacente e le sue domande erano considerate troppo ecumeniche da quasi tutti i maestri tranne che dal Sergente Caviled che ascoltava sempre volentieri i suoi ragionamenti. E fu proprio il Sergente a fargli da “padrino” e a proporlo per la nomina a Crociato.
«Che mi racconti Val? Come va al Tempio?» gli chiese un giorno Greta. Lei e Val erano davvero inseparabili da piccoli. Greta era rimasta a lavorare al mulino di suo padre, il quale non mancava di picchiarla quando le cose non andavano bene: e le cose non andavano spesso bene. Era un uomo orribile, piagnucoloso e capace di prendersela solo con la sua famiglia. Val aveva sospettato più volte che le sue mani non avessero soltanto percosso la figlia, ma che avessero osato di peggio. La mugnaia era donna ormai e le sue forme erano scoppiate prorompenti, come i frutti colorati di un albero. Val era contento della loro amicizia e sapeva che Greta ormai era quasi da maritare. Non che non ci avesse pensato: ma qualcosa
lo frenava. Con lei stava bene, ma era come se mancasse sempre qualcosa. «Tutto a posto. Ieri sera quando sono tornato, ti ho visto con Selm, il pescatore!» «Eh eh, che fai, mi spiavi?» rispose Greta facendo la smorfiosa. «Ma dai… un riccio di mare è più attraente!» rispose Val contrariato. «Non saprei, forse sì, ma per me non conta solo l’aspetto… sai ha altre doti…» gli rispose la ragazza ridacchiando. «Sei la solita» disse Val scuotendo la testa. «Uh, guarda guarda, il grande inquisitore Galron è giunto in cattedra!» «Andiamo, ogni volta che torno hai un fidanzato diverso! Dovresti scegliertene uno e frequentare quello!» «Può darsi. Ma più avanti. Ora sono giovane, perché chiudermi delle porte?» Strinse le braccia attorno alle spalle di Val, e gli diede un bacio sulla guancia. Poi mosse il viso e si avvicinò alle sue labbra, ma il giovane si ritrasse. «Fai la brava… uno per volta, ti ripeto.» «Uff, come sei serioso! Ti stanno trasformando in un soldatino noioso laggiù! Non mi va!» «Io vado. Ci vediamo» tagliò corto il ragazzo. Non amava sentirsi criticare.
Dato che quel giorno era Quintiero (il nostro sabato, N.d.R.), voleva fare visita a Ran. L’amico aveva definitivamente abbandonato il Tempio anni prima, in circostanze fin troppo misteriose e non aveva mai voluto parlarne: ogni volta che Val affrontava l’argomento, Salaran sviava. Si mise in borghese e si preparò ad uscire: fu il Sergente a trattenerlo sulla soglia. «Galron, hai sentito le novità?»
«Certo: sta per arrivare il Vento di Stelle, lo aspettiamo a giorni» rispose Val. «No: non è quello. È un po’ peggio del previsto. Vieni, parliamo un istante nel chiostro.» Caviled eggiò tra le colonne. Si fermò a guardarne una: non c’era niente di particolare in essa. ò la mano sul marmo, con sguardo assente, togliendone lo sporco. Val non capiva: stava per parlare quando il Sergente lo anticipò. «Presto ci sarà la guerra. Una grande guerra: coinvolgerà molte nazioni, temo; e naturalmente noi. «San Vardem ci aiuti» disse Val sospirando. «Ma noi non possiamo schierarci: abbiamo il…» «Il Patto di Luce, certo: ma non basterà a non farci schierare.» Per ovviare al problema che qualche monarca volesse utilizzare Crociati o Paladini per fini bellici, il Patto di Luce prevedeva che nessun membro di Ordini Religiosi matriani potesse combattere altri fedeli matriani (perlomeno non scomunicati), specialmente per fini politici o interessi diversi da quelli della preservazione del bene. Fino ad allora, non era mai stato violato. «Beh, ma contro chi dovremo combattere? Ci sarà un’altra Crociata? Forse questa basterà a far appianare le divergenze tra i regnanti e a farci unire sotto la stessa…» «No, non stai capendo: combatteremo contro i nostri fratelli. Il Patriarca ha condannato gli scontri tra le nazioni di fede matriana, ma non credo che arriverà a scomunicare nessuno, dato che ormai ha perso parte del suo potere. Il Granduca di Gaberne del resto, sta facendo pressioni sui Priori e i Gran Maestri dei Paladini per spingerli a mandare alcuni uomini negli eserciti regolari. La stessa cosa stanno facendo i nostri rivali nella Repubblica di Zevira.» “Meglio un morto in casa che uno zevirese alla porta”. Questo citava un antico proverbio lenvare. La rivalità con la Repubblica di Zevira era secolare e profonda. «Così… magari ci toccherà non solo combattere persone della medesima fede… ma persino nostri commilitoni? È assurdo!» obiettò Val. «Dobbiamo… difendere
la Fede, cercare gli eretici… non…» «Non avremo modo di ribellarci, Galron» disse Caviled. «I templi che lo faranno, potrebbero incorrere in pesanti conseguenze. Ser Ianos dice che non c’è scelta: siamo cittadini di Lenvar oltre che Crociati e comunque dovremo difendere il nostro suolo.» A quelle parole, sentendo parlare di patria, Val si chetò. Pensò che aveva dei doveri, in effetti, perlomeno verso la sua famiglia e gli amici: era un Crociato ma doveva difenderli. Si immaginò i soldati gabernici entrare in casa e picchiare la madre… stuprare la sorella, Lilia. No: non c’era molto su cui riflettere. «Quindi il Patto di Luce ormai è carta straccia…» «Quell’accordo è vecchio di secoli ormai: non ci sono più mostri da uccidere qui nella Penisola e la ragione di stato ha superato la religione e la fede. I monarchi non tollereranno di avere Ordini militari come quello dei Crociati che se ne stanno con le mani in mano per non aggredire altri della loro stessa fede.»
Val andò a cercare Salaran. Lo trovò eccitato e preoccupato al tempo stesso: non l’aveva mai visto così. «Domani o al massimo entro questa settimana arriverà il Vento di Stelle» fece Ran. «Sì, ma ho notizie ben peggiori e…» «Che mi importa!» ribatté Salaran interrompendolo. «Ci vorrà poco: tempo due settimane e finalmente…» «Come mai ti interessa tanto il Vento? Non vorrai mica imbarcarti!» «Aspetto notizie dal Nuovo Mondo.» «Come?!» chiese Val. «Stavolta devono arrivare: me lo sento.»
«Potresti spiegarmi…» «Aspetto notizie da mio padre» disse freddamente Ran. «Tuo… è andato nel Nuovo Mondo?» disse Val sempre più sorpreso. Salaran si apriva raramente e questa era un’occasione così unica che la considerava più rara dello stesso Vento. «Molti anni fa. È da tempo che non dà più notizie.» «Dal… giorno che tu hai lasciato il Tempio?» «L’avrei lasciato comunque. Ora sono un Kard e non prendo ordini che da mio zio Damian. Che mi lascia libero di scegliere come impegnare la mia forza.» A interrompere la discussione sul più bello fu l’arrivo di Corvin. «È stasera! Stasera arriva il Vento: guardate il cielo!» I tre amici corsero fuori, ma le alte case impedivano la vista: i “carruggi”, com’erano chiamati gli stretti vicoli della città, non erano il posto migliore per mirare il cielo. «Val, perché non vai a chiamare Gala? È quasi il tramonto: potremmo andare tutti assieme sulla scogliera a Beivades a vedere il Vento!» disse Corvin. «Non so se è il caso…» bofonchiò Val. «Le farà piacere! Io andrò a prendere Nadia» disse Salaran «Così non sembrerà un incontro galante, se già la presenza mia e di Corvin non bastasse…» aggiunse ridacchiando sarcastico. «Con tua sorella presente, di certo di galante avrà ben poco» disse Val contrariato. «Io ti prenderò in giro tutto il tempo, se la cosa ti farà sentire a tuo agio!» disse Corvin. «Preferirei evitare: soprattutto di vedere Nadia» rispose Val. «E poi se c’è Gala, quella streghetta di tua sorella non farà altro che lanciarmi frecciate!»
Gala: quell’argomento lo metteva in difficoltà. Gala De Torne aveva studiato al collegio assieme alla sorella di Val, Lilia: le due erano praticamente inseparabili. Il giorno che Val l’aveva conosciuta, c’era qualcosa di strano. C’era quello sguardo di curiosa intesa. Val non era un asso con le ragazze: in parte era disinteressato ai rapporti amorosi e in parte era piuttosto timido. Il suo commilitone Dagovir era così scafato che riusciva persino a farne entrare qualcuna di soppiatto nel Tempio, specialmente qualche educanda al sacerdozio: entrambi rischiavano grosso, l’espulsione o anche peggio, ma aveva una faccia da “canaglia” e un modo di fare che sapevano conquistare. Val invece se ne stava in disparte coi suoi pensieri. Ma Gala lo smosse. Si ricordò del giorno in cui stava ando davanti alla Cattedrale matriana e fu fermato dalla sua voce: «Val! Valen! Aspettami per cortesia!» Si possono intuire tante cose sentendo una voce: aspettativa, età, educazione, anche con poche frasi. Era una voce giovane, musicale. Val si voltò. Vide una ragazza corrergli incontro: aveva gli occhi scuri e la pelle leggermente olivastra; vestiva di una candida tunica da novizia matriana e dalla cuffia sporgevano capelli neri, lisci. Val la riconobbe, ma non ricordava il suo nome. «Che corsa!» gli aveva detto la ragazza piegandosi e appoggiando le mani sulle ginocchia per riposare. «Hai un o lunghissimo, si vede che voi Crociati ate le giornate a marciare!» «Ma tu sei…» aveva bofonchiato Val che si sentiva stranamente imbarazzato. «Sono Gala, ti ricordi? Sono al collegio con tua sorella!» Val continuava a non sapere cosa dire. I suoi giovani sensi avevano già capito, ben prima che la sua mente lo realizzasse, che quella giovane fanciulla aveva un certo fascino su di lui: il fascino della semplicità che c’è nel pane, o nel suono di un torrente, o nel vento che muove le foglie. Era più forte di qualsiasi seduzione ammiccante, più forte della carnalità o del respiro nelle orecchie.
«Uh, niente davvero! Volevo solo salutarti! Magari se i dalla Cattedrale, io sarò spesso nel Convento: potresti venire tu a salutare me. Sai per… pareggiare i conti!» «Temo di avere molto da fare, perciò non so se…» «Uh… peccato. Beh allora io vado, mi ha fatto piacere vederti!» E fece un inchino. Fu allora che la mente di Val si svegliò di colpo dal torpore, ma non trovò di meglio che bofonchiare: «Ma se vuoi venire a casa nostra a trovare Lilia ogni tanto…» «Certo… a trovare Lilia… Ciao Valen!» gli rispose Gala allontanandosi con un mezzo sorriso. Val stette fermo a guardala allontanarsi, trotterellando. E così gli arrugginiti ingranaggi del suo cervello di soldato addestrato per ammazzare draghi ma timoroso con le donne, si mossero lenti come leoni saziati da un abbondante pasto. Che stupido era stato: poteva trovare una frase migliore! “Vieni a trovare mia sorella! Idiota!” si disse copiosamente tra sé. Mentre camminava continuò a pensare a lei. In fondo era più giovane, aveva tre anni e mezzo meno di lui! Cosa andava a pensare! Però tre anni forse non erano poi così tanti. Gli anni che seguirono, Val e Gala si videro molte volte. Quasi sempre in compagnia della sorella o di amici: ma ci fu una volta che si videro per caso da soli, sugli scogli di Beivades e a Val batté il cuore forte. Lì comprese definitivamente che Gala gli piaceva molto e che la sua presenza lo metteva in agitazione e nel contempo lo faceva stare bene. Ma la sua timidezza prevalse e non seppe cogliere l’istante decisivo. Andarono avanti così, vedendosi in compagnia d’altri, a giocare “agli sguardi” senza mai avvicinarsi troppo.
«Allora? Invitala, scemo! È pazza di te, si vede già!» disse Corvin risvegliandolo dai ricordi. «Beh, tu invita la Contessina De Vira, allora!» gli rispose Val.
«Quella è la donna che vorrebbero sposassi i miei, è diverso. La mia donna deve essere sagace, avventurosa… non cavarsi via la rucola dai denti col mignolo e parlare con la V al posto della R!» I tre risero alla perfetta descrizione.
Val tornò a casa a prendere delle cose. Aveva davvero voglia di invitare Gala: non era ato neanche una volta a trovarla e ormai pensava di avere perso l’occasione. Rincasato, trovò la sorella Lilia: ormai era una giovane adolescente dai capelli color miele e occhi cerulei e le sue forme femminili facevano capolino, morbide ma ormai visibili nonostante gli abiti larghi. Era davvero graziosa nella sua semplicità: lentiggini, acqua e sapone. Semplice e bella come Gala. «Stasera ci sarà il Vento» disse Val solennemente divertito. «Stasera! Che bello!» gli rispose Lilia gioiosa. «Pensavo che potremmo andare a Beivades, con Corvin e gli altri… e magari anche Gala… se vuoi chiamarla…» disse Val, facendosi vago. «Se IO voglio? E tu non vuoi?» gli disse Lilia che aveva già capito. Val non fece resistenza: era sua sorella, perciò era perfettamente inutile. Le sue ossa erano pagine di carta e il suo sangue inchiostro. La sua pelle era la copertina e lui era un libro aperto per lei. «Sai Valen, Gala è l’unica amica che ho. Se al collegio… beh eravamo sempre assieme: ci chiamavano “le gemelline”. Se non ci fossero state lei e Nadia… sarei morta» e nel raccontarlo, Lilia si fece cupa. Val si avvicinò, le mise a posto qualche capello sulla fronte e poi le disse: «Lil, non mi hai mai raccontato niente del collegio... E di quei giorni quando non parlavi più...» «Beh, tu eri sempre occupato. Rispondevi sempre “ho da fare”.»
«Perché sei diventata di colpo triste?» Lilia lo guardò con i suoi begli occhi chiari. Gli prese poi il viso tra le mani e appoggiò la fronte a quella del fratello. Poi disse? «Dai adesso non ne parliamo. Come sta Gala, come l’hai trovata?» «Uh beh… era… in forma, ecco.» «Ah ah, fratellino! Sai che tu le sei sempre piaciuto un po’?» «Mah, capisco che un ragazzo più grande, un Crociato, possa uhm… affascinare, diciamo» disse Val dandosi un certo tono. «Sentitelo!» Disse Lilia sghignazzando. «E tu che pensi di lei?» «Mi sembra una ragazza a posto.» «Uffa che noioso. Intendo come la trovi!» «Graziosa… ecco…» «Ah ah, graziosa?! Sembra che tu stia parlando di una casetta! Ma tanto ho capito lo stesso, ne riparliamo fratellone!» «E tu piuttosto? Staffon vorrà sicuramente venire con noi se glielo diciamo…» disse Val con tono malizioso. «E noi non glielo diremo» rispose la sorella. «Dai è simpatico!» «A te!» «Oh insomma…» «Val, a me non interessano i ragazzi!» disse Lilia e lo disse con rabbia. Le gote gli si fecero rosse. Una reazione che a Val parve eccessiva. «Beh forse Staffon non va bene…»
«Ti prego non ricominciare: non la voglio l’approvazione familiare. Non erediterò terre o titoli e quindi la mamma è d’accordo col fatto che potrò scegliere io il mio… compagno. Non ho bisogno che a te vada bene! Non sei il capofamiglia e Thoran non c’è mai e non può obbligarmi lui!» Val la osservò: dapprima era arrabbiato. Poi abbassò lo sguardo, come se un dardo gli avesse trafitto la mente. Lilia gli venne incontro e lo abbracciò. «Scusa. Io non voglio dire che tu… tu saresti un ottimo capofamiglia ma e me adesso non interessano i ragazzi. E se fosse vivo papà, mi rispetterebbe.» Val annuì. Uscì di casa e si incamminò verso il Tempio. Il via vai in città era nervoso: i cittadini si affollavano nelle piazze per ascoltare le ultime novità dagli araldi e tutto non lasciava presagire niente di buono. Anche gli accampamenti di coscritti fuori dalle mura erano un altro pessimo segnale: dai feudi più vicini erano stati richiamati uomini armati “per esercitazione”, si disse. Nel are vicino al Portello, uno degli accessi alla città, Val non notò quasi l’individuo che lo urtò. Era incappucciato e portava una lancia e un pesante scudo, ma il suo portamento non era quello di un villico rozzo richiamato dai campi per combattere, né di un ricco borghese che poteva permettersi un’armatura di metallo. Si voltò, ma la figura sparì insieme agli altri soldati. Approfittando del trambusto generato dal conflitto, una figura sinistra era entrata in città, senza fare rumore. Pochi avevano notato quella strana persona entrare con noncuranza dalle porte cittadine e mescolarsi tra la gente nel caos delle botteghe, nel via vai di individui provenienti da tutto il mondo. Lui non era Uomo. La sua razza era antica e ancora prosperava nel “Norden” del continente: era la stirpe dei “delenar”, gli antichi abitanti del Mondo da alcuni chiamati “Elfi Bianchi” per la loro corrispondenza fisica con gli elfi di antiche leggende. Ma i delenar non gradivano per niente questo nome: si sentivano la razza più elevata del globo e la loro altezzosità era pari soltanto alla loro grande potenza culturale e magica. Essi vivevano isolati nella loro nazione a migliaia di leghe a nord di Lenvar ed erano maestri nella costruzione delle Navi Stella, alcune capaci addirittura di volare. Nonostante il loro carattere schivo non erano considerati esseri malvagi; in questo Shalamor (tale era il nome di quell’individuo) faceva dovuta eccezione.
Lo scuro delenar si muoveva tra la folla sinuoso come un serpente, schivando ogni contatto con gli uomini, chiuso nel suo cappuccio nero e nel mantello color cachi; uno come tanti, avrebbe detto un osservatore disattento. Ma lui era unico. Gli uomini chiamavano “sicari” i loro assassini, ma Shalamor li scherniva perché erano brutali e goffi. L’arte dell’omicidio fu bandita dai delenar quando compresero che era una soluzione fin troppo somigliante a quelle degli Uomini, che vi ricorrevano per problemi politici, sentimentali o economici. O per mero piacere. Per Shalamor, che era uno degli ultimi delenar depositari di quell’arte, togliere la vita era il senso stesso della sua esistenza. Sapeva farlo con astuzia impensabile, crudeltà disumana e soprattutto senza rimorso. Erano ati i tempi antichi quando la sua comione era ancora viva. “Meglio essere abili in qualcosa di orrendo che mediocri in qualcosa di buono”, era il suo motto. Eppure era splendido nella sua malvagità: il viso affilato della sua stirpe, gli occhi trasudanti sogni, chiarissimi come il ghiaccio. Non era a Lenvar per caso: aveva qualcuno da trovare. Era stato assunto da qualcuno e non gli importava l’avere un padrone; la sola cosa che gli interessava era uccidere. Non giaceva mai con femmine (a meno che non fossero suoi obiettivi), mangiava quel tanto che bastasse per mantenere il suo fisico perfettamente scolpito, non era mai stordito dall’alcol e non era più capace di amare. Per questo aveva scelto Shalamor, ovvero “condannato”, nella sua lingua: neanche si ricordava il suo vero nome. Pretendeva solo il giusto compenso per sfamarsi e mantenere il suo costoso equipaggiamento. Non uccideva mai per vendetta personale o ione politica. Era meticoloso e perfezionista: aveva appreso tutto dai suoi maestri e aveva spedito all’altro mondo alcuni di loro. Per non essere eliminato a sua volta, scelse l’esilio e vagò per il Continente.
Arabel, una giovane vedova, che aveva sposato un vecchio signore per mettere le mani sul suo titolo di patrizio e sulla sua eredità, si godeva, come spesso faceva, la compagnia del suo “bel giovanotto” di turno. Egli la accompagnò su per le scale della loro magione: le aprì la porta della sua stanza e la fece sedere sul letto. Lei barcollava e canticchiava una vecchia filastrocca per bambini. «Avete bevuto troppo, mia signora» disse l’uomo.
«Oh come gira tutto! E dire che era solo un bicchiere! Il vostro vino elfico è qualcosa di portentoso!» «E non sapete quanto bene può fare. Guardate.» Egli prese uno spillo: delicatamente punse il dito della donna. Una goccia rossa, precisa, ne scaturì ed egli la mostrò alla dama. «Sentite male? Scommetto di no» le disse lui. «Oh, mi avete punta il dito. E non sento nulla!» rispose facendo un sorriso ebete, verso il volto del bel giovane. «È il vino. Ora lasciate che vi allenti il corsetto» le disse. Il giovane le andò alle spalle e la baciò sul collo. Arabel si rilassò, mugolando. Nemmeno si accorse del freddo della lama, che le stava scorrendo sul collo. Lei canticchiava, mentre il seno le si infradiciava di sangue. «Oh che bella paperella, che nell’aia se ne sta… Tutta gialla paglierina, ma volare ancor non sa…» continuava a cantare lei. Fece per alzarsi ma l’uomo, con delicatezza, le spinse la spalla verso il basso e di nuovo ella ricadde sul letto. Infine smise di cantare, ondeggiò per un attimo e cadde di faccia al suolo in una pozza di sangue. Shalamor si erse sopra il suo corpo. «Nemmeno te ne sei accorta, povera idiota. Dovresti ringraziarmi: non molte delle persone che uccido hanno questa fortuna.» L’assassino uscì e tornò in strada. Annusò l’aria e sorrise perfidamente: questa città sarebbe stata il suo nuovo parco giochi.
* * *
I Galron vivevano principalmente a Beivades, un piccolo borgo marittimo a
poche miglia ad est dalla città. Il padre di Val aveva comprato una casa anche dentro le mura cittadine: d’inverno i Galron vi trascorrevano le giornate fredde e umide, mentre con l’arrivare della bella stagione tornavano a Beivades, per godere della sua brezza marina e della sua calma. Corvin aveva preparato la carrozza: il piano era di guardare il tramonto e il Vento di Stelle dalla scogliera e poi di fermarsi a dormire dai Galron. Val si avvicinò con il suo fagotto: scorse Corvin e Salaran con Nadia e questo non lo rallegrò. Ma ciò che lo fece definitivamente sospirare fu non vedere Gala. «Pronti?» gli disse Corvin. Ma il suo solito sorriso da furfante era svanito. «Certo» rispose Val, il cui umore non era da meno. «Valeeeen, che fai? Non mi saluti nemmeno?» disse Nadia. La sorella di Salaran era una giovane dai capelli e gli occhi scuri. Era piuttosto bassa e formosa e aveva un visetto intrigante e malizioso, caratteristiche che sapeva accentuare truccandosi ad hoc. Studiava alla Torre dei Grilam e probabilmente sarebbe diventata una maga. Val le diede svogliato due baci sulle guance e poi si sedette. Diede un’occhiata a Corvin e gli chiese cosa non andasse. «Mia zia Arabel è ata a miglior vita due giorni fa» rispose l’amico. «Per gli Inferi… mi dispiace Corvin» disse sinceramente l’amico. «Come è successo?» «Stanno provando a capirlo. Circostanze “misteriose”; altro non posso dirti. Ma non preoccuparti, non la conoscevo molto bene se non di nome: sono i problemi che questo genererà alla mia famiglia a rendermi leggermente più assente. Ma ci distrarremo. Andiamo dunque!» Mentre Val caricava il fagotto sul carro, , prese da parte Lilia. La sorella capì subito e gli disse: «Gala non è potuta venire… sai… aveva da fare…» «Sapeva che… beh… che te l’avevo chiesto io?»
Lilia sospirò. Nella sua mente pensò che i maschi non capivano un accidente di niente. «Potevi chiederglielo tu…» Val si innervosì e se andò senza dire altro. Andò sulla scogliera, anticipando gli altri che avevano compreso tutti la causa del suo incupimento. Mirò il Cielo: era quasi il tramonto ormai. E così lo ammirò: Il Vento di Stelle (v. Appendici – I Misteri, per approfondire). Vide altissima nel cielo una scintillante massa celeste di migliaia di nuove stelle che iniziarono a muoversi, danzando verso Ovest. Come miliardi di lucciole o stormi di uccelli migratori, formarono sciami ordinati. E dove il sole era tramontato, un bagliore bianco, caldo, salì dal mare e il vento si diresse verso di esso. Le “Stelle” disegnavano nel cielo splendidi fregi d’oro e azzurri, mentre viaggiavano lente. Era bellissimo, la cosa più emozionante che occhio umano potesse vedere: aveva ispirato pittori, poeti e artisti di ogni genere. Tutti uscirono dalle case e spalancarono le finestre per vederlo. Silenziosi, gli altri ragazzi affiancarono Val: si sedettero sugli scogli e mangiarono i biscotti che la madre di Val e Lilia aveva preparato premurosamente per loro. Val pensò a Gala e si chiese se anche lei dal Convento stava guardando quello spettacolo. Anche Salaran era pensieroso: lui non sognava di nessuna, né di navigare. Aspettava un segno. Stavolta sarebbe arrivato, ne era certo. La corsa al Nuovo Mondo, come ogni volta succedeva, portò grande trambusto a Lenvar. Dai cantieri navali uscirono molte imbarcazioni, alcune riadattate con vele apposite e centinaia di avventurieri piombarono in città. Al porto furono piantate decine di cartelli scritti alla bene e meglio, dove si chiedevano cuochi, chirurghi, chierici, guerrieri, carpentieri e quant’altro da prendere a bordo. Tutti i capitani promettevano fama e fortuna e omettevano che molti sarebbero invece periti nell’impresa. S’imbarcavano persone di ogni razza: selesi con la loro pelle rossa ambrata e grosse narici; fieri uomini del nord, dagli occhi di ghiaccio e dai capelli biondo
platino. Vennero dall’est gli usagiti dagli occhi stretti. E poi i nani barbuti, che odiavano l’acqua ma erano pronti a tutto per guadagnare ricchezze. E vennero persino i Silvani con i loro visi lunghi e sottili e le orecchie appuntite. Dalle terre del Sud giunsero molti membri delle popolazioni di Mali, neri come la pece e dai lineamenti sottili. Armi, vestiti e lingue diverse si mescolavano. Le locande erano piene e tutti gli Alabardieri di riserva furono richiamati in servizio. Anche Crociati e Paladini dovettero prestare servizio d’ordine talvolta, compreso Val, che si trovò a sedare più di una rissa. Le grandi vele gialle delle Navi Stella si spiegarono e veloci esse sparirono all’orizzonte: una nuova corsa all’oro era iniziata. Nessuno sapeva quanto questo Vento sarebbe durato. I chierici e i maghi si lanciavano in previsioni senza alcuna base scientifica. E difatti nessuno vi credeva. «Tre settimane» disse Salaran «Le prime navi che sono partite dal Nuovo Mondo arriveranno qua in circa tre settimane, così finalmente saprò qualcosa!» Egli era sempre più nervoso e si recava in porto tutti i giorni, anche se Nadia gli diceva che era tutto inutile. La giovane era molto meno legata al padre, pensava che fosse uno stupido che inseguiva i sogni a scapito della famiglia e che non sarebbe dovuto partire così abbandonandoli: su questo argomento litigava spesso con Ran. Val non voleva che Salaran si illudesse e si trovava stranamente d’accordo con Nadia. Era ato troppo tempo dalle ultime notizie di Kard Colerin e tutti sapevano che il Nuovo Mondo era un territorio ostile. ò un mese e le prime navi tornarono dal Nuovo Mondo, logore, rattoppate, gli equipaggi spesso denutriti e dimezzati. Ma alcune di esse tornarono davvero cariche di ricchezze ed accesero la speranza in chi era titubante a partire. Il doppio delle Navi Stella partì da Lenvar la settimana successiva ma nessuna nave aveva ancora portato notizie del contingente dei Kard che si era stanziato laggiù diversi anni prima. Poi un giorno, una caracca con che issava l’emblema dell’aquila che brandiva due spade, tornò in porto. Ran si piantò davanti alla banchina con lo zio, Kard Damian. Essi osservarono diversi mercenari, molti dei quali feriti o malati, scendere dalla nave. Altri scesero chiusi in una cassa. Val, che li aveva accompagnati, fu colpito da uno dei sopravvissuti: delirava e sul suo corpo e specialmente sui palmi delle mani erano presenti strane macchie desquamate di
aspetto orribile. Suo padre gli diceva cheli Nuovo Mondo aveva portato piante e frutti mai visti, ma anche nuove malattie. I Kard affidarono lo sventurato alle cure dei Cavalieri Ospitalieri, con le loro tuniche rosse. Quando quasi tutti i Kard furono scesi, Damian salì a bordo con Salaran: Val fu costretto con un brusco cenno a restare lì. Attese per un po’ e vide tornare il ragazzo con sguardo cupo. Non ebbe bisogno di chiedere per comprendere che non sapevano nulla di ciò che fosse stato di Kard Colerin: era disperso. Val non chiese i dettagli: sapeva che non era davvero il momento. Il Vento terminò, lasciando prigioniere alcune imbarcazioni in mezzo al mare, probabilmente condannate. Il nervosismo salì in tutti coloro che non avevano potuto trarre il profitto sperato e questo accadde soprattutto ai potenti. Le schermaglie tra Zevira, Gaberne e Lenvar ripresero sempre più incessanti verso la fine della primavera. Val tenne costantemente le armi e l’armatura ben oliate e lucidate. Le tuniche e i tabardi con il Solecroce erano piegate nel suo armadio. Un dì se ne stava seduto nel chiostro del tempio, a sentire l’estate alle porte. Gli alberi che lanciavano silenziosi la loro prole nel vento da un lato lo rincuoravano: erano simbolo di rinnovamento, all’alba di un conflitto. Simbolo dei frutteti che sarebbero maturati, del grano che sarebbe cresciuto, nonostante forse l’erba si sarebbe macchiata di sangue. Caviled lo vide e gli si avvicinò. Si sedette sullo scalino vicino al pozzo, non lontano da Val. Prese un respiro e guardando le tegole di ardesia della Torre Campanaria, immobili da molti anni e immuni ai pensieri umani, disse: «Sarà oggi temo. Ho già visto arrivare alcuni messi dall’Ovest.» «Oggi ci sarà di nuovo la guerra?» disse Val. «Se non è oggi, sarà domani.» «Sono anni che non siamo in conflitto diretto» fece Val alzandosi e eggiando nervosamente ma lento. «E nemmeno stavolta ce la siamo voluta noi.» «Sbagli. Ce la siamo voluta nel momento stesso in cui abbiamo deciso di espandere i domini della Repubblica. Anche noi abbiamo portato la guerra ad Oriente e nell’Arcipelago. Ognuno raccoglie i frutti che semina. Ora dovremo
proteggere il raccolto ad ogni costo.» «Si ha paura in guerra, vero?» chiese Val. «Certamente. Ma è una paura diversa man mano che i gli anni a combattere. All’inizio hai paura per la tua vita: ti sorprendi di quanto ti venga voglia di abbandonare il tuo posto e lasciare lì anche i tuoi stessi amici. Quando ano gli anni invece hai più paura per loro che per te, li senti sotto la tua responsabilità ed è questo che rende la paura un sentimento finalmente utile. La paura t’impedisce di fare cose stupide, ma può anche bloccarti se non sai incanalarla.» «Non voglio combattere, Sergente. Non così. Non contro altri uomini.» Caviled prese un bel respiro: «Devi. Non lo faranno più gli altri per te.» Val lo guardò. Il Sergente aggiunse: «È il tuo turno ora, anche se non vuoi. Per anni altri hanno combattuto contro la loro volontà perché tu avessi ciò che hai ora. Adesso tocca a te. Per te, la tua famiglia e perché chi ci seguirà dopo che saremo sottoterra abbia qualcosa di bello di cui godere.» Val annuì. Era giusto. Il Sergente sapeva sempre quello che era giusto. Fu poco prima del tramonto che venne un giovanissimo accolito: ora a Val sembravano così lontani quei tempi. Era tutto eccitato e spaventato: Gaberne aveva ritirato i suoi ambasciatori, ospiti della famiglia Fedra, naturalmente. I Fedra erano sempre stati convinti che la Repubblica si sarebbe dovuta trasformare in protettorato, difeso da una potenza estera come il Granducato di Gaberne. Il ritiro degli ambasciatori era come una dichiarazione: la guerra era alle porte.
4.
Fragile come l’acciaio
La notizia ufficiale venne la mattina seguente, nella piazza antistante al palazzo del Consiglio della Libera Repubblica di Lenvar. Un araldo in piedi su un palco fatto di assi e botti, scandiva alla popolazione le parole che pochi forse avrebbero voluto sentire. «Popolo della Magnifica Repubblica: oggi, nel giorno 27 Sempiverde dell’anno 1301, l’ignobile gabernico ci muove guerra! L’esercito del Granduca dichiara di volersi spingere nel nostro territorio, fino a portare rovina alle nostre stesse mura. La Città e la Repubblica vi chiamano a ripagarle del rifugio e dell’abbondanza che vi hanno offerto fino ad oggi! Nel nome del Doge, dei Capitani del Popolo e del Consiglio delle Compagnie, la Repubblica ordina che gli uomini abili e capaci di reggere le armi vadano a rinforzare le fila della Milizia!» Esplose il boato di una città, confuso tra le grida euforiche, le lamentele e il pianto delle donne e dei figli. Abbracci e gesti di sconforto si mescolavano tra i carpentieri, i conciapelli, gli speziali, i mercanti, i muratori e i cenciosi pezzenti. L’araldo richiamò all’ordine e aggiunse: «I Gendarmi verranno a indicarvi le migliori maniere per servire il Grifone Rosso. La Repubblica vi sarà grata per tutto l’aiuto estraneo alla coscrizione che potrete offrirle tramite donazioni di denaro, legname e metallo di ogni sorta! Gli uomini abili che lo desiderino possono già presentarsi come volontari firmando il Bando degli Armigeri che sarà allestito in questa piazza sotto i portici meridionali; altrimenti potranno attendere i coscrittori. Possa l’Eterno Reggente e tutti i Santi Immortali dare alla Libera Magnifica Repubblica la vittoria sugli invasori! Per il Grifone Rosso! Per San Càlista e San Vardem! Respublicam Superiorem Non Recognoscens! »
Val trovò il tempio in trambusto: i chierici erano al lavoro, cucivano lettere dorate sugli stendardi o stiravano tuniche con ferri a brace. I fabbri battevano incessantemente il metallo sulle incudini e affilavano le lame Fu convocata la
totalità dei Crociati, dei Conversi e buona parte degli Adepti di vecchio corso nella grande sala. Val vide Dago e si avvicinò. Fece appena in tempo a salutarlo e ad andargli vicino, che Ser Ianos e Ser Bevarond entrarono nella grande Sala. Essi erano due Confratelli Cavalieri, il più alto grado prima di quello di Maestro (o di Priore, per quanto riguarda il clero). I Cavalieri Crociati erano davvero avversari temibili e solo dopo anni di servizio si poteva aspirare a questo titolo. Ser Ianos era una leggenda vivente: era un uomo sulla mezza età e portava folti baffi grigi, lo sguardo sempre severo, quasi inespressivo. Aveva insegnato a combattere a molti Crociati, incluso Val, che non era del tutto convinto dalla sua freddezza. Ser Bevarond portava lunghi capelli castani ormai tendenti al grigio. Nonostante il viso segnato da diverse cicatrici che lo invecchiavano era più distaccato e meno severo, come se le cose gli scivolassero addosso. Bevarond non era di Lenvar e ogni tanto infilava qualche parola della sua vecchia lingua nei discorsi, cosa che lo rendeva alquanto pittoresco. «Il momento tanto atteso, per cui avete versato per anni lacrime e sangue è giunto. Dobbiamo mostrare a Sant’Isior e alla Repubblica che noi crediamo in loro e quindi ci schiereremo contro gli invasori gabernici. Possiamo contare su una forza iniziale di cinquecento uomini in armi tra Crociati e Conversi, ai quali speriamo se ne aggiungano altri in viaggio dai territori del Levante e dalle regioni vicine. Raccogliete le vostre cose e tenetevi pronti: il Maestro Madril ci guiderà in battaglia. Che Sant’Isior ci protegga: preghiamo.» Pregarono ad alta voce. Val era distratto. «Val, ci siamo» disse Dago alla fine della preghiera corale. «Non sei preoccupato a dovere combattere contro i nostri fratelli?» gli chiese Val. «Non succederà: Marsten mi ha detto che i templi isiorici di Gaberne si sono opposti. Si sono appellati al fatto di non potere attaccare per primi e il Granduca non ha abbastanza uomini per arrestarli o costringerli, né vuole la scomunica. Noi invece dobbiamo difendere un territorio e quindi non possiamo opporci alla battaglia. I Priori hanno trovato questo cavillo nel Codice e quindi non possiamo
esimerci dal combattere.» «E così uccideremo dei fedeli matriani innocenti. Che l’Eterno Reggente ci perdoni» disse Val. «O magari saremo uccisi da loro! Che dici Galron? Qualcuno ci porterà dei fiori sulla tua tomba? Io mi sa che ci orinerò sopra!» Val riconobbe l’odiosa voce: non udiva il gracchiante tono di Marsten da un bel po’ e di certo non gli mancava. «Che bello, Galron: sei diventato anche tu un Crociato! Siamo con l’acqua alla gola se nominano tutti: è proprio vero che siamo in guerra!» rispose il nobile. «È meglio che tu ti tenga lontano dalla mia posizione quando saremo in battaglia» gli rispose Val. «Sai, sono un po’ maldestro: non vorrei colpirti per sbaglio.» Marsten si fermò e sgranò gli occhi: Val non gli aveva mai risposto così, ma ora erano alla pari. Erano due giovani uomini e due Crociati: non c’erano più le raccomandazioni dall’alto a proteggere Marsten. Il nobile fu trascinato via dai suoi amici, non prima di avere fatto a Val un cenno, andosi il pollice sotto la gola. «Diamine! Sei stato davvero meno cortese delle altre volte!» disse Dago. «Sono stanco di Marsten. Speriamo che l’Eterno lo prenda a sé in battaglia: non mancherà a nessuno» rispose Val. «Non dire così: è sempre uno dei nostri! Occupiamoci di mandare all’Altissimo più gabernici che possiamo invece!» «Io non voglio ammazzare altri soldati come me: non è per questo che ho fatto il Crociato» disse Val. «Non voglio sentire discorsi di questo genere!» Val sentì una voce apostrofarlo. Era Ser Lelan, uno dei cavalieri più rinomati. La sua voce tonante zittì chiunque nella sala: scese un silenzio solenne. Dopo aver guardato in cagnesco i Crociati più giovani, Lelan riprese: «Non so chi di voi ha pronunciato questa frase, ma i gabernici ci stanno per invadere. Ognuno di voi farà il suo dovere: è chiaro?!»
Lelan se ne andò senza attendere risposta. Quando fu a distanza sufficiente Val commentò: «È colpa dei loro capi se ci invadono. Nessun fabbro o mercante di Gaberne ci vuole invadere. Vorrebbe farsi la sua vita a casa, in pace: ne sono certo.» «Sono discorsi strani per uno che ha deciso di portare una spada alla cintura per vivere» disse Dago. «Ma non posso dire di non comprenderli.» Non era la prima volta che il Granducato provava a mettere le sue grinfie su Lenvar: un accesso al mare gli avrebbe consentito di incrementare la sua potenza, ma la Repubblica era ben difesa e dallo stesso mare poteva approvvigionarsi temendo poco un attacco via terra .
Val salutò la madre: nonostante fosse estate, non poté opporsi dal vedere infilare nel suo zaino una maglia di lana. «Magari hai freddo», gli disse Milesia. «Mamma… è estate.» ribadì Val. «Tu portala, dammi retta!» Salutò Lilia, che quasi piangeva e gli disse che Greta lo aveva cercato. Quando Greta vide Val, gli saltò letteralmente al collo. «Come sei bello con l’uniforme!» gli disse. «Grazie, anch’io ti trovo bene! Forse hai messo su qualche chilo Questo pancino nasconde un bimbo?» «Val! Scemo!» gli rispose Greta dandogli uno schiaffetto. Poi riprese: «Tu proprio non sai cosa dire a una donna e cosa tenerti per te! Sei un idiota, ma un idiota a cui voglio bene. Sai, ho pensato un sacco a quando andavamo a cercare i polpi sugli scogli a Beivades. Mi mancano quei tempi.» «Come va al mulino?» «Va male. Tutti ormai comprano la farina in città perché costa di meno. A noi ci
vuole troppo tempo portarla fino a lì, perché Bella si è azzoppata e non riesce più a tirare il carro grande. Poi non abbiamo la licenza per vendere direttamente. Vendiamo qui ai locali, ma di straforo e se ci beccano… Mio padre sta pensando di cedere il mulino, ma nessuno vuole comprarlo. E quindi si arrabbia e… beve. E poi sai come finisce.» «Dovresti andartene da lì» disse Val perentoriamente, scuotendo la testa. «E come? Ormai sono troppo grande per studiare, non mi va nemmeno. Inoltre non ho denaro da parte. Poi devo pensare a mio fratello, non sta di nuovo bene.» «Dovresti trovare un uomo che ti ami e ti sposi. Non avrai problemi a farlo: sei sempre stata circondata di ragazzi! E per di più ognuno non sapeva mai degli altri due o tre…» «Dai non fare il prete, Val! Io forse un uomo l’ho trovato ma credo che lui non sia di quest’avviso.» Val sospirò. Forse aveva capito dove andava a parare. Così fu lesto a parlare. «Io ho conosciuto una fanciulla, è un’amica di mia sorella. Credo che mi piaccia e di piacerle.» «Io… sì, capisco. È di buona famiglia?» «Sì, ma non…» «No no. Capisco. Voglio dire, sei un Crociato e poi sei figlio di tuo padre. Io non ci ho parlato mai molto ma aveva lo sguardo buono.» «Mi manca molto» disse Val dopo un istante. «Tu comunque devi sposare una patrizia, non una persona umile.» «Chi ti ha detto che… mi voglio sposare? Sarò un Crociato, l’ultima cosa di cui ho bisogno è una moglie. Andrò a combattere chissà dove…» «Allora vuoi solo portartela a letto?» «No. Voglio dire… non parto di quell’avviso, lo sai!»
«Dovresti Val… a volte si possono vivere anche cose leggere… e possono darti ugualmente belle emozioni» disse Greta saltando su un muretto e accavallando le gambe in maniera da far svolazzare la sua gonna. Lo guardò ammiccante e poi proseguì a parlare. «Sei strano: dici che non ti vuoi sposare, che vuoi combattere… conosci una ragazza e poi non te la vuoi solo portare a letto come tutti i veri “guerrieri”. Forse dovevi fare il voto di castità» lo provocò. Val non rispose e guardò il suolo scuotendo la testa, con disappunto. Greta risaltò giù dal muretto e lo guardò. Intensamente. «Val, starai attento a non farti del male?» «Ci tengo alla vita.» Greta lo abbracciò. Val non riuscì a vedere le lacrime che silenziose le scendevano dagli occhi. Ma quando si staccarono e Greta andò via, sentì umida la veste sulla sua spalla.
ò davanti alla Cattedrale con il suo fagotto. Ci sperò e forse l’Eterno Reggente lo udì in quel giorno estivo. «Valen… stai partendo?» disse una voce. Val ringraziò tutti i Santi. «Gala!» disse quasi lasciando cadere il fagotto. La vide vestita con un’elegante tunica, diversa da quella che portavano di solito le novizie. «Dove vai con tutto quel peso sulle spalle?» gli chiese lei. «avo di qua…» Si diede dello stupido quasi subito. Per fortuna ricordò quante volte Lilia e Greta gli dicevano che era impacciato e indelicato con le donne. Per cui aggiustò la frase:
«No, non è vero: venivo a salutare te.» «Non ci credo, ma sei carino a dirlo» disse la ragazza sorridendo imbarazzata. «È vero, sono un Crociato non posso mentire. Sei vestita diversamente… stai benissimo!» «Grazie! Quanti complimenti oggi!» gli rispose Gala sempre più sorridente. Prese i lembi della tunica con le mani e iniziò a ruotare a destra e a sinistra facendoli svolazzare teneramente. «Sai, ora mi hanno spostato al Sacro Uffizio: è un grande onore ma è anche faticoso.» «Complimenti…» gli disse Val poco interessato a tutto quello che non fosse guardarla. Era davvero bella. Con quegli occhi scuri poteva incantare chiunque. Gala non era di quelle bellezze sensuali o carnali, come Greta. Forse a qualcuno poteva pure non piacere: di certo nessun pittore l’avrebbe scelta per farle un ritratto. Ma la purezza e la bontà che trasparivano erano fortissime e la rendevano così bella. «Ti prego… stai attento.» «Oh, non ho fretta di farmi ammazzare» gli rispose Val sarcastico. «No… è che… Io non voglio che…» Val, istintivamente la strinse a sé. Non l’aveva mai fatto. Restarono abbracciati per qualche istante e in quel momento il suo cuore galoppò come un cavallo lanciato in un torneo. Si staccò un attimo e vide le sue labbra. Sembravano così morbide… voleva baciarle. E lei non sembrava desiderare altro. Ma in una frazione di secondo, mille pensieri gli balenarono in testa: e se non fosse tornato? E se il suo slancio affettivo fosse solo stato dettato dalla paura per la guerra imminente? E se… Perse l’attimo e riprese il fagotto. Lei lo guardò, delusa. La salutò e fece due i indietro. Si fermò: lei era ancora lì che lo guardava. Altre tonnellate di pensieri gli attraversarono il cranio.
Lei gli fece solo un cenno con la mano e prima di scoppiare a piangere si girò e scappò via. “Idiota” si disse Val. “Idiota ottuso!” Corse dietro di lei e la prese per le spalle: la fece sobbalzare di spavento. La baciò con ione; le sue labbra erano morbide come sospettava. «Io… ti scriverò se la cosa andrà per le lunghe. E quando tornerò, voglio rivederti» le disse.
* * *
La prima Avanguardia della Repubblica aveva raccolto, tra volontari, ausiliari, coscritti, membri degli Ordini e soldati professionisti, 9500 uomini, di cui 1000 balestrieri di professione, 500 arcieri contadini, 900 cavalieri (molti Crociati e Kard) e fanteria dal vario equipaggiamento per il restante numero. Era un’armata cospicua per essere stata assembrata in così poco tempo. E non era un caso: il Doge aveva già messo in preavviso i signori feudali delle campagne e i governatori delle città. Le armi erano pronte da tempo e non occorreva altro che equipaggiare più gente possibile e metterla in marcia. Poiché Val detestava andare a cavallo quando si trattava di combattere era stato assegnato alla fanteria. Il Sergente Caviled lo salutò rapidamente, quasi come se non lo conoscesse (era molto indaffarato) e gli diede rapidamente le disposizioni. Val capì da questo che si faceva sul serio: Caviled aveva sempre un momento per lui ma non questa volta. Sarebbero partiti all’alba dell’indomani. Presto Val si accorse che non sarebbe riuscito a chiudere occhio, per cui, una volta calate le tenebre, eggiò per il grande accampamento che era stato predisposto fuori dalle mura occidentali. Giunto presso le tende dei Kard, si avvicinò per vedere se vi fosse anche Salaran. I Kard erano i soldati di Kària, la patrona della conquista e della guerra. Il suo culto era un esempio di “ecumenismo forzato”, ovvero di come l’Ecclesia Matriana aveva convertito un culto pagano, assorbendolo in seno.
Fu abbrancato alle spalle da un tizio gigantesco in armatura di piastre, che lo voltò di forza: non aveva più l’occhio destro e il volto era segnato da cicatrici; due baffi bruni gli coprivano la bocca. «Abbiamo preso la prima spia della serata!» «No… signore… io sono un Crociato di…» «Cosa? Non ti abbiamo ancora torturato e ci dici già spontaneamente chi sei? Ahahah!» E ridendo fragorosamente lo buttò a terra. Val fu accerchiato da altri individui, tutti vestiti di armature nere. «Dì un po’ rospo, che cercavi dentro il nostro campo?» «Sono un amico di… Salaran Mornei…L’avete visto?» «Ah! E Salaran avrebbe per amici delle formiche come te? Lo dicevo io: si circonda di scriccioli per sembrare più forte, ahahah! Comunque il tuo “amico” sta là, vicino al fuoco. Ma tu non sei un Kard e non puoi entrare qui, o dovremmo sbudellarti, capisci?» «Potreste… ehm… chiamarlo in modo che venga qui?» disse Val rialzandosi e dandosi una spolverata al didietro. «Potremmo, pivello. Potremmo. Salaran! La tua fidanzata è venuta a darti un bacio prima della battaglia, ahahah!» Salaran si alzò ridendo, mentre il baffuto energumeno gli andava incontro. Gli disse qualcosa che Val non sentì e i due scoppiarono a ridere. «Ciao Val, hai fatto conoscenza con Kawulf, vedo» disse Ran. «Ha persino un nome! Beh, si dà anche ai cani, del resto» rispose il Crociato contrariato. «Non badarci, fa così, ma è un cuore d’oro. Ha perso l’occhio combattendo gli orchi, nel Norden. Ci fa da mamma a tutti.»
«Per una volta simpatizzo per gli orchi. Non mi avevi detto che ti saresti arruolato nell’avanguardia! Pensavo non te ne importasse niente della Repubblica!» aggiunse il Crociato sorpreso. «Mi hai sempre detto che i potenti si divertono a mandare a crepare i loro sudditi e che bisogna diventare potenti a nostra volta o farci i fatti nostri!» «Questo è un ottimo palcoscenico per farsi notare. La guerra, intendo. E poi io odio i gabernici. Alla fine di questo conflitto, avrò più potere e conoscenze. Ho già incontrato alcuni nobili ai quali potrebbe servire un capitano della guardia o un portavoce.» «Mi sembrava strano che tu non ne volessi trarre un utile.» «Beh certo: non voglio che i gabernici entrino in città e magari violentino mia madre. O la tua.» «Puoi sempre mandare avanti tua sorella, per quello scopo» rispose Val. «Scommetto che ci starebbe se le promettessero un posto da apprendista maga…» «Sei una lagna mortale, Val! Tu giudichi sempre! Che cosa fai di diverso da me? Perché sei qui?» ribatté Corvin, seccato. «Ci hanno obbligato. Io non voglio ammazzare gente solo per fini politici. O personali.» «Politica o no, loro hanno deciso di invaderci. I sudditi del Granduca non si sono mica opposti e ne faranno le spese i nostri concittadini. Non ti sembra abbastanza per combattere?» «Sì, ma vorrei anche cambiare le cose.» «Siamo solo marionette mosse da qualcun’altro, non c’è modo di cambiare nulla, Val. Meglio diventare burattinai a nostra volta e alla svelta.» «Meglio arraffare più che si può?» gli disse. Salaran attese per qualche secondo. E poi disse: «Precisamente. Il forte mangia il debole, è così dalla notte dei tempi e non
cambierà mai.»
Val scosse il capo e abbandonò il campo dei Kard, riflettendo sulle parole che gli erano state rivolte. Ancora una volta gli parve di vedere del vero in quello che Salaran gli diceva, ma lo considerava esagerato: forse doveva semplicemente prenderlo per com’era e smetterla di desiderare che fosse un’altra persona. Oppure decidere che non c’era niente di valido in lui che meritasse la sua amicizia: ma quello non era vero. Dago l’aveva seguito, anch’egli non riusciva a dormire. Lo vide e si sedette a fianco a lui. «Ehi Val. Volevo vedere che stavi facendo, poi ti ho visto con Salaran e non volevo interrompere.» Val lo guardò con aria triste, annuendo. «Lo so, me lo ricordo bene: cercava spesso la compagnia di quelli che a sua detta erano i migliori guerrieri. E non credo che tra quegli esaltati dei Kard ne abbia trovati. O meglio: non ha trovato qualcuno per parlare davvero. È di indole forte e fa pesare molto le sue idee, ma in fondo sai, credo che sia buono e abbia dei valori. Va solo compreso.» «Compreso e non giudicato» fece Val sospirando. «Forse hai… avete ragione entrambi.» «Tu ci sei sempre stato per lui, lo capirà. Gli servirà sbatterci il muso con quei pagliacci dei Kard per capire quanto è importante un vero amico che ti guardi le spalle.» «E lui c’è stato per me, non lo scorderò» disse Val. «Ma adesso, in effetti, non è il momento di pensarci. Andiamo in guerra. Per i Santi, infine eccoci qui.»
* * *
Dopo qualche giorno di marcia, ata la città di Arga, (che manteneva un certo sdegno verso Lenvar, pur essendo stata soggiogata tempo prima), il corpo di spedizione lenvare si rafforzò di uomini provenienti dalle campagne e dai borghi vicini: ora erano circa 14.000 le forze dell’avanguardia. Un giorno, infine, gli esploratori riportarono che l’armata di Gaberne era a due ore di marcia dall’avanguardia. I Gabernici avevano lasciato il loro accampamento in armi e pronti allo scontro. Sulle piane di Gauna, i soldati Lenvari si disposero dunque per resistere alla carica dell’invasore. Era da poco ata l’alba di quella giornata di fine Sempiverde: l’aria era insolitamente fredda e il sole sbucava lento da est, colorando di giallo il limpido cielo e sbuffando il medesimo colore su nuvole distanti. Mentre l’armata lenvare si schierava sulla piana, i confratelli Crociati e i Conversi erano stati tenuti fino all’ultimo in disparte: il Maestro Madril avrebbe fatto un discorso prima di disporre i cinquecento valorosi uomini del Sole-sacro. Ser Madril era un grande eroe, almeno questo è ciò che si diceva: la sua armatura dorata e incantata da potenti glifi di protezione, rifulgeva e attirava su di sé lo sguardo. L’elsa di Grosicker, la sua spada anch’essa dalle proprietà mistiche, sporgeva a fianco della tunica scarlatta e dai bordi d’oro. Egli era il Maestro dei Cavalieri e il capo dei Crociati di tutta Lenvar: come spesso accade ai capi, era sempre irreperibile tranne quando doveva riscuotere un’onorificenza o nelle altre occasioni formali e, come quasi tutti i capi, non era praticamente simpatico a nessuno ed anzi inviso a molti. I suoi stessi cavalieri gli sorridevano davanti, per parlarne in maniera davvero poco lusinghiera in sua assenza.
Val non ascoltò molto di quel discorso: era pieno di retorica e ipocrisia, a suo modo di vedere. Nessuno sarebbe stato contento di morire, nemmeno per il suo paese, nonostante il sacrificio e le gesta degli eroi ati che Madril elencava in pompa magna. Nessuno poi sapeva cosa lo aspettasse dopo la fine della vita: se il tanto agognato riposo eterno, o il nulla. Val non ci voleva pensare, aveva i brividi. Dago stava di fianco a lui, a testa bassa, contemplando il vuoto. I Crociati uscirono dal campo, incespicando per salire il pendio della collina che li separava dal campo di battaglia. Quando Val arrivò in cima, vide uno degli spettacoli più indimenticabili della sua vita: la piana brulicava di migliaia di uomini ammassati come formiche, disposti in blocchi grossolanamente
rettangolari, che esponevano numerosi stendardi al vento e portavano tuniche di vari colori. Chiasso e nitriti, urla e tintinnii facevano da accompagnamento alla scena che si presentava davanti ai suoi occhi. A meno di ottocento i da loro, l’armata gabernica si stagliava lontana ma minacciosa. C’erano molti cavalieri tra le sue file e questo complicava le cose. Val non sapeva dire se fossero più numerosi: le stime sul numero nemico non erano state divulgate, ma si vociferava che i gabernici avessero un lieve vantaggio numerico. Gli uomini erano spaventati: dietro alle file dei contadini, i “Motivatori” gridavano come cani furibondi, le loro voci amplificate all’interno di grossi coni di rame. Essi erano uomini appartenenti alla ricca borghesia o alla nobiltà della Repubblica, con amicizie in genere influenti che gli garantivano un posto lontano dalle prime linee. Erano anche chiamati Asce d’Oro, perché il loro equipaggiamento, pari a quello dei Crociati per qualità, li dotava di una grossa ascia dalla testa dorata. Il loro compito era di coordinare ed incitare i coscritti delle campagne, poco addestrati e spesso indisciplinati e impedirne la ritirata: a questo servivano le asce che portavano sulla schiena. Erano odiati da tutti i soldati Lenvari (che li chiamavano “mastini” o “bavosi”) e appartenere a questo corpo non era certo motivo di vanto o pregio, ma segno di codardia. La stessa codardia che essi dovevano impedire. Tutti i Crociati avevano scelto di portare qualcosa di nero: Val portava un cordino nero a tracolla sulla spalla sinistra. C’era chi portava un laccio, chi una fascia sopra l’elmo, chi un nastro appeso allo scudo, a simboleggiare il lutto per il sangue che sarebbe stato versato contro persone della medesima fede. Fosse stato per l’umore, Val sarebbe venuto tutto vestito di nero, come un Kard. Sulla pelle indossava una sottoveste e poi una cotta di maglia di ferro rinforzata da un corpetto borchiato e due spallacci di metallo battuto; poi pantaloni di maglia di ferro, bracciali e schinieri, una cuffia di maglia di ferro che non indossava e lasciava cadere sotto il collo (lo infastidiva parecchio) e l’elmo “a barbuta” che proteggeva quasi tutto il viso. Sopra il corpetto era fissata con una cintura la tunica candida con il simbolo del sole a quattro raggi in bella evidenza sul petto. Sullo scudo, diviso in quarti da una croce rossa, c’erano i simboli del Solecroce e il grifone rosso della Repubblica. Val Portava poi al fianco la spada di acciaio che si era forgiato e gli era stata consegnata all’investitura (una buonissima lama, dato che Caviled lo aveva aiutato nella forgiatura). L’armatura pesava ed era imbottita, ma nonostante questo Val aveva freddo e i brividi. Era la paura: la
conosceva e la odiava ed essa lo invadeva. L’armata lenvare si dispiegò: i balestrieri in due ali laterali, gli scudi a pavese piantati per terra e le armi caricate e pronte. Al centro dell’armata vi era un grosso blocco di fanteria con spadaccini pesanti e Alabardieri in prima fila, poiché parecchi cavalieri gabernici erano schierati in cunei pronti alla carica e perdere il centro dello schieramento avrebbe significato perdere la battaglia. Sul lato di destra si schierò parte della cavalleria lenvare composta per lo più da Kard o cavalieri nobili e borghesi. Tutti i loro destrieri erano bardati di colori sgargianti, poiché ad essi non era imposta un’uniforme come ai Crociati. Una parte numericamente inferiore di cavalieri si piazzò sul lato sinistro (per lo più Cavalieri Crociati) assieme ad altre forze appiedate tra cui Val e compagni. I chierici avano rapidamente per lo schieramento con i loro incensatori:
“Ego vos absolvo ab omnibus peccatis vestris. Aeternus Rector dona eis vim. Ad tuum Paradisum, filios tuos defunctos recipe.”
Lo dicevano cercando di fare presto: tante anime sarebbero ascese al cielo e non c’era tempo da perdere. I furieri arono tra le file dei Crociati, distribuendo alcune lunghe lance. Val era finito in prima fila a fianco di Dago (non poteva scegliere la sua posizione ma questo da un lato lo rincuorava: non voleva are per codardo).Quando gli diedero la lancia, Dago iniziò a borbottare. «Io odio quest’affare» disse. «Preferisco la spada.» «Anch’io Dago, ma credo che questa sarà la nostra migliore amica. Speravo di non dovere reggere all’urto di una carica di cavalleria alla mia prima battaglia, ma a quanto pare il Cielo ha deciso di non facilitarmi mai le cose.» «Tu pensi troppo, amico mio» gli disse Dago con fare fraterno. «Cerchiamo piuttosto di sopravvivere e ce ne sarà d’avanzo.» «Dobbiamo anche vincere!» ribadì Val. «Siamo qui per impedire a quei porci di
razziare la città» Dago lo guardò sorpreso: «Non avevi detto che ti dispiaceva uccidere e compagnia bella?» «Parlo di quei maledetti bastardi che hanno spinto quei poveri diavoli a combatterci. Sono loro che ne trarranno maggiore beneficio.»
Val osservò ancora il campo: la piana di Gauna si estendeva per sei o sette miglia tra il mare e le montagne a nord. La sua parte settentrionale era tutta gialla di campi di grano e i Lenvari si erano schierati poco distante dalla spiaggia, sull’erba, per attirare lì i gabernici e non danneggiare i raccolti. Un’ampia strada sterrata attraversava il campo di battaglia e qua e là, pini marittimi e cespugli punteggiavano la piana. Le montagne in distanza avevano le cime brulle e giallastre circondate da grosse macchie di vegetazione spessa, come la testa di un calvo. Ai lati della strada, le pietre miliari segnavano la distanza tra due centri abitati: erano lì ancora dai tempi dell’Impero Sabano. Dalla spiaggia proveniva un buon odore di mare e se non ci fosse stato così tanto trambusto, si sarebbero sentite le onde infrangersi sulla battigia. Val guardò l’erba alta. Adesso che aveva paura, gli sembrava così bella e florida mentre il vento la muoveva appena. Mista ai cardi, alle ginestre, alle eriche, ai denti di leone. Si ricordò dei crochi d’inverno quando l’erbetta è bassa che quasi finge di essere terra. Gli alberi erano belli e verdeggianti ora da soli, ora a gruppetti. Qualche muretto a secco giaceva abbandonato, costeggiando piccole stradine battute che dividevano i poderi. Sarebbe stato bello sedersi sotto un pino a guardare le onde, bevendo un po’ di sidro e non prepararsi a sbudellare a spadate degli esseri umani, o a finire nel medesimo modo. Fu l’urlo del Sergente Caviled a riportare il giovane alla nuda realtà della guerra. «Avanzano! Issate gli stendardi! Muro di lance frontale! Gli elmi ben allacciati: la prima linea prenderà parecchie sberle, specie sul capo. Tenete gli scudi alti e occhio ai fendenti. State saldi, non cedete alla paura. Per la Repubblica, San
Vardem e Sant’Isior!» Val si dispose piantando i piedi a terra, lo scudo alto e la lancia tenuta saldamente. Alzò gli occhi al cielo, come per chiedere forza: a Sant’Isior e a suo padre, al nonno, a tutti coloro che gli avevano voluto bene e non c’erano più. Il tamburo batteva sordo a intervalli regolari, a segnalare di mantenere la posizione, i corni squillarono il medesimo comando. La paura e la frenesia si mescolavano nell’aria, le armature cozzavano l’una con l’altra, qualcuno intonava canti e frasi per darsi coraggio. Le bandiere azzurre dei gabernici si avvicinarono. I balestrieri avevano teso le loro corde ed erano pronti a trucidarli. Ser Ianos, sul suo splendido cavallo nero, poco bardato come egli preferiva, cavalcò davanti allo schieramento dei Crociati, incitandoli. «Pronti! Lanciate le vostre benedizioni! Proteggete con le preghiere le prime file! È l’ora dei Miracoli!» Val prese il suo Cerìse: questo era il nome del simbolo sacro incantato, raffigurante il Solecroce a quattro raggi, che veniva utilizzato per Benedizioni, Preghiere e Miracoli. Val lo alzò davanti a sé e intonò le parole rituali in antico sabano:
Sancte: in nomine tuo credo; cum tua vi, resisto! Ne permìttas a te separàri. Anima Isioris, sanctìfica me!
Appena ebbe finito, si sentì inebriato di forza, deciso a resistere e più sicuro di vincere. Poi le sensazioni si mischiarono: senti la sua pelle come indurirsi, sentì svanire le contrazioni allo stomaco dovute all’ansia e la vista divenne più nitida, mentre dietro di lui era tutto un vociare e un afflusso di luci danzanti nell’aria che avvolgevano le prime file. I Miracoli, le Preghiere, le Benedizioni… li avrebbero aiutati a resistere. Era pronto: non aveva paura, si sentiva fermo. e nel giusto.
Il cuneo centrale gabernico avrebbe tentato di sfondare la linea lenvare. Val udì un ordine lanciato dal Capitano Teril, che comandava lo schieramento appiedato aiutato dai Sergenti. D’istinto alzò lo scudo, a quell’ordine. Il cielo si macchiò di colpo, come se migliaia di storni stessero volando sopra il campo di battaglia oscurando il sole. Poi furono centinaia di sibili a scuotere l’aria. Poi il rumore degli impatti contro il legno, il metallo. La carne. Centinaia di frecce che caddero addosso ai Crociati. Val guardò lo scudo: tre frecce se ne stavano lì piantate a osservarlo, come a dirgli “eravamo venute qui per te, per ucciderti”. Le strappò adirato. Udì alcune grida: qualcuno era stato colpito ma non vedeva chi. Era un urlo di dolore così vivido che lo fece tremare. Poi si rinsaldò e pensò tra sé: “Oh, all’Inferno: se devo morire, venite avanti! Ne porterò alcuni con me!” «Formate dei corridoi, per permettere la ritirata ai balestrieri!» Gridò Ianos. Parte della cavalleria gabernica si dispose a cuneo e piombò sul lato destro lenvare, in netto vantaggio numerico. I Kard e i cavalieri provenienti dalle casate nobili posizionati sulla destra risposero caricando a loro volta, in un tremendo scontro frontale che fece volare corpi, armi e cavalli. L’altro distaccamento di cavalleria gabernico, a sinistra, venne sfoltito dal tiro dei balestrieri che con le loro potenti armi tirarono due salve di verrettoni prima di ritirarsi dietro i Crociati. Essi chio rapidamente i ranghi: neanche uno spillo avrebbe potuto are.
Val era fermo: osservava la fanteria nemica avanzare verso il centro lenvare con le bandiere al vento. Gli alabardieri Lenvari avevano già abbassato le loro armi in un muro frontale di spuntoni. Ma ciò che lo preoccupò fu un polverone, come un enorme sciame di vespe, che caricava inesorabile verso di lui: una massa di cavalli mandati al galoppo selvaggiamente, le lance dei cavalieri gabernici ormai basse. Val osservò i cavalieri guadagnare metro su metro: le loro figure diventavano sempre più grandi mano a mano che si avvicinavano. Il rombo delle centinaia di zoccoli ammutolì tutti.
“È la fine”, pensò il ragazzo. “Qui finisce la mia vita. Ti chiedo perdono, Eterno”. L’urto quasi spezzò un braccio a Val, che fu travolto e finì a terra. La sua lancia si conficcò ciecamente nel corpo d’un animale: si vide arrivare i denti del cavallo a pochi centimetri dalla faccia, la bocca spalancata dal morso, tirato selvaggiamente dal cavaliere. Fu schizzato di sangue. Sperava non fosse suo, ma non ne era certo: era come se avesse perso ogni sensibilità. Attorno a lui, mentre la sua lancia si spezzava, corpi si ammassavano gli uni sugli altri. Il clangore del metallo su metallo era assordante, ma la linea aveva tenuto. I gabernici rimasti in sella menavano fendenti sulle teste dei Crociati, ma erano disarcionati e uccisi senza pietà.
Dopo una prima esitazione, Caviled gridò di ingaggiare liberamente il nemico: «All’attacco! All’attacco! Nessun quartiere!» I corni e i tamburi ribadirono l’ordine: Val e Dago gettarono le lance, sguainarono le spade e si lanciarono in avanti. Un cavaliere tentò di infilzare Val con la lancia, ma il Crociato respinse la punta con lo scudo e colpì pesantemente l’uomo alla gamba, poi lo strattonò facendolo cadere di sella. Il cavaliere tentò di rialzarsi e sguainare l’arma. Per un istante Val si fermò a guardarlo. Non è che avesse più molta scelta: non poteva parlamentare. Non poteva convincerlo a tornare a casa propria o che questa guerra fosse sbagliata. Non c’era scelta, non aveva deciso lui ma non poteva sottrarsi al suo destino. Sarebbe stata la sua morte o la morte del cavaliere che stava per aggredirlo. Non seppe mai il suo nome ma ricordò per sempre la sua faccia: il piccolo ciuffetto biondo che spuntava sotto il cappuccio di maglia, gli occhi chiari come i suoi, la barba e i baffi curati. Il cavaliere sguainò la spada e la alzò sopra la testa per colpire il Crociato. Val quasi chiuse gli occhi. Caricò un fendente da sinistra e gli inferse un violento colpo al collo: centro perfetto. Gli parve di avvertire con la mano la vibrazione delle vertebre che si spezzavano. Lo mandò al suolo esanime: aveva appena ucciso un uomo.
Non ebbe tempo di pensare nulla: il suo corpo era come posseduto da una forza primordiale che lo spingeva a sopravvivere. Colpì ancora quasi alla cieca tutto
ciò che vide, che era vivo e non era lenvare. Ogni volta che aveva visto le rievocazioni di alcune battaglie storiche, combattute con spade di legno fuori dalle mura della città, aveva creduto che una battaglia campale fosse un grosso insieme di singoli duelli. Non era così: il pericolo veniva da tutte le direzioni. In ogni istante potevi essere colpito alle spalle o accerchiato da più avversari. Ecco perché i soldati meglio addestrati combattevano tutti vicini, spalla a spalla, proteggendosi gli uni con gli altri con i loro scudi. Ogni volta che un soldato si trovava isolato, cadeva preda di qualche colpo la cui direzione non riusciva nemmeno a vedere. Val combatté selvaggiamente vicino ai suoi commilitoni, fino a che i nemici non si diradarono e non ebbe un momento di tregua. Per terra agonizzavano cavalieri gabernici e Crociati feriti, urlando e dimenandosi. Il Crociato si guardò intorno ma nella mischia perse il contatto con Dago. Non poté pensarci a lungo poiché vide un Converso a terra, con un braccio rotto, difendersi col solo scudo dal mazzafrusto di un gabernico. Val lo caricò e lo infilzò senza che l’uomo riuscisse a opporsi. Lo vide contorcersi a terra tenendosi il ventre, urlare nella sua lingua. Non era sicuro di ciò che dicesse, ma gli parve che chiamasse sua madre. Avrebbe pianto, forse ingenuamente: si sarebbe inginocchiato, gli avrebbe chiesto scusa e provato a tamponare la ferita. Ma l’aveva inferta lui. Adesso la vita di quell’uomo era sua. La terminò lì, con un colpo così potente che quasi staccò al gabernico la testa dal collo. Poi s’inginocchiò vicino al Converso, lo trascinò indietro e pronunciò alcune parole muovendo il Cerìse e versando il contenuto di una piccola fiasca sulla frattura. La ferita bruciò e il giovane urlò di dolore per un istante. Poi sembrò muoverla seppure fosse dolorante. Il giovane gli sorrise, ma Val fu strattonato dal Sergente Caviled che lo redarguì: «Non fermarti a guarire i feriti! Lascia che vada da solo nelle retrovie! Tu, ragazzo, torna al campo velocemente e fatti medicare! E se puoi, torna a combattere!» «Ma Sergente…» protestò Val. «Non c’è nessun “ma”! Ricorda che tu sei un tutt’uno con l’esercito ora. Dobbiamo vincere per ognuno di noi e di chi ci aspetta a casa. Non possiamo occuparci dei singoli! Riprendi a combattere, Galron. Forza!» Val fu impressionato da Caviled: era diverso. Aveva la faccia sporca di sangue e
la tunica squarciata. Probabilmente era stato ferito a una gamba e il suo sguardo era frenetico. Gli faceva paura: era abituato a vederlo sempre gentile e premuroso e scoprirlo in veste da battaglia lo colpì. Caviled e Val avanzarono ancora; i ranghi si erano rotti ma i Crociati combattevano sul posto: avevano tenuto la posizione. Val e il Sergente schivarono la carica di un gabernico e mentre egli li oltreava, colpirono il suo cavallo insieme facendolo stramazzare al suolo. Il cavaliere si alzò e mulinò due colpi contro il Sergente, ma Val lo attaccò dal fianco e lo colpì duramente al braccio e al torace. Fu affrontato da un altro gabernico, ma schivò facilmente il suo martello e lo colpì al volto, sfigurandolo. Infine i cavalieri gabernici rimasti ripiegarono disordinati, chi a cavallo e chi a piedi. Caviled ordinò di non inseguirli. «Lasciateli ripiegare! Pronti per attaccare al centro!» urlò il Capitano Teril. «Aggireremo il nemico sul suo fianco! In formazione ordinata, di corsa!» La disciplina dei Crociati si mostrò in tutta la sua potenza: in poche decine di secondi essi riformarono un quadrato dalle file serrate, scudo a fianco di scudo. Val gridò insieme agli altri: tutta la rabbia uscì dal suo corpo attraverso la voce. E avanzò.
5.
Vittime
Erano ati alcuni giorni dalla partenza di Val. Gala si sentiva stanca, sfibrata. ava buona parte del suo tempo libero dalle faccende del convento davanti alla finestra, attendendo che gli araldi apparissero e divulgassero notizie sulla battaglia. Ma nessuna nuova giunse dalle piane di Gauna. Così esausta crollò, vestita com’era sul letto e singhiozzò. Pianse e pianse finché la testa non le sembrò esplodere. Voleva urlare e dire a Val che non voleva più vederlo; odiava questa infatuazione che cresceva dentro di lei. “Non doveva baciarmi prima di partire”, disse tra sé. “Lo ha fatto apposta per tenermi legata a lui!” Si girò nel letto fissando il soffitto bianco della sua stanza. Ormai conosceva ogni crepa, ogni solco che osservava fino a quando il lume ad olio sul suo comodino non si spegneva. “Non c’era nemmeno bisogno di quel bacio per legarmi a lui”, rifletté rassegnandosi. “Eterno Reggente, fa che torni sano e salvo e che possiamo essere felici assieme”. Si assopì infine e orribili incubi afflissero il suo sonno: sognò Val coperto di sangue col volto spaccato, giacere sul campo e poi rialzarsi e andare verso di lei. Sognò i suoi genitori, silenziosi e distanti, dirle che aveva sbagliato tutto nella vita infine, che era stata un fallimento. Si svegliò più stanca di quando era andata a dormire: si preparò velocemente e si recò al piano alto del Convento, dov’era il Sacro Uffizio. «Accolita De Torne, avete un minuto?» disse una voce. «Certo» fece Gala cercando di assumere un’espressione consona. E voltandosi vide che le stava parlando l’Esarca in persona, il capo del culto matriano in città. Crollo in ginocchio, inchinandosi. L’Esarca Bernet, era un uomo sulla sessantina, calvo e rugoso. Era visibilmente
in sovrappeso e quando si muoveva la sua pappagorgia ballava come un floscio velo appeso al suo collo: era piuttosto sgradevole alla vista. Ma era colui che amministrava il culto ed andava rispettato: Lenvar da sempre teneva in altissimo conto i prelati e l’alleanza con l’Ecclesia della città di Matri era antica e solida. Lo stesso Consiglio delle Compagnie che amministrava in parte gli affari cittadini non poteva riunirsi senza l’Esarca o il suo secondo: il Vicario. «Ho indiscrezioni che presto i soldati potrebbero tornare a casa. Voi siete tra le responsabili per gli addobbi della cerimonia di ritorno, giusto? Come mai siamo ancora in alto mare!? Non vi state comportando egregiamente. I drappi e i vessilli sono assolutamente mal fatti e non tengono adeguatamente il vento!» «Le mie scuse eccellenza» disse Gala. «Abbiamo avuto poco preavviso ma possiamo migliorarli.» Alla ragazza venne in mente di poter chiedere informazioni sulla battaglia, dato che l’Esarca sembrava informato. Ma non osò e fu incalzata ulteriormente. «Migliorarli?! Nemmeno i maiali ci vorrebbero dormire sopra! Rifateli da zero e con cura! È sempre così quando si lasciano fare le cose alle donne, non avete criterio!» «Le mie scuse eccellenza» ripeté Gala. «Scuse… Voi mi siete stata raccomandata dalla vostra famiglia, pertanto non vi punirò: ma sappiate che sono profondamente deluso dalla vostra condotta! Che questo non si ripeta!» «Non si ripeterà eccellenza!» Mentre l’Esarca si allontanava, Gala fu sorata da un altro uomo. Era il Vicario, Thavion Descor, il secondo e assistente personale dell’Esarca. «Non badate a Sua Eccellenza. Ho visto le decorazioni e le trovo superiori a quelle che mi sarei aspettato, dato il poco tempo. Io invece volevo giusto complimentarmi con il vostro gruppo: continuate così. Basterà qualche piccola modifica che vi spiegherò e l’Esarca non si accorgerà della differenza. E la sua ira sarà placata.» Gala guardò il Vicario: Descor era dotato di fascino, era un bell’uomo sulla quarantina, piuttosto giovane, invero, per la carica che occupava. Si diceva fosse
arrivato lì dov’era grazie a potenti amicizie, ma pareva disinteressato dalla politica cittadina. La cosa era apparentemente gradita a tutte le fazioni che si contendevano il potere a quei tempi, dato che l’Esarca e il Vicario dovevano tenere una certa neutralità. Forse per tal motivo aveva potuto scalare così rapidamente la piramide di comando: perché Thavion Descor sapeva assecondare tutti. E soddisfare se stesso. «Vi ringrazio Vostra Grazia» disse Gala rincuorata. «Sembrate afflitta… coraggio: non siete la prima che Sua Eccellenza rimprovera.» «Oh, Vostra Grazia, sono abituata ai rimproveri da quando potevo camminare. Vi sono altre ombre che mi offuscano.» Si stupì di dire quelle cose ad un alto prelato che nemmeno conosceva, ma si sentiva stranamente a suo agio. «Le supererete. Venite, andiamo alla sartoria e vi mostrerò come fare per accontentare Sua Eccellenza.»
Lavorarono tutto il pomeriggio assieme alle sorelle e alle educande. Il Vicario le seguiva o o con pazienza e non mancava di scherzare con loro e di alleggerire il peso di quel lavoro così noioso. Gala ò una giornata piacevole come non si ricordava da molto tempo. Tutti i giorni Thavion veniva in sartoria e il terzo giorno portò ad ognuna delle sarte una piccola spilla di bronzo, come regalo e ringraziamento. Quella di Gala però era anche ornata da cristallo colorato. Era bellissima nella sua semplicità. Poi sopra ogni rumore arrivò una voce. Era mattina e una tromba stava squillando nella piazza. L’Araldo portava notizie da Gauna. Gala corse in strada e ascoltò: l’araldo stava raccontando la battaglia, colorandola di particolari eroici di dubbia veridicità. «… Poi ahimè, i nostri eroici cavalieri alla destra si sacrificarono per proteggere i gloriosi balestrieri. Ed eccoli i fanti, al centro, resistere all’onda azzurra che
tentava di travolgerli. Ma v’era difficoltà. Poiché…»
* * *
Verso metà della battaglia il cielo era ormai nuvoloso e il sole appariva a sprazzi. Verso le montagne a nord, nuvoloni neri stavano scavalcando le vallate minacciando pioggia. Questo dava a tutta la piana un aspetto grigio e tetro, che ben si sposava con la macabra battaglia che andava in scena sui prati. Val cercò per quanto possibile di osservare ciò che accadeva a destra dello schieramento: i cavalieri Lenvari sul lato destro erano stati dispersi e la cavalleria gabernica stava piombando proprio sul fianco destro, dove era stazionata buona parte dei coscritti. Essi non potevano contare sulla disciplina delle fanterie scelte: avrebbero ceduto facilmente e la battaglia rischiava di essere persa, dato che i cavalieri gabernici avrebbero sfondato il centro lenvare, accerchiandolo. Così i cavalieri Crociati galopparono di gran lena verso la destra dello schieramento come rinforzo. Val ebbe paura: Salaran era tra i cavalieri del lato destro. Ebbe una sgradevole sensazione, come un presentimento che all’amico fosse successo qualcosa. I due corpi centrali di soldati di ambedue gli eserciti, formati da truppe scelte, si erano incontrati al centro della piana in una schermaglia piuttosto ordinata e ora s’incespicava sui numerosi corpi morti che si ammassavano. La spada incantata di Ser Lelan, uno dei migliori cavalieri Crociati emanò un lampo di luce abbagliante prima di conficcarsi nel cuore del portastendardo dei cavalieri gabernici. Lelan era un eroe: tutti pensavano che dopo la morte del Maestro Madril, ne avrebbe preso il posto come Maestro dei Cavalieri. Combatteva superbamente, senza prendersi rischi inutili ma con coraggio. La sua foga ispirava tutte le truppe vicine. Un esempio di ardore; ma c’erano anche esempi di villania. Val ricordò per tutto il resto dei suoi giorni di avere visto le Asce d’Oro abbattersi senza pietà su chi fuggiva, sui poveri contadini spaventati. Lenvari che uccidevano altri Lenvari. Improvvisamente si sentì stanco e avvertì di nuovo un senso di paura: l’effetto
della Preghiera iniziale era terminato, ma si era comunque rincuorato poiché il suo addestramento era servito e lo aveva salvato, finora. Aveva qualche graffio, diverse contusioni piuttosto dolorose e i muscoli gli facevano male, ma era vivo. Caviled prese la guida del plotone di cui facevano parte Val e Dago: i Crociati assalirono una compagnia di fanteria gabernica, già parzialmente decimata, che incontrarono davanti a loro mentre essa era impegnata a combattere contro gli Alabardieri Lenvari. E per l’ennesima volta Val capì che non era come aveva letto nelle storie epiche della sua infanzia. Non c’era niente di bello o di eroico era solo un massacro su larga scala. Ogni tanto qualcuno cadeva al suolo urlando o in silenzio con gli occhi sbarrati e veniva calpestato o finito sul posto. A volte i ranghi si allargavano e allora bisognava stare attenti a non essere colpiti sia di fronte che dai lati. Val ricevette tanti di quei colpi sullo scudo e sull’elmo, che l’emicrania che ne seguì gli ò solo due giorni dopo. Resse la posizione imprecando e venendo graffiato, schizzato di sangue, spintonato e colpito. Ma colpì a sua volta: quasi alla cieca e spietatamente, inorridendo a tanto sangue ma consapevole che se si fosse fermato, sarebbe probabilmente morto. I gabernici, presi a questo punto tra due fuochi, si lasciarono vincere dal panico come topi in trappola e andarono in rotta, consentendo al resto dei Crociati di penetrare il loro schieramento, ati dagli Alabardieri. Caviled tuonò: «Crociati! Carica, per la gloria di Sant’Isior!» I Crociati si serrarono. Alzando le spade e gridando caricarono verso il nemico.
Val stavolta vide i coscritti delle diverse fazioni scontrarsi tra loro. Si fermò qualche secondo ad osservarli: erano soldati non addestrati e lo scontro tra di loro era come una rissa da taverna su larga scala. Alcuni avevano gettato le armi a terra, spesso rotte, vecchie e arrugginite e si picchiavano a mani nude; chi cadeva mordeva o calciava le caviglie di chi era in piedi. Non era infrequente essere colpiti per sbaglio dai propri compagni, mentre coltellate e colpi d’ascia squarciavano addomi e spaccavano teste. I contadini colpivano i cittadini con falci e forconi: come mietessero del grano tinto di rosso. I cittadini li percuotevano con martelli e mazze come battessero del metallo ramato. C’era più sangue sul terreno e sulle facce che nelle vene dei combattenti. A Val
sembrava solo una guerra di disperati contro disperati. “Per cosa lo stavano facendo”, si chiese? Per cosa lo stava facendo egli stesso? Per la volontà di qualche monarca di entrare nella storia? Per la vera “gloria” di una Repubblica? Cosa stava facendo? Perché aveva ucciso così tanta gente? Il motivo, quello vero, gli sfuggiva. Nemmeno conosceva chi aveva ucciso. Era orrendo. Orrendo.
Chiusi ormai in una letale “U”, la parte mediana dei gabernici, formata dai contadini, fece dietro-front e andò in rotta completa, mentre i loro stessi cavalieri li falciavano nella ritirata come spighe di grano, inveendo contro la loro codardia. “Anche i gabernici hanno le loro Asce d’Oro”, pensò Val. La parte avanzata degli invasori invece, formata da truppe ben addestrate, non accennava a cedere terreno e infliggeva perdite nelle file dei Lenvari. I Crociati urlarono con tutto il fiato che avevano in corpo e li colpirono, intonando inni di battaglia e benedizioni rituali. Dalle nubi ormai grigie e nere che sostavano sopra il campo, un raggio baciò lo stendardo del Solecroce, che rifulse di una luce dorata che sembrava provenire direttamente dal Paradiso. I Crociati abbatterono molti dei nemici, ma i cavalieri gabernici appiedati non accennavano a cedere, preferendo morire che essere catturati e umiliati. Lo scempio di altre vite non era più accettabile, poiché il campo era ormai tenuto saldamente dagli uomini della Repubblica. E così Ianos e gli altri cavalieri Crociati, si riposizionarono a cuneo e alzarono le spade tutti assieme. Le lame di alcuni di loro si accesero di una luce così portentosa da renderli simili ad angeli. E fu l’ultima carica dei Crociati sulla piana di Gauna: i gabernici videro come ali di colombe rosse piombare su di loro. Alcuni di loro erano così sorpresi che gettarono le armi a terra e osservarono con la bocca aperta. I Crociati caricarono e li travolsero senza pietà. Ianos spezzò il collo del loro comandante con un colpo netto; prese lo stendardo supremo con i suoi simboli nobiliari e il gonfalone di Gaberne e urlò in antico sabano: «Superati estis! Sanguinem vastare satis est! Ad patriam vostram redite!”» Si erse sugli arcioni e guardò tutto lo schieramento. Per un attimo ognuno smise di combattere: la sua voce era stata così amplificata dalla magia, da arrivare a tutti. I gabernici allora, convinti che non c’era altro da fare, fuggirono disordinatamente.
La furia dei Crociati si era resa palese a tutto il continente, anni dopo l’ultima Crociata, ma contro un nemico politico e non più contro mostri o Necromanti. Il fallimento dell’antica Alleanza degli Uomini era infine compiuto. Quei tempi di gloria in cui essi cooperavano per respingere orchi o draghi si avvicinava al declino. Adesso era l’epoca dei re e delle nazioni. Ianos raggruppò i cavalieri. Il Generale Arcase di Lenvar, che era stato messo in rotta assieme ai cavalieri nobili della repubblica, tornò trafelato spronando il cavallo che ormai aveva la schiuma alla bocca. «Inseguite il nemico in ritirata! Falciatene il più possibile!» «Non è più necessario» gli disse Ianos. «Siete soldati della Repubblica e questo è un ordine!» Il capo dei cavalieri Crociati, il Maestro Madril, giunse pomposamente a cavallo. Arcase lo guardò con disprezzo: eppure grazie ai Crociati, la battaglia era stata vinta mentre i cavalieri “laici” si erano ritirati nell’ignominia. Guardò Arcase e poi i suoi cavalieri. Ianos lo scrutò fermo. Il Maestro Madril fece un espressione superba e poi disse: «No. La nostra parte è stata fatta. Fateli inseguire dalla fanteria, se volete. O dai vostri “coraggiosi cavalieri”. I Crociati non spargeranno altro sangue. Triste è questo giorno per noi.» La fanteria lenvare però non inseguì il nemico: essi esultarono con i pugni rivolti ai Crociati, urlando di gioia. Arcase decise di non dare nessun ordine e si ritirò col suo stato maggiore.
Così si concludeva la Battaglia delle Piane di Gauna: restavano sul terreno migliaia di corpi e molti erano ancora vivi e urlavano dal dolore. Le perdite per la Repubblica erano state alte: due quinti dei soldati erano morti o feriti. Migliaia di prigionieri gabernici furono rastrellati al centro del campo e sorvegliati dalle Asce d’Oro.
Mentre Val osservava il terreno chiazzato di corpi, sangue e pezzi d’armi e armature, vide i cavalieri crociati porsi a cerchio e chiedere perdono per avere scatenato la forza di Sant’Isior sui gabernici. Li sentì chiedere perdono per tutto: per il sangue versato e per avere brandito le armi contro persone della medesima fede. Poi come in un lampo, gli venne in mente dei suoi amici e corse presso il luogo dove aveva visto Dago per l’ultima volta, ma non era facile trovarlo in mezzo alla carneficina e alle figure sbandate che si aggiravano confuse per il campo. Un soldato gabernico portava il suo braccio mozzato in grembo come se fosse un bimbo. Disse qualcosa a Val, persino sorridendo: ma egli non capì e lo evitò. Chiamò ad alta voce e poi con un sospiro si mise a rivoltare i corpi dei Crociati caduti, alcuni irriconoscibili, mutilati, coperti di sangue. Cerco le bianche uniformi ma di bianco non era rimasto più nulla. Voleva anche sapere dov’era Ran e molti altri amici. Gli capitò di riconoscere alcuni tra i cadaveri: Màdia aveva una profonda fenditura nel cranio e gli si vedeva il cervello. Trovò un adepto, Glava, dove avevano retto l’urto della cavalleria gabernica: una lancia da cavaliere spezzata gli sbocciava dal torace. Aveva gli occhi spalancati e fissava il cielo, calmo e pallido nella morte. Vide uno dei suoi compagni, Fagril portare a braccetto un altro Crociato, Patri, ferito gravemente alla gamba. I due lo salutarono, felici di trovarsi tutti e tre vivi. Una parte della sua generazione non c’era più, grazie ai capricci di singoli uomini potenti. I tre si abbandonarono a commenti banali, se quella potesse essere una situazione banale. Poi, resisi conto che nessuno aveva molta voglia di parlare, si salutarono e Val continuò a cercare. Era a pezzi: tutte le articolazioni gli dolevano. Si tolse i guanti rinforzati di metallo e scopri che aveva le nocche spaccate e sanguinanti: non riusciva più a sollevare le braccia oltre l’altezza delle spalle. Era sicuro di essere ricoperto di lividi ovunque e una lancia gli aveva colpito la cotta di maglia, spingendogliela nelle carni della coscia destra: camminava perciò zoppicando. Continuava a sentire in bocca il sapore del sangue e la sua faccia era incrostata di quello rappreso. Dopo avere girato inutilmente, ritornò verso l’accampamento sperando di trovare lì chi mancava, soprattutto Salaran. Mentre incespicava tra i corpi e le armi
spezzate, vide un Ospitaliere del culto di San Càlista che trascinava faticosamente un uomo del suo stesso ordine. Le barelle erano piene e ve n’erano comunque poche. Val corse a dargli una mano, perché pareva in difficoltà. L’uomo portava la tunica scarlatta degli Ospitalieri con il loro simbolo, le due ali bianche. Aveva un elmo con nasale legato alla cintura, la cuffia di maglia buttata sulle spalle, capelli neri e il viso curiosamente butterato. Aveva circa l’età di Val. «Ti aiuto!» disse il Crociato. «Grazie! È uno dei miei superiori, se riusciamo a portarlo al campo, forse possiamo salvarlo!» rispose l’Ospitaliere.
I due iniziarono a trasportare il ferito, che aveva ormai perso conoscenza. Fu un viaggio interminabile fino al campo e i giovani dovettero fermarsi più volte poiché il ferito era in armatura e pesava parecchio. Recisero le cinghie e gli levarono la cotta di maglia: in ogni momento si aspettavano di vederlo spirare. Giunti presso le tende degli Ospitalieri i due posarono il corpo su una tavolaccia di legno incrostata di sangue. In quel momento Val capì perché gli Ospitalieri avevano scelto il rosso come colore: guardò la sua tunica bianca da Crociato e faticò a trovare un singolo lembo che non fosse insozzato. Era strappata e piena di sangue, non solo il suo per lo meno: nel complesso stava bene rispetto a quei poveretti. Aveva dato fondo alle sue poche abilità magiche e aveva un mal di testa terribile. Attorno era un susseguirsi di urla, di schizzi, di corpi buttati nei sacchi per sgombrare i tavoli. Ferri chirurgici, pinze, lembi di carne alzati e l’orribile rumore della sega che amputava arti come tronchi di legno, mosche ovunque: ancora una volta l’Inferno in terra. «Dobbiamo tagliare il braccio, ormai è insalvabile!» disse l’Ospitaliere dopo avere tolto la tunica dal suo commilitone. «Ci hanno insegnato a farlo» disse Val. «Ma non ho forza, ho la testa che mi scoppia: ho combattuto tutta la mattina e…» «Io mi chiamo Railan» disse l’Ospitaliere tendendo la mano, guantata ma completamente insanguinata. «Val, Valen Galron» rispose il Crociato. Ma non la strinse e gli diede una pacca sulla spalla.
«Val, prendi questo tonico: noi lo usiamo quando dobbiamo fare molto lavoro. Non ti erà il mal di testa del tutto, ma ti aiuterà a stare meglio e a mantenere la lucidità!» disse Railan, bevendo da un grosso flacone. Lo porse a Val e il Crociato bevve. Era roba forte: non sembrava alcolica ma mentre scendeva gli bruciava leggermente il petto. Si sentì subito inebriato e meno stanco. «Ti chiedo solo di tenerlo fermo, i miei confratelli sono tutti impegnati. Poi ti lascerò libero, te lo prometto» ribadì l’Ospitaliere. «Non abbiamo più laudano. Capitano? Mi sente?» disse l’Ospitaliere al ferito. Egli non rispose: era quasi senza vita ormai. Val serrò le braccia attorno alle spalle dell’uomo. Railan iniziò a tagliare e l’uomo si destò urlando come se volesse sputare fuori l’anima. Val fece una smorfia, impressionato; l’uomo svenne, lasciò cadere il capo sonoramente sul tavolo e Railan finì di amputare. Poi si fece aiutare da Val per cauterizzare il moncone. Arrivarono anche Caviled, altri Crociati e qualche borghese che aveva prestato servizio da un chirurgo o era un barbitonsore. Chi era pratico nella cura delle ferite, anche solo per aver assistito un parente malato, dava una mano senza far domande. Railan e Val si riposarono per un istante. Il Crociato non se l’era sentita di andarsene a cercare gli amici e lasciare l’Ospitaliere da solo: assieme amputarono altri arti, cucirono squarci nelle carni così ampi da far vedere l’osso e ridussero alcune fratture. C’erano solo i lamenti dei feriti in sottofondo e il rumore del vento. Presero dei secchi e camminarono fino ad un piccolo beo per riempirli d’acqua pulita. Erano lordi da capo a piedi e si sciacquarono mani e viso. «Non avevo mai ammazzato nessuno» disse Val guardando l’acqua farsi rossa. «È stato così anche per me la prima volta, un anno fa» rispose Railan. «Diciamo che da quel giorno è come se vivessi una vita diversa. Non dico nuova o eccessivamente sgradevole… ma differente. Sono felice di prestare servizio nell’infermeria da allora.» «Chi hai ucciso?»
«Un predone. Pattugliavamo la via dei pellegrinaggi: non so nemmeno quante migliaia di leghe da qui. Di sicuro non era un brav’uomo, ma… chi mi assicura che razziasse ciò per disperazione o fame?» «Poteva scegliere di fare qualcosa di onesto» ribatté Val. «Anche a costo di morire di fame.» «Poteva, certo. Ma magari aveva figli, moglie… sicuramente poteva anche semplicemente essere uno sbandato. Non lo saprò mai. Me lo ripeto sempre. Quelli che uccidi dopo il primo sembrano acquisire meno significato. Ma in fondo fa sempre schifo e se riesco a curare o salvare qualcuno, sento le mani meno sporche. Non ho più voluto prestare servizio armato: mi sono messo a studiare la medicina e la traumatologia e ora i miei servigi sono più richiesti qui. E tu, Valen?» «Io ho scelto di combattere: oggi me ne pento. Io so che ho solo difeso casa mia, ma non mi basta a perdonarmi ciò che ho fatto. Guarda quei contadini laggiù: stanno rubando gli stivali dai morti da quando abbiamo messo il tuo capitano sulla barella. E nessuno li ferma: a loro non frega niente. Ho combattuto e ucciso per salvare questi sciacalli?» «Ma hai combattuto anche per altre persone buone: per esempio per chi aiuterebbe uno sconosciuto a trasportare il suo superiore su una barella» ribatté Railan. «Hai combattuto anche per quello stesso sconosciuto e per il suo capitano.»
Lasciato Railan, Val chiese il permesso a Caviled e tornò a cercare Dago e Salaran. Infine trovò Dagovir che era tornato dopo essere stato mandato in perlustrazione: era ferito lievemente, ma non sapeva che ne fosse stato di Ran. Val cercò i Kard presso le loro tende: erano più che dimezzati. Uno di loro, l’energumeno che l’aveva sbattuto a terra qualche sera prima, era seduto in un angolo con lo sguardo fisso nel vuoto e un fiasco di idromele in mano. Val voleva avvicinarsi e chiedergli dove fosse Salaran, quando fu fermato nuovamente. «Che cerchi, eroe?» gli disse una voce nota. «Ran!» esclamò Val. «Ce l’hai fatta allora!»
«Val, non mi ero mai trovato in un disastro del genere. Vieni!» Salaran lo portò in disparte e gli disse: «Questi sono tutti degli idioti. Idioti ripeto!» disse duramente. «Si sono lanciati come cretini contro la cavalleria d’élite gabernica. Prima della battaglia hanno rimpolpato le fila mandando i cadetti nuovi: metà erano ubriachi o imbevuti di pozioni strane e l’altra metà se la faceva addosso. Ne sono morti tanti già nella prima carica e noi non abbiamo guaritori nelle nostre fila come voi. Imbecilli!» «Anche noi non ce la siamo ata bene. Ma è andata: ce l’abbiamo fatta.» «Io ho chiuso qui: me ne torno a Lenvar. Questi imbecilli non mi meritano.» «A noi invece toccherà continuare. Non abbiamo inseguito i gabernici e ora si riorganizzeranno» disse Val. «Già, ma sono in minoranza e, se non ricevono rinforzi, vedrai che ci sarà presto la pace.» «Potrai tornare a Lenvar senza conseguenze?» chiese Val. «I Kard sono liberi, e poi mio zio vuole tornare anche lui. È vecchio per queste cose ma ancora abbastanza abile da staccare la testa con l’ascia a chiunque gli dica che è un codardo. Andremo via di qua, e se vuoi un consiglio Val, fa lo stesso.» «Non posso, amico mio. E non voglio.» Lasciato Ran, Val tornò di nuovo sul campo di battaglia. Percorse esausto il piccolo pendio che separava la piana dall’accampamento. Ora la piana di Gauna, ad un osservatore disattento, sarebbe sembrata un grosso prato punteggiato di cespugli di fiori rossi. Si poteva notare il punto dove la battaglia era stata più cruenta dal numero dei corpi stesi. Val trovò una pietra solitaria. Si sedette. E pianse. Pianse nascondendo la faccia nelle mani pensando a quel cavaliere che aveva ucciso assieme a tutti gli altri, mentre i loro visi lampeggiavano sporadicamente nei suoi pensieri. Singhiozzò pensando alla strada che aveva compiuto e al fatto che nessuno gli avrebbe mai ridato indietro la sua innocenza. L’acqua avrebbe lavato via il sangue dalle sue mani, ma mai dalla sua anima.
Alcuni monaci giravano per le tende chiedendo il nome dei superstiti e sbarrando sui loro fogli i nomi dei morti, per dare notizia alle famiglie. Uno di loro fece almeno quindici nomi prima che qualcuno rispondesse “presente”, un altro dopo un po’ rinunciò. E nelle fosse scavate nella piana, giacquero vicini i corpi di Lenvari e Gabernici: non più ostili tra loro ma stretti in un macabro e fraterno abbraccio di morte, di estrema pace. Solo il sibilo del vento suonò la loro marcia funebre, come una banda in processione che si allontanava e che li aveva lasciati soli.
Il giorno successivo l’avanguardia di Lenvar riprese la marcia. Gran parte delle Asce d’Oro e alcune compagnie di fanteria invece tornarono indietro, conducendo una lunga fila di prigionieri destinati alla schiavitù del remo. Essi cantavano un triste brano sulla strada, mugolando a bocca chiusa, esattamente come facevano i Lenvari feriti, che intonavano la canzone dei soldati caduti. Qualcuno dei contadini e dei borgatari che sapeva suonare uno strumento, li accompagnava mesto.
Che nuove ti porto, Signore dell’Est, Che guardi dall’alto Bastione, Ascolta i miei versi e pensa a colui, Che non può più udir la canzone.
Che nuove ti porto, o dama dell’Est, Che guardi la strada lontano, Lo sposo è partito, con l’arme che hai, Lustrato col pianto e la mano.
Canta con me, Signore dell’Est, Sul trono di raso vermiglio, Canta con me, o Dama dell’Est E guarda giocare tuo figlio.
Perché mio padre, tornato non è Per chi ha versato il suo sangue Sul nobile volto sorriso non v’è Ma solo la morte che langue.
Perché la mia terra nel lutto sarà Per chi è dovuto perire Quante stagioni l’ontano vorrà Perché possa di nuovo fiorire.
Canta con me, Guerriero scomparso, Sulla pira sarai presto arso, Canta con me, triste moglie da sola Mesta come giglio e la viola.
Molti di loro sarebbero morti comunque durante la marcia o la prigionia e alcuni, tornati a casa, non sarebbero comunque stati gli stessi.
* * *
Gala sospirò all’annuncio della vittoria ma non aveva ricevuto notizie specifiche di Val. L’Esarca era sempre più pressante e solo la presenza del Vicario Descor la rincuorava. Egli dimostrava di avere a cuore la giovane accolita ma era sempre attento che la cosa non trasparisse agli occhi degli altri, perché non voleva fare preferenze. Gala dal canto suo non aveva parlato a nessuno di questo: il Vicario non poteva prendere moglie e questo la rendeva sicura di desiderare solo un’amicizia da lui, un rapporto maestro-allieva. Ma dentro di sé sapeva di essere affascinata da quell’uomo così sapiente e gentile. Poi arrivò la missiva di Val e tutto cambiò:
“Mia cara Gala, Abbiamo vinto la prima battaglia contro i gabernici. Ci sono state perdite considerevoli e alcuni miei compagni sono morti ma Salaran e Dagovir stanno bene. Quelli di noi non troppo malconci, tra cui me, sono stati mandati a cavallo ad inseguire i gabernici in fuga, nonostante le perplessità dei nostri Cavalieri: oggi dovremmo raggiungerli e indurli alla resa. Siamo quasi giunti al ponte sull’Augri ed è qui che finiremo questa guerra: i gabernici sono sbandati e dobbiamo spingerli oltre il confine prima che ottengano rinforzi. Probabilmente non dovremmo nemmeno combattere. Il Sergente Caviled mi ha chiesto di cavalcare assieme a lui; sai quanto odio quelle bestiacce, ma non ho potuto rifiutare. Credo che sia una buona occasione per far vedere di cosa sono capace. Ti prometto che starò attento. So che forse non dovrei dirtelo, ma non vedo l’ora di rivederti. Dai uno sguardo a mia sorella da parte mia.
Valen
Gala era raggiante: Val era vivo! Era così contenta che corse dal Vicario. Stava quasi per chiamarlo per nome: “Thavion!”, quando si trattenne. «Vostra Grazia! Ho ricevuto una lettera che non speravo di ricevere!» «Da chi, mia giovane Gala?» disse Thavion Descor posando la penna. «Dal mio fid… ehm dal mio spasimante!» «Spasimante?» Gala realizzò che, per quanto il cammino spirituale che aveva intrapreso consentisse il matrimonio, la cosa non era ben vista per quanto concerneva il far carriera. Chi voleva progredire nei ranghi dell’Ecclesia Matriana, doveva dare tutto se stesso all’Eterno e fare voto di castità. Ma Gala non voleva far carriera: nemmeno sarebbe voluta entrare in seminario. Lo aveva fatto quasi obbligata dai suoi e se lo era fatto piacere, riuscendo comunque ad avere pieni voti e stima dalle superiori. «Sì, è andato a combattere a Gauna ed è sopravvissuto!» «Ah, capisco» le rispose freddamente il Vicario. «Mi rallegro, sia lodato l’Eterno! Ora, visto che sei più tranquilla va a vedere come va la cucitura dello stendardo d’oro con il Solecroce per il ritorno dei Crociati. E chiudimi la porta, per cortesia!» Il tono insolitamente sbrigativo la sorprese. Chiuse la porta, ma la sua mente vagò subito verso Val. “Quando tornerà lo bacerò così tanto da soffocare. Che bello sarà, con la sua uniforme: se avessi più tempo potrei cucirgli un mantello rosso nuovo! Quanto vorrei le sue labbra, ora. Vorrei morderle. E vorrei…” Si sentì per un attimo accaldata: le gote erano rosse come il fuoco. Corse alla finestra respirando forte.
“Non dovrei fare così: sono un’accolita”. Prese un bel respiro. “Ma è così bello!”
* * *
Nonostante in città i pensieri fossero tutti proiettati verso la guerra, gli Alabardieri iniziarono a chiedersi chi potesse essere il responsabile di alcuni efferati omicidi in città. Bastavano però poche congetture per trovare sempre un senso e un colpevole ai delitti: prostitute che assassinavano i clienti per denaro o erano sopraffatte dai loro stessi avventori; un giovane precipitato in un pozzo per incidente, un anziano investito dal crollo di una pesante impalcatura, un usuraio ucciso da un ricattato. Le morti violente aumentarono , ma ogni caso era fin troppo chiaro da risolvere. La sola persona che riteneva strane quelle morti era Erin Lindei, una giovane luogotenente del Corpo degli Alabardieri. Pur non essendo particolarmente bella, aveva un suo fascino, specie quando parlava ed esponeva le sue tesi. Aveva un naso un po’ storto e adunco di profilo, ma due occhi molto dolci e caldi che sapevano in qualche misura incantare. I Lindei erano una famiglia patrizia di commercianti e avrebbero voluto fare di Erin una dama di corte o una sacerdotessa. Ma lei si rifiutò e sfruttando un difetto nel Diritto lenvare riuscì a diventare la prima donna Alabardiera della storia. Preoccupati dal pericolo dei pattugliamenti, i genitori usarono le loro influenze politiche (e molti doni preziosi) per farla diventare rapidamente ufficiale e affidarla alla Caserma del Molo. Contrariamente a quanto si narra spesso delle città di mare, i moli di Lenvar erano forse il posto più sicuro e pattugliato della città ed Erin contribuì a rendere ancora più sicura l’area fino a trasformarla in un “noioso parco”, come lei soleva dire. Fu una sera, che gli uomini del Luogotenente Lindei le comunicarono di avere trovato due cadaveri abbandonati in un vicolo. Eccitata dall’avere qualcosa da fare, Erin corse al Vico degli Alisei per indagare di persona. I due corpi erano stati gettati in un “butto”, un vicolo adibito a
cloaca: l’odore di fogna non era descrivibile. Erin osservò i due cadaveri: una donna e un ragazzo. Erano stati buttati in malo modo sul selciato e qualcuno aveva scaricato le sue deiezioni dalla finestra su di loro, con poco tatto. I corpi erano nudi e pallidi, con la pelle appoggiata al terreno livida di sangue. «La donna non ha nemmeno lottato. L’aggressore le ha tagliato la gola senza fatica. Guarda la ferita, com’è precisa. Se si fosse ribellata, sarebbe stata più discontinua» disse la giovane rivolta al Sergente. «Forse è stata legata» rispose il Sergente. «Non ha segni su polsi o caviglie. Probabilmente era con la vittima di sua sponte, magari lo conosceva.» «Il ragazzo è stato strangolato invece: guardate che segni viola sulla gola!» «Ecchimosi» disse con aria saputa la Luogotenente. «È giovane: forse è il figlio» le disse il Sergente, tentando di ignorare quello sfoggio di cultura. «Anche il ragazzo non ha lottato e non era stato legato: si è lasciato strangolare?» disse il Sergente grattandosi la testa. «Ha il volto terrorizzato: guarda gli occhi! Sono quasi fuori dalle orbite!» disse Erin. «Magari l’assassino ha stretto forte, usando una garrota, e gli sono schizzati fuori.» «Forse. Non c’è sangue qui: sono stati trasportati. Vivevano qui vicino?» «Beh se riuscissimo a capire chi sono, Luogotenente, forse sapremmo qualcosa di più. Non avendo niente addosso, dovremo aspettare che qualcuno venga a reclamare i corpi.»
Ma nessuno venne, né l’indomani, né il giorno successivo e nonostante i chierici matriani avessero rallentato la decomposizione con unguenti e incantamenti, i
corpi si sarebbero deteriorati presto. Fu durante il quinto giorno, quando il tenente Lindei stava per autorizzare la sepoltura, che giunse un giovane vestito di abiti sgargianti, un sorriso da furfante e di certo non l’atteggiamento di qualcuno che vada a reclamare un cadavere. «Mi è giunta notizia che vi sono due salme prive d’identificazione» disse il giovane. «È così: con chi avrei l’onore di parlare?» Chiese Erin. «Mi chiamo Corvin Siblei» disse il giovane «Molto onorato, nobile dama.» «La nobile dama che vi sta di fronte è un Luogotenente degli Alabardieri e con tale titolo andrebbe appellata» rispose con ferma cortesia Erin. Manco a dirlo, Corvin fu doppiamente affascinato dal vedere quella ragazza in uniforme da uomo rispondere in maniera così ferma. In tal modo, un po’ sorpreso e un po’ divertito, nascose il risentimento dell’aver ricevuto una obiezione (le odiava) e iniziò a giocare. Adorava giocare, specialmente con le donne. Corvin aveva una strana ione per le donne: non poteva farne a meno, come i maschi della sua età, ma era affascinato dalle ragazze problematiche. I suoi genitori gli arrangiavano fidanzamenti come si programma la spesa quotidiana ma quasi nessuna delle nobildonne proposte lo sconfinferava. Corvin odiava il modo di fare aristocratico e amava le persone interessanti, conflittuali e all’apparenza fragili: questa volta però quella risposta “forte” lo tentava.
«Mi perdoni, luogotenente, non intendevo essere scortese. Vi spiegherò: una parente a me lontana e il suo figliolo sono venuti a sparire dalla loro casa. Sono stato incaricato dai loro parenti prossimi di indagare se, ahimè, disgrazia l’avesse colpiti e si fossero trovati colti da prematura fine. Giacché i familiari a loro più stretti non reggerebbero al dolore di vedere i loro cari colti da violenta dipartita, mandarono me, che poco in fondo li conobbi e meno fui legato alle loro persone, per riconoscerli adeguatamente in quanto armato con maggiore forza d’animo.» Il giro di parole educato secondo i canoni cortesi, voleva in realtà dire che a nessuno dei parenti più stretti importava di Arabel e di suo figlio. Con questa
scusa uno dei rampolli più giovani della famiglia, cioè Corvin, aveva dovuto sobbarcarsi il fastidioso onere di identificarli; con gioia dei loro eventuali eredi che avrebbero messo le mani sul denaro senza doversi sorbire la vista di due cadaveri trucidati. Per Corvin la famiglia veniva prima di tutto ed anche se era un compito estremamente ingrato (e lui di certo non avrebbe visto nemmeno un soldo), lo fece senza protestare. «Venite, allora, Messer Siblei e vi mostrerò i due che ancora non hanno nome, nella speranza che non siano chi voi temete. Anche se devo ammettere che spero possiate portare sul mistero un velo di luce» rispose Erin. Quando vide i corpi, Corvin fu così schifato che dopo pochi istanti si voltò violentemente senza dire una parola, per poi ordinare a gesti che fossero coperti nuovamente dal telo. «Dunque è lui. Càlimio è il suo nome e Siblei la sua casata. Egli è l’uomo che temevo. La signora è Arabel Fèria, sua madre. Avviserò il suo sposo.» «Finalmente!!!» disse Erin, facendo un salto di eccitazione: perse ogni freno diplomatico e sorrise per avere trovato un nuovo elemento di indagine. Poi si rese conto di essere comunque alla presenza di due persone uccise e di un loro parente e riprese il suo cipiglio. «Dunque, vi porgo condoglianze per la vostra perdita e mi rammarico per essa. Ma ditemi: che informazioni sapreste addurmi per meglio inquadrare le abitudini di queste persone?» «Vi redarguirò come si confà, Tenente, ma a una condizione…» disse Corvin e sorrise guardandola. Lei aveva due occhi meravigliosi color nocciola, che accigliava quando era in attesa di qualcosa, la bocca un po’ storpiata in una buffa e tenera espressione di curiosità. «Sarebbe, Signore?» gli disse lei quando il silenzio occupò alcuni secondi. «Sarebbe se potessimo smetterla di parlare “cortese”, sederci davanti ad un buon tè e chiacchierare con calma delle sventure della mia sfortunata parente» disse Corvin sorridendo. Erin subito lo guardò quasi con disappunto, poi si rese conto di quanto la richiesta fosse lecita: nemmeno lei avrebbe potuto sopportare per altri minuti l’attorcigliarsi la lingua del linguaggio d’etichetta. Per ciò ricambiò il sorriso e accompagnò Corvin al secondo piano della caserma.
Corvin disse che zia Arabel era una donna di facili costumi e così il giovane figlio: amavano il vino, il gioco, lui le belle giovani e lei non disdegnava di frequentare coetanei di suo figlio. Amava trascorrere nottate di ione con ragazzi imberbi (e qualcuno malignava anche ragazze), di dubbia provenienza e disposti a cedere alle sue laute mance; perciò il suo precedente marito si era trovato più d’una notte a dovere dividere il letto nuziale non con la moglie ma soltanto con i numerosi gatti e cagnolini che lei allevava e viziava; finché anch’egli non trovo un indubbio vantaggio nelle assenze della moglie per soddisfare le sue ioni. Quando lui morì per una brutta febbre, ella si risposò con un vecchio Siblei, al quale donò qualche settimana di piacere per poi lasciarlo poltrire in una residenza estiva mentre lei occupava quella cittadina. «Così pensate che un amante troppo focoso abbia ucciso vostra zia» disse Erin, un po’ disgustata dal racconto, che Corvin aveva riempito tuttavia di aneddoti divertenti. «È quasi sicuro, Luogotenente. Ciò nonostante mia zia era particolarmente munifica con i suoi ehm… “accompagnatori”: per questo era ben voluta, pur con la sua condotta scandalosa. E per di più non andava in giro con ricchezze o gioielli: solo il giusto danaro per are una serata, bere una bottiglia di vino e appagare i suoi gusti.» «Quindi è meno probabile l’ipotesi della rapina» disse Erin. «Rapina? Oh no, affatto. Dalla casa non mancava nulla. Gioielli e denaro erano lì in bella vista sul comò e non sono stati toccati.» «Rivali?» «Mia zia era così fuori dalla vita politica da potere aspirare alla santità. Mah, forse non ei questo termine visto come…» «Beh, faremo altre indagini, a cominciare dalla sua casa. Per ora possiamo solo dargli una degna sepoltura e poi vi terremo informati.» «Non scomodatevi. erò io ogni tanto» disse Corvin sorridendo. «Oh, non datevi disturbo: manderò uno dei miei agenti» disse Erin.
«Non c’è problema, sarà un piacere potere avere di nuovo una conversazione con voi. Ora però andrò, affari da sbrigare.»
* * *
Val osservò il grande ponte di pietra sul fiume Augri davanti a sé. Il suo cavallo sbuffava vapore dalle froge: l’aria del mattino era fredda. L’avanguardia a cavallo dei Crociati aveva distanziato la fanteria: gli esploratori riferivano che i gabernici superstiti si stavano fortificando dall’altra parte del fiume in attesa di rinforzi. Andavano dispersi definitivamente prima che ciò accadesse. Attorno alla strada, i campi di grano erano stati abbandonati e il frumento giaceva alto, poiché nessuno l’aveva più mietuto. «Che spreco» commentò Dago. Caviled ò rapidamente tra i cavalieri e disse: «Dobbiamo attraversare il ponte di corsa e attestarci sull’altra riva. Da lì potremmo metterci in formazione e cavalcare attraverso l’accampamento nemico: non ha palizzate né fossati, dovrebbe essere semplice. Il ponte stesso non è stato fortificato: c’è qualche barricata a metà ma la via non è ostruita. Al di qua è stanziato un piccolo presidio: travolgeremo le sentinelle e procederemo al galoppo.» Val era più che scettico: avrebbe preferito andare da solo contro cento che caricare a velocità folle su di un ponte, ma doveva obbedire. Caviled d’altro canto avrebbe cavalcato al suo fianco e Val non voleva deluderlo. «Non pensate, Sergente, che dovremmo tornare indietro? Noi siamo Crociati, ormai l’Armata può farcela da sola a disperdere i gabernici» disse Val. «A Gauna, Ser Ianos ha detto che il nostro lavoro era compiuto e che gli uomini di fede sarebbero dovuti tornare indietro…» «Spetta al Maestro Madril la decisione. Ci sono diversi interessi in gioco, temo» disse Caviled.
«Mi sfuggono quali…» obiettò Val. «A me no, ma preferisco tenervene al di fuori» disse perentoriamente il Sergente. Provava vergogna nell’ammettere che era stata fatta una donazione in denaro dalla Repubblica ai Crociati e che Madril aveva accettato di combattere ancora. Ormai erano mercenari a tutti gli effetti. «Ho l’impressione che c’entrino metalli pregiati, modellati a forma di piccoli dischi di metallo» disse Val guardando negli occhi il Sergente. Caviled guardò il giovane crociato che aveva presto capito come giravano le cose. L’appartenere ad un ordine deputato alla purezza, ad una missione e scoprirlo condizionato dal denaro e dal potere era intollerabile. Si ricordava di quando lui stessi aveva fatto quella scoperta anni prima ed era ancora vivida la sua sensazione. «Galron» gli disse sospirando, «in ogni cosa, anche la più nobile, c’è una fetta di bene e una di male. In tutte le cose, ripeto. Finché il male resta confinato e ridotto al minimo, si può ingoiare il boccone amaro e proseguire sulla via buona. Questa è comunque la nostra terra e qui sta il bene nel volerla difendere. Se lasciassimo andare avanti la fanteria su quel ponte, molte più persone morirebbero.» Val annuì. Dagovir era emozionato invece e non stava più nella pelle al pensiero di fare una carica a cavallo. «Questa sarà un’impresa da cantori!» diceva. «Da pazzi! Perché dobbiamo andare a rotta di collo contro le loro lance?» chiese Val. «Ci metteremmo troppo a piedi: avrebbero tempo di ostruire il ponte e attestarsi!» rispose Dago. «Abbiamo fior fiore di balestrieri con i quali sfoltire le loro forze» disse Val. «Potrebbero fare quasi tutto loro: i loro arcieri sono stati catturati o sono morti quasi tutti.» «Ma i dardi costano…» commentò Dago. «C’è qualcosa di strano, tuttavia» disse Caviled
«Cosa volete dire, Sergente?» disse Dago. «Non sono attestati in forze sul ponte, ma poco dopo. Il ponte è facilmente difendibile eppure è quasi sguarnito: c’è giusto una misera barricata, che i cavalli possono saltare. Di sicuro sanno che siamo troppi per loro e i rinforzi non arriverebbero in tempo. Ma se non vogliono resistere in attesa dei rinforzi, perché si sono accampati poco oltre il ponte e non sono fuggiti? Non quadra.» «In formazione!» urlò il Maestro Madril. «Credo che tra poco lo scopriremo» disse Val, preoccupato.
6.
Sprofondare nel buio
Quella mattina era festa e Gala era nel letto. Non era riuscita a dormire la sera prima e si era assopita solo poche ore prima dell’alba. “E se Val morisse?” Scosse il capo e si girò sul fianco. Nel dormiveglia, i pensieri cavalcarono come avrebbero fatto i Crociati su quel ponte. Veloci le trafiggevano la testa. Si sentiva confusa, ma tra tutte le voci, una spiccò. Era una voce calda, maschile, bassa. Rassicurante ma inquietante al tempo stesso, la chiamava. Lei rispose. «Piccola Gala,» disse l’uomo, «non sei stanca di avere paura di tutto? Di soffrire per ogni cosa?» «Io…» «Sì, lo vedo. Sì, sei una barchetta di carta nell’oceano: ogni piccola increspatura delle onde ti sommerge, t’impregna d’acqua. E infine affondi. Sprofondi nel buio, non c’è più aria e anneghi. Sei morta, sei fredda nella bara e non puoi più muoverti. Sei morta perché ti ha ucciso… la paura. La paura è la tua morte, sarà la tua fine. La paura ti ha sempre distrutto la vita e alla fine te la leverà.» Gala si rigirò: aveva timore di quella voce, come di tutte le voci che affermano la verità quando non si vuole udirla. «Sfiorirai. Invecchierai e morirai. Sola. Non ci sarà più lui nella tua vita, ti ha lasciato sola. Ha scelto il suo comodo rispetto a te.» «No! Val ha dovuto farlo, ha dovuto farlo per noi, per Lenvar!» «È come gli altri. Ti ha lasciato sola. Sei sola. Morirai sola!» «Io non voglio più sentirti, tu non capisci niente!» «Sei sola. Sei sola, da sola, sola, soltanto sola!» incalzò la voce.
«Basta! Basta ti prego!» lo scongiurò. Ed ella si sentì come paralizzata: era sveglia ma non riusciva ad aprire gli occhi o muovere i muscoli. Stava come soffocando, poi come d’incanto si svegliò di soprassalto, urlando. Pianse terrorizzata stringendo il lenzuolo come se vi fosse aggrappata sul ciglio di un dirupo. La paura aveva caratterizzato tutta la sua vita, fin da quando era bambina. La paura di sbagliare. Di legarsi. I suoi genitori l’avevano incarcerata in un sistema dove si sentiva più una prigioniera che una figlia. Si alzò stiracchiandosi. Non aveva fame. Fuori era una bella giornata estiva, ma non faceva caldo. Per un istante fissò un erotto sul davanzale della finestra: aveva la testa rossiccia in cima, bianca sui lati e la gola nera. “È un maschio: Val una volta ha detto che i maschi sono così e le femmine sono marroni”, pensò. Quante cose che sapeva Val. Glielo aveva detto una volta che lei era andata a trovare Lilia a casa dei Galron e aveva visto un erotto chiedendo che cosa fosse. Adesso avrebbe proprio voluto sfogarsi con lui. Ma lui non c’era: l’aveva lasciata sola. “Non mi conosce neanche”, pensò. Così andò da chi la conosceva. O la stava conoscendo.
* * *
I Crociati si disposero a formare un grosso cuneo largo sei di loro a cavallo, il massimo numero che potesse varcare il ponte, una forza composta da Crociati di tutti i ranghi, dato che alcuni dei Cavalieri erano stati feriti e rimpiazzati. In testa fu messo Caviled e non Madril, cosa che rinfrancò numerosi Crociati, i quali stimavano notevolmente di più il Sergente rispetto al loro comandante supremo. Madril non andava a genio a nessuno: tutti erano disponibili a riverirlo quando ava e a lodarne le gesta, eppure molti malignavano che occue la sua posizione senza averne merito, ma per motivi politici.
I Crociati impartirono le loro Benedizioni e tutti si sentirono inebriati e pieni di coraggio. I cavalieri spronarono i destrieri e iniziarono a cavalcare veloci, alzando un gran polverone dalla strada. Val cercò di osservare: non vedeva molto e il suo cavallo sembrava muoversi con volontà propria. Il presidio prima del ponte pareva scomparso. Così i Crociati accelerarono a velocità di carica, la spada di Caviled alta e splendente al sole dell’alba. Imboccarono il ponte e videro alcuni gabernici sull’altra sponda tentare di formare un esiguo fronte di lancieri. Ma non ce l’avrebbero mai fatta a posizionarsi in tempo, così i cavalieri andarono sempre più veloci, non potevano esitare. Dago gridò. Il Sergente gridò. E Ser Lelan e tutti gli altri. Val no però. Val era spaventato. Superò le barricate sul ponte, così raffazzonate da sembrare finte. Già, finte. Perché organizzare una difesa fasulla? Non ebbe molto tempo per rispondersi, perché a quel punto si compì l’inganno dei gabernici. Il rombo degli zoccoli dei cavalli al galoppo era assordante e il ponte vibrò. Caviled e una ventina di cavalieri varcarono il fiume e giunsero sull’altra sponda pronti a ingaggiare i gabernici, ma un frastuono, come un fulmine lì fece sobbalzare: dietro di loro, parte del ponte era crollato e numerosi cavalieri erano finiti nel greto del fiume, limaccioso data la stagione estiva, ma ugualmente profondo in quanto vicino alla foce. Alcuni Crociati rovinarono contro la rupe, o furono schiacciati dai loro stessi cavalli. Con la complicità di alcuni traditori della Repubblica, i genieri gabernici avevano lavorato per giorni sui pilastri rimuovendo pietre e scavando, puntellandoli alla bene e meglio con pali di legno sottili. Erano stati notevolmente indeboliti, specialmente sotto il pelo dell’acqua, dove il danno era meno evidente alla vista.
Val provò inutilmente a tirare le briglie del suo destriero che tentò di spiccare un balzo, ma finì nel vuoto. L’animale colpì la superficie con un orrendo tonfo e il Crociato volò in acqua. Mentre tentava di rialzarsi sentì qualcosa che lo colpiva pesantemente alla schiena e fu quasi tramortito. Sprofondò nel buio. Si assopì affondando la faccia nel liquido e quasi perse conoscenza. Pensò per un istante di essere a casa, nel suo letto, vittima di un incubo. Poi qualcosa strattonò la sua mente e si risvegliò. Dapprima senti le orecchie ovattate; appena la sua testa riemerse sopra il pelo dell’acqua, udì urla di dolore, nitriti, spruzzi e rumore di pietre. Un Inferno senza fuoco come nelle storie o nei dogmi, ma acqua e fango.
Alcuni dei cavalieri giacevano a faccia in giù, altri tentavano disperatamente di spostare i corpi dei cavalli o di aggrapparsi alla pietra; le armature li trascinavano nella melma. Poi si udirono molti sibili e ancora vi furono urla di dolore: dai campi di grano, alto a sufficienza per celarli, sbucarono molte decine di arcieri gabernici erano stati piazzati in attesa lungo il fiume. Era la vendetta del duca verso i Crociati che avevano voltato le spalle al ducato di Gaberne. Le frecce trafissero i cavalieri che tentavano di raggiungere le rive o di aggrapparsi ai resti dei pilastri. Val si acquattò riparandosi dietro al corpo di un destriero morto. Sentì un colpo netto sul dorso della mano, come uno schiaffetto. La osservò e vide una freccia che la ava da parte a parte; gridò di dolore lancinante. La spezzò con grande sofferenza, la estrasse e cercò il Cerìse, pronunciò qualche parola rituale e la ferita smise di sanguinare. Strappò un lembo di tessuto fradicio per bendarla alla bene e meglio: l’acqua era ormai rossa. Sopra di lui udì i suoni di metallo che cozzava: i cavalieri che erano riusciti a varcare il ponte stavano tentando di disperdere i nemici, mentre i restanti tentavano un disperato guado a monte, ma l’acqua era sufficientemente alta da ostacolarli. E le frecce dei gabernici continuavano a piovere anche su di essi. Fu in quel dramma che Val vide Dagovir. Era sdraiato in una posa innaturale su di un affioramento di canne e pietre e alcune frecce gli avevano trafitto la schiena. Aveva gli occhi chiusi, era fradicio e tremava. Val strisciò nel fango verso di lui e lo scosse. Tentò di coprirlo: tolse uno scudo da un braccio senza vita per ripararlo dalle frecce, ma una lo colpì alla testa. Rimbalzò sull’elmo, ma non gli importò: c’era il suo amico conciato male davanti a lui e non gli interessava altro. «Dago! Rispondimi!» Gridò per varie volte. Alla fine Dagovir aprì gli occhi «Mi fa male tutto, Val. Mi sento senza forze.» Val lo tirò verso la riva e riuscì a trovare un punto dove adagiarlo relativamente al riparo, sotto un piccolo costone di terra erosa dall’acqua e circondato di canne. Lo fece sdraiare sulle pietre tonde, lo mise su un fianco e tentò di estrarre le frecce, ma non aveva strumenti con sé. Vide poi che la gamba sinistra era disarticolata e sanguinava. Il perone sporgeva dalle carni. Dago iniziò a delirare. «Mamma… mamma…» Continuava a chiamare. «Aiutami mamma…»
«Aspetta amico mio!» gridò Val con le lacrime agli occhi tentando di rimettere in sede la gamba. «Voglio andare a casa mia» gemette Dago. «Lascia che ti metta in sesto, resisti forza!» «Mamma… aiuto…» E smise di chiamare. Val non udì più trambusto sopra di lui, così salì la rupe per dare un’occhiata: il grano era macchiato di sangue, i corpi di numerosi gabernici giacevano al suolo, mutilati. I cavalieri avevano messo in fuga il resto della retroguardia, mentre sull’altra sponda i balestrieri Lenvari avevano preso posizione per sfoltire i nemici rimasti. Caviled si stava facendo staccare una freccia dalla spalla da un Crociato che brandiva una tenaglia, facendo leva con il piede su una pietra mentre tirava. Il Sergente gridò e la freccia uscì accompagnata da uno zampillo rosso. Il resto dei cavalieri che erano rimasti bloccati dal crollo era riuscito a guadare a monte e ora i Lenvari tenevano il campo. Quasi nessun gabernico era riuscito a fuggire: giacevano morti, sparpagliati lì attorno. Val urlò per vari minuti per fare accorrere i soccorsi. Alla fine alzò lui stesso l’amico ed incespicò sul pendio fino a portarlo sopra la riva. Lo caricò su un cavallo e corse indietro fino al loro campo. Gli ci volle molto tempo, tuttavia. «Non morire, ti prego. Non morire!» diceva piangendo all’amico, mentre cavalcava. Fu soccorso dagli Ospitalieri: vide Railan, l’Ospitaliere che aveva conosciuto dopo la battaglia di Gauna e lo chiamò subito. Insieme tentarono di estrarre le frecce dal corpo di Dagovir, ma una di esse aveva colpito la spina dorsale ed era incastrata tra le vertebre. Dago non riprese conoscenza e arono altri lunghi minuti: durante l’agonia continuava a ripetere sempre la stessa parola, incomprensibile, a ritmo rapido, serrato. Alla fine spalanco le palpebre, sgranò gli occhi, il suo respiro si fece flebile ed infine si spense.
«Che cosa dirò a sua madre…» Disse Val asciugandosi le lacrime. «Che è stato coraggioso» rispose Railan lavandosi le mani insanguinate. Poi diede una pacca sulla spalla a Val e corse ad assistere gli altri feriti.
L’esercito gabernico alla fine si ritirò. La flotta di Lenvar aveva intercettato le navi con i rinforzi e ne aveva affondate un paio. Fu firmata la pace e il Duca di Gaberne rischiò di essere scomunicato dal Patriarca. Per una ragione, che rimase oscura ai più, il provvedimento non lo raggiunse mai: quella che sembrava un’invasione facile divenne una beffa e il Duca, mesi dopo, cadde vittima di una congiura ordita dal nipote. Tutto quel sangue, quel male, fu versato inutilmente e non fece altro che ingrassare l’erba con i corpi delle vittime, ormai sprofondate nel buio della terra.
* * *
L’atteggiamento di Thavion nei confronti di Gala era mutato da qualche tempo: egli alternava momenti in cui le stava vicino e la consigliava con pazienza, ad altri in cui era sbrigativo e scostante. Per un attimo l’accolita pensò che egli si fosse invaghito di lei. Non sapeva se sperarlo (si sentiva stupida a desiderare una cosa del genere) o se averne paura. Era sempre più stanca: ormai spesso era perseguitata dagli incubi. Quella strana voce la tormentava: sembrava sapere così tanto di lei e c’era logica in quello che diceva. Poi, verso la fine del sogno, ripeteva sempre la stessa cosa: «Abbandona tutto. Avrai la pace, non dovrai più preoccuparti. Abbandona tutto e pensa solo a te. Segui la via del piacere, della conoscenza suprema. Non soffrirai più.» «Non esiste alcun modo, sei pazzo!» sbottò la ragazza. «La vita è solo sofferenza! Possiamo solo are brevi respiri di piacere!»
«Io ti prenderò. Dammi la mano. Ti porterò verso il piacere eterno.» Gala sentì una mano sfiorarle la gamba. Era calda e impercettibile. Prima tremò di imbarazzo e paura. Poi, scoprì che le piaceva la sensazione mentre essa saliva oltre il ginocchio, sulla coscia. La mano si staccò e Gala si sorprese a pensare “ancora!”. Ma si rese conto che c’era qualcosa che non andava: aveva capito di stare dormendo e sognando, ma quella mano era vera, e la stava toccando realmente! Si alzò urlando «No, lasciami!» Si svegliò confusa: non c’era nessuno nella stanza. Val non poteva aiutarla: corse dal Vicario, ma egli era occupato e non badò molto a lei. “Val non c’è. Thavion non mi ascolta e forse… forse gli piaccio e lo costringo a struggersi per me. Ha ragione quella voce: sono sola. Sempre da sola.” Così decise di tenere per sé i suoi incubi. Dal fronte non arrivavano più notizie: più era preoccupata, peggio erano gli incubi. Non mangiava più molto ed era sempre debole. E di nuovo la notte voce le diceva: «Abbandona gli affetti. Occupati solo di te». Iniziò a pensare che non era una brutta idea: non avrebbe più sofferto. Da un lato Val in pericolo di vita: dall’altro Thavion che la ignorava. I suoi genitori che la denigravano o la obbligavano a fare ciò che non voleva. Era stanca di questo gioco.
Riassunto della Prima Parte
Valen Galron è un giovane cresciuto nella Repubblica Marinara di Lenvar che ha deciso di diventare un Crociato di Sant’Isior. Entrato al Tempio, Val incontra alcuni degli amici che lo accompagneranno nelle sue vicende: Dagovir, il suo commilitone che morirà brutalmente in battaglia; Salaran Mornei, che lascerà il Tempio per inseguire i suoi sogni e il nobile Corvin Siblei, figlio del Doge, cuore d’oro con il vizio del furto. Val, avendo rifiutato le attenzioni di Greta, sua amica d’infanzia, si innamora di Gala De Torne, una giovane accolita presso la Cattedrale cittadina, amica di sua sorella Lilia. Gala corrisponde l’affetto, ma la sua natura ansiosa e il duro lavoro in Cattedrale la rendono vittima di alcuni incubi. Il Vicario della città, Thavion Descor, vicecapo del culto matriano, la prende sotto la sua ala protettiva e tra i due inizia un rapporto di amicizia: tuttavia Gala ne subisce anche il fascino. Nel frattempo Val e i suoi compagni, tra cui il suo mentore, il Sergente Caviled, sono chiamati in battaglia per difendere la Repubblica, nonostante nei dogmi del culto di Sant’Isior vi sia la regola di non combattere per fini politici. Val sopravvive alle due battaglie che portano la salvezza alla Repubblica, ma la morte di Dagovir per motivazioni di “confine” lo sconvolge.
Parte II: Benvenuto tra gli uomini
“Ogni uomo ha un suo compito nella vita e non è mai quello che egli avrebbe voluto scegliere.”
-- Hermann Hesse
7.
Una casa diversa
Erano ate settimane intere da quando erano partiti. I Crociati, i soldati, gli eroi, entrarono dalla Porta Maggiore e furono accolti da un lancio di fiori e coriandoli dalla gente che affollava strade e mura. I nobili tenevano alte le loro insegne, i Crociati e gli altri membri degli Ordini militari erano in alta uniforme. Anche se esse erano linde, le macchie negli animi non se ne sarebbero andate così facilmente. Val osservava la gente a destra e a sinistra, scrutava per cercare Gala o qualcuno dei suoi familiari o Corvin. Il boato della folla era assordante, ma si zittì quando entrarono i carri con i drappi neri che portavano i corpi dei caduti. Qualcuno pianse e, non vedendolo a cavallo, si lanciò tra i carri a cercare un genitore o un figlio nelle casse, per essere allontanato delicatamente dalle guardie. La parte nobile dell’esercito si riunì nella grande piazza vicino alla Cattedrale matriana: i popolani furono congedati con un breve discorso fatto da un funzionario e se ne andarono mugugnando. Dopo essere stati benedetti e lodati dall’Esarca Bernet, i combattenti ricevettero le onorificenze dalle autorità. Il padre di Corvin sorrise quando mise sulle spalle di Val la “Corda Dorata”, con i fili rossi. «Da te non mi aspettavo altro che il coraggio, Galron» gli disse. Queste parole fecero piacere a Val, ma le ascoltò con disattenzione: vide Gala che assisteva i prelati, le sorrise, ma ricevette per risposta uno sguardo tiepido.
Il Crociato si dileguò presto dalla cerimonia e condusse il carro con la bara di Dagovir fino alla porta della sua casa. Trovò il nastro nero attaccato all’uscio. Sospirò. Diede una carezza all’asinello che trainava il carro: anch’esso era mesto, come se percepisse l’atmosfera cupa che aleggiava. Val lo abbeverò; pensò che la mestizia di quella bestia fosse solo derivata dall’essere nato tra gli uomini, che lo costringevano a tirare un mucchio di assi di legno inchiodate su ruote.
Vicino a lui c’erano anche Caviled e due dei commilitoni a lui più legati, Fagril e Patri. Val non riuscì a bussare alla porta, non sapeva proprio che dire. Gli venivano le lacrime agli occhi: lui stesso aveva aiutato i servitori a vestire Dago per il suo ultimo viaggio. Tutti i ricordi dell’addestramento, come le secchiate d’acqua a Patri, il nascondersi alla mattina per saltare le preghiere, le partite a dadi del pomeriggio con Fagril, gli tornarono alla mente. Con grande amarezza si asciugò gli occhi gonfi di lacrime. Non c’era più traccia di quella spensieratezza. Poi la porta si aprì di colpo e la madre di Dago uscì. Val la conosceva bene: Dago portava sempre dei dolcetti al Tempio e sua madre si accertava sempre del parere di Val tramite suo figlio. La donna si aggrappò agli avambracci di Val, che iniziò a piangere senza dire niente. Caviled afferrò per il braccio la donna che tremava, la fece sedere e poi trasportò dentro la bara aiutato dai ragazzi. Anche Patri volle dare una mano nonostante le ferite; la misero davanti al focolare, dove erano stati preparati molti fiori e ghirlande per ornarla. Ceri ardevano su ogni mensola. Quando il coperchio fu aperto, la donna singhiozzò con un suono così triste e lugubre che Val dovette coprirsi il volto e girarsi per non esplodere. Caviled fu più composto nella sua mestizia. Patri si voltò, appoggiandosi ad una parete e Fagril rimase a guardare il suolo. Avevano trattato il suo corpo grazie ad unguenti alchemici perché resistesse alla calura estiva e potesse essere rivisto dalla madre un ultima volta. Un privilegio che i tanti soldati che ora riposavano nelle fosse comuni sotto l’erba di Gauna non avrebbero mai avuto. La madre accarezzò il figlio, candido nella sua veste con il Solecroce come candido era il suo volto senza vita. I ragazzi e Caviled pregarono per qualche minuto in silenzio. Poi la madre li guardò e cantò la strofa di una canzone, con flebile voce:
“Non fossi stato figlio dell’Eterno, Ti avrei ancora fino al mio inverno.”
Val dentro la sua mente annuì. Il Sergente lasciò alla madre una pergamena arrotolata e sigillata. Era un certificato che prevedeva un magro indennizzo per la famiglia del defunto. «A cosa sarà servito tutto questo» disse Val mentre accompagnava Patri a casa. «Non so se andrà meglio ma… Io beh… lascerò l’ordine. Vado via a Nord: nella terra degli Skonarghi. Anche Fagril verrà lì. Non vogliamo più essere coinvolti in niente del genere.» Val lo guardò sbigottito. «Lasciare l’ordine? E Dago? E tutte le nostre promesse e i nostri sogni?» disse Val. «Non vedi come vanno le cose?» rispose Patri. «A nessuno frega niente del bene o della guerra santa. Ognuno fa solo il cavolo che gli pare e noi non vogliamo più avere un ruolo in questo. E dovresti vedere le donne skonarghe… che pezzi di figliole! Perché non vieni con noi? Partiamo tra una settimana, dopo il congedo.» «No, vecchio mio: io resto qua. … Le mie radici sono qui, mia madre… Lilia ed anche Gala, non posso lasciarle. Lo so che la politica è un po’ problematica ma… non voglio andarmene» rispose Val. «E poi sono innamorato di Lenvar. So che hai ragione: qui tutto è marcio e corrotto e importano solo i soldi o il potere. Ma io non ce la faccio ad andarmene. Spero di rivedervi un giorno, dove vi dovrò cercare?» «Io starò a Croshall, se mai dovessi venire là, avrai un letto e un piatto di minestra ogni giorno, parola di Patri! Aspetterò che Fagril mi raggiunga e poi non so. Ti scriverò se cambierò destinazione!»
Val si recò al convento vicino alla Cattedrale. Si fece annunciare ma dovette aspettare una buona mezzora prima che la giovane Gala si fe viva. Non stava più nella pelle dal vederla. La strinse forte. La sentì subito fredda. La prese per le spalle e la guardò. Lei non disse niente, ma le tremavano le labbra e le guance.
«Gala… io… sono tornato, la guerra è finita. Abbiamo… vinto» le disse. La ragazza scoppiò in un singhiozzo liberatorio e lo baciò molte volte, stringendo il suo viso tra le mani. «Pungi» gli disse. «Devi farti la barba.» «Non ne ho voglia oggi. Come sei stata in questi giorni? Sei così magra…» «Ho avuto tanto lavoro da fare. E sì, pensavo a te e mi preoccupavo. Ho ricevuto la lettera, ma poi non mi hai più fatto sapere niente…» «Dagovir è morto. Ho portato la sua bara a casa.» «Signore dei Cieli… io non posso crederci… e Salaran? E gli altri tuoi amici?» «Ran è vivo, quasi tutti ce l’abbiamo fatta. Ma qualcuno di noi no.» Val fece per sedersi tristemente sugli scalini, ma Gala lo condusse via: non voleva farsi vedere dalle Madri. O peggio da Thavion. «Vuoi raccontarmi?» «Adesso no» disse Val mestamente. La osservò e le disse: «mi sei mancata.» «Anche tu. È strano perché io e te alla fine ci conosciamo da così poco...» «Tu hai qualcosa da raccontarmi?» «Oh, io al contrario non ho niente di eccitante. Io…» «Non ci siamo “eccitati” in battaglia» la interruppe bruscamente Val. «Ci siamo fatti massacrare e abbiamo a nostra volta massacrato!» «Va bene non c’è bisogno di…» rispose Gala sorpresa e un po’ spaventata. «Ho sbagliato termine forse. Intendo che qui è stato molto più facile e noioso. Non è paragonabile a ciò che voi avete ato lì. Vi pensavo e… immaginavo tu potessi tornare ferito o non tornare affatto.» Gala intuì che Val aveva davvero i nervi a fior di pelle e si dimostrò comprensiva.
«Beh raccontami qualcosa. Ho bisogno di un po’ di normalità» disse Val. «Abbiamo preparato tutto per la vostra cerimonia. Abbiamo dovuto cucire metri e metri di stendardi, gonfaloni, drappi, bandiere e vessilli. Tutto è stato fatto da noi accolite: la Madre Superiora ci teneva. Ma non ero sola, sai? Mi ha aiutato…» E si bloccò. In fondo pensava di non volergli raccontare di chi l’avesse aiutata. No, quella “amicizia” se la sarebbe tenuta per lei. Val d’altro canto non stava ascoltando con molta attenzione e non colse quell’esitazione. Annuì distrattamente e Gala ò ad altri argomenti frivoli.
Appena riaccompagnata Gala, Val andò a trovare Corvin. Si fece annunciare e mentre aspettava nella piazzetta sotto la casa dell’amico, vide un signorotto vestito in ricchi abiti che veniva rimproverato da una nobildonna avvolta in stola di pelliccia. Due servitori stavano ammonticchiando suppellettili e mobili su un carro. Quando infine Corvin scese le scale, Val gli chiese: «Il Marchese si trasferisce?» «Oh sì, ha venduto il palazzo. È in rovina ormai, da anni. I pirati gli hanno tolto anche l’ultimo carico.» «Chi ha comprato il palazzo?» «Un mercante di allume» rispose Corvin. «Davvero? I Mercanti che comprano i palazzi dei feudatari! Mai avrei creduto di vedere una simile scena.» «I tempi cambiano. I nobili hanno tenuto per secoli il potere per semplice diritto: con i commerci e le colonie ora sono i soldi a comprare questo diritto. La classe mercantile sta ascendendo e beh… un giorno magari ci sovrasterà.» «E tu starai a guardare?» «No: io ho allestito due allevamenti di cavalli e finanziato una spedizione commerciale! Sarò un aristocratico ma posso anche essere mercante!» disse
Corvin sorridendo. «A proposito, guarda chi c’è!» Un nobile vestito di un farsetto marrone con un blasone bianco e blu ricamato sopra e dalla barba ben curata, circondato da alcune guardie, si fece innanzi. «Conte Gastil» disse Corvin con un inchino. Val lo imitò. Gastil era divenuto il capo della casata Fedra, e aveva assunto il titolo di Conte, seppur giovanissimo. «Salute Corvin. Tuo padre mi aspetta» disse Gastil con un sorriso. Il suo aspetto era rassicurante. «La questione del fondo di Pietrariccia, presumo» rispose Corvin riemergendo dall’inchino. «Quel feudo è nostro, per diritto.» «Lo possedevate 400 anni fa e c’era ancora il Re. Con la sua cacciata avete perso quei diritti» rispose con calma Corvin. «Questo dipende dal giurista che interpelli» rispose il Conte Gastil. Si voltò verso il suo seguito che gli sorrideva come una ben pagata claque. «Se il giurista è vicino ai Siblei, dirà che è così. Se il giurista è un Fedra, dirà che ho ragione io e adesso sembra che finalmente i Placiti siano più inclini verso i Fedra. Guarda come è strana la realtà, quando è il denaro o i legami familiari a modificarla.» «La Repubblica si è già pronunciata su…» «Lo so, caro Corvin» lo interruppe Gastil. «Ma si può sempre riaprire la questione.» Solo allora il conte sembrò notare Val. Lo squadrò e disse: «Il tuo amico era nella battaglia del ponte, direi» disse il Conte Fedra guardando Val. «Sì, Vostra Signoria» rispose Val, un po’ sorpreso. Poi si ricordò che portava la Corda Dorata, l’onorificenza per il suo valore in battaglia. «Io ero a Gauna, sono stato ferito e mi hanno riportato indietro. Non c’ero su quel dannato ponte. È stata una tragedia. Come vi chiamate?» chiese il Conte.
«Valen Galron.» «Galron… Galron…» disse il Conte pensieroso. Poi si rivolse ad un signore sulla quarantina dietro di lui, ben vestito e che portava un costoso cappello piumato. «I Galron come sono schierati? Con noi o contro di noi? L’ho scordato!» Il seguito di Gastil rise alla battuta. Né Val né Corvin furono colti da ilarità, tuttavia. «Vi risparmio la fatica di chiedere, Vostra Signoria» fece superbamente Val. «In quanto Crociato, io…» «Sì, comprendo» fece il Conte con un gesto distensivo accompagnato da un bel sorriso. Val si accorse di quanto era giovane: doveva essere poco più vecchio di lui. Era sicuramente un giovane che faceva strage di cuori tra le donne: bei modi, sorriso beffardo, nobili natali. «Non volevo mancarvi di rispetto con la mia battuta» disse Gastil. «Nel mio Palazzo di Via Lieta siamo sempre aperti a ospitare eroi di guerra. ate quando volete: sarete mio personale ospite e potrete raccontarci della battaglia, Ser Galron.» «Non sono ancora cavaliere, Vostra Signoria» lo corresse Val. «Bene allora! Questo “ancora” mi fa capire che vi prefiggiate di diventarlo un giorno. Un motivo in più per cui vi invito a are da noi. Ed ora, Corvin, vado a trovare tuo padre. Buon giorno ad entrambi e piacere di avervi visto!» E con un sorriso sicuro, il Conte e il suo seguito arono oltre e salirono le scale del Palazzo dei Siblei. «Lui è uno di quelli che verrà schiacciato dai mercanti» disse Corvin stando attento a non farsi sentire. «I Fedra sono feudatari rimasti attaccati alla terra e se continuano così, presto vi torneranno. Vedendola dalla parte delle radici, però.» «Perché mi ha invitato a Palazzo?» chiese Val. «Semplice: perché hai il cordino d’oro appeso alla tunica che portano i soldati decorati e lui ha bisogno di soldati decorati. Fossi in te, non mi farei invischiare.»
«Ma mi ha invitato: se rifiuto…» «Oh Val, si vede che non conosci le meccaniche nobiliari!» lo corresse l’amico. «Tra due minuti non si ricorderà nemmeno di averti parlato, figuriamoci se ricorderà di averti offerto un invito! Se andrai in Via Lieta, ti farà ricevere da un siniscalco fingendo impegni o mal di testa improvvisi perché non ricorderà nemmeno la tua esistenza. Ma il fatto che hai accettato un invito sarà abbastanza da considerarti legato ai Fedra e quindi chiederanno se c’è qualcosa a cui tieni: se per loro è cosa di poco valore te la daranno subito e ti legheranno a loro. Se è difficile ottenerla all’istante, ti faranno la promessa di ottenerla se li sostieni e ti legheranno a loro.» «E cosa vorrebbe un Conte da me?» chiese Val. «Un contatto al Tempio Rosso. Una spia. O una buona spada per quando verrà il momento. Vallo a sapere…» «Quindi mi ha promesso di farmi diventare cavaliere per…» «Attento: non hai ascoltato allora! Non ti ha promesso nulla: ti ha “lasciato intendere” che se a te interessa diventare cavaliere hai un buon motivo per andare a fargli visita. Ti ha forse detto: “ti farò cavaliere, se vieni a trovarmi? No! Lo vedi come fanno? Ti stuzzicano nei desideri ma non promettono apertamente nulla.» «Come “fate”, dovresti dire. Non: “fanno”.» «Non siamo tutti così» protestò Corvin. «Ti ricordi quando ci siamo conosciuti?» «Hai ragione: non tutti. Ma lo fanno in un numero sufficiente per non farmi amare la politica» disse Val. «Ecco perché io la adoro, a tratti» ribatté Corvin. «Se sai giocare a questo gioco, è molto divertente. Se non ci fai rimettere nessuno, ovviamente.»
I due eggiarono per i vicoli. Era da molto tempo che non parlavano. «Scusa se sono arrivato in ritardo a salutarti: è un brutto periodo» disse Val.
«Per te o per l’Ecclesia?» chiese Corvin. «Quando lo è per l’Ecclesia, lo è anche per me» rispose Val. «Le polemiche per il nostro intervento in guerra non si placano. Il Patriarca non è contento e lancia anatemi su di noi. Solita mossa per ridurci di importanza. I Priori di Sant’Isior dovranno andare da lui a porgere omaggio e così Sua Eminenza potrà dimostrare al mondo che l’Ecclesia di Sant’Isior dipende ancora da lui e da quella Matriana. E per di più, ho saputo che qualcuno ha assassinato uno dei nostri prelati della Cappelletta di Porta Ponente.» «Che strano, io tempo fa ho dovuto riconoscere il cadavere di una delle mie zie. E del figlio.» «Oh diamine, mi dispiace Corvin, non immaginavo…» «No, no, non fraintendermi. Li conoscevo appena e non mi sono mai piaciuti troppo: è solo che sembra che la morte stia visitando Lenvar più spesso che non in ato.» «Se escludi la guerra, sì.» Corvin fece un respiro profondo e osservò l’amico guardare il selciato. «Val, so che la morte di Dagovir non è stata colpa tua. Non darti pena, né io né te avremmo potuto impedirlo. Anche io ho perso qualche amico là sul campo e sono triste quando lo ricordo, ma che ci posso fare? Sono felice di non avere perso te o Salaran. Tu sei un eroe di guerra, devi essere fiero di ciò che hai fatto.» «È uno schifo avere ucciso qualcuno e non ricordarsi nemmeno il numero esatto. O i loro nomi. Ora mi rendo conto di avere sbagliato la strada della mia vita.» «Val, nessun uomo migliore di te poteva invece prendere quella strada. Tu almeno ti poni queste domande laddove tanti cavalieri nemmeno ricordano cos’è una vita spezzata. Portare un cuore significa anche che esso pesi nel petto. Tornando a prima, com’è stato ucciso il prelato?» «Dardo. Dritto in gola e avvelenato per giunta. Volevano essere sicuri.» «Sospetti?»
«Chi l’ha ucciso era qualcuno abituato a farlo. Ha aspettato che uscisse dalla Cappella e l’ha fatto fuori in pieno giorno, probabilmente da un tetto.» «Ho conosciuto una donna interessante il giorno che sono andato a riconoscere il corpo» disse Corvin cambiando repentinamente argomento. «Ah, non ti dai proprio pace eh?» lo schernì l’amico «La contessina ti ha già stufato?» «Lasciamo perdere quella» disse con disappunto Corvin. «sai, la donna che ho conosciuto è in gamba : si chiama Erin Lindei ed…» «Ed è una Alabardiera» disse Val sogghignando. «Tu la conosci?!» «Non di persona, so la sua storia. Mio padre conosceva suo padre, credo. L’ho vista qualche volta a quelle cerimonie ufficiali. Erano tutti contenti di avere stabilito questo primato: la prima Alabardiera donna. Bah! Chissà poi come pretenderà di sedare una rissa con quel corpo gracilino.» «Mi farei sedare io da quel “corpo gracilino” come dici tu… È una Luogotenente: comanda una caserma. Non seda le risse come una guardia di ronda.» «Già, prevedibile che fosse stata messa dietro ad uno scrittoio. Il padre è sempre stato un tipo “convincente”» ridacchiò Val. «A me sembra invece che sia una persona in gamba, “spintarelle politiche” o meno della sua famiglia.» «Se lo dici tu… e così adesso te la fai con una guardia?» «Io non me la faccio con nessuno per ora, Valen: ho solo detto che l’ho conosciuta e la trovo interessante!» «E quando scoprirà che tu fai visita a ricchi signori per “sottrargli oggetti che ti aggradano”? T’incatenerà in cella e ti dirà che sei una persona cattiva? Magari vestita solo della sua nuda pelle?»
«Non è necessario che debba conoscere i miei svaghi, dopotutto non capirebbe. Che mi dici di Salaran, piuttosto? È sparito?» «Siamo un po’ in rotta. È un da un po’ che non lo vedo, credo che Kard Damian lo stia torchiando per bene. Damian non mi sopporta e come sai io ricambio.» «A me non piace nemmeno, ma è ciò di più simile ad un padre che Ran abbia. E con Gala come va?» «Bene, ma era molto preoccupata. Ha iniziato a espormi tutte le cose che aveva pensato in mia assenza: sai come sono dannose le donne quando pensano fino a sfinirsi.» «Che pensava?» «Che non avrei dovuto baciarla prima di partire, che l’ho fatto solo per tenerla legata a me, e se fossi morto lei avrebbe sofferto il triplo e cose del genere. «Beh forse ha ragione ma se tu volevi farlo... E mi pare che abbia anche gradito» disse Corvin «Difatti. Però ritengo anche io che avesse ragione, ma per il motivo sbagliato. Non volevo “tenerla legata” ma pensavo che non avrei avuto forse più l’occasione di farlo. E altre paure del genere: “ma secondo te siamo adatti per stare insieme?” e simili.» «Mah! Donne…» commentò Corvin. «Sembra che non abbiano voglia di fare altro che spremersi le meningi. E so cosa succede quando lo fanno: rovinano tutto autoconvincendosi delle loro paure.» «Non lo so. Non lo so proprio. A volte penso solo che le manchi un confidente, qualcuno che le dia dei consigli buoni. Da qualche tempo serve al Sant’Uffizio dell’Esarca; ma lì sono tutti vecchi bacucchi, se escludiamo Sua Grazia il Vicario. Sono lontani dai problemi di noialtri.» «Magari le verrà un po’ di sale in zucca a stare con persone più mature.» «Perché? Io non sono maturo?» disse Val. «Tutt’altro, anzi. Per la tua… la nostra età, sei fin troppo adulto ma sei
invecchiato a dismisura. Forse è quello che la spaventa.» «Invecchiato?» «Sì, quando hai perso tuo padre, quando hai combattuto. Noi abbiamo i nostri anni ma alcuni eventi ci fanno maturare. Hai sempre spaventato le ragazze perché sembri essere distaccato e poco coinvolto come succede invece a questa età. Le cose frivole e un po’ appiccicose a volte attirano di più e tu le lasci fuori.» «Adesso fai sembrare la serietà un difetto. Ma capisco cosa vuoi dire: come sono curiose le ragazze… Tutte sognano il principe sul cavallo bianco. E quando trovano un brav’uomo lo ignorano per il primo idiota col bel sorriso, che le tratta male e pieno di paturnie.» «Forse nelle sue paturnie rivedono le loro» disse Corvin. «O vogliono salvarlo e credono che il loro amore basti.» «Bah. Corvin, accompagnami su nella piazzetta della cuccagna: devo ricevere alcuni ospiti venuti da lontano» disse Val fissandosi la cinta con la spada. «Tornato da manco un giorno e già hai ordini da eseguire?» chiese Corvin. «Va così per noi, siamo servitori dopotutto. Sai, oggi due accoliti mi hanno fermato e chiesto com’è la Guerra. E loro dicevano di non vedere l’ora di combattere» disse Val tirando un calcio a un ciottolo. «Che gli hai risposto?» chiese Corvin. «Gli ho detto: “chi è stato in battaglia e ti dice che la guerra è bella... sta mentendo. Tu guardalo e abbi pietà di lui, perché è un poveretto che sta solo raccontando balle a se stesso”. E me ne sono andato.» «Lo vedi? Sei ato dall’essere un giovane ragazzo che sognava di cacciare i draghi a un cinico reduce. Non ti indurire troppo o scapperà via anche Gala.»
Val e Corvin si recarono nella piazza e vide i viandanti da accogliere: erano in cinque e subito spiccò alla vista il loro abbigliamento. Erano vestiti dei colori
autunnali: rosso, arancio, verde e marrone; tutti portavano manti con cappuccio. I loro abiti erano decorati con piume, pelli e strani trofei e le loro armi erano di fattura esotica. Erano pieni di cinghie, bisacce e borse: probabilmente erano molto lontani da casa. Val non riusciva a vederli in viso. Corvin si fece avanti e gli disse: «Guarda: sono silvani!» Guidava la banda dei cinque il figlio di uno dei “Re” della Grande Foresta Nera a nord. Lo accompagnava come un’ombra la bella (quanto fredda) sorella: glaciale, silenziosa, per alcuni anche crudele nello sguardo. Con loro c’erano tre Grandi Cacciatori: due maschi, uno giovane e un anziano, e una giovane silvana di rara bellezza, tale da sovrastare anche quella di Eredwan. Quello di Grande Cacciatore era uno dei titoli più graditi dai silvani, conferito a chi fosse abile a vivere in qualsiasi condizione climatica cibandosi solo di caccia e dei frutti della terra. Nonostante fosse una delegazione da trattare con onori degni di un re, i cinque non si erano fatti annunciare. Anzi erano stati accorti a destare il minor trambusto possibile, fino all’entrare da un ingresso secondario, uno dei portelli della città. Il capo dei silvani si gettò il cappuccio sulle spalle, rivelando la sua chioma di lunghi capelli chiari, il viso affilato, le guance smunte. Nel suo sguardo c’era tutto un mondo antico che si estendeva oltre la sua pupilla, fatto di tradizioni, di connubio con la natura, di saggezza primordiale. Egli appariva giovane, ma la longevità dei Silvani poteva ingannare l’occhio umano: avrebbe potuto avere anche cent’anni. «Mi attende Ser Ianos» si limitò a dire, gentilmente ma fermo e parlando con un certo accento esotico. «Sono stato mandato proprio da lui. Avete delle credenziali, Sire?» disse Val educatamente, trattenendo la sorpresa nel vedere un “elfo”. «Vi soltanto di condurci da lui con discrezione» disse fermo ma gentile il lyblis. «Desolato ma Ser Ianos è molto impegnato e mi ha dato istruzioni precise. Dovreste cortesemente dirmi come vi chiamate o chi vi manda» disse Val, senza tuttavia indisporsi.
Per un attimo guardò il lyblis: aveva un mezzo sorriso, come se fosse divertito dalla situazione e guardasse Val come un modesto lacchè di poco conto che esercitava il suo magro potere. I suoi compagni silvani stavano ammantati e fermi come statue dietro di lui, ma Val non era agitato: normalmente avrebbe già messo la mano sul pomo spada; invece era stranamente rassicurato da quella presenza. «Shalamor è il nome che cercate.» «È proprio ciò che mi ha detto Ser Ianos. È questo il vostro nome?» ribadì Val. Il silvano guardò uno dei suoi compagni: l’occhiata fu glaciale. Poi sollevò semplicemente l’angolo della bocca, ad abbozzare un sorriso. «Se quello fosse il mio nome, ora sareste morto in un lago di sangue» disse il lyblis. Corvin ebbe una strana intuizione a sentire quelle parole. «Capisco. Vi condurrò da Ser Ianos, ma non andremo al Tempio. Vi attende in un luogo più… defilato.» Mentre camminavano, Corvin osservava i tre silvani più giovani guardarsi attorno mentre percorrevano i vicoli. Sembrava che non fossero molto abituati alla città e apparivano spaesati, a differenza del loro capo e del silvano più anziano. Costui doveva avere diversi secoli di vita sulle spalle ed aveva l’aspetto di chi ne aveva viste tante. Aveva i capelli color argento legati da diversi fermagli spartanamente decorati e i suoi vestiti erano pieni di trofei di caccia appesi alle varie cinghie. Le due donne erano splendide ed era impossibile non guardarle: la sorella del loro capo però rispondeva fulminando Corvin ogni volta che il loro sguardo si incrociava, mentre l’altra silvana non alzava mai lo sguardo da terra se non per guardare qualche particolare della città che la incuriosisse. Val condusse i cinque e Corvin al luogo dell’appuntamento: una modesta casa in un quartiere popolare. Al bussare alla porta si sorprese nel vedersi aprire dal Sergente Caviled, che sorrise e strinse calorosamente la mano del silvano. «Sono molto felice di vederti, Kenarnon, speravo proprio che veniste!» disse Caviled davanti agli occhi sgranati di Val e Corvin. «Andiamo dentro. Abbiamo fatto una lunga tirata attraverso vari confini,
cercando di celarci il più possibile: ma presto sapranno che siamo qui» disse Kenarnon. «Sergente, cosa devo…» disse Val. «Sali di sopra e avvisa Ser Ianos che Ken è qui.» Val trovò Ianos al piano di sopra, in un modesto studiolo dove erano state disposte delle sedie. Sul tavolo c’erano molte pergamene ed una mappa. Quando Val entrò, il Cavaliere la girò di colpo a faccia in giù. Val annunciò gli ospiti. «È una sorpresa gradita quanto inaspettata. Sai chi è colui che hai scortato?» chiese Ianos. «Non ne ho idea, Ser.» rispose sinceramente Val. «Esattamente, questo è il punto» disse Ianos alzandosi e prendendo una caraffa e dei bicchieri da una credenza. «Il Principe Kenarnon Saynithui della Foresta Nera. Non dovrai parlarne troppo in giro, la segretezza è tutto in questa faccenda. Trovo piuttosto irritante che tu abbia portato con te un tuo amico. Il figlio di un Console poi! Che ti è saltato in testa, Galron?!» «Mi è stato soltanto detto di scortare un viandante, non che la questione fosse segreta.» «Se ti avessi detto che era segreta, ti saresti comportato in maniera cauta, losca. E chi ti avesse spiato lo avrebbe notato» disse Ianos accarezzandosi i baffi grigi, sempre curati. «Dunque a parte il piccolo errore di condurli assieme ad un amico, ti sei comportato bene. Ora però mandali su e lasciaci parlare in pace.» «Come desiderate» disse Val, trattenendo una smorfia mortificata. «Diamine, Val, non sai quanto ammiri quel popolo» gli disse Corvin quando lo vide tornare. Caviled si avvicinò a Corvin: ormai conosceva il ragazzo, dato che spesso veniva a trovare Val. «Vi prego di mantenere la discrezione su ciò che avete visto. Questi ospiti vogliono rimanere in incognito il più possibile. Vorrei la vostra parola che non
rivelerete la loro presenza a nessuno.» «L’avete, Sergente: parola mia.» disse Corvin. «Val, io vado. Ti devo ancora raccontare una cosa, ma vedo che adesso hai da fare!»
Dopo che Ianos e i silvani ebbero parlato per quasi tre ore, Val e Caviled li scortarono al Tempio dove sarebbero stati alloggiati. Appena finito il turno di guardia, all’imbrunire, Val si recò a cercare il Sergente Caviled per chiedergli qualche dettaglio sulla vicenda, ma non lo trovò da nessuna parte. Mentre girava per i corridoi del convento, fu fermato da uno scudiero che gli disse che era richiesta la sua presenza nello studio di Ser Ianos. Bussò, ma c’era un gran vociare dentro: così aprì lentamente la porta ed entrò. Udì Kenarnon dire: «… E quando lo abbiamo seguito per molte leghe fin qui…» ma appena il giovane fu entrato, s’interruppe. «Eccoti, Galron» disse Ianos. «D’ora in poi sarai al servizio di Kenarnon e dei suoi compagni. Ho deciso di assegnarti il compito di eseguire i loro comandi come se fossero i miei. Ti solleverò per qualche tempo dagli incarichi di corvée, per consentirti di farlo liberamente. Kenarnon, questo ragazzo si chiama Valen Galron. È un ragazzo sveglio, quando vuole. Se avrai bisogno di qualsiasi cosa, lui eseguirà.» «Ci siamo incontrati ma non presentati. Sono Kenarnon e vengo dalla Foresta Nera. Questa è mia sorella Eredwan» disse il lyblis indicando la sorella, che non fece trasparire alcuna emozione. «E loro sono i miei compagni di viaggio, Sofos l’astuto e i suoi figli: la bella Kandui e Lorkan il forte. Kandui arrossì sentendo l’aggettivo “bella” e chinò il capo. Aveva un viso meraviglioso, la pelle sembrava porcellana e i suoi occhi chiari erano due zaffiri. Le labbra piccole a bocciolo le davano un aspetto puro. Suo fratello non capiva probabilmente il volgare del sud, la lingua parlata a Lenvar e nelle terre circostanti, e sgranava gli occhi cercando di capire cosa stesse dicendo il suo comandante di lui. Ianos parlò: «Credo che il tuo gesto incauto di oggi possa essere sfruttato a nostro vantaggio. Voglio che tu faccia incontrare Ken e i suoi col figlio del Console dei Placiti per discutere sugli incresciosi omicidi che affliggono
Lenvar. Quindi con il figlio di Oberius Siblei.» «Corvin Siblei? Oggi mi avevate detto che sarebbe stato meglio non averlo coinvolto. Come mai lui?» «Ci serve un contatto con l’autorità e il Console Siblei ha nominato suo figlio responsabile per gli Affari Interni» rispose Ianos. Il Console dei Placiti amministrava la giustizia civile. Anche se Lenvar non era più governata da due Consoli dello Stato (sostituiti dal Doge) e otto dei Placiti, questa carica era rimasta in vigore. «Capisco» disse Val, che inizialmente si era ringalluzzito dall’avere un compito importante ed invece era stato relegato a “tramite” per raggiungere Corvin. «Vi metterò in contatto domani, per l’ora di pranzo.» «Puoi andare adesso, Galron. Domattina ti presenterai nel cortile all’alba. Eseguirai gli ordini di Kenarnon come fossero i nostri» disse Ianos. Osservò il ragazzo fare un inchino e andarsene, anche se non notò che il giovane fece del suo meglio per non sbattere nervosamente la porta.
Il giorno dopo, Val si recò nel cortile per attendere che Kenarnon arrivasse. Sorpreso, quando giunse vide che era il lyblis che stava aspettando lui. Il silvano era vestito sempre dei suoi abiti da viaggio, con il cappuccio tirato su. «Siete mattiniero» disse Val. «Mi sveglio presto quando sono in città. Non ci sono abituato, al trambusto intendo. La Foresta è silenziosa.» «Beh, questa è una delle zone più tranquille. Ad ogni modo vi ho fatto preparare degli abiti locali: ci recheremo presso una delle residenze dei Siblei, dove vi attende il signor Corvin. Egli parlerà per la Repubblica.» «Apprezzo la vostra solerzia, ma resterò con i miei vestiti. Metterò però questo mantello che mi avete portato, per coprirli: lo ritengo adatto.» «Come preferite. Andremo a piedi, usando le vie meno ampie.»
«Che affari vi portano a Lenvar?» chiese Val mentre camminavano per i vicoli. «Sospettiamo di conoscere la persona che sta assassinando alcuni vostri concittadini» rispose Kenarnon. «Non credo che Ianos voglia che voi sappiate altro. Vi basti sapere che è una persona sola.» «Può una singola persona osare tanto? Pensavo si trattasse di un gruppo organizzato.» «Siamo abbastanza sicuri che sia lui» rispose il Lyblis. «Incredibile davvero» disse Val. Pensò per qualche istante e poi disse: «Se siete giunti da così lontano per “lui”… lo conoscete bene vero?» Kenarnon non rispose. I due udirono una musica di flauto, accompagnata dal canto stonato di bambini: il ritmo era battuto da un tamburello. Un monaco dai poveri abiti lo batteva seguito da numerosi bambini vestiti di stracci che zufolavano e cantavano una canzone sacra. Erano teneri a vedersi e il monaco, nonostante la povertà di quel seguito, pareva pervaso da un’estasi gioiosa. Essi intonavano parole di carità e di speranza, la Salvezza che l’Eterno Reggente avrebbe riservato per tutti gli uomini buoni nell’Aldilà. Al aggio, Val mise qualche moneta nelle mani di uno dei bimbi, che lestamente le ò al frate: le monete svanirono rapide nelle sue tasche e con un inchino all’unisono, il gruppetto si staccò. Kenarnon osservò la scena con un’espressione a metà tra il divertito e il pietoso. «L’omicida è uno dei “vostri”, vero?» disse Val, rincalzando. «Siete perspicace. A dire la verità, se è chi credo, è un “delenar” e non un silvano» rispose il lyblis. «Capisco. Non mi meraviglia troppo: è in gamba sfortunatamente. Sfuggente come solo un elf… voglio dire uno degli Antichi potrebbero essere.» «Già.» E detto questo Kenarnon si fece cupo.
«Volete, immagino, riportarlo alla giustizia del vostro paese» chiese Val. «Vi sto rivelando troppo: comunque non credo che ce la faremo a portarlo fin là ed è chiaro che una persona del genere è pericolosa per il mondo e per le contrade dove cammina.» «Dunque volete levarlo di mezzo?» «Vi addolora questa prospettiva?» rispose Kenarnon voltandosi lento e freddamente verso Val. «Affatto, signore, affatto» disse Val. «Non c’è punizione migliore per un individuo del genere. La mia opinione, sire, è che esistano persone al mondo che non possono donare nulla. Sanno solo prendere e privare della felicità le altre. Questo l’ho capito, da quando sono tornato dalla guerra .» Kenarnon lo guardò ed annuì. «Ho combattuto anche io. Se gli uomini potenti assero più tempo tra i boschi, nei prati, sui monti e le scogliere… e si fermassero a sentire il richiamo della Madre Terra, ci sarebbero meno conflitti» disse il silvano. «Avete interpretato alla perfezione il mio pensiero. Le persone brave solo a distruggere e non a creare, non sono degne di restare in vita: non ci sarà mai redenzione per loro.» «Invero, ci può essere redenzione quasi per chiunque. Ma non per lui» ribatté Kenarnon. «Siamo arrivati, eccoci.»
Corvin stava attendendo sulla soglia. Si presentò e fece accomodare gli ospiti in un sontuoso salotto. Kenarnon si presentò e quando rivelo il suo rango di principe Corvin si meravigliò: vestiva come un cacciatore e non portava che pochi e grezzi gioielli. Aveva stivali infangati e le maniche del vestito erano sciupate e rattoppate, anche se mantenevano una certa “selvaggia eleganza”.
Kenarnon si accinse ad entrare: vide Val appoggiarsi con aria scocciata alla parete dell’edificio. E gli disse: «Venite anche voi, Valen: Ser Ianos mi ha detto che vi ha nominato suo attendente, quindi penso sia giusto che siate messo a parte della vicenda.» «Apprendo della mia nomina da voi…» disse Val meravigliato. «È tipico di Ianos: poche cerimonie» disse il silvano con un sorriso. I tre si sedettero in uno studiolo: tè e pasticcini erano già stati serviti. «Crediamo di sapere chi affligge la vostra quiete. Egli è un assassino di mestiere e il suo nome è Shalamor.» «Ecco spiegata la parola d’ordine del nostro incontro» commentò Val. «È un delenar, condannato dal suo stesso popolo. Si è stanziato qui da un po’ e perciò è probabile che abbia un committente qui» aggiunse Kenarnon. «Chi può mandarlo?» chiese Corvin. «A questa domanda non so ancora rispondere» disse Kenarnon. C’era qualcosa di strano nel suo tono come se mentisse, ma volesse in qualche modo che gli altri due lo capissero: lasciarlo intendere. «Vi raccomando discrezione: comunicheremo soltanto con voi e con qualcuno di fidato. Siate discreti e non rivelate comunque nulla nemmeno a persone autorizzate. Quest’individuo non deve sospettare che siamo alle sue calcagna più di quanto già non si aspetti. Non è mai venuto da queste parti a fare il suo mestiere, per cui si immaginerà di essere sconosciuto a tutti. Noi non siamo abituati a seguire le nostre prede in città, perciò ci servirà una mano dai vostri Alabardieri. Avete da suggerirci un nome di qualche ufficiale fidato, per iniziare?» «Ne ho certamente uno» disse Corvin e la sua mente volò subito a lei.
* * *
Val l’indomani incontrò Gala e le raccontò di com’era stato impressionato dal conoscere il lyblis, ma ella era distratta. Il giovane si spazientì e le chiese un po’ bruscamente cosa le asse per la testa. «Non dormo bene. Mi capita da quando… sei partito per la guerra.» «Sempre i soliti incubi? Forse è il letto… o quello che mangi in convento» minimizzò Val. «Dormo nello stesso letto da anni e mangio le medesime cose da sempre… Io credo che mi stia succedendo qualcosa. Mi sto ammalando.» «Non esagerare: sono sogni, dopotutto…» «Val, mi hai sempre detto che tu credi ai sogni; che ti abbiano in qualche misura aiutato anche a fare alcune scelte…» «Ma i tuoi incubi mi sembrano strani, derivati da una bizzarra ansia… forse dovresti smetterla di lavorare all’Uffizio: è troppo faticoso emotivamente, magari non ci sei portata.» «Cosa vuoi dire? Che non sono all’altezza?» gli rispose Gala alzandosi di scatto. Val realizzò di avere toccato un nervo scoperto: sapeva che non sarebbe stato facile rimediare. «Voglio dire che magari per un po’ potresti fare qualcosa di meno angustiante. Non ti fa bene!» «Oh, più che cucire, pregare e riordinare non faccio! Non è niente di ché!» «Beh se basta solo questo a…» «Ecco: tu sei il Crociato instancabile, il grande guerriero e io sono un’incapace… una bambolina?» disse Gala adirata. «Su, cerca di capire! Mi sto solo preoccupando!» disse Val tentando di abbracciarla. Lei lo respinse: gli rifilò una scusa e uscì dalla stanza. Aspettò qualche istante,
camminando lentamente per vedere se lui la seguiva. Cascò male: Val era orgoglioso e non volle darle questa soddisfazione. Non subito. Uscì cercandola quando lei se n’era già andata. Gala era furiosa e quindi si recò dall’unica persona che sembrava capire. «Incubi dici, mh?» «Sì, Vostra Grazia.» «Alla fine riuscirai a darmi del tu?» le rispose Thavion sorridendo. Gala si sfogò e gli parlò dei suoi malanni. Finalmente Val era dentro la sua vita, ma era più complicato del previsto. Thavion la rassicurò e le insegnò alcuni esercizi spirituali per rilassarsi: Gala non capì bene quale fosse il loro segreto, ma funzionarono. Quando andò a dormire quella sera, si rigirò nel cuscino: “Perché i ragazzi sono così stupidi e immaturi? Perché Val non è come Thavion? Lui è un vero uomo: gentile, premuroso, comprensivo. Se anche mio padre fosse come lui…” Si sorprese a immaginarsi di ricevere carezze dal Vicario. Sorrise inebetita nel dormiveglia ma poi il pensiero volò di nuovo a Val. Forse doveva comprenderlo: il giovane aveva visto morire i suoi amici pochi giorni prima. Aveva sofferto. Era un ragazzo forte per la sua età e aveva dei valori. Val aveva un carattere difficile ma lei era sicura di potergli stare vicino e comprenderlo. Thavion poi era troppo distante: era un alto prelato. Sarebbe stato scandaloso. Tormentata dai pensieri, si assopì senza incubi.
8.
Nuovi ospiti
La notte a Lenvar era carica di spiriti. Dai vicoli scuri, miasmi e lamenti di ubriachi salivano verso il freddo cielo. Nemmeno i raggi della luna potevano arrivare al suolo, frenati dai palazzoni di pietra, mattone, legno e ardesia, marmo e arenaria. Shalamor si trovava bene in quell’ambiente. Camminava ora in un vicolo, ora sui tetti. Stabiliva piccole basi che cambiava ogni settimana, in qualche soffitta o scantinato abbandonati: li rimetteva rapidamente a posto e riempiva di trappole che solo lui poteva eludere. Era abituato a viaggiare con poche cose essenziali e dedicava quasi tutta la giornata alla preparazione: ore e ore di appostamento per un singolo fendente o una freccia sibilante nella gola di qualche malcapitato. Mentre tornava al rifugio una notte, furono in quattro ad accerchiarlo. Un ubriaco barcollante fece per avvicinarsi a lui borbottando e chiedendo moneta. Non lo colse impreparato, anzi: Shalamor adorava giocare. Fece come per sorreggerlo e nel silenzio gli piantò una lama in pancia, perché aveva subodorato l’inganno. Nel cadere, il mendicante lasciò a terra un pugnale. Ecco che altri tre uscirono e il delenar sguainò una corta e decorata spada. Quelli non erano banditi. Erano “scherani”, come erano chiamati gli assassini prezzolati in città: ben equipaggiati e forgiati da risse e guerre. Le cicatrici sui loro corpi lo dimostravano. «Bastardo! L’hai fatta grossa stavolta!» gridò uno. La realtà fu come fermata nella mente dell’assassino: si concentrò. Era accerchiato ma aveva già ucciso uno degli assalitori. Attese che quello che aveva di fronte lo attaccasse: rapido gli prese il braccio, lo voltò e lo usò come scudo umano. La lama di uno degli altri due scherani squarciò il petto dell’alleato. Shalamor lo lasciò cascare come un sacco di patate, poi colpì con un calcio l’uccisore e rapido sfondò la guardia dell’altro con una precisa spadata. Bastarono cinque stoccate rapide e la spada del delenar gli lacerò la coscia e il braccio. Fu appena ferito alla spalla dall’altro avversario: lo colpì, ma lo scherano portava un corpetto di cuoio. Allora Shalamor gli rovesciò un barile
pieno d’acqua piovana addosso e gli fece perdere l’equilibrio. Prese la testa dell’altro che aveva ferito e stava dolorante rannicchiato in un angolo e la schiantò sul muro senza pietà. L’ultimo assalitore fu preso dal panico: vide il delenar ergersi di fronte a lui, terribile con l’arma sguainata. Fece per scappare e con un sibilo il delenar lo trafisse all’anca con un pugnale da lancio. Lo raggiunse con sadica espressione del volto e lo finì sgozzandolo. Poi svanì nella notte. Sapeva di certo chi fosse il mandante dell’aggressione: il suo stesso “datore di lavoro”. L’avrebbe incontrato immediatamente: magari, se ne avesse avuto voglia, l’avrebbe anche mandato ad incontrare il creatore. Avrebbe deciso sul momento. Iniziava ad annoiarsi ad uccidere persone semplici e indifese. Andò dove si incontravano sempre, in quella vecchia cappella abbandonata. Percorse un lungo corridoio di pietra, fino a giungere ad una stanza in penombra. Pochi ceri la illuminavano. «Non ti inginocchi al mio cospetto?» gli disse una voce dall’ombra. «Sapete bene che è una delle poche condizioni da cui chiedo esenzione, in cambio del mio magro salario» rispose Shalamor. Nell’ombra, il delenar poté percepire un rumore di pugni che si serravano sul bracciolo della sedia. «Dite: siete sorpreso di vedermi vivo?» incalzò l’assassino. «Hai esagerato. Hai colpito più gente, molta di più di ciò che ti era stato chiesto» disse la voce ignorando la domanda. «In tal modo ho depistato ogni indagine. Sarà impossibile ricondurre tutto a voi.» «V’erano altri modi per farlo!» tuonò la voce. «A te sta a cuore solo il tuo divertimento, non una causa più elevata!» «L’avete detto: è così. E faccio bene il mio lavoro. Per ottenere ciò che io eseguo in un mese, dovreste pagare dieci volte di più e ingaggiare molte persone. E molte persone significa che qualcuna potrebbe farsi catturare. E confessare qualcosa. Correreste il rischio? Dovete assoldare sgherri migliori, ad ogni modo,
se volete eliminarmi» rispose l’assassino. «Sfrontato! Erano idioti ubriaconi: ne ero ben consapevole. Il mio è stato un avvertimento. Apri le orecchie: gli scherani di oggi sono la prova che posso trovarti in ogni momento. Se quattro non bastano, posso assoldarne dieci.» Vi fu un attimo di silenzio. Shalamor incrociò le braccia e fece una smorfia. «Non siete bravo a mentire. So bene che l’idea di accopparmi non è stata vostra: perché non mandate il vostro secondo, la prossima volta, invece di coprirlo coi vostri farfugliamenti? Ha l’aria di sapere combattere, sarebbe interessante. Dite pure a quell’inetto che non deve essere geloso di me. Sono appagato: l’assalto dei suoi sgherri mi ha dato grande gioia e per un po’ non intendo colpire nessun altro fuori dai vostri schemi» disse il delenar voltandosi. E se ne andò. Le fiammelle sui ceri tremolarono per un istante. Dal buio arrivò un sospiro di disappunto. «Mio signore» disse un’altra voce, ferma e fiera. Tintinnii di metallo accompagnarono le sue parole mentre avanzava dall’ombra: «il delenar è una minaccia. Possiamo fare tutto in maniera onorevole senza di lui. Lo leverò di mezzo personalmente: è un rischio grande per noi.» «Cromlan, non puoi ancora esporti» ribadì la prima voce. «Sei stato già abbastanza temerario a tentare di uccidere Shalamor senza prima interpellarmi. Riceverai una punizione per questo. L’assassino deve proseguire: una volta colpite le ultime persone che hanno abusato delle nostre arti e possono ricondurre le indagini a noi, guadagneremo tempo per agire.» «Egli non ci serve. Posso eliminare io gli altri traditori.» «Tu eri un cavaliere: uno dei più nobili. Affronti le persone a viso aperto e questo NON va! Non azzardarti a colpire l’assassino tu stesso: non ho bisogno di perdere uomini. Ha capito la lezione e sa che se sgarrerà nuovamente, sarò IO a colpirlo e per sempre.»
* * *
Per Val le cose non giravano per il verso giusto ma era contento di essere stato messo da Ser Ianos alle dipendenze del principe Kenarnon: la cultura silvana gli interessava. La trovava così diversa da quella umana: così sinceramente primitiva anche se a prima vista poteva sembrare retrograda. I Silvani rinunciavano a tutte le comodità moderne: cacciavano e si abbeveravano dalle fonti, si nutrivano di prodotti silvestri e vestivano solo di pelli e cuoio. Raramente lavoravano il metallo, anche se quando ciò accadeva, la fattura era sublime: per questo fare il fabbro nella loro cultura era un mestiere tra i più onorabili e segreti. Anche Corvin ne era affascinato, forse ancora più di Val. Ma il principe silvano sembrava turbato: lui e i suoi cacciatori non riuscivano a trovare indizi su Shalamor. La città era troppo fuori dai loro schemi.
Un Quintiero che Val aveva libero, se ne andò a camminare per la città. Era da un po’ che non lo faceva, dato che era sempre oberato dagli impegni. Riassaporò il via vai delle botteghe, l’odore salmastro del porto, il chiaroscuro della luce che filtrava nei vicoli. Come spesso accadeva il giorno Quintiero, le meretrici del quartiere Albiano, un “recinto postribolare” dove le prostitute potevano esercitare il mestiere in piena legalità, erano libere di girare per la città. Spesso si riunivano in piccole processioni, con la matrona in testa alla colonna: un ottimo modo di esporre la merce per la settimana ventura. Val osservò una di queste allegre combriccole are per i rioni, ricevendo le occhiatacce delle mogli e ben più d’uno sguardo dai mariti. Qualcuna di loro apriva di scatto il corpetto rivelando prosperosi seni, e facendo sobbalzare i più eccitati. Eppure ne vide una che non poteva argli inosservata... Non poté fare a meno di fermarla. Una vecchia bigotta lo guardò storto: vedere un Crociato in uniforme parlare con una cortigiana di certo non era decoroso, ma a Val non importava. «Greta… ma… tu…» «Ti prego Val, non sparare uno dei tuoi soliti giudizi. È già abbastanza dura così» gli rispose la giovane amica.
«Ma cosa è successo? Il mulino? Tuo padre?» «Mio padre è morto un mese fa. Litigava con un vetturino per strada: gli aveva fatto cadere la farina. Urlava come un pazzo e voleva picchiarlo. Si è portato la mano al petto ad un certo punto: aveva l’affanno. Si è inginocchiato, ha bestemmiato due o tre volte e poi è morto.» «Mi dispiace… Credo di poter capire molto bene come ti senti.» «Non piango per lui. Lo sai com’era: l’unica cosa buona che ha fatto in vita è stato fecondare mia madre o non sarei nata. Non era di certo un padre buono e generoso come il tuo» gli rispose l’amica. Volevo più bene al tuo che al mio. Mi manca, Val: aveva sempre una buona parola anche per me. Persino sapendo che razza di donna ero. Mi faceva sorridere vederlo sempre in abiti formali, anche quando andavamo a fare due i in campagna con i miei e i tuoi. Lo prendevo in giro: ero piccola e stupida. Oggi vorrei vederlo ancora.» Val sorrise dapprima: era un ricordo intimo, tenero e sincero. Bello. Ma lo fece ricordare quanto fosse dolorosa quella perdita. «A me manca da morire, Greta. Non penso a lui ogni giorno, mentirei. Prima succedeva, ora meno. Ma non sai cosa darei per vederlo ancora seduto sulla poltrona nel suo studio, con il gatto acciambellato sulle gambe che gli impedisce di leggere.» Non poté frenare le lacrime. Greta non disse nulla e prese un fazzoletto dalla manica. Era ricamato e profumava di lavanda. Gliele asciugò dolcemente. «Adesso che farai?» disse Val ricomponendosi. «La Repubblica ci ha pignorato il mulino, dato che non c’è più nessun maschio di età maggiore di venti anni che lo possa condurre. È lo statuto della Corporazione dei Mugnai e non è opponibile. Mio fratello è impazzito, è stato portato al Sanatorio e nessuno dei parenti lo voleva. Così ce l’hanno fatto vendere all’asta, ma il banditore era già d’accordo con l’acquirente e ci hanno dato una miseria. Gli ho lanciato una pietra quando l’ho capito: li ho visti stringersi la mano mentre brindavano. Però nel farlo ho rotto il vetro di una taverna, così ho dovuto pagare anche quello, ma almeno l’ho colpito.» «E il funerale?»
«Mi sono fatta prestare i soldi da mia zia. Glieli ho già restituiti: coi pochi soldi che avevo, ho comprato la licenza da meretrice. Mi sono bastati sei o sette giorni al lavoro per ripagare il debito.» «Io… non so cosa dire. Perché non sei venuta da noi? Ti avremmo aiutato…» «Per favore non dire a tua madre che fine ho fatto! Mi ha sempre tenuto in grande stima, non voglio che sappia che sono una prostituta» disse Greta prendendogli la mano. «Ma ora… come stai? Come ti trattano?» «Oh bene, sono trattata meglio qui che altrove. Pago le tasse, sai? Gli Alabardieri ci proteggono dai clienti molesti. La matrona è un po’ dura, ma in fondo è di buon cuore. Sai, avendo per tanti anni dato…» «Sì, ho capito cos’ha dato.» «Scemo!» disse ridendo Greta. «Ma hai ragione» Anche Val sorrise. Poi aggiunse: «Ma per l’Eterno… io però vorrei fare qualcosa per te…» Era nonostante tutto più attraente che mai: era donna. Stretta nel suo bustino, le curve femminili esplodevano di bellezza. Le gote truccate di fine tinta rosa, i capelli perfetti. Nonostante tutto sembrava serena. «Che devi fare Val? Ognuno ha il suo destino. Tu sei un Crociato, io una sgualdrina. Tu togli la vita, io ne ridò un po’. Non credi che serviamo tutti e due a qualcosa? Dopotutto lo sai che non ho mai saputo restare lontana dagli uomini. All’amore oramai, ho rinunciato.» «L’amore... All’inizio è tutto bello, e fatato: poi iniziano a prevalere i problemi e diventa tutto un’imposizione.» «Adesso però tu hai una visione troppo nera. Mi sa che con la tua principessina in tonaca le cose non vanno.» Il giovane non rispose.
«Val, io devo andare, la matrona ha capito che non stiamo… “trattando”, e si innervosirà. Vieni a trovarmi quando vuoi, se pensi che non sia indecente venire a visitare una sgualdrina. E se pensi che lo sia, sappi che non sei il primo uomo in uniforme che vedo nel “recinto”.»
* * *
Una mattina, il Sergente Caviled chiamò Val e gli chiese di accompagnarlo fuori città per sbrigare un lavoro: una sparizione di cadavere. Il corpo di un muratore che era morto precipitando da un’impalcatura un paio di giorni prima era sparito dalla cappelletta di Varnico, l’ennesimo villaggio di pescatori sulla via a Oriente. Giunti sul posto, il cappellano, un Acquamastro di Sedune, non sapeva spiegarsi chi avesse potuto trafugare il corpo che era stato ritrovato su una spiaggia a un quarto di miglio dal paese, in una cala in mezzo ad aguzzi scogli grigi; paesaggio tipico della Repubblica dove sorgevano spesso le cappelle e i piccoli templi dedicati a questa vecchia divinità pagana protettrice del mare e dei naviganti, che era stato “canonizzato” a santo, e inserito nel culto matriano con una eccellente manovra di “pietas” ecumenica. «Io ho paura che possa essere stato uno stregone. Avrà trafugato il corpo per studiarne l’anatomia: e probabilmente è stato visto e l’ha gettato in mare» disse Caviled. «Sì, è possibile; ma penso dovessero essere almeno in due. Dicono che paghino bene per un cadavere morto da poco all’Ateneo: se non fosse vietato dalla legge i cimiteri sarebbero vuoti, temo» disse Val scuotendo la testa. Val e il Sergente si fecero accompagnare dall’Acquamastro sul luogo del ritrovamento. Il cadavere era gonfio e grigio ed emanava un odore disgustoso. Il sacerdote non sembrava granché contento di restare lì e si dileguò presto. «È stato immerso in acqua» disse Val. «La putrefazione è più veloce, specie dopo che lo tiri fuori: questo almeno è quello che mi ha sempre detto il mio maestro a lezione» aggiunse Val sorridendo al Sergente.
«Avete avuto un maestro? Non me ne avete mai parlato!» rispose Caviled sarcastico. «Che fetore! Beh credo che nessuno possa avere usato questo corpo per un rito negromantico o per studiarne l’anatomia: mi suona più come una vendetta personale» commentò Val. «Non è compito nostro stabilirlo, per cui versa velocemente le fiale reagenti come ti ha insegnato “il tuo maestro” e andiamocene di qui. Questa puzza è anche peggio della volta precedente!» disse Caviled. «Capita spesso che siamo chiamati a risolvere casi del genere?» «No, da molti anni non ci capitano più sospetti di Necromanzia. Forza, versa!» Val prese una boccetta di polvere dalla bisaccia e ne versò il contenuto sul corpo: non vi fu reazione. «Che cosa sarebbe dovuto succedere?» chiese Val. «Per proteggere dalla decomposizione i cadaveri da rianimare, i necromanti usano dei sali fortemente alcalini. Questa polvere reagisce con le sostanze alcaline. Dato che non è successo niente, è un semplice cadavere. Vado ad avvertire il coraggioso prete» disse Caviled arrampicandosi sugli scogli per tornare alla strada. Val intanto osservò il corpo, cercando se vi fossero mutilazioni o prove di un’eventuale vendetta. Prese un bastoncino che la risacca aveva trasportato sulla spiaggetta e tentò di scollare la giacca sudicia dell’uomo dal torace, giacché gli parve di vedere qualcosa. «Tutto a posto, padre. Non c’è segno di Necromanzia sul corpo» disse il Sergente all’Acquamastro. I due sentirono un grido disperato di aiuto.
Caviled realizzò la cosa in un secondo soltanto: aveva commesso una leggerezza e Val era in pericolo. Si lanciò pericolosamente sopra il primo scoglio e prese
una brutta storta: dietro di lui anche l’Acquamastro, non più giovane, incespicava. Val lottava con il cadavere, che si era alzato orribilmente sulle sue gambe e stava cercando di mordere il ragazzo. La sua forza era disumana. Val tentò di allontanare dalla sua spalla le fauci marcite dell’orrida creatura: gli guardò dentro il cranio attraverso una delle cavità orbitali, dalla quale penzolava un flaccido occhio., nell’altro brillava una malvagia giallognola e pallida luce. Val capitombolò all’indietro riuscendo ad avere un po’ di spazio per sguainare l’arma: colpì il braccio del non-morto allontanandolo. Caviled colpì il cadavere una seconda volta ed esso stramazzò nell’acqua bassa in una nuvola di spruzzi. Il Sergente si voltò per sincerarsi delle condizioni di Val, quando si sentì afferrare la gamba e cadde bocconi sui ciottoli. Allora Val brandì l’arma e la schiantò pesantemente sulla testa del cadavere, che lasciò la presa e immobile ondeggiò nell’acqua. «Necromanzia! Dobbiamo andare ad avvertire subito ser Ianos!» disse Val. «Perché diavolo la polvere non ha funzionato?» «L’acqua di mare, direi. Che stupido sono stato a non pensarci» disse Caviled. «Ha alterato la chimica del corpo.» «Per il Signore dei Flutti!» esclamò l’Acquamastro. «Quale diavoleria è questa? Opera di Sit, il demonio!» «Padre: andate dai vostri fedeli e ditegli che dovranno cremare i cadaveri d’ora in poi!» disse Caviled. Poi si voltò verso Val e vide che il Crociato si guardava il braccio. «Ti ha morso?!» gli chiese preoccupato il Sergente. «Sì, ma non è grave» rispose Val. «È solo un morso. Laverò la ferita con un po’ d’acqua di mare e la fascerò.» «Quello era… un “Ritornato”. Non è così semplice e io non ho nulla per medicarti ora. Dobbiamo tornare al Tempio!» Quando Val udì la parola “Ritornato”, gli vennero in mente le lezioni di Padre Adis sulla Necromanzia.
«Se era un Ritornato… allora…» «Sì. Rischi il Morbo Cadaverino. Dobbiamo sbrigarci!» esclamò Caviled.
Quando Val rientrò al Tempio si sentì spossato. Fu soccorso e medicato: i Chierici si adoperarono con le loro arti magiche, “i Miracoli”, per cercare di arrestare l’infezione. Verso mezzanotte Val aveva la febbre così alta che iniziò ad avere violenti scossoni a tutto il corpo e a delirare. Vomitò più volte e perse conoscenza. I Chierici dissero a Caviled che era in forte pericolo di vita e che alla sua morte avrebbero dovuto cremarne il corpo senza nemmeno concedergli un funerale con tutti gli onori, o ci sarebbe stata la possibilità che egli si trasformasse a sua volta in un Ritornato. La magia arrestò il progredire dell’infezione, ma le condizioni non miglioravano. Il Sergente chiamò il Principe Kenarnon. Il silvano aveva un aria grave: la Necromanzia era poco nota tra delenar e lyblis, ma entrambi i popoli sapevano quanto potesse essere pericolosa. «Mettete una pasta di miele, burro e zucchero sulla ferita. Vi mostrerò le proporzioni.» «State scherzando: la ferità si infetterà ancora di più!» disse il Cappellano Guaritore. «Fate ciò che dico. Non è stata pulita subito e il focolaio dell’infezione è rimasto. Voi impedite che si propaghi con i Miracoli, ma non lo state trattando alla radice.» «Fate ciò che dice, Padre» chiese Caviled. E il Cappellano, pur scettico, acconsentì. Il giorno seguente la situazione sembrò migliorare ma Val stava comunque male e la febbre, pur meno alta, rimase. Gala e la madre Milesia si affaccendarono al suo capezzale, ma i sacerdoti impedirono loro di avvicinarsi troppo. Il terzo giorno, Val era così debole che non riusciva nemmeno a tenere un bicchiere pieno in mano. La Madre voleva
portarlo dai Cavalieri Ospitalieri, abili guaritori, ma il Priore si rifiutò dicendo che «egli è un Crociato e va curato dai devoti a Sant’Isior». Così Val divenne segretamente un simbolo da tenere isolato nel Tempio per nascondere un eventuale fallimento terapeutico e nemmeno la sua famiglia poteva visitarlo. Gala, disperata, andò da Thavion e gli spiegò la situazione. «Che cosa ha causato questa improvvisa febbre?» chiese il prelato. «Non vogliono dirmelo: è andato fuori a sbrigare un lavoro assieme ad uno dei suoi superiori ed è tornato così. Mi hanno detto che è stato ferito ma non hanno voluto dire da chi o da cosa! Non so più cosa devo fare… l’Eterno non ascolta le mie preghiere!» «I sintomi sono da Morbo Cadaverino. Penso di avere ciò che potrebbe servirgli: i chierici di Sant’Isior sono bravi con i traumi e le frecce ma pessimi quando questi degenerano in morbi infettivi. Ria nel tardo pomeriggio e ti darò l’infuso da somministrargli. «Grazie, non so come ringraziarvi!» disse Gala piena di speranza. «Purtroppo devo avvisarti, Gala, che potrebbe essere troppo tardi: ma questo infuso lo aiuterà a non sentire dolore.» Il viso di Thavion si fece greve mentre diceva quella frase. Gala scoppiò a piangere e lui la abbracciò teneramente. «Calmati. Forse ne ho una fialetta a portata di mano.» Thavion si assentò per un istante, poi tornò con una fialetta di vetro inserita in una sculturina di avorio a forma di donna. «Questo perlomeno lenirà le sue pene. È molto potente e se… verrà il momento peggiore, non lo farà soffrire. E forse lo aiuterà a guarire.» «Grazie, io… vado subito da lui» disse Gala. «Ferma, piccola: non dire che ti ho dato questo. È un prestito, diciamo, da uno dei luoghi segreti della Cattedrale. Vedi, queste fiale sono delle scorte private dell’Alto Clero, nel caso uno dei suoi membri si ammali.» «Perdonate, vostra grazia: ve la restituisco subito.»
«No, non fraintendermi! Io la dono a te che sei la mia prediletta. Sarà il nostro segreto. Sono felice se potrà servirti» aggiunse Thavion sorridendo. «Grazie, grazie ancora» disse Gala correndo da Val.
Gala tornò al Tempio con l’ampollina, ma i chierici non la vollero far are. Singhiozzò disperata dicendo che aveva una cura per Valen Galron. Non la ascoltarono, e di malo modo le intimarono di andar via. Per fortuna in quel momento il Sergente Caviled stava ando con un secchio di acqua fresca. «Vi prego Sergente, lasciatemi andare da Val!» «Non potresti ma… certo, piccola mia. Vieni dietro di me» rispose gentilmente Caviled. -Trovò il principe Kenarnon seduto vicino al letto di Val. Il silvano stava travasando un liquido torbido da un alambicco a una provetta. Lo fece bere a Val che deglutì debolmente, lasciandone colare parte del liquido dagli angoli della bocca. «Stasera dovrebbe stare meglio. Questo è l’estratto dalla radice di un albero che cresce vicino alle paludi: non so come lo chiamiate voi uomini. Le sue fronde sono filiformi e basse, toccano quasi il suolo e sembrano capelli.» «Il salice?» disse Gala. «Io ho questo filtro datomi da… beh da un amico speziale. Dice che è portentoso.» «Non possiamo caricarlo d’intrugli» disse Caviled. «Aspettiamo di vedere se funziona il rimedio di Kenarnon: se non sarà così, proveremo col tuo.» La febbre scese e Val riuscì a mangiare. Era salvo. Gala tornò festosa da Thavion: «Sta meglio! Sta meglio! Grazie per tutto!» disse gioiosa. Thavion sgranò appena gli occhi: «Davvero? Bene ma… gli hai dato il filtro?» «Oh no, non c’è stato bisogno: ne aveva già preso un altro. Grazie per il vostro
aiuto!» «Un altro? Capisco. Il Morbo Cadaverino è implacabile, è stata una fortuna che sia sopravvissuto. Sono felice che tutto si sia risolto» disse Thavion. Ora lasciami, piccola: devo terminare un lavoro.
* * *
La notizia del non-morto a Varnico, non fu isolata. In molte località della Repubblica, i contadini lamentarono strani eventi, aggressioni e morti che camminavano di notte. Qualcuno ci lasciò anche le penne e fu presto il caos: i borgomastri si recarono dal Doge, disperati, chiedendo che fossero mandati i soldati a proteggere le loro case. Di contro il Doge Rebio D’Angora, eletto dopo il padre di Corvin, dovette impartire il grave ordine di bruciare i cadaveri sepolti di recente, riesumandoli se necessario, in tutti i cimiteri della Repubblica che non potessero essere protetti; mandò difatti alcuni soldati a presidiare quelli più grandi. I nobili immediatamente protestarono: avrebbero dovuto mandare a loro spese delle guardie private a proteggere le tombe familiari non situate nei grandi cimiteri vicino alla città. Ne nacque l’ennesima discussione politica seguita dai tumulti e naturalmente ogni famiglia riversò la colpa sulle altre. Il Doge D’Angora calmò tutti, recandosi personalmente presso il suo feudo del Levante e dando alle fiamme un’intera cripta dov’erano inumati alcuni suoi antenati. Fu una scelta naturalmente calcolata: quelle tombe erano pluricentenarie, piene di nobili minori di dubbia moralità e scarsa importanza e i loro tesori erano già stati trafugati da tempo. Tuttavia la cosa funzionò per calmare le acque: nessun altro nobile voleva essere da meno.
Dopo essere andato a trovare Val che si ristabiliva, un dì dopo pranzo, Corvin uscì dal suo palazzo per recarsi dall’Alabardiera e gli raccontò del colloquio che aveva avuto precedentemente con Kenarnon. Non fece in tempo a fare sei i che qualcosa lo colpì alla spalla. Era qualcosa
di morbido per fortuna ma tirato con sufficiente violenza. Corvin scattò al riparo di un carro, dato che il portone era chiuso. Vide tre individui che portavano maschere da festa: stavano lanciandogli escrementi di cavallo. «Ai Siblei piace mangiare sterco! Ne abbiamo in abbondanza! Coraggio, mangia!» Qualcuno fece capolino dalle bifore del palazzo impugnando una balestra. Un dardo fu scoccato e rimbalzò sulla pietra vicino agli assalitori. «Vediamo se a voi piacciono i dardi!» gridò la voce. In un baleno gli assalitori si dileguarono. Corvin salutò il fratello maggiore e tornò in casa. «Chi erano quelli? Li hai visti?» chiese al fratello maggiore. «Potevo traarne uno per capirlo, ma papà dice di non ammazzare nessuno. Ci giurerei che sono dei Marsten.» «Perché lo dici?» «Papà ha fatto valere una rivendicazione sul borgo di Costafiera: un mese fa è morto l’erede che era un Marsten. Morto di polmonite e senza figli maschi. La moglie è la nostra cugina Sesire. Il Consiglio gli ha dato ragione e ora il borgo è di zio Ian.» «Che bella idea sposare un Marsten» commentò Corvin. «Proprio perché Sesire ha sposato un Marsten, ora quel borgo è nostro.» «Quindi mi stai dicendo che un giorno io dovrò sposare qualche Marsten perché a nostro padre conviene?» Il fratello lo guardò sorridendo. Si somigliavano e non v’era dubbio che fossero consanguinei. Corvin rivide la sua smorfia sarcastica in lui. «Tocca a tutti noi.» «Tu ti sei sposato per amore, perché io non dovrei?»
«Perché io sono il primogenito e ho già i miei titoli da ereditare. E poi ne aveva anche lei. Tu hai bisogno di prenderne altri per la nostra famiglia: papà non ti farà sposare chi ti pare. Tanto a te non piace mai nessuna, che differenza fa?» «Forse ora ne fa» rispose Corvin.
«Così l’assassino che stiamo cercando è un elfo?» chiese Erin accogliendolo in caserma. Corvin era andato sotto scorta stavolta. Erin non aveva compreso esattamente quanto fosse potente la sua famiglia. «Esatto. Un delenar, per la precisione.» «Come lo sai?» «Non preoccuparti, lo so e basta. Mi serve una conferma, ma non so come trovarla. Dubito che troveremmo vino elfico dimenticato sul luogo del prossimo delitto…» «Ah ah… divertente» commentò con sarcasmo Erin. «Io però lavoro perché il prossimo delitto NON avvenga! Possiamo chiedere aiuto al mio mentore» disse Erin. «Nessuno come lui è abile nei casi irrisolti.» «E chi sarebbe questo infallibile individuo?» rispose scettico Corvin. «Morlav!»
Morlav il mago, Morlav l’astuto, Morlav il segugio. Questi erano alcuni degli epiteti con cui era conosciuto l’ex Capitano Morlav, ritirato dagli Alabardieri anni or sono e da allora investigatore a pagamento al soldo di molti nobili Lenvari. Mariti traditi, mogli che avvelenavano le suocere, rampolli rapiti per riscatto, erano il suo pane quotidiano; non diversamente da ciò che affrontava quand’era sotto le armi. Morlav non aveva cognome perché non era nobile, mail suo nome quindi saltava immediatamente fuori quando qualcuno aveva un mistero da risolvere, per sparire a problema risolto. Aveva studiato a fondo la Magia Arcana, quella contrapposta alla Magia Divina (v. Appendici - “I misteri”), persino a Cardis, dove essa è portata alla sua quint’essenza. Sapeva
lanciare decine d’incantesimi sconosciuti anche ai maghi dell’Ateneo lenvare. Persino il Conte Grilam, sicuramente un arcimago di potenza ineguagliata nella Repubblica, lo aveva ingaggiato. Erin stravedeva per Morlav e aveva imparato molte cose utili da quell’uomo ingegnoso.
Morlav ricevette Corvin ed Erin in un edificio assolutamente anonimo presso una traversa della grande Via dei Mercati. Aveva arredato quell’angolo con un certo gusto, ma Corvin notò che quella non doveva essere una casa abitata: piuttosto era di rappresentanza. Evidentemente il mago era piuttosto prudente e forse aveva accumulato negli anni diversi nemici. Egli era un uomo elegante ma sobrio: poteva avere tra i 35 e i 45 anni; i suoi capelli erano nerissimi e di media lunghezza, del medesimo colore dei suoi occhi. Portava una barba corta e ben curata e un corto bastone da eggio, certamente incantato. Vestiva di porpora e viola e portava un’interessante catenina al collo, con un ciondolo d’oro e perle. «Erin mi ha avvisato dei problemi che la vostra famiglia ha avuto di recente» disse con garbo. «È così» rispose Corvin, «e vorrei che essi non dilagassero verso le persone a me più care.» «Ho già ricevuto i dettagli della vicenda. Erin mi ha interpellato più di un mese fa.» Corvin guardò sorpreso la giovane che continuò imibile a fissare il suo maestro. «Queste tecniche d’omicidio sono molto comuni, con l’eccezione del veleno usato in alcuni di essi. Credo che sia un estratto di una radice che non cresce qui. I suoi effetti sono alquanto crudeli, specialmente il delirio che instilla nell’agonia. L’assassino è un sadico e non lo fa per soldi: ne trae piacere.» E detto questo aprì un libro che aveva preparato in precedenza. Era scritto in antico sabano e recava un’illustrazione di una pianta dai fiori scuri: la Luna di Cartùm.
«Questa pianta cresce molto a nord: ha bisogno di climi freddi» continuò Morlav. «I suoi petali sono scuri per attirare il calore del sole, difatti. Con ciò il nostro amico viene da fuori città; da parecchie miglia da qui, direi. Inoltre, per ricavare il veleno di Luna di Cartùm, ci vuole un procedimento davvero complesso: occorrono settimane per farne un’ampollina. Solo i delenar o i lyblis possono reperire facilmente le piante e conoscono il procedimento esatto.» «Dunque è certo che l’assassino ha sangue elfico?» disse Erin. «Sì, credo proprio di sì. O per lo meno costui ha imparato dagli Antichi Popoli o elfi, come li volete chiamare, la tecnica per i suoi delitti. Quantomeno si è rifornito di radici da loro. Ma considerato che gli Antichi non amano insegnare niente agli umani, è probabile che sia davvero uno di loro.» Poi chiuse il libro e si sedette, accavallando le gambe. «Ad avvalorare la sua provenienza, v’è l’uso di altri estratti di piante: in particolare quelle di canapa e papavero. Sa creare delle tinture che, se assunte, annullano la volontà del soggetto, con procedimenti che qui sono appannaggio di pochi. Ha viaggiato molto.» «Era questo che m’interessava sapere: già sospettavamo che si trattasse di un delenar. Anche se non posso credere che un membro dell’Antico Popolo sia stato capace di questo scempio» disse Corvin. «Ho conosciuto alcuni individui illustri di quelle nobili stirpi quando mio padre era ambasciatore e trovo che siano una razza illuminata.» «È facile sorprendersi, a volte, di quanto una sottile patina d’oro possa coprire il piombo, Messer Siblei. Non dubitate che esistano le mele marce anche tra i loro popoli. Ma ad ogni modo, sappiamo solo che costui ha avuto contatti con gli elfi o è un elfo. Può, anzi deve essere una base di partenza.» «Frattanto vi ringrazio, i vostri servigi saranno ricompensati secondo la tariffa che riterrete opportuna» rispose il nobile. «Nessun pagamento: faccio un favore a Erin e per me è un piacere aiutarvi, ora che vi ho conosciuto.» Corvin capì perché Erin teneva in così alta stima quell’uomo.
Ciò che spingeva Morlav alle indagini non era il denaro: ne aveva parecchio ormai. Era il profondo senso di sfida che indagare gli generava. Qualcosa che lo tenesse vivo. Si diceva spesso che quando questa voglia di scoprire, di sapere tutto, di indovinare, lo avesse abbandonato, sarebbe stata vicina la sua fine.
* * *
Gala era inquieta. Dopo che Val era guarito, il suo carattere le pareva mutato, come se una parte di infezione residuasse nella sua mente. Era scontroso e la evitava. Le poche volte che parlavano lui continuava a raccontarle di Necromanzia, morte, putrefazione. «Sai ho rischiato grosso: meno male che c’era Kenarnon o sarei morto!» «Io sai… anche io ho provato a fare la mia parte» gli disse Gala. «Quando stavi male ho provato a curarti con…» «Certo, ma le preghiere non servono a nulla. I rimedi dei silvani, quelli sì che servono» la interruppe Val. «Non ho solo pregato ma… lasciamo stare. Meno male che sei vivo» gli disse Gala con una punta di amarezza. E Val se ne accorse. «Io lo so che mi sei stata vicino e sono felice che tu lo abbia fatto» le disse abbracciandola. Poi con fretta si staccò. «Devo andare al Tempio adesso.» «Certo. Naturalmente» disse Gala voltandosi.
Non ò molto tempo da quei giorni di morte che vi fu lo scoppio di un conflitto aperto con la Repubblica marinara di Zevira; la cosa non colse nessuno di sorpresa. Nuovamente gli uomini abili furono chiamati alle armi, ma stavolta i contadini furono lasciati nei campi a raccogliere uva e olive, perché era autunno.
I marinai e i soldati di professione furono mandati sulle galee da guerra a combattere in mare aperto. Si susseguirono varie battaglie navali, con piccole flotte: ora si vinceva e ora si perdeva, fino al flebile trattato di pace successivo. I Lenvari conquistavano un porto e gli zeviresi incendiavano uno dei loro fondaci oltremare. Tutto questo non aiutava nessuna delle due Repubbliche, ma il monopolio sul mare faceva troppa gola per lasciarlo perdere.
Quando uno dei misteriosi omicidi tuttavia colpì uno dei Silenziari, la polizia segreta, la faccenda divenne molto più seria e la Repubblica mise in campo i suoi segugi migliori. Tra la guerra, gli omicidi e la notizia dei morti che si rialzavano dalle tombe, i cittadini Lenvari erano completamente sotto pressione. I templi erano pieni di fedeli che chiedevano la salvezza e di apostati che predicavano invece l’imminente fine del mondo. La gente usciva di casa di rado e risparmiava anche i centesimi per tempi migliori. Gli stranieri erano visti con sospetto fino ad essere isolati, picchiati o uccisi per la sola colpa dei loro natali. Persino la comunità nanica, da sempre tollerata in città, fu perseguita costringendola al coprifuoco.
Una notte, in un oscuro scantinato della città, alcuni individui sostavano attorno ad un grosso tavolo robusto. Uno di essi parlò: «Cosa ci ha portato oggi, dottore?» disse Mascan, il Barbiere. «Una donna, una povera stracciona. Non è stato difficile rimediare il suo corpo: col freddo i morti aumentano» disse un uomo dal cappello piumato. «È morta?» «Uhm… forse no, forse è in coma. Bah, non ha grande importanza: presto lo sarà comunque» ribatté l’uomo dal cappello. E tutti risero della macabra battuta. «Pronti per il rito?» ribatté il dottore. «Certamente» rispose Mascan. Due assistenti aprirono un sacco: dentro vi era il corpo di una donna di mezza
età, smunta, l’espressione sofferente in viso, gli occhi chiusi. In verità era piuttosto difficile capire se fosse ancora viva. La adagiarono su un tavolo di metallo e Mascan con poca grazia prese dei ferri e iniziò a incidere il corpo. Nessuna reazione. «Secondo me è morta!» disse ridacchiando e ottenendo di nuovo le risate dalla sua claque. «Ora asporteremo cuore, surreni e pancreas, per gli infusi. Credo che in seguito potremmo rianimarla con la tecnica che ha suggerito il nostro esimio mago» disse il dottore facendo un inchino a un uomo barbuto che portava un bastone con il pomo d’avorio.
La porta venne giù con un fragore assordante. I due assistenti sguainarono le spade corte e andarono verso l’uscio. Entrò con foga un Crociato incappucciato, vestito in armatura di maglia: prima colpì con lo scudo uno degli assistenti e poi lo uccise con una singola stoccata alla gola, mentre un Paladino, che sbucò dietro di lui, piantò tutta la lama nella pancia del secondo. L’uomo col bastone, il mago, spinse il dottore addosso agli assalitori e si ritirò attraverso una porta interna che chiuse velocemente. Vi fu un attimo di silenzio. Il Crociato gettò indietro il cappuccio: era Ser Ianos. Dentro l’anticamera entrò il Sergente Caviled che prese il dottore e gli tenne la bocca tappata. Entrò poi anche Ser Bevarond che si mise di lato alla porta e fece cenno a tutti di fare lo stesso. Il Paladino lo fermò: «Scommetto che non sta aspettando altro che tu apra la porta.» Si posizionò di fianco alla porta e mise la mano sulla maniglia ad anello: la tirò indietro con forza ritirando poi la mano di scatto. Un tuono squassò l’ambiente e una scarica di elettricità, colpendo la porta, la mandò in frantumi. In mezzo al fumo e all’odore di legno bruciato il Paladino entrò dentro urlando e colpì il mago: il suo colpo fu come deviato da una barriera invisibile. Il mago aprì il palmo della sua mano e gli toccò di colpo il torace urlando tre parole in sabano. Il Paladino si sentì come paralizzato: i
muscoli gli si contrassero all’unisono. Ma il mago fu trafitto da Bevarond: la barriera funzionava una volta sola. Crollò incredulo e morto. Un’altra Paladina fece il suo ingresso nella stanza: tracciò alcuni simboli nell’aria con le dita e toccò con ambedue le mani il petto del Paladino mentre pronunciava delle parole sottovoce. Il Paladino riprese di colpo a muoversi, ansimando. «Detesto l’incantesimo della paralisi» disse il Paladino. «Quella sensazione di soffocamento!» «Avete fatto un ottimo lavoro, Ser Mandecar» disse Ianos al Paladino. «Mi meraviglia che non ci abbiate interpellato prima, Ser Ianos» rispose Mandecar. «Sto bene» aggiunse alla Paladina che lo aveva liberato: lei gli accarezzò il volto. Val era stato lasciato a fare “il palo” e sbirciò la scena. Ora li riconobbe: quelli non erano semplici Paladini ma erano Dama Chiliana e suo marito Ser Mandecar, su cui molte storie erano state cantate dai bardi. I due erano al servizio dell’Ecclesia Matriana. Dama Chiliana proveniva dai feudi di Levante, mentre Ser Mandecar era un nobile rampollo del Regno di Falée. Chiliana aveva poco più di trent’anni ed era splendida nella sua armatura azzurra e dorata: aveva occhi color nocciola e capelli castani lisci in un carré che le arrivava fino alla nuca. Anche se il titolo di cavaliere per le donne era “Senna” (mentre Ser era riservato agli uomini), tutti la riverivano col titolo di “Dama”, per via del suo glorioso stato di servizio. Mandecar era un uomo sulla quarantina, torvo e superbo. I due avevano viaggiato il mondo e si erano innamorati durante le loro battaglie e nonostante grandi difficoltà si erano sposati con la benedizione del loro Ordine. Dopo l’arrivo della compagnia silvana di Kenarnon, quella di Mandecar e Chiliana insospettì non poco Val. Che fossero venuti anch’essi per gli omicidi? Dama Chiliana aiutò il barbiere ad alzarsi e lo incatenò assieme al dottore. «Avremo da parlare per un po’ con voi due» disse con un’espressione di profondo disappunto. Mascan era un barbiere che si dilettava di pratiche chirurgiche. La medicina a
Lenvar era regolamentata come tutte le arti: i barbieri non avevano una propria istruzione medica accademica e fungevano da dentisti o da chirurghi per operazioni meno impegnative, come la rimozione di cisti cutanee, ernie, verruche, calli o salassi. Il cerusico di professione praticava gli interventi più complessi ed era già un miracolo che il Paziente sopravvivesse all’operazione; i migliori guaritori tuttavia restavano gli ecclesiastici, gli Ospitalieri in testa. Mascan non era considerato per nulla un buon chirurgo e nemmeno un buon barbiere a dirla tutta; eppure illustri personaggi da un po’ di tempo visitavano la sua bottega e questo era stato considerato sospetto.
* * *
Dall’altra parte della città, Kenarnon e i suoi cacciatori decidevano il da farsi. Seduti sul bordo di una vasca di una fontana pubblica, accarezzavano l’acqua cristallina. Conversavano nella loro lingua: era antica e stranamente musicale, ricca di dittonghi e consonanti. «Non possiamo lasciare Shalamor a piede libero e in grado di uccidere ancora. Ogni vittima che aggiunge al suo macabro conteggio è una macchia su di noi» disse Sofos. «Credo di potere intuire dove colpirà. Vi dirò di più stasera» disse Kenarnon. «Kirie, se ci scappa dovremo nuovamente inseguirlo attraverso il Continente. E il mio corpo inizia a vacillare» rispose Sofos. Egli era saggio tra i lyblis: un cacciatore abile con la sua lancia e con l’arco. I suoi capelli ormai grigi e piccoli solchi sul volto erano l’unico segnale dei secoli di vita che aveva sulle spalle. La bella Kandui, sua figlia, aveva imparato a tirare con l’arco ottimamente ed era seconda in questo solo alla principessa Eredwan. Ma Kandui era rimasta muta dopo la morte della madre: il destino l’aveva resa bellissima ma sfortunata. Portava una collana di perle colorate al collo. Quando le colpiva con le nocche o con uno dei suoi tanti anelli, esse producevano diversi suoni simili a quelli di un carillon e lei aveva imparato a parlare con essi. A volte
suonava melodie che per lei valevano come interi poemi o racconti, aiutandosi anche con un piccolo flauto di legno silvano. Oppure muoveva con grazia e precisione le sue mani e sapeva sempre farsi capire anche con pochi gesti. Piccola e sfortunata Kandui: un angelo sceso in terra, incapace di ferire qualsiasi creatura che non attentasse alla vita altrui o alla sua. E Lorkan, il primogenito di Sofos, era forte e vigoroso: usava due spade corte che sapeva muovere con maestria ed era abile a seguire le tracce quanto il padre. Il suo cuore batteva in segreto per Eredwan, la sorella di Kenarnon. Ma era così fredda, come se qualcosa l’avesse indurita come la pietra. «Kirie,» disse Lorkan, «che cosa faremo quando l’Empio sarà finalmente catturato? Dove ci condurrete?» «Non dovete appellarmi “Kirie”» disse il silvano. «Non sono il vostro signore. Non sono un principe, non più. E in ogni caso non più di voi. Per questo non vi comando nulla: sarete liberi di andare dove vi aggrada, vi rilascerò dal mio servizio» disse Kenarnon. «Resterò con voi in ogni caso. Non so immaginare nessun altro destino se non quello di proteggervi» disse Sofos. «Amico mio, sei stanco: abbiamo fatto troppe miglia da quando abbiamo lasciato la Selva Nera;» disse rivolto a Sofos, «e tante sono le tue lune. Non hai brama di riposarti, infine?» «Principe, sapete che la mia vita è stata dedicata al vostro servizio, fin da quando vi vidi piccolo come un gattino e vi potevo tenere in braccio. Se un domani sarete voi a tenere in grembo il mio corpo, la mia vita sarà stata comunque degna di essere vissuta.» «Kirie, noi vi seguiremo sempre. Non dimenticheremo ciò che avete fatto per noi» disse Lorkan. E Kandui fece tintinnare la sua collana e con un solo singolo sorriso, fece trasparire il grande affetto che la loro famiglia aveva per Kenarnon. Anche Eredwan sembrò ricambiare con un tenue sorriso la loro fedeltà. Kenarnon osservò il sole riflettersi sul vetro opaco di una finestra. Guardò il suo mantello: era sporco, sgualcito, rammendato. Aveva spine, strappi e polvere di almeno dieci paesi. Anche dall’alto della sua cultura millenaria, immutabile nei
costumi, si chiese il senso di quella lunga e interminabile battaglia. Camminò fino sulla collina del Castello dove si dominava l’intera città e fissò il mare, come in cerca di qualcosa. Ripensò a quel discorso fatto col giovane Crociato che l’aveva accompagnato: se solo le creature che abitavano la terra avessero avuto di più il senso della bellezza e i mezzi per raggiungerla, ogni conflitto sarebbe stato superfluo e inutile. Sofos lo raggiunse. «E voi dove andrete, Kirie?» gli chiese. «Non so proprio: forse andrò al di là del mare, ma voglio ancora una volta vedere la Bianca Città delle Torri, lassù. Ho ato così tanti anni a inseguire quell’abominio che mi sono dimenticato della bellezza del mondo. Sto commettendo lo stesso crimine che nella mia mente biasimo» disse. «Kirie portate i miei figli con voi, se io dovessi cadere. Non lasciateli soli.» «Lascerò che siano loro a scegliere.»
* * *
Quando Ianos e Bevarond tornarono al tempio, Ser Lelan, uno dei cavalieri più blasonati, fermò Ianos alla fine del rapporto fatto al Maestro e gli parlò chiaramente: «Ianos, tu sai qualcosa dei morti che si rialzano e degli omicidi. Sono cose collegate.» «Ho solo un sospetto, confratello Lelan: non di più.» Ianos e gli altri avevano omesso di rivelare i particolari della cattura del barbiere. Egli e l’altro prigioniero avevano cantato come due usignoli e avevano svelato che esisteva una fitta rete di “sapienti” che faceva uso delle arti necromantiche per preservarsi dall’invecchiamento, per rianimare i cadaveri e compiere altre nefandezze. Secondo il barbiere, alcuni di loro erano persino prelati matriani,
che cercavano di usare le arti nere per scopi biechi. «Se hai un sospetto, perché non ne rendi partecipe il consiglio allora? Potremmo tutti contribuire» disse Lelan. «Non è il caso» disse Ianos facendo per andarsene «Non è ancora il momento: prima devo cercare da solo alcune risposte.» «Stai cercando di risolvere questa faccenda da solo per la tua gloria personale, vero?» gli gridò dietro Lelan. «Così occuperai il posto del vecchio Madril, quando il Maestro si ritirerà! Ambizioso: peccato che così facendo tu remi contro il nostro Tempio! A volte mi chiedo perché non ti abbiano ancora radiato!» Ianos ribollì di rabbia dentro di sé. Stava per voltarsi e dire cose di cui si sarebbe pentito, ma era un uomo navigato e sapeva quando tacere. «Quando tutto sarà terminato, Lelan, ti sorprenderai di quello che NON chiederò in cambio.» E così detto si allontanò. Bevarond, che aveva udito, lo raggiunse vicino al chiostro. «Lelan è un buon cavaliere, non dovresti trattarlo così male» disse Bevarond all’amico. «Parla chi ha fatto espellere uno scudiero per un’armatura non perfettamente lucidata, anni fa» gli rispose Ianos. «Siamo cambiati e molto da quei giorni. Dobbiamo tenerci buoni quelli come Lelan: dopotutto il nostro “Ordine Segreto” non potrebbe farcela senza l’apporto del Tempio.» «Io spero solo di poterci aprire al mondo, un giorno. Abbiamo pochissimi alleati e siamo tutti belli stagionati. Se succederà quello che penso molti di noi periranno e avremmo bisogno di nuove leve per andare avanti.» «Perciò dobbiamo contare su Lelan!» «No, Bevarond, no» lo interruppe Ianos. «Lelan è già andato: sogna solo di
diventare Maestro dei Cavalieri e ha paura che io lo scavalchi.» «Pensi che Lelan sospetti dell’esistenza de “l’Ordine”?» chiese Bevarond. «Può darsi, ma ci servono nuove leve: io intendo persone più giovani. Dobbiamo cercare qualcuno che non sia ancora consumato dall’ambizione e che si offra davvero di servire ciò che serviamo noi.» «Hai in mente qualcuno?» «Caviled mi parla sempre di Galron, uno dei miei attendenti.» «Certo, so chi è: l’ho addestrato io a usare lo scudo. Mi sembra un ragazzo senza pretese: uno dei tanti. Che cos’ha di speciale per avere colpito Caviled?» «Io credo che sotto sotto gli ricordi un po’ suo fratello, ma si dice molto fiducioso in lui. È molto amico dei Siblei ed ha una relazione con una De Torne, una giovane accolita che serve l’Uffizio dell’Esarca. Conosco il padre della giovane e mi ha detto che Val piace molto anche a lui» aggiunse Ianos. «Tuttavia Galron non era uno studente mediocre? Non ha mai avuto voglia di applicarsi: ha sempre fatto quello che voleva» disse Bevarond scuotendo la testa. «Anche io all’inizio avevo pessimi voti. Ha sofferto in battaglia. Dagovir era suo amico: l’ho visto tirarlo fuori dalla melma e tentare di salvarlo giù da quel maledetto ponte. Penso che la sua prova del fuoco l’abbia superata a pieni voti. Molti ci hanno abbandonato dopo quei giorni. Vorrei che il Priore e Madril si fossero opposti allo schierarsi in battaglia per la Repubblica. Avrebbero vinto anche senza di noi e senza quel massacro sul ponte.» «Ma con perdite più ingenti. Forse dovremmo puntare su qualcuno che sia più preparato di Galron» disse Bevarond. «Forse, ma vedo qualcosa di buono anche in lui e così il Sergente. Non si è mai piegato ai dogmi senza criticarli. Io credo che dovremmo metterlo alla prova. » «Come la mettiamo coi Paladini?» chiese Bevarond. «Questa cosa è roba nostra. Se Chiliana e Mandecar vogliono partecipare lo faranno in maniera segreta come Ordine e non come Paladini. Siamo pur sempre
Crociati» rispose Ianos. «Dovremmo superarla questa differenza. Dopotutto…» «Non sprecare fiato. Combattiamo forse tutti per la gloria dell’Eterno, ma noi… siamo meglio di loro. Vado a far chiamare Galron.»
Al giovane Crociato avrebbero dovuto fischiare le orecchie: era tuttavia al settimo cielo. Gala era sempre più allegra e rilassata ed era tornata a essere dolce con lui. Seppure i primi tempi cercasse di stare ogni singolo minuto assieme al Crociato, adesso ava anche molto tempo al Convento. La cosa non infastidiva per nulla Val, che non era un tipo troppo mieloso. Quando erano sdraiati insieme, Val affondava il viso nel petto di Gala sentendo il suo cuore, ma non sapeva che dentro non tutti i battiti erano per lui. Gala lo sapeva bene però faceva finta di non pensarci: Val era una certezza della sua vita e preferiva non pensare ad altre “alternative”. Eppure esse si facevano lentamente strada nel suo cuore. «Come stai in questi giorni, Gala? È parecchio che non ti vedo» disse il Vicario Thavion. «Finalmente i brutti sogni sono ati. Sento che sto riprendendo il controllo della mia vita!» rispose felice la giovane. «Anche i miei sono sgombri, ora. Beh, sgombri da cattive presenze, diciamo. Rimangono per fortuna quelle buone ad affollarli.» «Vostra Grazia?» «Hai compiuto i riti che ti ho insegnato? E bevuto gli infusi?» disse Thavion senza risponderle. «Sì e mi sento molto meglio. Posso dire che grazie a voi, sono guarita da tutti gli incubi!» Gala aveva appreso da Thavion alcuni riti segreti non presenti sui libri per calmare le sue ansie e dominare i suoi sogni.
«Che l’Eterno sia benedetto per esserci incontrati» disse Thavion. Si avvicinò con le sue vesti svolazzanti. Aprì la mano e la ò delicatamente sul visto della giovane. Gala sentì un brivido. Come se la mano di qualcuno premesse delicatamente il suo stomaco e il cuore rispose battendo forte. Si sorprese ad allungare la sua mano, aprirla e accarezzare a sua volta quella mano adulta e maestra. Quello sguardo che la guardava amorevolmente la rinfrancava. E Val sparì per un attimo dalla sua mente.
9.
Trame sconosciute, pedine sacrificabili
Venne l’inverno e il freddo. Erin Lindei portava il mantello blu scuro degli Alabardieri, con la croce rossa e il grifone ricamati sulla spalla sinistra. Il fiato gelava mentre saliva le scale di marmo del Palazzo Dogale: erano così consumate da avere un solco al centro di ogni scalino. Il Conestabile la attendeva nella sua stanza con un gran fuoco che ardeva nel camino. «Sedete pure. Quindi, Luogotenente: ho ricevuto il messaggio. Che è questa storia?» disse il Conestabile. «Il clero sta effettuando indagini per i casi di Necromanzia che affliggono la Repubblica. Si stanno muovendo senza coinvolgerci» disse Erin. «Bene. Non vi sono stati casi all’interno delle mura. Se ne devono occupare i feudatari e i borgomastri» tagliò corto l’ufficiale. «E se vogliono i matriani, lo facciano pure.» Il Conestabile era un uomo sulla cinquantina: grassoccio, stempiato e supponente come molti di coloro che ricoprono incarichi altolocati. E per di più si trovava a dover contrattare con una donna Alabardiera. «Signore, è strano che non ci interpellino. Potrebbe esserci qualcosa di grosso sotto. I Necromanti…» «Lo so, ho letto i rapporti. Credo che sia la solita storia: qualcuna delle Casacce ha deciso di fare il salto di qualità. Saranno quelli della Confraternita di Morte e Orazione. Quando ero giovane e Luogotenente come lei, partecipammo ad un’indagine riguardo alcuni…» «La conosco questa vicenda, Signore. Con rispetto, la raccontate spesso» disse Erin cercando di essere ferma ma non maleducata. Non riuscì in nessuna delle due: il tono le uscì carico di irritazione per il suo superiore, pur riconoscendone l’autorità. «Un maniaco si era infiltrato nella Confraternita per… abusare dei cadaveri.»
«Allora capite che questi galantuomini che fingono di fare del bene in realtà si divertono a manipolare cadaveri, assistere condannati a morte e quant’altro. Chiunque stia così vicino a morte e male non è un benefattore: è un sadico! Ma loro sono alle dipendenze dell’Esarca e quindi se ne deve occupare lui.» «Tolto quel caso, a dire il vero, nessuno si lamenta dei loro atti caritatevoli e anzi…» «Ho già abbastanza problemi a mantenere l’ordine pubblico. Ieri due dei Falsta hanno aspettato che due De Vire assero sotto l’arco di via Santa Zea per lasciargli cadere delle pietre dall’alto. Doveva essere una ragazzata: peccato che le pietre erano enormi e ad uno hanno spaccato la testa come un melone e adesso gli Ospitalieri gli stanno dando la Benedizione dell’Agonia. E puoi immaginarti cosa è seguito dopo questo scherzo: ne abbiamo già arrestati tre che si volevano far giustizia da soli e il ragazzo non è ancora morto. Pensa cosa succederà se tira le cuoia!» Erin stette in silenzio. C’era poco da ribattere. «Luogotenente: vi ho dato il comando del Porto. Sapete perché?» disse il Conestabile sporgendosi in avanti mentre poggiava sui gomiti. «Perché è il centro dell’attività commerciale e importante da tutelare nell’ordine pubblico» rispose Erin. Ma non credeva nemmeno lei alle sillabe che pronunciava. «Perché siete una donna, e anche avvenente; e il Porto è il posto più tranquillo! Lasciate queste cose, dico le attività di concetto, agli uomini e tornate a fare la vostra calzetta all’uncinetto senza seccarmi con cose che neanche comprendete! Necromanti in città! Ridicolo!» Erin dovette alzarsi e uscire subito dopo avere abbozzato un saluto con la testa per non esplodere. Aveva ato anni a dimostrare che valeva più di un uomo per molte cose. Avrebbe voluto piangere ma no. Quello lo fanno le bambine e lei non era una bambina: era un’Alabardiera di lenvare, Luogotenente del Porto e anche se doveva obbedire, avrebbe tenuto gli occhi aperti.
Una mattina, Ianos convocò Caviled e Bevarond. Aveva pensato tutta la notte a
come fare per confutare le sue teorie ed era giunto a una conclusione. «Le nostre indagini sono piuttosto chiare: un Necromante si è infiltrato nel Santo Uffizio a stretto contatto con l’Esarca. Egli stesso è a rischio e non possiamo permettere che gli accada qualcosa: tutte le rivalità cittadine potrebbero sfociare in tumulti e tutti incolperebbero a tutti. Sarebbe il caos, che non potrebbe che favorire i Necromanti.» «I Paladini concordano con noi, da quanto so. Mandecar ha preso il controllo delle loro forze e sta setacciando l’entroterra» disse Bevarond. «Ho già detto che se Mandecar vuole collaborare con noi dovrà farlo in maniera non ufficiale» disse perentorio Ianos. «Ancora una volta, my olde freond (mio vecchio amico), ti esorto a superare queste rivalità stupide» disse Bevarond. «Come potremmo capire chi è il Necromante nell’Uffizio?» chiese Caviled. «Non possiamo infiltrarci direttamente: non abbiamo nessun contatto così in alto» disse Ianos. «Qualcosa dovrà succedere o avremo le mani legate.»
Gala iniziò a diventare inquieta. L’Esarca Bernet era furibondo: sia i Silenziari della Repubblica che i Crociati iniziavano a puntare il dito contro la Cattedrale ed escludevano che Gaberne o Zevira avesse fomentato i Necromanti contro la Repubblica come i prelati matriani invece sostenevano. Presto serpeggiò il dubbio che l’Ecclesia Matriana fosse coinvolta in un complotto che appoggiava i Necromanti. L’Esarca trattava male tutti: quando Gala gli servì il pranzo un giorno, con un colpo di mano scagliò le stoviglie sul pavimento affermando di non potere mangiare pietanze così sgradevolmente presentate. Thavion giunse da Gala, abbacchiata e seduta nelle cucine. La accompagnò nel suo studio e la fece sedere. «È un brutto momento anche per lui, devi avere pazienza» le disse.
«Lo so. Immagino che sia difficile ricoprire una carica come quella di Vostra Grazia o di Sua Eccellenza.» «Gala… devi darmi del tu ora. Ormai io sono Thavion per te. Non sono più “Vostra Grazia”.» «Thavion» disse lei. E il suo nome le pareva così strano da dire ad alta voce, adesso. Lui la accarezzò ancora, ma non era più paterno. Le sue mani erano diverse più delicate. Lei chiuse gli occhi come se sognasse e continuava a sentire le pieghe di quella mano sulla guancia. Non era più il genitore che le era sempre mancato, non più il maestro di vita: era un uomo e lei donna. I due furono interrotti. Thavion saltò indietro mentre nella stanza entrò Ser Ianos. «Scusa, ho bussato ma non mi hai sentito» disse il Cavaliere con poco garbo. «La guardia mi ha detto che potevo are.» «Che nuove mi porti, Ianos?» disse Thavion un po’ imbarazzato. «Pessime. È tutta la settimana che provo a farmi ricevere da Sua Eccellenza, ma non ottengo risposta.» Ianos gettò un’occhiata a Gala. Normalmente non gli restava impresso nessun volto in particolare, sempre che non si trattasse di un Necromante cui dare la caccia; eppure il suo l’aveva notato. Si ricordò di averla vista spesso al tempio a chiedere di Galron e realizzò chi fosse. Gala, che conosceva Ianos dai racconti di Val e non provava molta simpatia per lui, distolse lo sguardo, fece un inchino e abbandonò la stanza. Ianos la fissò muovendo gli occhi e poi guardò Thavion. Aveva la sensazione di avere interrotto qualcosa. Thavion lo intuì e incalzò: «Per quale motivo mi cercavi?» «Lascio a te il compito di procurarmi un incontro con l’Esarca al più presto. Devo dirti che è molto importante: immagino che tu possa indovinare i motivi. Ti ringrazio e tolgo il disturbo.»
Ianos tornò al tempio e si sedette vicino alla finestra della sua stanza. I privilegi del suo grado gli avevano consentito di barattare la stanzetta destinata ai cavalieri con una dotata di molte comodità. Guardò verso il chiostro: volavano alcune colombe, bianche come il vestito della giovane Gala. Poi osservò il cielo: il sole era velato appena, in quelle giornate d’inverno che in genere a Lenvar erano cristalline. Padre Adis bussò alla sua porta e disse: «Ser Ianos, debbo darvi una notizia grave.» «Si direbbe che in questo momento a Lenvar ogni letizia si spenga ad ogni novella» disse Ianos. «Di che si tratta, Padre?» «Temiamo esistano spie anche nel nostro Tempio. Il vostro compito è di scoprire se questo è vero. Mi sembra difficile, ma occorre sapere chi siano. Ecco questa pergamena: qui sono scritti i sospettati. Non sono molti, ma dovrete indagare a fondo. Tenete tutto sotto riserbo e informate solo il Priore. Non dovrete parlarne nemmeno con me.» «E se io o voi… fossimo sospettati? Chi indagherebbe su di noi?» «Non è escluso che chi debba lo stia già facendo.» Sorridendo, Adis si alzò e lentamente andò via. Ianos guardò la pergamena: era nei pasticci. C’era un Necromante infiltrato nel Santo Uffizio e ora doveva anche fare qualcosa per scoprire se ci fossero spie all’interno del Tempio di Isior. Pensò per quasi un’ora, poi sospirò e si preparò a intraprendere una decisione grave. Chiamò Caviled e gli confidò il suo piano. «Ho intenzione di mandare alcuni messaggeri segretamente a diversi dei nostri Priorati. Farò in modo che partano nel riserbo più assoluto: senza scorta né insegne.» Ianos disse i nomi e le destinazioni: tra i messaggeri c’era anche Val, che si sarebbe recato nella città di Tila da Quein, un esperto ex-inquisitore e vecchia
conoscenza di Ianos. Caviled allora disse: «Veramente Galron mi serve qui. Possiamo mandare un altro a Tila…» «No. Manderò Galron. È il suo primo incarico davvero importante: sono certo che sarà entusiasta» disse Ianos. «Si è sempre lamentato in fondo di non avere incarichi di fiducia ed è pur sempre un mio attendente.» «Allora lo accompagnerò anch’io» disse Caviled. «Mi hai frainteso: alcuni dei messaggeri non porteranno missive importanti e saranno solo un diversivo. Ho una lista di sospetti: ad ognuno di loro dirò la destinazione di un messaggero. A seconda di quale messaggero sarà intercettato dai Necromanti potremmo iniziare a capire chi possa essere un’eventuale spia all’interno del Tempio o se i Necromanti lo stanno spiando. A Galron darò una di quelle lettere-diversivo. Quein sa già tutto da un po’ e non ha bisogno di essere avvisato.» «Uno specchietto per le allodole? Non posso lasciare che il ragazzo vada da solo a fare da esca per quei degenerati. È un nemico oltre la sua portata. Chiedo il permesso di andare con lui» disse Caviled. «Non capisco perché» disse Ser Ianos. «Tu invece mi servi qui, al suo contrario. Galron potrà facilmente gestire il suo incarico. Dopotutto sei stato tu a segnalarmelo. Rammentalo.» Caviled conosceva Ianos da tanti anni. Era grato a lui per tutto l’aiuto che aveva ricevuto in ato ma, proprio perché lo conosceva, sapeva che poteva essere estremamente cinico nei suoi piani. «Proprio Galron?» «L’Ordine Segreto ha bisogno di nuove reclute. Tu mi hai sempre parlato bene di lui. Mettiamolo alla prova.» Caviled stette fermo. Non pensava che Ianos avrebbe mai appoggiato la candidatura di Val.
«Farlo entrare nell’Ordine?» «Sempre che lo meriti... Devo vedere come si comporta.» Ianos nascose che aveva anche un’altra cosa in mente. «A maggior ragione, potrei accompagnarlo» ribatté Caviled, «e controllare il suo operato.» «No: da solo. Sergente, lasciami fare. Ricordi chi è il Cavaliere e chi ha preferito una vita da graduato?» «Ser, sembra ci siano spie all’interno del Tempio. E chiunque sa che Dan Quein è la prima persona da avvisare in questi casi» disse fermo Caviled. «Se i Necromanti ci tengono d’occhio, la prima strada che tenteranno di pattugliare sarà quella per Tila. Che abbia almeno una scorta…» «Se gli dessimo una scorta attireremmo troppa attenzione. Ed io voglio che quei bastardi servi del Teschio di Caprone si muovano solo con cognizione di causa perché ritengano di essere venuti a sapere qualcosa di segreto; non perché gli abbiamo dato una scorta eclatante. Se i Necromanti ci spiano allora tenteranno di intercettare la missiva di Galron. Punto e semplice.» «E fareste questo a costo di sacrificare Val?» «Sapeva a cosa andava incontro quando ha firmato. Inoltre, deve dimostrare di essere degno di entrare nell’Ordine. Non abbiamo bisogno di femminucce.» «È ancora un ragazzo!» «Se servisse a impedire che altra gente muoia, sarei lieto di accettare la perdita di uno dei miei o di me stesso, lo sai. Dobbiamo capire chi sono le spie, o siamo tutti a rischio. Se avessimo sospetti più concreti, il Priore si convincerebbe e sarebbe chiamata l’Inquisizione e con essa sarà fatta pulizia di quelle bestie; così come stanno le cose non abbiamo in mano nulla.» «Ser Ianos» continuò Caviled, «non avete nemmeno tentato “con le buone” di convocare l’Inquisizione.» «Sai bene che se fimo partire un processo senza elementi schiaccianti finirebbero per inquisire noi stessi e scoprire le nostre riunioni segrete. Sai a che
prezzo? Io finirei imprigionato o decapitato per tradimento e questo posso accettarlo: ma voialtri?» «Andrò con Galron» disse fermamente Caviled. «Ne ho abbastanza! Non posso rischiare di perdere un soldato come VOI, Sergente! Obbedite o vi metterò agli arresti!» urlò mettendo mano alla spada. Gli diede del voi, per ristabilire quella distanza tra superiore e graduato che gli faceva comodo, ora che doveva imporre la sua volontà. Essi erano ormai vecchi amici ed era un tono ingiustificato; ma per Ianos era necessario prevalere. Ianos continuò: «Ciò detto, voi restate qui. Mandatemi Galron, ora. È un ordine» rispose Ianos.
Val arrivò nella stanza: non capiva tutte le raccomandazioni che Caviled gli aveva dato. Gli aveva detto di dire che non si era ristabilito del tutto dal Morbo Cadaverino, ma Val si sentiva forte come un toro. Gli aveva detto che Ianos stava per dargli una missione importante ma che riteneva che Val non fosse all’altezza; il giovane si era quindi impuntato ancora di più per accettare. «Ti affiderò una missiva» disse solenne Ianos. «Ti recherai da Dan Quein, al Tempio Maggiore di Tila. Mi conosce bene: tu dovrai consegnare la lettera nelle sue mani. Per nessun motivo la darai ad altri.» «Ser, i tilesi non saranno molto contenti di vedere un lenvare dopo che gli abbiamo affondato mezza flotta e distrutto il porto, interrandolo» commentò Val. «Tu sei un Crociato, sei membro di un Ordine religioso e quindi ti faranno entrare. Ma non fermarti in nessun luogo che non abbia il Solecroce sopra, perché rischierai comunque» disse Ianos. «Sì, Ser» disse Galron, con fare risoluto. «Usa prudenza e sicurezza: percorri strade poco frequentate e quant’altro. Ti daremo del denaro per l’alloggio e il vitto, fattelo bastare. Sei sposato?» «No Ser…» disse Val sorpreso da quella domanda.
«Hai una fidanzata?» «Sì, Ser» rispose Val. «Beh se è fidata dille che stai partendo ma non per cosa. È chiaro?» disse Ianos. «D’accordo Ser.»
Val fu istruito quella sera da Caviled sui dettagli della missione: il Sergente però appariva visibilmente preoccupato. «Galron fai attenzione per questa missione. È pericolosa: non avresti dovuto accettare.» «È la mia occasione, Sergente. Non ricapiterà e non potevo dire di no. Ad ogni modo sembra facile. Per lo meno farò qualcosa che non sia montare la guardia ad una porta per una mattinata» disse Val. «Il destinatario è un esperto della lotta contro i necromanti. Val: potrebbe essere sorvegliato o spiato da loro.» «Perché non ci mandate in due allora?» chiese Val. Non era di certo stupido e sapeva leggere tra le righe. «Non vogliono dare nell’occhio» rispose Caviled ed era vero in effetti. Si rodeva dal non potere rivelare di più. Se Caviled non poteva disobbedire a Ianos, poteva almeno far sì che Val fosse aiutato. «Ma se tu pensi di avere qualcuno di fidato e che sappia combattere, io ti consiglio di farlo venire con te. Ti troverò i soldi per pagarlo, nel caso.» «Potrei chiedere a Salaran di accompagnarmi: spesso percorre quella tratta» disse Val dopo un istante di pausa. Caviled avrebbe dovuto dissuaderlo: rivelare della missiva a terzi avrebbe messo a rischio tutto il piano di Ianos. Ma non gli importava. Voleva che a Val non succedesse nulla; per lo meno che non fosse sacrificato come un pedone degli scacchi. Informando qualche amico fidato da portare con sé Val rischiava di fare
trapelare la notizia ma avrebbe avuto aiuto in caso di problemi. E poi, pensò Caviled, viaggiando con un amico forse sarebbe stato meno evidente che aveva una missione da compiere: forse i Necromanti lo avrebbero lasciato perdere. Tuttavia, chi lo accompagnava avrebbe corso lo stesso rischio di Val. «Lasciami pensare qualche istante» disse Caviled. Rimuginò per qualche minuto, camminando brevemente avanti e indietro con la mano sul mento. Ogni tanto annuiva da solo mentre Val lo guardava incuriosito. Caviled si contorse nella sua mente, consumato dalla tentazione di salvare quel suo allievo prediletto. Chiese in quegli istanti consiglio a Sant’Isior su cosa fare. Poi gli apparve con chiarezza la risposta. «Sì, potrebbe andare. Chiedigli solo di accompagnarti e dì genericamente che devi andare a Tila. Semmai lo informerai più accuratamente solo durante il viaggio. Così eviteremo rischi inutili.» Val esitò un istante. Prese un bel respiro e si decise a fare alcune domande che portava dentro da tempo. «Sergente, in tanti anni di addestramento non ho mai capito una cosa: perché una persona si rivolge alla Necromanzia? Tutti conoscono gli effetti delle Nere Arti sulla mente e sul corpo. Qual è la contropartita?» «Come mai me lo chiedi?» «Nessuno dei Chierici risponde a queste domande. Ma sono sicuro che voi lo farete» rispose Val. Caviled fece un mezzo sorriso. «La Necromanzia offre molto: il prolungamento della vita e l’aumento della conoscenza che ne consegue; inoltre i riti necromantici possono acuire le percezioni e l’apprendimento e conferire altri poteri. Rallentando l’invecchiamento la mente rimane elastica in principio, ma tu non hai idea di che effetti abbiano sul sé a lungo termine. Per comprendere come funziona la ruota di un mulino, bisogna smontarla e accettare di sporcarsi un po’; i chierici invece ti hanno sempre parlato di cose che non hanno mai provato veramente. La tentazione è molto forte e io ho ceduto: resistere non è facile.» «Avete… usato le Nere Arti?» Val era sbigottito.
«Sì. Poco dopo essere diventato Crociato volevo sempre andare in zone “calde”, dove combattere. Mi accontentarono: una volta, ero stato ferito gravemente. Padre Adis mi disse che sarei morto e che dovevo riconciliare l’anima a Sant’Isior. Quando mi amministrò il Rito della Confessione Finale mi sentivo distrutto: stavo per morire e non c’era speranza. Fu allora che uno dei Chierici anziani attese che tutti fossero usciti dalla stanza e mi parlò. Con mia sorpresa mi disse che poteva farmi sopravvivere. In quel momento accettai. Non ricordo esattamente cosa fece; so che bevvi qualcosa e dormii per due giorni. Tornai alla vita, la ferita guarì e tutti i chierici gridarono al miracolo.» «E che conseguenze avete avuto?» chiese Val sempre più incuriosito. «Dapprima mi sentivo forte come un leone. Poi i giorni successivi quando mi ripresi e successe più rapidamente del normale, ero intrattabile. Ferii addirittura Ser Bevarond durante la riabilitazione al combattimento. Il mio “benefattore” continuava di nascosto a darmi pozioni, polveri e a farmi recitare preghiere strane senza darmi dettagli. Un giorno vidi una macchia nera comparire sotto l’ascella. Faceva un odore terribile e non mi ci volle molto a capire che era in cancrena. Stavo pagando il prezzo eppure mi ero ripreso in fretta: sarei morto senza l’intervento delle Nere Arti. E in quel momento ero scattante, correvo lesto persino con l’armatura e superavo anche gli adepti più giovani. Apprendevo velocemente dai libri. Mi sentivo un dio, ma era giunto il prezzo da pagare: il mio carattere stava cedendo. E poi apparvero quelle lesioni.» «Che avete fatto?» «Prima tentai di ragionare con il chierico. Gli dissi che non avevo più bisogno di lui. Ma mentre glielo dicevo sentivo di avere bisogno ancora di ciò che offriva. Non riuscivo a controllarmi. Andai avanti una settimana finché la lesione sotto l’ascella non iniziò a spurgare sangue e pus. Sapevo di avere la febbre che potevi cuocermi un uovo sulla fronte, ma io non sentivo dolore o debolezza. Mi guardai allo specchio una sera, in penombra: vidi come il mio teschio, in trasparenza, e colpii la specchiera in preda al panico. Sembravo orribile; avrei spaventato ogni avversario. La cosa mi piaceva da un lato. Ho preso la spada e spaccato tutto nella mia stanza, gridando. Poi… ho guardato la gemma che sul pomo della mia lama. È… mi è cara, diciamo così. Ricordai che la persona da cui la ricevetti, non mi avrebbe voluto vedere così.» «E il Chierico? Era corrotto anch’egli?»
«No, non aveva segni sul suo corpo. Mi disse di pensarci bene e che rinunciare mi avrebbe provocato la morte. Non gli credetti e mi minacciò. Così andai da Ser Bevarond e gli dissi tutto. Bevarond voleva catturarlo così mi disse di mantenere il segreto ancora per un po’. Quel Chierico era un alto prelato; era sospettoso e iniziò a capire che avevo parlato. Bevarond andò da lui per arrestarlo, infine, ma lui si uccise per la vergogna: si diede fuoco bruciando anche i suoi libri e i suoi appunti. Non riuscì a distruggere tutto e rimasero prove sufficienti del fatto che era un Necromante.» «Incredibile! Un Necromante nel tempio!» esclamò Val. «Sì… Per qualche giorno vagai per la città e parlai con altre persone dei bassifondi che avevo conosciuto in… diverse circostanze: venni a sapere che molti usavano piccoli rimedi o anche riti più impegnativi collegati alle Nere Arti. Mi sentii perso perché vedevo in essi la vita scivolare via. Corsi al tempio e promisi di dimenticare tutto: non assunsi più nulla né recitai più quelle strane formule. La sera dopo crollai a terra, vomitai e mi contorsi. Stetti così per quasi due settimane, urlando e strepitando, tra la vita e la morte: per poco non finii al Sanatorio. Bevarond vide i segni della Necromanzia sul corpo; non disse nulla e si limitò a curarmi. Se si fosse saputo che ero contaminato avrebbero dovuto espellermi o peggio. In ato quelli come me venivano purificati col fuoco. Guarii e da quel giorno sto ben lontano dal loro veleno.» «Vi fidate a raccontarmelo?» disse Val sorpreso. «Oh, sono ati tanti anni e inoltre ho confessato la cosa a Ianos dopo qualche tempo. Non ritenne di dovermi punire, mi diede solo un poderoso pugno in faccia e disse una frase: “Non dovevi provarci nemmeno, idiota. Se certe cose ti sono insegnate, è per una ragione”.» «Quindi ci sono già stati dei Necromanti all’interno del clero, come si sospetta ora!» «Vedi, noi li bolliamo come membri di una setta ma sono solo degli egoisti spesso scollegati tra loro. È così che fanno proseliti: sono venuti da me in punto di morte e sono riusciti a salvarmi, dove anche la medicina tradizionale o i Miracoli non erano riusciti. Avrebbero convinto chiunque.» «Ma vi hanno salvato! Non si sarebbe potuto usare le arti necromantiche solo per salvare la vostra vita evitando il resto?»
«È quello che dissi a Ianos. Mi rispose che se inizi a fare qualcosa di corrotto oggi, l’indomani finirai per fare qualcosa di ancora peggiore.» «Credo di avere afferrato, Sergente. Ora devo prepararmi per il viaggio: Ser Ianos ha consigliato di partire nel tardo pomeriggio.» «Se le cose vanno male, se verrai assalito, consegna la lettera e metti in salvo la pelle, hai capito?» insistette Caviled. «Come? Consegnarla? Non capisco, Sergente: Ser Ianos ha detto di non darla a nessuno» disse Val perplesso. «Mi chiedete di portare una scorta e poi di fuggire in caso di pericolo?» «Per favore, fa’ ciò che dico e usa prudenza.» Caviled comprese che il piano di Ianos era disperato, ma era anche una delle poche cose da fare: tuttavia le variabili da tenere in conto erano tante e lui le stava complicando. I pezzi dovevano incastrarsi alla perfezione come in un mosaico perché funzionasse tutto.
* * *
Nella Cattedrale, Gala e Thavion parlavano come facevano ormai tutti i pomeriggi per l’ora del tè. «Gala, siamo in una brutta situazione. Temo per la tua incolumità» disse Thavion. «Allora le voci che ho sentito erano vere!» esclamò Gala. Thavion si appoggiò allo schienale: «dimmi che hai sentito.» «Ho saputo che esistono sospetti sull’Ecclesia Matriana.» «Anche io l’ho udito. Da chi lo hai saputo?» «Da Valen. »
«È triste, ma se i Necromanti si sono infiltrati fino al luogo più sacro come la nostra Cattedrale vanno estirpati ad ogni costo. Gala, l’Esarca Bernet vuole che riferiamo ogni cosa che possa essere utile: vuole fare qualche indagine interna. Il tuo fidanzato ti ha detto nient’altro? È importante. Io ho dei sospetti su chi possano essere i Necromanti qui all’interno del Convento, ma ho bisogno di una mano da te.» La accarezzò: lei chinò il capo, imbarazzata. Stette in silenzio e così Thavion la incalzò: «Ascolta: io mi fido di te, perciò voglio dirtelo. Temo che l’Esarca stesso sappia molto più di quello che vuole lasciare intendere. Non dico che sia implicato, ma non posso escluderlo. Hai visto anche tu che è sempre più nervoso. Il tuo Valen stesso potrebbe essere in pericolo. Che cosa sai, piccola mia?» «In pericolo? Oh, per l’Eterno…» «Che cosa sai?» ripeté Thavion.
Val ò a salutare Corvin portando a mano il suo destriero, carico di un essenziale bagaglio. Trovò l’amico nella cucina di una casa vicino alla Porta Orientale: un piccolo rifugio, modesto per il suo status, che Corvin si era comprato per prendere “una boccata d’aria dagli impegni aristocratici”, come soleva dire. Si stava tamponando una vistosa ferita sul labbro con un fazzoletto, osservandosi con uno specchietto di madreperla. «Ah, capiti a proposito, Val: puoi far niente per questa?» disse all’amico indicando la ferita. «Certo» rispose Val. Estrasse il Cerìse e versò su di una garza un po’ di acqua che portava nella bisaccia. Disse alcune parole in sabano e tampono la ferita. Corvin si lamentò per il bruciore, ma subito dopo stette meglio. «Questi vostri Miracoli sono portentosi!» esclamò Corvin. «Non sono Miracoli: è alcol» disse Val ridendo. «Non scomodiamo la magia per certe cose.»
«E perché hai pregato?» «Perché ti venga un po’ di sale in zucca. A proposito: come te lo sei procurato? Erin ti ha morso durante un focoso interrogatorio?» «Ah ah, divertente. È stato il tuo “commilitone” Galco Marsten III» disse Corvin. «Cosa?! Come?!» trasalì Val. «Sono andato a fare un giro nei miei feudi di Levante questa settimana. Ehm… nei feudi della mia famiglia dovrei dire, anche se quei poderi ormai li amministro io. Ebbene, un siniscalco dei Marsten stava espropriando un bue a uno dei loro mezzadri; suo figlio di diciassette anni è morto in battaglia sulle piane di Gauna, che tu conosci bene. Senza il bue non avrebbero potuto arare quest’anno e immagina come sarebbe finita. Mi sentivo di buonumore e il debito che essi dovevano era poca cosa; così ho detto che avrei pagato io per loro.» «Molto nobile come sempre, anche se ti ho detto spesso che dovresti farti gli affari tuoi.» «Andiamo Val, non fare il cinico: so benissimo che se avessi visto la scena saresti intervenuto anche tu. C’erano anche Galco Marsten III e suo fratello maggiore Galco II, solo che non li avevo visti e io ero da solo. Mi hanno detto di non impicciarmi e sono volati insulti. Il giovane Crociato…» «Non lo è più: ha lasciato il Tempio» lo interruppe Val. «Ex-crociato allora, ha detto che avrebbe ospitato per una settimana le figlie del mezzadro al suo palazzo per sanare il debito. Una di esse ha solo undici anni» disse Corvin schifato. «Sapevo che Marsten era un infame ma non pensavo tanto» commentò Val. «Beh, non ho potuto fermarlo ma ho ancora in tasca una ciocca dei capelli che gli ho strappato. Sfortunatamente erano in due e beh… me le hanno suonate, ma vuoi mettere la soddisfazione... Ho infatti altri diversi lividi per i quali la tua magia andrebbe forse scomodata.» «Ti accompagno dagli Ospitalieri mentre vado a cercare Salaran: devo andare
fuori città e mi servirebbe un po’ di compagnia. Generalmente non si fa pregare per farsi un giretto, in questo periodo di “transizione”, come dice lui.» «Io come vedi non ti posso accompagnare.» «Non preoccuparti, ma ad ogni modo: che ne è stato delle figlie del mezzadro?» «Ho finto di fuggire: quando Galco II è andato col siniscalco a prendere un carro per portare via le figlie, ho… ehm... “tramortito” Galco III, preso il ricordino dalla sua testa e aiutato a fuggire il mezzadro e la sua famiglia. Adesso vivono nelle nostre terre ad ovest: Non gli è dispiaciuto trasferirsi.» Val sorrise. «Non temi che i Marsten si rivolgano al magistrato?» «Che è mio zio.» Val sorrise nuovamente e sorreggendo il suo amico dolorante, s’incamminò verso la Commenda degli Ospitalieri.
Lasciato Corvin si recò da Ran. Non occorse molto a Val per convincerlo: egli era inquieto in quel periodo e amava viaggiare. I due cavalcarono fuori per la campagna di Lenvar, chiazzata di neve ghiacciata, quasi all’imbrunire. Due giorni prima aveva nevicato, giusto un’infarinatura come spesso accadeva d’inverno. Mentre uscivano a cavallo dalla Porta Maggiore, l’occhio di Val cadde su di un patibolo che era stato allestito poco fuori le mura: una calca di persone vi sostava davanti imprecando e maledicendo i dodici condannati che erano in piedi su altrettanti sgabelli, con la corda al collo. Rapidamente due boia iniziarono a rovesciare gli sgabelli facendo ricadere pesantemente le loro vittime. Esse calciarono l’aria emettendo suoni strozzati. A uno si gonfiarono gli occhi: sembrava che dovessero schizzargli fuori dalle orbite da un momento all’altro. A un altro si era spezzato il collo nella caduta e la testa ciondolava con movimenti innaturali. Si spensero uno dopo l’altro, lasciando penzolare la lingua e perdendo bava dalla bocca.
Val si accarezzò brevemente il collo. Certo quelli erano condannati, colpevoli. Lilia diceva spesso che erano pur sempre uomini che morivano uccisi da altri uomini ed era sbagliato. Il giovane Crociato si fermò a pensare che lui ne aveva già uccisi e ne avrebbe massacrati forse molti altri nella sua carriera e che probabilmente, un giorno, sarebbe stato ucciso a sua volta. «È un po’ che non ci vediamo» disse Salaran. «Come ti senti?» «Ieri ho visto per strada la madre di Dagovir. Ho fatto finta di non vederla e ho cambiato vicolo. Non ho il coraggio di salutarla. È come se mi sentissi in colpa, di essere sopravvissuto io e non lui.» «Capisco bene come ti senti» disse Val. «Ma forse hai fatto male. Anzi dovevi salutarla e ricordarle che non l’hai dimenticato.» «Probabilmente hai ragione.» Val e Ran si fermarono a Beivades, dov’era casa di Val. Le sue abitazioni colorate abbracciavano una piccola baia protetta da scogli. Sulla collina rocciosa a ridosso del mare c’era una torre di osservazione che si vedeva bene da casa dei Galron. Appena Milesia vide Salaran gli offrì dei biscotti: per lei Salaran era ancora il bambino che veniva ogni tanto a fare un tuffo in mare insieme a Val e Corvin, quando non avevano nemmeno vent’anni. Era stato Val a dire a Milesia di rifugiarsi con Lilia fuori dalle mura, dati i tumulti che in quel periodo avvenivano in città. Beivades era fredda e ventosa d’inverno quanto era calda e accogliente d’estate. Il torrione che la sovrastava, difeso dai Balestrieri, dava un po’ di sicurezza in più. Lì non c’erano famiglie nobiliari a contendersi il potere: solo pescatori e qualche mercante locale. Era curioso vedere qualche chiazza di neve sui tetti di quel borgo marinaro: era come lo zucchero a velo su una bella torta.
Ran andò a sistemare un ferro che il cavallo aveva perso: lui e Val non volevano andare dal maniscalco perché preferivano non dare troppo nell’occhio. Val invece scese in cantina per prendere qualche salame da portare con sé per il viaggio. Quando aprì la porta, qualcosa cadde all’interno facendo fragore. Val vide due ombre buttarsi a terra e sguainò la spada. La sua lama riluceva nella penombra.
Avanzò. Gli stivali picchiettavano sul legno con tonfi sordi. Non aveva bisogno di chiedere: c’era qualcuno. Sicari, forse dei Necromanti. O forse un banale ladro. Un gatto? Difficilmente avrebbe fatto tutto quel chiasso. Sentì un fruscio alle sue spalle e alzò la lama. Un braccio magro si levò tentando di parare il colpo. Un braccio che Val conosceva bene! «Aiuto!» gridò una voce femminile! «Lilia?!» esclamò Val. Lilia stava in piedi col braccio levato. Era terrorizzata. Val rinfoderò subito la spada. «Mi hai fatto prendere un…» fece per dire Val ma poi la vide. Lilia portava solo le brache e una specie di sottoveste che le cadeva impietosa giù scoprendo uno dei suoi seni acerbi. Lei si ricompose vergognandosi e fece due i indietro. «Che ci fai qui? Fa un freddo cane oltretutto!» disse Val sospettoso. «Niente… prendevo delle cose, per la mamma.» Era una pessima bugiarda, lo era sempre stata. «Chi c’è con te?» disse Val. E non riuscì a trattenere un tono degno del più grande Inquisitore. «Nessuno. Torniamo su!» «Perché stai con la schiena appoggiata a quel barile? Chi c’è con te!» ribadì Val. Una lacrima rigò la guancia di Lilia, divenne tiepida e poi gelida al freddo dell’inverno. «Forza non farla lunga: chi è? Il figlio del locandiere? Forza, fallo uscire, non dirò nulla alla mamma» disse Val cercando un tono più accomodante. «Per favore, Valen torna su. Io adesso mi rivesto e ti raggiungo» ribadì la sorella piangendo.
Val si impietosì. Che diavolo si aspettava? Sua sorella era carina ed era una giovane donna ormai. Anche lui e Gala sgattaiolavano spesso in cantine e vecchie cripte per darsi quei baci rubati, segreti; per toccarsi, sempre con la paura che qualcuno li vedesse. A Val veniva comodo che Gala lo assecondasse in quello: perché avrebbe dovuto essere così duro con la sorella? E poi era contento di vedere che a Lilia interessavano i ragazzi, contrariamente a quello che diceva sempre lei. Però le avrebbe fatto un bel discorso: “vergine fino al matrimonio e non si discute!”, aveva già le parole pronte. Beh, lui e Gala vergini non erano più ma… Insomma sua sorella sarebbe dovuta arrivare all’altare “integra”. Era impossibile capire se un maschio avesse “consumato” prima delle nozze ma molto facile capirlo delle femmine e Lilia doveva saperlo e non essere così sprovveduta. Perché lui e Gala si sarebbero sicuramente sposati mentre invece Lilia era troppo giovane per fare piani del genere e non doveva “guastare la sua purezza” anzitempo! Lui l’avrebbe educata in tal senso. «Coraggio, su non è la fine del mondo. Adesso fammi vedere il tuo principe azzurro così lo rimandiamo a casa con le mutande indosso.» E detto questo tentò di oltreare il barile. «No ti prego! Val ti prego, ti prego, ti scongiuro!» Lilia piangeva singhiozzando. «Torna su e io tra un minuto sono su da te, ti prego fai come ti dico!» Val non ci arrivava. Era stato accomodante e fraterno: perché lei si vergognava tanto? «Forza, non fare i capricci!» Val scostò Lilia di peso. E ci mise un secondo a capire quando vide quei capelli lunghi e bruni, quel viso a forma di luna, gli incisivi un po’ sporgenti ma gli occhi azzurri come il mare. Con una mano, quella giovane creatura tentava di tenere su le brache ed era a torso nudo; con l’altra tentava di coprirsi i seni, decisamente acerbi come quelli di Lilia. Non piangeva ma appena visto Val, fissò il pavimento come se su di esso ci fosse la cosa più interessante del mondo. Val si voltò verso Lilia. Lei scoppiò in un singhiozzo così forte che Val temette che da sopra la madre l’avesse sentita. Poi realizzò. “A me non interessano i ragazzi”: Lilia gliel’aveva suggerito così
tante volte che ora si sentiva uno stupido. Lilia continuò a singhiozzare, la ragazza bruna si raggomitolò tenendo le ginocchia al petto. Val stava lì in mezzo.
Fece rivestire la ragazza che scappò via senza neanche salutare, nemmeno Lilia. Poi andò su in casa a tranquillizzare la madre e poi tornò dalla sorella. Le portò una coperta e accese un lumino a olio. Illuminata dalla luce rossa, lui aspettò. Non fece la domanda, ma Lilia rispose lo stesso. «Successe in collegio. Io non ne voglio parlare. Lì ho capito che a me i ragazzi non mi piacciono. Tanto è inutile che ti racconti, è così e basta. La mamma non deve saperlo o morirebbe.» «Concordo su questo: non glielo diremo, anche se so che alla fine ti capirebbe. Ma… lo sai che è un crimine…» disse Val. «È un crimine amare qualcuno?» disse Lilia guardandolo con gli occhi rossi dal pianto. «Detta così è molto poetica» rispose il fratello sorridendo. Poi si fece serio: «È un crimine per l’Ecclesia e per lo Stato. Non per me. Tu non devi dirlo a nessuno, devi tenerlo nascosto. Lo sai cosa ti farebbero se…» «Lo so» rispose Lilia tirando su col naso. Val allora prese un sospiro e disse: «Senti: ma tu sei proprio sicura di essere…» «Mi fai sentire una malata! Sei come gli altri» disse Lilia distogliendo lo sguardo. «Cerco una via di uscita per non farti ricevere le frustate, la gogna e le torture!» ribadì Val. «Comunque ho capito. Lilia, non devi incontrarti con quella ragazza: non mi pare il tipo da essere molto… affidabile. Vi vedete da molto? Non ti ha nemmeno salutato…»
«No. Sono stata io a “tentarla”. All’inizio con una scusa: “ti pettino i capelli”. Poi sai, qualche carezza e… L’ho imparato in collegio come fare. Non mi vedrà mai più, si è troppo spaventata. Non dirà nulla e mi eviterà ora, quando mi incontra. Sarò al sicuro. Tu vai pure ora. Io non voglio che tu parta, voglio che resti qui. Sapessi quanto mi sento sola!» Val la vide piangere di nuovo e la abbracciò.
Il giovane si fermò sugli scogli per un attimo a fissare i luoghi della sua infanzia, anche se faceva un freddo polare. Si sentiva spaurito, pur non dandolo a vedere. All’inizio della sua carriera di Crociato, senza un posto nel mondo, si sentiva schiacciato dagli eventi e impotente. Ma ce l’avrebbe fatta. Se lo sentiva. Certo, la confessione di Lilia complicava la sua vita ma… Ce l’avrebbe fatta.
Lui e Ran ripartirono, riempiendo le sacche di biscotti e carne secca. Dopo mezza giornata di viaggio, Salaran si accorse che erano seguiti a distanza da una figura a cavallo. «Che facciamo? Pensi che segua noi?» disse a Val. «Proviamo a rallentare e vediamo se ci raggiunge» rispose il Crociato. L’idea di Val era buona, ma il cavaliere non guadagnò un singolo centimetro su di loro. La cosa era molto sospetta. I due provarono addirittura a fermarsi e il cavaliere prese una deviazione, ma riapparve un’ora dopo, quando Ran e Val erano ripartiti. I due ragazzi, in vicinanza della cittadina di Sei Serte, affrettarono il o al galoppo distanziando nettamente l’inseguitore; pur essendo ancora possibile viaggiare decisero di fermarsi nel borgo in una locanda, sperando che lo scomodo ospite che li seguiva li oltreasse. «Che devi fare a Tila?» disse Salaran. «Devo portare una lettera al Tempio» rispose Val.
«Ed è una lettera importante?» «Temo di sì. E quella persona non fa che confermarmelo.» «Avresti anche potuto dirmelo» disse Salaran con disappunto. «Scusami Ran, ma avevo ordine di non farlo.» «Lasciamo stare. Non ci preoccupa più per ora, ma domattina andremo via presto.»
Val e Ran dormirono vestiti, in modo da poter partire subito, armi in pugno e si organizzarono in turni di guardia. All’alba, cavalcarono velocemente lontano, che il sole nemmeno era sorto. Tutti i campi erano ingrigiti dalla brina ghiacciata e la nebbia gelida occupava le montagne che partivano quasi dal mare. «Credo proprio che l’abbiamo seminato» commentò Val. Ormai erano a metà mattinata. «Dovrebbe esserci una stazione di posta più avanti» disse Salaran «Mi sa che uno dei ferri di questa bestiaccia è andato nella corsa.» «E fa un freddo micidiale» annuì Val. «Oltre il ponte, a un paio di miglia direi che potremmo fermarci: c’è un maniscalco, lo ricordo quando ci ai anni fa.» Giunsero al tramonto al ponte sul torrente Merol, ai cui lati si estendeva una rigogliosa foresta. Poco oltre il ponte videro un uomo chino su di un cavallo steso a terra immobile. Val fermò il suo destriero. «Qualcuno con dei problemi» disse il Crociato. «Così pare. Tiriamo dritto: siamo di fretta, non c'è tempo di fare gli altruisti.» «Non è quello il fatto: quel tizio ci ha visto e non ha nemmeno fatto un cenno. Ci osserva.» «eremo. Forza al trotto!» disse Salaran colpendo con gli speroni la sua cavalcatura.
Avvicinandosi, notarono un uomo sulla quarantina vestito in fini abiti da mercante o da borghese: ma era insolitamente abbronzato in volto e aveva capelli e barba decisamente in disordine. Val gli notò un poco consono orecchino che pendeva dal lobo destro e s’insospettì decisamente. Appena Val e Ran furono a pochi metri ed ebbero varcato il ponte, egli si alzò e li salutò con un gesto. Val replicò prendendo il bordo del cappuccio davanti alla fronte tra due dita, ma l'uomo li fermò frapponendosi ai loro cavalli. Salaran ò quasi urtandolo ma Val fu fermato e il suo cavallo puntò le zampe anteriori nitrendo. «Signori, vi chiedo grazia. Il mio palafreno è spirato e non ho mezzo per proseguire» disse l’uomo. «Siete fortunato, c'è una stazione di posta a poche miglia di qui. Vi giungeremo e pregheremo che qualcuno vi venga a prendere. E ora scusateci ma i nostri affari ci impongono la fretta» rispose educato ma deciso Salaran. «Quanta fretta. Chissà cosa avete di così urgente da trasportare allora» disse l’uomo ghignando.
E detto questo, altri due uomini sbucarono da sotto il ponte e trascinarono un tronco pieno di rami secchi per ostruirlo. Altri due affiancarono il loro capo e infine tre cavalieri ammantati, con polsiere di metallo che sbucavano dalle vesti, arrivarono lentamente dal limitare del bosco. I loro volti incappucciati ispiravano paura, la loro forma era imponente, i loro cavalli splendidi. Uno di loro, vestito di grigio, con grande calma arrivò fino a due metri da Val e Ran che tentavano di calmare i loro cavalli. Si levò il cappuccio rivelando un elmo a celata che lasciava intravedere solo i suoi occhi di ghiaccio. «Non sono solito parlare con i messaggeri, per cui sarò breve. Dateci ciò che state trasportando e non mentite: so di che si tratta. Se vi opporrete o negherete, terminerete oggi la vostra esistenza. Se ci darete ciò che vogliamo, potrete proseguire pure o andare negli Inferi, per ciò che ci riguarda.» Val guardò il suo amico in faccia. Gli bastò uno sguardo per capire che Ran non era per nulla contento di morire per una disputa che non lo riguardava. Necromanti, Crociati, Maghi: a lui non importava nulla: era solo politica. Val si
sentì in colpa: l’aveva trascinato in un agguato. Ma l’amico lo stupì: «Vi comportate stranamente per un cavaliere. Siete in tre più questi altri bifolchi, e noi siamo in minoranza: lasciate da parte questi gaglioffi e risolveremo la questione tra noi» disse il Kard. Val fece fatica a trattenere un sorriso e guardò anch'egli con aria di sfida il cavaliere. Il quale senza lasciare trasparire emozione, disse: «Non ho tempo per questo. Prendeteli!»
Gli sgherri balzarono contro i cavalli e Ran fece impennare il suo, sguainando la spada lunga che portava al fianco. Val non poté arrivare al suo scudo che era legato al bagaglio, perciò per difendersi sfilò il piede dalla staffa e sferrò un calcio a uno dei suoi assalitori. Sguainò e roteò la sua spada, minaccioso; lui e Ran non potevano tornare sul ponte, che era ostruito dal tronco, né andare avanti e are indenni tra i cavalieri. E nemmeno cavalcare in mezzo alla foresta ai lati della strada: gli alberi erano piuttosto bassi e sarebbero stati disarcionati. Occorreva aprirsi un varco con la forza tra i contendenti. Salaran trafisse uno degli sgherri senza pietà tra collo e spalla ed egli si accasciò scivolando sul bordo del torrente. Val colpì alla testa un altro degli uomini che provenivano dal ponte: lo vide cadere seduto come un sacco di patate e poi ribaltarsi al suolo con gli occhi rovesciati all’indietro. I due giovani si serrarono con i loro destrieri. Un terzo sgherro fu colpito da Ran, che gli mozzò due dita della mano e lo lasciò fuggire via in preda al dolore. L’ultimo colpì lo schiniere di Val con un grosso randello chiodato: Val gli squarciò il volto ed egli barcollò via assieme all’ultimo rimasto. Così i due amici si erano liberati facilmente dei tirapiedi. Allora due dei tre cavalieri ammantati scostarono via i mantelli e rivelarono armature finemente ornate da motivi d'argento. Uno portava vesti nere ed un elmo chiuso del medesimo colore che impediva di vederlo in volto; quello vestito di grigio che aveva parlato invece, portava spallacci con piccoli spunzoni. Entrambi portavano cotte di maglia brunite come la pece. Il terzo cavaliere fece per farsi avanti, ma il Grigio gli fece cenno di restare in disparte. Alzò la celata e squadrò Val e Ran con un mezzo sorriso: ciò che colpì molto Val era il viso splendido e fiero. Qualunque fanciulla si sarebbe innamorata di colpo di quell’uomo così maturo e dall’aspetto tanto virile. Non pareva possibile che
potesse appartenere a un uomo malvagio: un ciuffo di capelli neri lisci sporgeva dall’elmo. Gli occhi erano scuri come pece e avevano una curiosa forma sottile e allungata come una mandorla; la sua pelle era chiara, color pesca. «Il tuo nome! Qual è il tuo nome?» urlò Salaran carico d'odio. «Rivelami il tuo, per la lapide» rispose il Grigio. Abbassò nuovamente la celata e spronò il suo cavallo. Ran fece lo stesso e i due incrociarono le spade in corsa con un fragore tremendo. Ma l'avversario di Salaran era un combattente sublime e al secondo aggio, mentre il Grigio oltreava il Kard, abbassò il busto schivando il colpo e rapido vibrò una precisa stoccata al cavallo di Ran. Il Kard fu disarcionato mentre la bestia fuggiva nitrendo dal dolore. Anche Val spronò il suo destriero ma il cavaliere vestito di nero aveva una balestra. Scoccò un dardo e trafisse alla gola il cavallo di Val; il Crociato rovinò al suolo e si fece male ad una gamba. Il Grigio girò il suo destriero e poi lo fece impennare: la sua spada ricurva rifulse al sole ed egli emise un grido di rabbia. Caricò nuovamente Ran, il quale era frastornato dalla caduta, ma era di nuovo in piedi. Salaran parò il primo colpo ma il cavaliere fece scalciare la bestia: gli zoccoli lo colpirono duramente. Per fortuna Ran portava l'armatura o si sarebbe rotto qualche osso. Anche il Nero caricò Val, il quale si gettò quasi contro la ringhiera del ponte per evitare di essere travolto; mentre il cavallo lo oltreava riuscì a colpire una gamba del Nero; nel colpirlo però, la lama scivolò e ferì di striscio il cavallo che impennò disarcionando il suo fantino. Una volta liberatosi del suo cavaliere, il cavallo fu come preso da un’insana frenesia. Saltò il tronco incespicando e cadendo. Disperato, si allontano via come se stesse scappando da un drago: un curioso comportamento per un palafreno da guerra, in genere addestrato alla frenesia della battaglia. Il Nero sibilò guardando il Crociato mentre si rialzava; dall'elmo uscì una voce orrenda che non sembrava umana, né Val capì cosa dicesse. Avanzò verso di lui brandendo la spada con due mani e vibrò un violentissimo fendente che il Crociato riuscì a malapena a parare. I due si scambiarono altri colpi che Val con grande difficoltà riuscì a non far portare a segno, finendo quasi in ginocchio travolto dalla furia del suo avversario. Non riuscì a contrattaccare se non un paio di volte e senza stoccate che potessero impensierire il Nero. Frappose tra lui e il suo assalitore il cadavere del suo cavallo per evitare gli ultimi assalti, dato che il
Nero non era molto agile. A Salaran non andava meglio: il suo contendente era sceso da cavallo con eleganza. Aveva ferito lievemente il Kard e intimò al giovane di desistere. «Questa faccenda non vi riguarda! Consegnate la lettera e fatevi da parte, ostinati idioti! Volete crepare come bestie?» disse il Grigio. Non ricevendo risposta, attaccò Ran senza pietà. Il Kard si difese ma non aveva chance contro il suo assalitore. Ran alzò la spada e tentò di colpirlo ma fu ricacciato a terra. Il cavaliere lo colpì sotto il ginocchio spaccando un pezzo degli schinieri. Salaran urlò. Per un attimo a Val sembrò che il Grigio non volesse uccidere Ran, ma non ebbe tempo di focalizzare i pensieri. Era riuscito a recuperare il suo prezioso scudo dal cavallo morto: corse incontro all’amico respingendo il Nero con un colpo di scudo e quando fu al cospetto del Grigio, il cavaliere tentò di colpirlo. Val schivò il colpo e coprì Ran, mentre il Kard si rialzava. Allora i due giovani urlarono e corsero in avanti, Ran contro il Nero e Val contro il Grigio. Vibrarono colpi con tutta la loro forza, ma furono ambedue feriti e caddero in ginocchio, vinti. La superiorità dei loro avversari era netta. Il sole era sceso oltre le montagne. Era freddo.
* * *
Se per Val e Ran le cose si stavano complicando, per Corvin sembravano decollare: egli stava lentamente facendo breccia nel cuore di Erin. Corvin era molto più paziente di Val con le donne e con Erin lo era stato parecchio. La giovane aveva avuto grande successo nelle indagini: era riuscita ad assicurare alla giustizia un importante personaggio che faceva uso di arti necromantiche e che aveva anche compiuto sacrifici umani. La condanna a morte per lui era certa. Questo successo l’aveva resa sicura di sé e felice, e molto più sensibile alle lusinghe. Corvin aveva chiesto al padre di Erin il permesso di corteggiarla ed era stato approvato. D’altra parte era il figlio del precedente Doge nonché attualmente
Console dei Placiti: un partito più che gradito. Così Corvin invitò la giovane a cena in un palazzetto sulle alture del Castelletto, la collina più alta di Lenvar, dove si poteva dominare completamente il golfo. Lei accettò fingendo qualche resistenza. Dopo avere consumato il pasto, i due eggiarono nonostante il freddo fino alle mura Orientali, dove il tramonto dipingeva tutto di rosso e la luna giungeva per farsi bella, riflettendosi sull’acqua. «La conosci la leggenda della luna piena?» chiese Corvin. «No, affatto» disse Erin. «È una fiaba che raccontavano i popolani dei Feudi Orientali. Ma è arrivata anche qui.» «Mio padre non mi leggeva fiabe da piccola: mi raccontava storie di battaglie. È stato lui in fondo a mettermi in testa di diventare un’Alabardiera, anche se non voleva in principio. L’ho sempre visto con la tunica blu e la spada sempre lucente e ho desiderato di essere come lui. Di cosa parla questa fiaba, comunque?» «Beh, durante la luna piena, essa viene qua a specchiarsi, aspettando che il sole sorga. A volte i due si incontrano di giorno ed il Sole le chiede la mano. Così lei viene qua la notte e si fa bella e presa dall’attesa di lui si mette a camminare nel cielo. È ansiosa di rivederlo e poco prima che la notte finisca, va a cercarlo. Ed è allora che il sole fa capolino dietro la punta del monte e non la trova più. Così i due si inseguono fino a che, non si incontrano di nuovo di giorno e ricominciano!» Corvin la guardò con dolcezza e lei arrossì lievemente. «Non l’avevo mai sentita!» disse Erin ridendo. Corvin le prese la mano. Lei accettò e la strinse. I due si sorrisero e continuarono a eggiare. Ma erano attesi. Uno scuro delenar girò un angolo mentre i due avano, sfilò il suo splendido pugnale ricurvo e acquattato come un felino strisciò dietro la coppia. Li avrebbe uccisi entrambi. Sollevò il braccio. Poco avanti nella via, c’era un altro individuo ammantato accompagnato da una
figura più minuta, ambedue vestiti di verde e rosso autunnale. L’uomo urlò qualcosa a Corvin e indicò dietro di lui: il giovane si voltò e vide Shalamor calare il suo pugnale inesorabile. Corvin gli parò il braccio e finì a terra, gridando ad Erin, che portava uno scomodo vestito elegante, di fuggire. Shalamor tirò un pugno nello stomaco a Corvin e lo buttò a terra, balzò avanti per uccidere la ragazza ma fu colpito da una freccia scagliata dalla figura minuta. La freccia gli colpì il corpetto di cuoio rinforzato d’adamantina: rimbalzò e non lo ferì, ma lo fece indietreggiare. Sbuffò del fiato che si condensò subito al freddo. Con un singolo sguardo nella notte gelida capì chi stava affrontando e tra i denti mormorò parole di ingiuria nella sua lingua. L’assassino tentò la fuga ma fu incalzato dall’uomo con il cappuccio che gli balzò addosso. I due lottarono e l’uomo perse il suo copricapo: era Kenarnon il principe silvano e con sua sorella Eredwan era riuscito a salvare Corvin ed Erin. Kenarnon colpì il delenar con un pugno, poi sguainò la spada ma Shalamor non si arrese: sfilò una piccola lama dal suo stivale e la conficcò nell’avambraccio del silvano. Per fortuna il bracciale del principe attutì il colpo. Shalamor lo spinse via, si voltò e iniziò a correre a perdifiato per il vicolo. Kenarnon gridò ad Eredwan di badare ad Erin e assieme a Corvin balzò all’inseguimento nella città al tramonto dove le botteghe stavano chiudendo. Corvin subito andò in testa: era leggero, magro ed allenato e riusciva ad andare alla stessa velocità di Shalamor, mentre Kenarnon li seguiva con più distacco tenendosi l’avambraccio ferito. Shalamor correva come un forsennato: spingeva per terra i anti, saltava sacchi di farina e i barili come un cavallo fa con gli ostacoli, ma Corvin non mollava. Il selciato era sconnesso, ma i tre continuavano. Corvin gridava alla gente di fermarlo ma nessuno della popolazione aveva il coraggio di intervenire e di Alabardieri nemmeno l’ombra. Altre due figure ammantate bloccarono il vicolo dove stava correndo l’assassino: una di loro tese un arco ma non poté tirare perché avrebbe rischiato di colpire Kenarnon o Corvin che sopraggiungevano dietro Shalamor. Così il delenar deviò di colpo lungo un vicolo laterale. Giunse in una piazza dove c’erano un pozzo e diversi lavatoi: balzò dentro ad una vasca vuota ed attese in una posa innaturale, orribile come la statua di una gargolla delle cattedrali. Le sue gambe e le braccia
erano tese, pronte a scattare. Corvin girò l’angolo e non lo vide. Si arrestò e si guardò attorno, ansante: l’assassino balzò lesto fuori dal suo nascondiglio e gli si lanciò contro con il pugnale levato. Saltò in alto come un leopardo sulla preda. La sua forma era aggraziata, il gesto composto; era splendido. La lama calò: il nobile si tuffò di lato e riuscì a schivarlo e così estrasse anch’egli un pugnale mentre le lavandaie si dileguavano schiamazzando dalla piazza. Era molto tempo che in città v’erano tumulti tra opposte fazioni politiche e i cittadini osservavano annoiati quello che pensavano fosse l’ennesimo litigio tra partigiani. Anzi, alcuni si appoggiavano agli stipiti delle porte per vedere chi avrebbe vinto e chiamavano i loro parenti ad assistere dalle finestre. Shalamor tentò di colpire ancora con due fendenti ma Corvin lo disarmò con un calcio. Allora il delenar fece un tuffo in avanti e bloccò il polso del giovane nobile, mentre gli sferrò un pugno sullo zigomo con l’altra mano. Corvin incespicò e cadde in ginocchio, perdendo anch’egli l’arma; Shalamor recuperò la sua, si alzò ma Kenarnon sopraggiunse con la spada levata e urlando lo incalzò. Allora l’assassino schizzò via per evitare il suo colpo che calò con un sibilo. Corvin nonostante fosse intontito e sanguinante dal sopracciglio, si gettò ancora all’inseguimento.
* * *
Esausti, feriti e crollati a terra, Val e Salaran si strinsero vicini e indietreggiarono carponi con le spade levate a difendersi. Fu allora che udirono il suono degli zoccoli di un cavallo lanciato al galoppo: lo videro splendido saltare il tronco che ostruiva il ponte e oltrearli. I cavalieri nemici si fermarono. «Avete proprio un bel coraggio ad affrontare due ragazzi, assalendoli con l'inganno» disse il cavaliere appena arrivato e Val non ebbe dubbi quando udì la sua voce. «Non immaginavo di rivederti, Caviled» disse il Grigio, alzando la celata. «Dove ti rechi, in genere, c'è sempre Ser Ianos che ti comanda. Dov’è ora? Non rinuncia
più alla sua scrivania? Vedo che ancora una volta manda altri al posto suo a sporcarsi le mani. Stavolta ha ato il limite: spedire questi due ragazzini al massacro!» «Cromlan, è importante che mi ascolti, ora!» disse Caviled calmando il suo cavallo. Esso si era innervosito parecchio, come se avesse fiutato nell’aria una presenza malvagia. Il Nero si fece avanti. Il Cavaliere Grigio, il cui nome era dunque Cromlan, gli fece segno di fermarsi. Il terzo cavaliere nel frattempo attendeva in disparte e appariva visibilmente sofferente. Non portava elmo e il suo viso era pallido, smunto e in qualche modo malato. «L’ultimo desiderio di un condannato si esaudisce sempre. Parla Caviled» disse Cromlan «Abbandonate il campo. Prenditi pure la missiva che questi due ragazzi stavano trasportando e portala a chi ti pare. Lasciali in vita: non c’entrano.» «Hanno rifiutato di consegnarla. Dovevano sapere che ogni scelta ha delle conseguenze. Gli ho proposto di darmela con le buone. Hanno rifiutato: ora devono pagare.» «Non è colpa loro e lo sai! Prenditela pure questa dannata lettera, noi ce ne andremo!» ribadì Caviled. «Se me la offri così, allora è senza valore. Conosco quella volpe di Ianos: questo non era che un diversivo, dunque. Molto bene, andrò fino in fondo. Non m’interessano più le colpe, di chi sono o non sono. Anche io non ero colpevole eppure ... Ora pagheranno anche loro due: hanno deciso di servire il tuo sciocco Ordine e devono rendersi conto che non stiamo giocando!» E così dicendo si mise in guardia, pronto a colpire. Rivolse lo sguardo ai suoi due commilitoni e disse: «Voi fermi. Me ne occupo io.» Caviled si lanciò avanti al galoppo con la spada levata ma Cromlan fu lesto: ò la mano sulla lama della sua arma, sfiorandola appena, bisbigliando qualche parola. Il metallo divenne incandescente come se fosse appena temprato. Caviled tentò di colpirlo dall’alto della sella ma la lama di Cromlan si abbatté violentemente sul suo scudo, distruggendolo: scintille di fuoco e schegge incandescenti si levarono mentre si frantumava e il Sergente fu disarcionato. La spada del Grigio tornò del colore della sua tunica.
I due contendenti, ormai appiedati, ingaggiarono un furibondo duello mentre Val leniva con i Miracoli le sue ferite e quelle di Ran. Caviled e Cromlan erano bellissimi: le loro spade danzavano luccicando, unica fonte di luce all’imbrunire di quella giornata d’inizio inverno. I due sembravano conoscersi anche nel combattimento: ogni assalto dell’uno era parato con dovizia dall’altro e ogni contrattacco subiva la medesima sorte. Cromlan aveva un sorriso beffardo, mentre Caviled era concentrato. I loro piedi si muovevano lesti ed i movimenti erano precisi e aggraziati. Le stoccate si rincorrevano così rapide che sembravano concordate anzitempo; “hanno di certo imparato a combattere assieme”, pensò Val. Il Nero nel frattempo si fece avanti: Caviled era di spalle e il Nero alzò la lama pronto per decapitarlo. Val gridò e Caviled si voltò in tempo: colpì con uno sgambetto Cromlan e lo allontanò per quel tanto che gli bastava per difendersi dalla carica del Nero. Prese il Cerìse e disse con una fermezza incrollabile in sabano:“Nox in alba semper finit”. Il Solecroce rifulse di luce e il Nero inorridì Il Nero sembrava vinto e incapace di difendersi; alzò la lama mentre con l’altro braccio si copriva il volto, come fosse stato accecato. Caviled lo disarmò: lo trafisse senza pietà per due volte e lo lasciò crollare al suolo. Poi urlò altre parole in sabano: «Domine, animam nigram tibi commendo!» Scintille sembrarono emanarsi dalla sua lama che piantò con violenza nel corpo del Nero, finendolo: egli emise un grido disumano, come il suono di centinaia di corvi presi dal dolore. Tutti i suoi muscoli si contrassero e rimase fermo, morto. Cromlan aveva osservato quasi divertito e non aveva minimamente impedito la morte del suo compagno. Anzi applaudì sarcasticamente quando Caviled estrasse la lama dal cadavere. Sembrava esausto, più di quanto avrebbe dovuto: evidentemente i Miracoli che aveva usato erano molto potenti e l’avevano spossato. Fu allora che il cavaliere dalla pelle pallida, che era rimasto in disparte, si decise ad intervenire. Smontò di sella e corse in avanti con la spada in pugno, ma fu affrontato da Salaran. Val invece corse verso il Sergente. Il cavaliere pallido in volto alzò la lama ma incontrò la furia di Ran che colpì la sua spada con veemenza, quasi disarmandolo.
Cromlan vide la scena e spalancò gli occhi molto preoccupato. Non gli era importato nulla del Nero massacrato da Caviled ma evidentemente la sorte del terzo cavaliere gli stava a cuore. Val gli fu addosso, ma parò il colpo. E dietro di lui sopraggiunse Caviled che tentò anch’egli di colpirlo. Cromlan parò anche questa stoccata e fece un elegante balzo all’indietro. Il pallido stava soccombendo contro i colpi di Ran. Così Cromlan, respinto l’ultimo fendente di Val, prese una bottiglietta nera: minacciò di lanciarne il contenuto addosso ai due Crociati ed essi indietreggiarono temendo si trattasse di chissà quale diavoleria. Ottenuto il suo scopo, disse: «…sed etiam dies in nocte finit.» Rovesciò la bottiglietta velocemente sul terreno: il liquido al contatto col terreno emise una maleodorante nube violacea e la terra sotto i piedi di Val e Caviled in pochi istanti divenne un pantano nerastro. Essi incespicarono affondando quasi fino ai polpacci, mentre il loro avversario poté correre ad aiutare il pallido. Salaran, ancora indebolito dal precedente scontro, si mise sulla difensiva e Cromlan lo tenne a distanza con la punta della lama finché il suo giovane amico, ferito lievemente, non montò in sella e si allontanò. Salaran indietreggiò e corse verso i suoi amici cercando di aiutarli con successo a levarsi dalla pozza fangosa, dato che affondavano sempre più. Cromlan, appurata ormai l’inferiorità numerica e compresa la poca utilità della lettera da recuperare, prese il suo cavallo e corse via in un gran polverone assieme all’amico.
* * *
Shalamor iniziava a guadagnare distanza dagli inseguitori, ambedue feriti. Il delenar saltò con grazia un carretto ando in tuffo sopra il pianale senza nemmeno toccarlo. Neanche un felino avrebbe compiuto un gesto tanto preciso. Corvin aggirò l’ostacolo e perse ulteriore tempo. Shalamor accelerò a perdifiato mentre colpiva tutto ciò che poteva cadere ed ostacolare i suoi inseguitori, incluse le persone. Kenarnon urtò un ante che uscì d’improvviso da una porta e fu rallentato. Shalamor fece un ultimo scatto e poi prese una deviazione brusca.
Corvin arrivò dopo qualche istante: girò a destra poiché gli parve di vedere il lembo del mantello di Shalamor sfuggire alla vista dietro un angolo ma si trovò in un vicolo cieco; eppure era sicuro che il delenar avesse preso quella direzione. Fissò il suolo: c’era ancora un po’ di neve nel vicolo e alcune impronte lasciavano pochi dubbi. Intuì la scelta dell’assassino e cercò un appiglio. Si arrampicò usando una vecchia grondaia di legno e arrivò fin sopra il tetto di una casa; vide il delenar saltellare da una lastra di ardesia all’altra, allontanandosi. Così Corvin raccolse il coraggio e si mise a seguirlo cercando di non perdere l’equilibrio sui tetti. Shalamor lo scorse e sorrise malvagiamente. Rallentò, quasi come se si volesse fare raggiungere. I tetti di Lenvar erano il suo palcoscenico ed egli era il primo ballerino di quest’opera: un dramma o una tragedia; in ogni caso il suo preferito. Era insolitamente stimolato da Corvin. Generalmente tutte le sue vittime erano patetiche: imploravano pietà o gli offrivano denaro. Quando erano potenti o combattive, si eccitava e iniziava a giocare. Da sotto, Kenarnon vedeva i due ora sì e ora no e faceva del suo meglio per seguirli. Li perdeva di vista anche per minuti interi. Il suo udito di lyblis lo aiutava nel sentire lo scalpicciò dei loro i sulle ardesie. Guardò Kandui: la giovane lo capì al volo. Kenarnon gli disse qualcosa in lingua silvana. Fece un bel respiro e si arrampicò aggrappandosi a un davanzale. Era abituata ai rami della Selva Nera ed era agile e veloce a salire. Sul suo viso però c’era un’espressione di preoccupazione: non amava la violenza. L’arco a tracolla la impacciava e doveva stare attenta a non perdere le frecce dalla faretra mentre si arrampicava. Corvin era quasi a tiro dell’assassino: sguainò il suo pugnale e Shalamor fece altrettanto, impugnandolo al contrario secondo il costume delenar. I due sostavano sul bordo di un tetto: sotto di loro uno strapiombo di molti metri. Il sole se n’era quasi andato e la luna era alta: presto sarebbe stato così buio da rendere tutto molto più complicato. Il delenar si fece avanti e vibrò un fendente senza troppa cura. Un assaggio, diciamo. Corvin, che da bravo nobile seguiva lezioni di scherma praticamente da quando era in grado di camminare, non ne fu impensierito e lo schivò. Accortosi di non avere a che fare con uno sprovveduto, il delenar sorrise alla sfida che aveva innanzi. Vibrò altri colpi: Corvin li parò o li schivò tentando contrattacchi a sua volta, quando l’elfo fece un balzo e saltò da un tetto all’altro; fece un segno di saluto e allungò la distanza dal suo inseguitore. Corvin guardò di sotto: se non avesse saltato anch’egli sull’altro
tetto, l’assassino sarebbe fuggito. Perciò inghiottì la saliva e spiccò anch’egli il volo. Atterrò, scivolando quasi, ma fu salvo. Allora Shalamor gli si fece di nuovo incontro. «Chi ti manda?!» gli urlò Corvin. Ricevette solo un sorriso malefico come risposta. Shalamor si voltò e saltò nuovamente su un altro tetto. Corvin lo seguì di nuovo. Allora l’assassino corse contro il nobile che si era contuso nel balzo e si stava rialzando. Levò l’arma, ma si fermò come se avesse percepito qualcosa: alzò il lembo del suo mantello e disse: “Ckòl!”. Il tessuto s’irrigidì per poco più di due secondi e divenne come metallo: su di esso rimbalzò una freccia che volteggiò via nella notte di Lenvar. Il mantello riprese subito la consistenza della seta. Shalamor guardò Kandui, le sue belle labbra serrate in una silenziosa imprecazione: il colpo sarebbe stato mortale. L’assassino le gridò “Ida Serà” (“Bel colpo” in lingua delenar) e corse via prima che ella potesse incoccare un’altra freccia. Di tetto in tetto, Shalamor saltava e correva e Corvin lo seguiva. Kandui rimise l’arco in spalla e prese un piccolo fischietto di legno: lo soffiò forte mentre correva, così gli altri Cacciatori elfici poterono seguirla da sotto. I campanili della Cattedrale si stagliavano contro il mare, mentre il tenue bagliore rimasto del sole svaniva dietro i monti ad Ovest. Shalamor si fermò nuovamente dopo aver saltato un ennesimo strapiombo e Corvin prese la rincorsa per saltare e raggiungerlo: il tetto era in lieve discesa e il nobile corse a perdifiato, stando attento a non ruzzolare. Ma quando il nobile stava per saltare, Shalamor si girò di scatto: fece un colpo di reni disumano e gli saltò contro. Corvin non poteva più fermarsi o sarebbe precipitato. Balzò. I due si incrociarono a mezz’aria: sotto di loro metri di caduta, i vicoli freddi e ormai bui. Shalamor colpì Corvin con una ginocchiata in volo: i due caddero ma il delenar si aggrappò ad un davanzale di legno, piantandovi il pugnale. Si arrampicò verso una finestra mentre Corvin precipitò in basso, sfondò un lucernario e cadde distruggendo una mobile. Quando si riprese, fu colpito da qualcosa. Sulla faccia ebbe come dozzine di
rami che lo graffiavano ripetutamente e si trovò ad urlare terrorizzato. Temeva che Shalamor lo stesse assalendo, poi alzò lo sguardo e vide una vecchia signora che lo stava percuotendo con una scopa di saggina. «Calma! Calma! Signora, le rifonderò i danni per la finestra!» «Ladruncolo! Esci da casa mia!»
Shalamor si issò sul cornicione: davanti gli si parò una figura vestita di abiti silvani, il volto segnato dal tempo e i capelli grigi. Era Sofos, l’anziano saggio. Gli parlò in una lingua melodiosa: «Rinnegato, sono molti anni che ti cerco.» Lo colpì con un pugno fortissimo e l’assassino ricadde all’indietro. Cerco di aggrapparsi disperatamente al cornicione, ma precipitò. Riuscì ad abbrancare una corda per stendere che si spezzò: il delenar rovinò su un tetto sottostante, coperto di neve. Kandui era a poca distanza da lui. Estrasse un lungo pugnale, ma Shalamor la disarmò con un calcio deciso. Fu colpito dal fratello dell’elfa, Lorkan, con un bastone borchiato. Il delenar cadde in ginocchio, ma con un secondo calcio al ventre respinse anche Lorkan che aveva alzato il bastone in alto per il colpo finale. Prese il pugnale caduto dell’elfa per scannarlo, ma la spada corta di Sofos lo trafisse alla schiena. L’armatura di adamantina attenuò il colpo e con un fendente di pugnale il delenar riuscì a ferire di striscio il suo aggressore. Infine, Lorkan gli schiantò il bastone sulla testa e l’assassino stramazzò al suolo. Tramortito, ferito e vinto come un toro nell’arena, guardò Sofos e gli disse in lingua delenar: «Io ti giuro… che ti ucciderò.» Fece per alzarsi ma la vista gli si annebbiò. Si accasciò e chiuse gli occhi. Corvin corse fuori dalla casa, sconfortato, ma con gran sorpresa vide Kenarnon in piedi, fiero, circondato dai suoi Cacciatori e da Erin. Ai suoi piedi c’era il grande assassino Shalamor, vinto.
«Vi dobbiamo la vita, principe Kenarnon» disse Corvin stringendo la mano dell’elfo. «È stato un piacere. Guardatelo: egli è l’autore degli omicidi che vi affliggono da qualche tempo.» «Non sembra quasi possibile che sia così quieto ora» disse Sofos. osservando i capelli chiari del delenar, immobili. A parte per il sangue sul labbro spaccato e la ferita alla schiena il delenar sembrava tranquillo come se dormisse: non c’erano emozioni sul suo volto. «Lo finirò. È troppo pericoloso lasciarlo vivere» disse Sofos sguainando una spada ricurva. «No! Sa troppe cose, dobbiamo interrogarlo» ha detto Corvin. «Non è così che facciamo noi!» «E nemmeno noi» disse Kenarnon guardando il suo amico cacciatore. Sofos abbassò l’arma. «Dobbiamo sapere chi lo manda. Chiamerò gli Alabardieri e lo daremo in custodia a loro. Lo interrogheremo e poi… sarà certamente messo a morte» disse Corvin.
Quando giunsero gli Alabardieri a portare via il prigioniero, Kenarnon ed Eredwan si congedarono e accompagnarono i gendarmi fino alla caserma, timorosi che il delenar potesse giocare qualche brutto tiro. Sofos e i suoi figli invece accompagnarono Corvin ed Erin fino al palazzo dei Siblei. «Da quanto tempo lo cercavate?» chiese Erin a Sofos. «Da quando Kandui ha smesso di proferire parola» disse Sofos guardando dolcemente la figlia: ella non parlava così bene il volgare umano come il padre e ascoltava cercando di capire il più possibile. «Shalamor non è un semplice assassino: è un simbolo per noi Cacciatori. Il simbolo di tutto ciò che è senza senso, malvagio, corrotto. Non avremmo avuto pace finché non l’avessimo catturato. E ucciso» aggiunse Sofos.
«Allora anche voi… sareste assassini a vostra volta» disse Corvin. «Shalamor è scappato alcune volte dalla prigionia. Non c’è altro rimedio per lui» disse Sofos facendosi serio. E Corvin non aggiunse altro. «Padre, dovevamo ucciderlo» disse Lorkan nella sua lingua. Neanche egli sapeva parlare molto altro che la lingua dei lyblis. «Presto sarà morto. Vostra madre avrebbe sognato tanto questo momento» rispose Sofos. Poi continuò in volgare: «Per noi questo momento arriva dopo anni di sacrifici. Shalamor ci ha privato di tanti affetti. Siamo contenti e anche impreparati a questo evento: è come avere vinto una guerra. Quasi ci chiediamo cosa faremo adesso.» Corvin ringraziò i silvani: ammirava quel popolo, che conosceva per lo più dalle inattendibili leggende che circolavano.
Quando chiuse la porta di casa, prese Erin per le spalle e le diede una carezza. Lei tremava ancora. «Non tremare più. Capisco che tu abbia avuto paura per la tua vita. Ora non dobbiamo più temere, è tutto finito.» Lei rispose: «Ti sbagliavi, Corvin. Non era per la mia vita che temevo.» Stettero immobili per un secondo, poi continuò: «Era per la tua.» E lo baciò.
* * *
Finita la battaglia con Cromlan, Caviled radunò i ragazzi, diede loro da bere e controllò le ferite. «Così eravate voi che ci seguivate!» disse Salaran. «Ero io. Non sono stato troppo discreto, lo ammetto, ma non volevo perdervi di vista in caso vi fosse capitato qualcosa… tipo questo» rispose il Sergente. Val stava per ringraziarlo quando Caviled lo guardò preoccupato e gli chiese: «Hai parlato a qualcuno della lettera?» «Signore?» fece Val sorpreso, ma immaginando dove la discussione stava andando a parare. «A chi l'hai detto, ragazzo? Chi sapeva della lettera e verso quale città dovevi recarti?» «Io… dissi che sarei partito a Corvin Siblei, ma non gli rivelai della lettera, tantomeno della destinazione. Quando vidi mia madre eravamo già transitati per Beivades e nemmeno a lei dissi della lettera, solo che andavamo a Sud.» «Io non ho saputo di questa dannata lettera finché non eravamo già partiti, casomai sospettaste di me, Sergente» disse Ran con fare supponente. «Non sospetto di te, Mornei, sta tranquillo. Te lo ripeto Val: pensaci bene. Qualcun’altro sapeva della lettera oltre che la destinazione?» lo incalzò Caviled. «Io… Sì. Temo di averlo detto ad una persona…» Caviled guardò il cielo con aria preoccupata. Poi riabbassò la testa e disse: «Siete stati coraggiosi a opporvi a quei due ma vi avrebbero certamente ucciso se non fossi arrivato. Ti avevo detto che non era necessario difendere quel documento a costo della vostra vita, ma ora ci occorre la verità, Galron.» «Sergente… Lo dissi alla mia fidanzata: Gala.» Caviled aveva conosciuto la giovane: Val gliel’aveva presentata, dato che le parlava spesso di Caviled; la giovane era stata più che curiosa di conoscerlo. E
Ianos era stato esplicito nel consigliare a Val di non parlare della missiva ad altri se non a lei, anche se non era completamente chiaro al Sergente il motivo. Il piano di Ianos doveva essere quello di scovare un’eventuale spia all’interno del Tempio di Sant’Isior, mentre Gala era un’accolita matriana. Tuttavia un Necromante si era di sicuro infiltrato nel Sant’Uffizio matriano e scovare lui premeva molto di più a Ianos. Il Sergente capì infine: il piano di Ianos era diretto verso i matriani. Forse Gala era diventata un’informatrice dei Necromanti. O un’inconsapevole pedina nelle loro mani. Val comunque si era dimostrato tutto sommato abile e Ianos avrebbe dovuto riconoscerlo: ma che ne sarebbe stato di Gala? «Chi ci ha assalito quindi?» chiese Salaran approfittando dell'attimo di silenzio. «Nemici della Repubblica, vi basti sapere questo» rispose sbrigativo Caviled. «Rischio la pelle per voi ed è tutto ciò che mi potete dire?!» rispose scocciato Ran. «Ecco la lettera, è intatta» disse Val porgendola al Sergente. «Val, io non dovrei essere qui» disse Caviled. «E questa lettera non vale niente. Non era così importante ma se i Necromanti hanno tentato di prenderla mandando addirittura Cromlan, è segno che hanno intenzioni serie. Ed è segno che hanno saputo che Ser Ianos vi avrebbe mandato qui con essa. Forse l’hanno appreso da una delle persone con cui hai parlato.» «Solo Gala sapeva della lettera. Io... non posso credere che lei…» disse Val. Caviled sospirò. «Ragazzo mio, io spero tanto che sia tutto un malinteso e che lei fosse in buona fede» disse il Sergente. Val scosse il capo e si avvicinò al cavaliere nero che era stato ucciso da Caviled. Il Sergente lo fermò. «Non toccarlo!» Caviled, messosi i guanti, trascinò il corpo lontano dalla strada. Lo frugò per
cercare informazioni, senza risultato. Il cavallo del Nero, azzoppato da Val, era sparito chissà dove in una innaturale furia. Il Sergente prese due fiasche d’olio dalla sua bisaccia. Strappò un po’ d’erba e vi cosparse il corpo e vi versò sopra l’olio. «Dobbiamo bruciare anche i banditi?» chiese Ran. «Non ho intenzione di faticare a seppellire questa feccia.» «Lo sto per cremare perché non è umano» rispose Caviled. Prese un ramo spezzato e con cautela alzò la celata del cavaliere Nero. Fece segno ai due giovani di guardare: la pelle era raggrinzita e grigia come fosse mummificata e lasciava intravedere il cranio. «Sergente… è…» fece Val. «Necromanzia. Questo era un Ritornato di un tipo piuttosto potente: li chiamano in tanti nomi tra cui “Cavalieri Morti”. Sarebbe stato un grosso problema per voi, con le vostre armi e i pochi Miracoli che conoscevi, Val. Per fortuna in ato ho appreso come respingerlo e porto questa spada lasciatami da un amico o sarebbe stata dura anche per me. Allontanatevi.» Il Sergente si fermò a pregare per un paio di minuti. Poi allargò le braccia, puntò le mani verso il corpo, gridò due parole finali della preghiera e come per magia il cadavere avvampò. Il Sergente gettò anche i guanti nel fuoco.
* * *
Nella notte nera, il tessitore delle trame che investivano Lenvar sedeva sul suo scranno. Silenzioso, era immobile nell’oscurità gelida del crepuscolo invernale che può colpire fin dentro le ossa e lasciarti nudo e freddo, senza fiato. Egli non sentiva più niente: né gelo, né calore. Parlò, con distacco: «Cromlan. Che è stato dunque?» Il Grigio si fece avanti: «Il messaggero era un giovane Crociato, accompagnato
da una guardia del corpo, credo. Sono stati seguiti da Caviled. La tua nuova creazione è stata distrutta dal Sergente: ho riconosciuto la sua arma e conoscevo bene chi la portava» disse il Grigio. «Sì, sapevo li avrebbe seguiti.» «Avreste dovuto dirmelo. Sarei andato con più uomini» obiettò Cromlan. «La missiva?» «Era certamente un diversivo. Non l’ho recuperata, ma sono certo che era poco importante.» «Come puoi dirlo?» La voce si fece alterata. «Lo ha ammesso lo stesso Caviled. Chiedo perdono per il mio fallimento» disse il cavaliere inginocchiandosi. «Avrai modo di redimerti e te lo darò subito: c’è un grosso problema. Mentre tu eri impegnato a lasciarti sfuggire il messaggero, Shalamor è stato catturato ed ora giace in prigione sotto il Palazzo Dogale» rispose la voce profonda. «Shalamor non parlerà: si farà uccidere piuttosto» commentò Cromlan. «Tanto meglio. Lasciamolo morire. Non ho mai conosciuto creatura più empia e immeritevole di vivere.» «Non possiamo correre rischi. Ti ricordo che esiste la magia e che essa può piegare qualsiasi mente; anche una perversa come la sua. Tra poco ci sarà tumulto in città e si spargerà il caos. I nobili lenvari sono molto litigiosi per natura e qualcuno l’ho fomentato io. Approfitteremo di ciò che avverrà e ti dirò più tardi cosa dovrai fare. Nel frattempo, dovrò ascoltare le richieste dei nostri sostenitori: ci serve il loro o. Se Shalamor non può più uccidere, qualcuno resterà scontento.» «Mi servono gli infusi» disse Cromlan fermamente. «Ne hai già avuti.» «Non per me: per lui. Sta di nuovo male.»
«Oh no. Non hai completato la tua missione. Non ti darò nulla» disse ferma la voce. «Vi ho detto che la missiva era inutile. E inoltre la presenza di Caviled non mi è stata rivelata da voi!» tuonò Cromlan. «Hai gestito male gli imprevisti. Non avrai nulla per ora. Continua a seguire i miei ordini e vedremo.»
* * *
«Che cos’hai, ma chère? Non riesci a dormire?» chiese Mandecar. «No, amore mio» rispose lei. Mandecar si tirò su: anche se erano sposati, non avrebbero dovuto dormire insieme all’interno di un convento. Il paladino baciò la moglie sulla spalla e sentì in lei un brivido. Chiliana gli strinse la mano. «A cosa stai pensando?» le chiese lui. «Voglio andare a parlare con lui. Devo sapere.» Mandecar sospirò. «Speravo che saremmo ripartiti domani» protestò. «Achastor ci ha richiamati. Non perdiamo tempo con queste piccolezze nella tua terra. N’est pas notre guerre.» «Lo so. Ma io voglio sapere. Non succederà nulla se tardiamo qualche giorno. È quasi l’alba. Vestiamoci e andiamo.»
10.
L’importanza delle parole
Ser Mandecar e Dama Chiliana si diressero nelle segrete del Palazzo Dogale. La burocrazia era rallentata dalla situazione di sempre più precario ordine pubblico in città e così l’ordine di trasferire l’assassino al più sicuro Tempio di Sant’Isior non era ancora arrivato. Le fazioni cittadine erano particolarmente in fermento quasi come succedeva durante l’elezione del Doge: inizialmente era chiamato un Podestà forestiero per evitare situazioni di favoritismi, che comunque alla lunga erano inevitabili. La regola era perciò decaduta e da più parti si sentiva il bisogno di una nuova figura di governo: il Doge, scelto nuovamente tra le famiglie nobili o patrizie, con le solite diatribe. Così tutto ciò che era vita quotidiana o non correlato alla politica, era rimandato. I nobili si scannavano tra loro già da prima della guerra e tentavano di arginare il crescente potere della neonata borghesia mercantile.
Shalamor era detenuto in una grossa cella, con i polsi incatenati dietro la schiena e legati al muro da una lunga catena: come un cane al guinzaglio. Nessuno degli uomini del Conestabile era riuscito a fargli sputare altro che ingiurie e imprecazioni. Spaventava i secondini persino sotto tortura e nessuno voleva avvicinarlo. Appena vide i due Paladini giungere innanzi assieme al carceriere, il delenar si alzò. «Io sono Dama Chiliana. Shalamor è il tuo nome?» «È quello con il quale tu dovrai chiamarmi.» «Vorrei parlare con te francamente» disse la donna. «Non so quanto tu sia fedele al tuo padrone: persino per una persona che ha compiuto empi delitti come te, la fedeltà può essere un segno d’onore. Ciò nonostante, ti prego comunque di rispondere con sincerità alle mie domande.» L’assassino fece una mezza risata e si avvicinò lentamente alla donna, finché la
catena si tese e gli impedì ulteriormente il movimento. Era a un braccio di distanza dalla sua interrogatrice e la guardava con aria di sfida. «Devo sapere chi è che ti manda» disse Chiliana. «Perdi tempo. Vedi i segni sul mio viso o le braccia? Me l’hanno già chiesto.» Shalamor era stato visibilmente malmenato. Mandecar lanciò un’occhiata brusca al carceriere, lo afferrò per un braccio e gli sussurrò qualcosa con rabbia. Shalamor abbassò gli occhi: fissò gli stivali di Chiliana. Poi li rialzò lentamente e disse: «Il bello è che ho sempre risposto la verità: non ho idea di chi sia chi mi paga. Deve essere un mago o qualcosa del genere. Non si fa mai vedere e paga in anticipo. E io non ho fatto domande.» Chiliana aveva quel sesto senso innato che hanno molti Paladini per individuare le bugie. Capì che anche se Shalamor non aveva detto proprio tutto, gran parte di ciò che affermava poteva essere vero. Dopotutto intuiva che se egli amava tanto uccidere, non gli avrebbe fatto differenza sapere per chi. «Chi ti ha ingaggiato è un Necromante?» chiese Chiliana. «Probabilmente. Te lo ripeto: che mi importa?» «Dovrebbe importarti. Penso che potremmo cambiare la tua condanna. Sai già che ti giustizieranno. Se ci aiuti m’incaricherò personalmente di fare sì che ciò non avvenga, parola mia» disse Chiliana. «Bel tentativo. Ma una volta che io cantassi, non avresti più motivi per tenermi in vita.» «Te lo giuro. E tu sai bene che il giuramento di un Paladino non si può infrangere. Mi impegno, se dirai la verità, a far sì che la tua pena sia commutata.» «Commutare la morte?! In cosa?!» esplose con rabbia la voce del delenar. «Al marcire a vita qui dentro coi topi? Oh, dovresti mettere sul piatto ciò che non puoi! Solo per la libertà parlerei e tu sai che non puoi offrirmela!»
«Ti offro anche di più: la possibilità di redimere le tue malefatte. Se sarai ucciso, affronterai la pena eterna che è riservata ai senza-Dio. Tu sai a cosa mi riferisco. Con la vita e col tempo avrai l’occasione di cancellare il peso di alcuni dei tuoi peccati e affrontare la fine con meno carichi sulla coscienza» disse la Paladina. Ma Shalamor scoppiò a ridere come un pazzo e le catene tintinnarono come sottofondo della sua follia. «Meno peso! Ah! Tu non sai, donna, cosa ho fatto in vita! Ho strisciato nei letti dei mariti uccidendo le loro mogli senza destarli e facendoli incriminare al posto mio. Ho arrostito bambini e li ho fatti mangiare alle madri. Ho mozzato occhi, lingua e dita dei testimoni delle mie malefatte, ho costretto fanciulli ad uccidere i fratelli e li ho uccisi a loro volta. Ho finto di amare e ho sgozzato chi mi amava. Ho ucciso qualsiasi cosa potesse camminare o strisciare o volare e ne ho tratto godimento. Ho stretto alleanze e ho tradito chi ha osato fidarsi di me. Se solo queste catene fossero di pasta più lieve non dubitare, lurida schifosa serva dell’Eterno, che continuerei a uccidere e giuro sugli Inferi che finché avrò vita sarà così!» Gli occhi gli si iniettarono di sangue: «Perciò io, Shalamor, vi sfido: se non mi darete morte immediatamente, sentirete ancora parlare di me. Per me alla fine di tutto non ci sarà niente: niente redenzione, niente salvezza. Ci sarà solo il Mietitore Empio che mi ringrazierà per tutte le anime che gli ho fornito. Anzi non ci sarà un bel niente: chiuderemo gli occhi e sarà buio, buio eterno per tutti!! Di me resterà solo il racconto per spaventare i bambini quando non obbediscono: il mito del terrore! Nessuno mi eguaglierà!» «C'è redenzione per chiunque voglia, ma tu non sembri interessato ad averla» disse Chiliana. «Ti pentirai di non avere accettato quest'ultima occasione. Saranno le leggi di Lenvar ad occuparsi di te: avrai dunque l'agognato incontro col Mietitore di cui hai parlato.» «Lo appendiamo tra pochi giorni, mia Signora» disse il carceriere. «Il tempo di fargli un regolare processo e di procurarci qualcun altro da impiccare con lui, la Repubblica non può spendere denaro in esecuzioni singole.» «Impiccato?! Impiccato con altri?!» L’ira di Shalamor esplose. «Vili porci! Mi riservate il tipo di morte destinato ad un ladro comune?! Io vi maledico! Giuro
che il mio fantasma tornerà a tormentarvi: voi e così i vostri figli! Voglio la condanna che infliggete ai nobili! Voglio essere decapitato, vermi! Decapitato e da solo! Voglio guardare la folla con odio finché la mia testa non si staccherà!» Il delenar si agitò e tento di strattonare la catena: era così tesa che ormai era parallela al terreno. Chiliana non si spostò; rimase a poche decine di centimetri da lui e disse: «Allora farò in modo che tu muoia come desideri, se parlerai. Dicci il nome di chi ti ha affidato gli incarichi che hai svolto.» «Ho la tua parola che sarò decapitato se lo farò?» chiese il delenar. «Se dirai la verità, hai la mia parola» rispose la Paladina. «Mi dovrai decapitare tu. È la mia condizione.» Chiliana sospirò. Guardò Mandecar che fece un cenno negativo con la testa. Ma la moglie non lo ascoltò: «Va bene. Ti taglierò io la testa, se mi dirai ciò che ti ho chiesto» disse la Paladina. «Allora aprì le orecchie, sgualdrina ecco ciò che devi sapere.»
Così Shalamor lasciò cadere dalle mani la catena che aveva sapientemente trattenuto celandola dietro la schiena, in modo da farla sembrare più corta. E così facendo guadagnò un buon metro, sufficiente per il suo diabolico piano. Fece un balzo arrivando quasi a slogarsi i polsi e protese la testa in avanti: spalancò la bocca e morse la clavicola della Paladina con una violenza imparagonabile. Chiliana lanciò un urlo e il sangue lordò la faccia dell’assassino. Mandecar scostò violentemente il carceriere rimasto attonito e col pomo della spada colpì con forza la testa di Shalamor, ma il delenar non desisteva. Furono necessarie altre due poderose botte per tramortirlo e mandarlo al suolo. Chiliana strisciò all’indietro quasi terrorizzata, mentre il marito le toccava il collo pronunciando alcune preghiere. La ferita non era grave, ma la volontà di Shalamor di non accettare nulla era chiara. Era dannato: da se stesso,
dall’umanità, dall’Eterno. Mandecar rimproverò nuovamente il carceriere e accompagnò fuori dalla cella la moglie. Chiliana guardò il delenar al suolo, sporco del suo sangue e nonostante questo ebbe pietà per lui. «Dobbiamo trasferire questo prigioniero, subito!» sbottò Mandecar. «Occorre una lettera firmata dal Doge o dall’Esarca per farlo, sire» rispose il carceriere. «Mia Signora, voi sanguinate: corro a chiamare l’Ospitaliere!» «Non possiamo attendere una lettera» replicò Mandecar. «Né io posso lasciarvelo portare via, Sire. Se è tanto pericoloso, il Doge o l’Esarca certamente vi daranno la bolla che chiedete, prima che lo impicchiamo.» «No, niente impiccagione: dite al Conestabile che raccomando personalmente che il prigioniero sia decapitato» disse Chiliana. «Torneremo domani con la lettera che ne ordina il trasferimento al Tempio di Isior e quando avremo finito di interrogarlo lì lo lasceremo a voi per la sentenza.»
Chiliana fu medicata; quando uscì con il marito lo strinse forte a sé. Pensava a quello che avevano ato insieme, ad un giorno di tanti anni fa, al quale avevano partecipato anche Ianos e gli altri. A quel momento nero che fu scongiurato. «A che scopo farlo decapitare come voleva? Ha cercato di ammazzarti» disse Mandecar contrariato. «Lascia che sia appeso e che i corvi si sazino di lui.» «Ho profonda pietà di quell’individuo. Gli ho letto dentro, sai? Ha perso tutto e si vede: è disumano. Solo un essere che soffre le pene dell’inferno può compiere tanto male. Io lo perdono: la morte non sarà una liberazione per lui perché la sua anima non potrà trovare pace. Eppure, anche se so che la sua epopea è finita, mi sento ugualmente male a sapere che è esistito un essere del genere.» Chiliana si sedette su uno scalino respirando con angoscia.
«Perché sei così inquieta? La ferita?» gli chiese Mandecar. «No. Mandecar, non sono tranquilla. C’è qualcosa che mi fa male dentro. Non è la ferita.» «Di cosa parli?» disse il marito inginocchiandosi davanti a lei. «Sta per succedere qualcosa di serio. «E noi verremo coinvolti se restiamo. Abbiamo l’ordine del Gran Maestro, possiamo partire anche subito!» gli disse il marito. «Già non dovevamo venire qui alla prigione! Quel morso è stato un avvertimento: l’Eterno ci sta dicendo di ripartire.» «Noi siamo Paladini, amore mio: lo sapevamo cosa significava quando abbiamo pronunciato il giuramento. Dobbiamo restare. Io sono nata qui, non posso lasciare sola la mia gente. Cerca di capire.» Mandecar la guardò. Per l’Eterno se l’amava. Non avrebbe potuto dirle di no. «Appena avrai raccolto le informazioni che credi, partiremo: promettimelo. Stroncheremo questa epidemia e poi ce ne andremo a vivere insieme, lo giuro: basta con le avventure.» Chiliana gli sorrise e lo baciò. «Mandecar, amore mio, ti ricordi cosa mi ha detto: e se…» «Erano solo parole di una vecchia strega. Non hanno peso e non succederà» le disse il marito. «Come potremo andare a vivere insieme, senza la Pace?» disse lei. E aggiunse: «Al mondo esistono tante persone come Shalamor. Persone incapaci di creare qualcosa. E che frustrate dalla loro incapacità di creare, vogliono solo distruggere ciò che gli altri hanno fatto con fatica, come diceva sempre Kenarnon.» «Non possiamo cambiare tutto e lo sai» disse Mandecar. «Abbiamo fatto il Voto: lottare fino alla fine per cambiare le cose. Non credo che
possiederemo mai una casa come sognavo da bambina. O un cortile o un campo di grano. Ma che importa: io ho già trovato in te la mia casa e se questo vuol dire non avere mai un tetto sulla testa, lo posso accettare finché ci sei tu.»
* * *
Val ritornò a Lenvar un paio di giorni più tardi e per prima cosa ò da Corvin. Apprese dall’amico della sua disavventura con Shalamor e fu lieto di sapere che si era risolta senza conseguenze. Quando andò a trovarlo c’erano anche Erin e Kenarnon; Corvin aveva un sempre maggiore interesse per la cultura elfica e invitava spesso il Principe. Mentre parlavano, a Val sembrò ovvio fare una domanda: «Perché avete fatto così tanta strada per catturare Shalamor?» «Io conosco suo padre. Si chiama Aldalion, un potente e saggio mago. È capo di un clan di noi lyblis che ha deciso di vivere sulle montagne e tenere un tramite, un ponte culturale con i nostri parenti delenar: si chiamano lauroch, o “elfi d’argento” come li chiamate voi.» «Perché i vostri popoli si sono separati?» chiese Corvin. «Come tutti coloro che si dividono non vedevamo le cose nello stesso modo. Si formarono fazioni che cercavano cose diverse dalla vita e se questo per voi umani è quasi all’ordine del giorno, per noi è impossibile vivere senza armonia.» «E Shalamor? Perché è diventato ciò che è?» chiese Val. «È successo tempo fa: sapete bene che siamo più longevi di voi; non contiamo nemmeno il tempo al vostro modo, perché per noi un anno è un periodo “breve”. Tutto è successo credo ben più di cento dei vostri anni or sono. Molti dei nostri fratelli erano interessati a riunire l’Antico Popolo: che delenar e lyblis riprendessero a comunicare più stabilmente. Un'unione reale avrebbe potuto rinsaldare la fratellanza tra noi e l'occasione apparve chiara quando una nostra principessa Elivyin, s'innamorò di un nobile delenar. Nella Selva Nera da dove provengo, su al nord, ci sono molti regni ma nessun Re domina sugli altri.
Semplicemente governa il suo clan e il territorio circostante; poi un’assemblea dei Re decide le questioni più importanti, ma alla fine si riunisce di rado e soltanto per seri motivi.» Kenarnon si fermò: giochicchiò un po’ con l’acquavite nel bicchiere. Poi riprese, vedendo che la sua platea era più che interessata e con gli occhi sgranati. Raccontare storie, magari attorno a un fuoco, era una delle attività preferite dei lyblis. Così disse: «Un figlio di Aldalion il mago era da tempo uscito dalle grazie di suo padre. Era sparito dalla casa natia e aveva viaggiato molto e appreso cose oscure. Non sapemmo perché lo fece, ma… una notte che tutti noi ricordiamo bene, uccise i due principi che si stavano per sposare. Ricordo l’abito bianco di lei, diventato tutto rosso come foglie d’autunno.» L’amarezza trasparì sul suo volto. Riprese: «Forse lo mandò qualcuno, ma tra noi usare simili mezzi equivale al peggiore dei crimini. Di storie di umani che uccidono per “interessi politici” come li chiamate, ne abbiamo sentite tante. Ma non credevamo che uno dei nostri simili potesse fare ciò, o peggio qualcun’altro essere il suo mandante.» «Non poteva essere un’altra causa del suo gesto?» disse Erin. «Sarebbe a dire?» chiese Corvin. «Che abbia ucciso per amore» ribatté Erin. «Sei la solita romantica» le disse Corvin scherzando e dandole una pacca affettuosa sulla gamba. Erin ricambiò con un’occhiata di disappunto e Corvin girò lo sguardo imbarazzato. Kenarnon sospirò: guardò il mare d’inverno, grigio come metallo, che si scorgeva dalle bifore della casa di Corvin I gabbiani urlavano distanti. «Qualsiasi sia stato il motivo, Elivyin era la sorella di mia madre. Così una Grande Cacciatrice, la moglie di Sofos che era sua buona amica, partì con altri per trovarlo e punirlo ma non torno più. Non sapemmo mai se fu Shalamor ad ucciderla. In verità non sappiamo nemmeno che fine abbia fatto lei o il suo seguito. La conoscevo bene però: era in gamba e doveva averlo trovato di sicuro. Ecco come i nostri destini sono legati al suo. Io e la famiglia di Sofos abbiamo un debito di sangue con lui.»
«Ora capisco» disse Val. «Che cosa sono esattamente i Grandi Cacciatori?» chiese invece Corvin. «Guardiani dei confini di ogni regione e della Selva Nera stessa. Essi vigilano, controllano le popolazioni animali E all’occorrenza… danno la caccia a chi fa qualcosa che non vada fatto e ci difendono dalle scorribande dei “mostri”.» Tutto ciò che per gli elfi era incompreso e brutale, prendeva questo soprannome: mostro. Era così che la loro razza considerava i popoli incapaci a comprendere e salvaguardare il territorio. Anche gli umani talvolta ereditavano, forse meritatamente, questo soprannome. «Starei tutto il giorno a parlare, ma devo andare al Tempio» disse Val. «Spero che prima di ripartire ci raccontiate altre storie, Sire Kenarnon. Saluti Erin. Ciao Corvin, a presto!» Sia Val che Caviled furono convocati subito da Ianos e rimproverati sonoramente, specialmente il Sergente. Val si difese dall’ira di Ianos e Caviled prese le sue parti: si assunse la colpa di avergli consigliato di portare un Salaran con sé e di averli seguiti. Ianos però non era realmente arrabbiato: aveva già parlato con Caviled in privato e appreso dell’assalto e del possibile coinvolgimento di Gala De Torne. Proprio quello che segretamente sperava. «Avete messo a repentaglio un’operazione delicata e noi di perdere uomini preziosi! Lo trovo un gesto estremamente irresponsabile e idiota!» Val non ci stette più a farsi insultare e ribatté: «Quella lettera però era senza significato: mi avete ordinato di difendere un pezzo di carta con poco valore, mandandomi a crepare. Perché? Non siete stato voi a insegnarci a pensare sempre con la propria testa e non obbedire bovinamente agli ordini?!» «Per quello che ne sapevi, Galron, quella lettera poteva contenere informazioni essenziali. Non sei giustificato!» ribatté Ianos. «Ma non li conteneva! Sono il vostro attendente: credo di meritare qualche informazione di più! Non fate che tenermi all’oscuro di tutto e farmi fare da galoppino!»
«Non tollererò altre insolenze. Fai silenzio e rispondi semplicemente alle mie domande, è un ordine! Oltre alla tua fidanzata, chi altri sapeva della lettera?» sbottò Ianos. «Nessun altro. Al mio amico Kard e al figlio di Oberius Siblei dissi solo che sarei partito. Salaran Mornei seppe la destinazione solo quando eravamo usciti dalla città e non avemmo modo di parlare con nessuno.» «Se è così, allora è segno che Gala De Torne ha riferito ciò di cui hai parlato a qualcuno. Dovremo interrogare immediatamente la tua fidanzata. Sei già ato da lei?» «Non ancora, le ho solo detto che sono tornato, senza altri dettagli» rispose Val. «Ma…» «Non indugiamo oltre. Potrebbe essere una spia dei Necromanti. Sergente Caviled: conducetela qui, subito.» Ianos si era insolitamente calmato: quello di Gala per lui era stato un colpo di genio e di fortuna. Fortuna, abilità o provvidenza, qualsiasi fosse la spiegazione prediletta, Ianos aveva realizzato un piccolo capolavoro di spionaggio. Ormai era convinto che la giovane fosse la sua chiave per raggiungere la spia necromantica nell’Uffizio dell’Esarca. Nessuno degli altri messaggeri mandati da Ianos era stato intercettato: solo Val. Gala, consapevole o meno, faceva parte del processo di spionaggio. «Non può essere Ser» rispose Val. «Gala è fidata, io…» «So che è dura da accettare. Forse è come dici tu, ma in quel caso qualcuno dei prelati a cui lei si è confidata ha contatti con i Necromanti e tutte le prove ora portano al Santo Uffizio. D’ora in poi ti proibisco di parlare con chicchessia dei nostri affari! Ti espellerò con infamia se lo farai e potresti anche essere imprigionato!» Ianos si sedette, accarezzando i baffi grigi. Poi proseguì: «Quanto a voi, Caviled, andate a prelevare la giovane De Torne con discrezione. Non dobbiamo fare sospettare i Necromanti, perciò dovrete persuaderla in qualche modo con le buone: la bolla dell’Inquisizione è arrivata ieri. Galron, potresti aiutare tu il Sergente e convincerla spontaneamente a venire qui. Il
tribunale sarà riunito a giorni e preferisco parlarle prima del Sacro Giudice.» «Volete inquisirla? Ma non sa nulla, è pazzia!» disse Val. «Siete disumano, non è che una ragazza!» «Galron, mi hai seccato! Lascia la stanza, ora!» sbottò Ianos. Quando Val fu uscito, Ianos disse al Sergente: «Vai a prendere la ragazza il prima possibile. Non voglio che venga catturata o punita da quei bastardi bigotti di Inquisitori o che Galron rovini tutto. Probabilmente ha ragione: è innocente e soltanto ingenua. Ma se fosse stata plagiata sarebbe comunque una vittima da strappare alla Morsa Nera. Dobbiamo proteggerla e non possiamo coinvolgere troppo Val. È giovane e la ama, è troppo emotivo. Lascialo fuori dalla faccenda. Insomma fallo ragionare tu, a me irrita il suo comportamento.» «Perché vi ricorda voi da giovane?» disse Caviled sorridendo sarcasticamente. «Non essere sciocco» rispose Ianos. Ma Caviled aveva colpito nel segno più di una freccia scoccata da Kandui. «La ragazza va protetta dai Necromanti e dall’Inquisizione: qui da noi sarà al sicuro.» «Ser, è meglio che Galron parli prima con la ragazza. Gli spiegherò che la proteggeremo. Così non si sentirà lasciato completamente all’oscuro di tutto e potremmo riconquistare la sua fiducia» disse Caviled. «Riconquistare cosa? Tu vedi Galron troppo in alto. È solo un ragazzo come tanti, un Crociato come gli altri. Non so se ci vedo tutto il potenziale che ci vedi tu e al punto attuale non voglio di certo che entri nel nostro Ordine. Prima deve imparare a tenere il becco più chiuso e i nervi più saldi.» «Ser…» fece Caviled. «D’accordo, non cominciare con quel tono. Lo conosco E sia, considererò ancora la sua candidatura purché tu la smetta di importunarmi. Fai sì che Galron la convinca. Se quelle bestie adoratrici del Caprone tengono d’occhio il nostro Tempio, forse non si insospettiranno vedendo Galron che fa un giro con la propria fidanzata: dovrebbe essere una cosa normale. Invece non so proprio chi possa essere la loro spia qui.»
«Sempre che ce ne sia una» disse Caviled. «Ser Bevarond dice che secondo lui il Necromante nell’Uffizio sta cercando di depistare le indagini. Potrebbero avere persuaso il nostro Priore o Padre Adis che c’è una spia anche qui per disperdere le nostre forze.» «Ogni tanto quel depresso di Bevarond ha buone idee, glielo concedo» disse Ianos. «Credo anche io che il nostro Tempio sia sicuro. Ora agiamo: ti do il permesso di far gestire la cosa a Val con la sua fidanzata, ma attento che non faccia mosse inconsulte. Se necessario seguilo. Sei già abituato a farlo, d’altronde.»
Il Sergente incontrò Val, dove immaginava: nel chiostro. Seduto al freddo mentre il suo fiato si condensava, il giovane Crociato guardava il suolo con un’aria da funerale. «Sergente, lasciate che io parli da solo con Gala prima di andare a prenderla» gli disse appena lo vide. Caviled sospirò. «Ianos ha detto proprio questo: devi convincerla tu, sei la persona migliore.» «Adesso che gli servo, se ne rende conto!» disse Val con disprezzo. «Non è il momento di prendere le cose sul personale, Val. Se sarà portata qui al Tempio sarà al sicuro dai Necromanti e dagli Inquisitori. Qui non c’è corruzione: il fatto che sia stato intercettato solo tu tra i messaggeri lo prova. Nella Cattedrale matriana invece non sappiamo più di chi fidarci.» «Allora rischia la vita vero?» chiese Val. «Sì. Non te lo nascondo: è meglio che stia qui in una celletta che nella Cattedrale.» «Datemi solo mezzo pomeriggio. La convincerò io a venire da voi o almeno lo spero. Se non mi vedete prima, andate a prelevarla e proteggetela, vi prego.» «Hai la mia parola: la difenderò anche a costo della vita se necessario. Val, so che sei arrabbiato e che vorrai chiederle giustizia per ciò che lei possa avere confidato ai suoi superiori. Ricorda però che se la farai allontanare sarà la fine:
la prenderanno loro. È una ragazza in un gioco più grande di lei. Conosco i tuoi modi: sono bruschi a volte, usa tatto. Ricordati che le donne non portano le nostre corazze.» «Non sono così sicuro che noi le portiamo, invece.» Caviled gli diede una pacca sulla spalla: Val capiva sempre quando si sforzava. Lo fece andare e sperò che tutto andasse per il meglio.
* * *
Una delle guardie delle segrete dogali urlò sbattendo la carta sul tavolo: «Ecco qua, l’asso prende tutto!» disse trionfando. «Sei un dannato schifoso mangialetame! E vinci sempre! Come diamine fai?» ribatté l’altra. «Che vuoi, fortunato al gioco…» Dei i si udirono dalla cima delle scale. Pesanti stivali e tintinnii si miscelavano in una insolita battente sinfonia. «Ehi! Ferma là, chi vi ha fatto entrare?» «Ho una lettera firmata dall’Esarca: si richiede l’immediato trasferimento del prigioniero conosciuto come Shalamor alla Cattedrale» disse un cavaliere. Indossava una veste azzurra da Paladino che sembrava sbiadita, vecchia e sgualcita. Era accompagnato da uno scudiero dal viso pallido. «La bolla sembra in ordine: Dama Chiliana ci aveva già preavvisato l’altro ieri. Dov’è la scorta?» «Come leggete dalla bolla, siamo solo noi due. La cosa deve essere fatta con riservatezza. Anzi, vi chiedo di portarci dal portello laterale, per l’uscita. Lì abbiamo tre cavalli. E di non fare parola con nessuno del trasferimento fino a
domani almeno: la missione è segretissima. Dobbiamo prelevare anche i suoi vestiti: il corpetto rinforzato e il suo mantello. Sono una refurtiva importante per il suo processo. Questo denaro è per ricompensarvi del vostro silenzio, e ne riceverete altrettanto domani se farete ciò che vi dico. L’Ecclesia non bada a spese.» Le guardie presero i soldi avidamente. «L’Eterno vi benedica, Sire! Ve lo legheremo ben stretto allora! L’altro giorno la povera Dama Chiliana ci stava per rimettere il collo!» Shalamor fu legato e in mezzo ai due cavalieri percorse i corridoi illuminati fiocamente dalle torce. Dentro le celle erano molti i condannati: alcuni indeboliti dalle privazioni, altri segnati dalle torture o resi pazzi dagli anni di prigionia. «Ecco. Firmate la bolla e siete liberi. Tu no però, ahahah!» disse il carceriere a Shalamor. «Allora ce lo restituirete per farlo secco?» Il Paladino si voltò freddamente: «Naturalmente» disse.
Girarono a cavallo per un po’ nelle vie meno frequentate quando infine il cavaliere si decise e diede a Shalamor la chiave dei lucchetti. Gli lanciò quasi in faccia la sacca con la corazza d’adamantina e il suo mantello incantato. «Dicevi sul serio vero?» disse l’assassino. «Vorresti tanto vedere la mia testa che rotola nel cesto? Non mi importa nulla, Cromlan. So bene che se lui non ti avesse detto che gli servo ancora, avresti già la spada alzata per farmi fuori. E non ti dirò grazie per non farlo.» «Non preoccuparti: forse un giorno sarò libero e potrò soddisfare questa voglia. Tu combatti per gusto, delenar: io per credo» rispose Cromlan. «Non fare l’idiota, uomo. Tu combatti per vendetta e lo sai. Io non ho mai saputo che farmene delle ideologie e nemmeno tu. Questo ci rende due persone astute» disse il delenar indicando con un dito la tempia assumendo un espressione da demente. Poi aggiunse: «Dì al tuo padrone che torno in attività da ora. Il grosso del mio equipaggiamento è andato perduto: sarà più divertente ricominciare da
capo con mezzi “tradizionali”. Adoro le sfide!» E in un lampo, spronò il destriero e si dileguò.
* * *
Val nel frattempo non trovò Gala nella Cattedrale, perciò corse a casa dei De Torne. Gala era sola: aprì la porta a Val e poi se ne stette seduta nella camera da letto. I due si fissarono in silenzio, occhi negli occhi. Non avevano bisogno di comunicare. Gala lo strinse, ma lui era freddo. Lo lasciò e intuì che qualcosa stava per essere detto. E non sarebbe stato piacevole. «I cavalieri hanno detto che c’è una spia dentro l’Ecclesia matriana. Ha informato i Necromanti della mia missione. Io e Ran siamo stati assaliti da alcuni di loro, ma l’abbiamo scampata.» «Cosa?! Io… non ti seguo, per favore, spiegami con calma!» farfugliò Gala. «Calma? Sei andata a raccontare dove andavo? A chi? Hai capito che siamo stati assaliti?» «Come assaliti?! Sei ferito? Stai bene?» disse Gala preoccupata. L’angoscia le crebbe dentro: salì dallo stomaco fino alla gola mentre il cuore le galoppava all’impazzata. «Ti ho sempre detto che quello che faccio al tempio devi tenerlo per te! Ho parlato solo a te della lettera» sbottò Val. «Se ne hai parlato a qualcuno, allora egli è la spia o si è confidato con essa.» «Spie? Io… mi stai travolgendo con le tue parole, mi fa male la testa!» obiettò Gala mettendo le mani sulle tempie. Val trattenne l’ira per un secondo, poi disse: «Ti ho detto che forse c’è una spia all’interno della Cattedrale. E comunque non è un segreto: ne parlano tutti. Tu devi avere detto a qualcuno dell’Ecclesia della mia missione e quel qualcuno è la spia, o ha parlato con essa. Hanno mandato dei sicari a prendere la lettera che
trasportavo. E io ne avevo parlato solo con te. Con chi ne hai parlato?» «Non… non ne ho parlato a nessuno» mentì Gala. E si sentì male per averlo fatto. «Non c’è altro modo per cui ci abbiano localizzati in viaggio: non l’ho detto a nessun altro. A chi hai parlato della nostra missione? Ti rendi conto che hai fatto rischiare la vita a me e a Salaran?!» Incalzò Val. «Non… forse ne ho parlato, ma di sfuggita… Val, non potevo immaginarlo! E poi tu sei tanto lontano da me ormai: parlo col cuore. Hai detto di amarmi ma sei distante e pensi solo a Ser Ianos e tutto il resto! Non c’è spazio per un “noi”: per te è sempre “io”.» disse Gala con le lacrime agli occhi. «Avevo bisogno di confidarmi con qualcuno! Non fai che parlare di morti e di guerre, anche quando sei con me! Sei freddo, distante. Non mi ami più, vero?» «Con chi hai parlato?» incalzò Val. «Vero?» «Siamo in pericolo» disse Val facendosi minaccioso. «Lo capisci che non è uno scherzo? Con chi hai parlato!» «Io… con un amico… adesso non è al Convento però» mentì la giovane. Val ribatté: «Allora è scappato? Quindi è lui la spia!!! Devo sapere il suo nome. Qual è il suo nome?! Dovrà pagarla cara, molto cara!» Gala era preoccupata: non voleva quel conflitto tra Val e chi tanto l’aveva aiutata e sostenuta in quei mesi. Cercò di intenerirlo facendo leva sui sentimenti. «Calmati per favore, mi spaventi! Ho bisogno di te, ti prego… voglio che mi abbracci. Abbiamo sbagliato e ci siamo dimenticati che ci teniamo l’uno all’altra.» «Gala» disse Val cercando di chetarsi: «devi venire con me al Tempio di Isior. Il Priore chiamerà l’Inquisizione per questa faccenda e tu dovrai essere protetta. Con noi Crociati sarai al sicuro ma devi piantarla di fare la stupida e dirmi la verità!»
«L’Inquisizione… io… tu m’infliggi una pugnalata dietro l’altra! Perché sei così freddo con me? Perché mi ferisci? L’Inquisizione! O per l’Eterno! Me lo dici così?! Sei impazzito?! Cosa ti ha reso così crudele?!» «Siamo in un periodo nero per la Repubblica da quando c’è stata la guerra a oggi» rispose il Crociato. «Giochiamo con fuoco. Sono cose serie!» «Ancora la guerra! Non incolpare sempre la guerra. Tu sei cambiato! Non fai altro che trattarmi come una stupida, dici sempre che io non capisco niente! Sai sempre tutto tu: io sono la chierichetta ingenua che non è capace di allacciarsi le scarpe!» gli disse piangendo la ragazza. Ora sembrava una bambina: i pugni serrati, le braccia lungo i fianchi e l’espressione contorta dal pianto. Fece infuriare ancora di più Val. «Ho visto morire Dagovir davanti ai miei occhi! Lo continuo a rivedere nei sogni, coperto di frecce, con la gamba spezzata! Ero là che combattevo e pensavo che non sarei tornato da te, da Lilia, da tutti voi. Ora so che vivi in questo convento che dovrebbe essere un simbolo di purezza e invece è flagellato da Necromanti che potrebbero farti del male! Chiunque sarebbe cambiato! Anche tu sei diversa, siamo cresciuti da quando venivi a giocare con mia sorella, anche se tu vedi ancora tutto fatto di sogni infantili! Le mani sporche di sangue tra noi due le ho io! Sono io che ho ucciso e difeso la città mentre voi stavate al sicuro!» «Adesso mi rinfacci anche di essere ingenua e ingrata. Già, è vero, tu sei l’eroe di guerra ed io l’insignificante sguattera di Sua Eccellenza; come se mi pie. Io non so se è stata una buona idea quella di fidanzarci. Non so se voglio nella vita un uomo che…» «Che fa il suo dovere prima di tutto?!» sbottò Val. «No, che… oh per l’Eterno, io non so più nulla cosa voglio!» disse Gala voltandosi e coprendosi il viso con le mani. Voleva che Val le stringesse le spalle e le sciogliesse tutti i suoi dubbi. E nel frattempo sentiva già il bisogno di parlare a Thavion, di chiedergli consiglio, di sfogarsi con lui come quella sera che... Di sentire ancora la sua carezza e bere quei portentosi infusi che lui le aveva dato per calmarsi, per vincere quell’ansia di vivere, noncurante del loro pericoloso contenuto. La mente le accelerò come una slitta lanciata senza freni su un pendio innevato. Ancora le sembrò di sentire
quella voce dal sogno che le diceva di staccarsi dagli affetti, di seguire la sua libertà, di essere fedele solo a se stessa. Ancora una volta sentì il brivido della mano che la sfiorava. Alla fine capì. Lo stesso brivido dei suoi incubi era il medesimo che provava quando Thavion l’accarezzava. Si sentì male, si sentì… persa. Ma voleva provarlo nuovamente, come di tutte le cose di cui aveva paura, ora ne era attratta. «Val io… mi è successa una cosa» disse infine, vinta dalla sofferenza. Il Crociato rimase senza dire niente: il tono in cui Gala lo disse gli ghiacciò il sangue nelle vene. Erano poche parole ma era come se già avesse intuito. «Sono… Io… c’è una persona che è entrata nella mia vita.» Gala sembrava un automa mentre lo diceva. Ogni traccia del dramma che aveva vissuto pochi istanti prima era sparita. Come se tutto improvvisamente le fosse stato tutto chiaro in testa, in contrasto completo. A queste parole Val iniziò a sentire il suo sangue ribollire. Lo immaginava. Era come se l’avesse sempre saputo. «Mi hai sempre detto che non c’era nessuno oltre a me» disse freddo, la voce metallica come la sua spada. Spaventò nuovamente Gala. «Io… all’inizio è stato come un padre per me. Ma… sento che è qualcosa di più ormai. Che mi capisce e non mi chiede niente.» «Chi è?» «Non ha importanza chi!» disse la giovane guardandolo negli occhi. «Ti sto dicendo che… io… lo desidero. Io l’ho... Eterno, non farmi parlare. E mi sono pentita di averlo fatto, ma… è il segno che noi non funzioniamo più insieme. Romperò il fidanzamento: mi prenderò io colpa e chiederò scusa a tutti. Mi chiuderò in seminario per un po’ per non dare scandalo, così tua madre non dovrà vergognarsi di me: so che ci tiene alla tua immagine e non voglio essere io a rovinarla. È sempre stata così buona con me.» Mentre lo diceva era come se tutto le fosse incredibilmente chiaro. Non sembravano neanche parole sue. Guardò Val in maniera inespressiva. «Tu hai …? Tu COSA?» Il giovane era sempre più furioso. Strinse i pugni e calciò uno sgabello con una tale forza da spedirlo contro il muro. Gala fu come
svegliata da quel rumore: l’angoscia le riprese forte nel petto. Gli prese un braccio e gli disse: «Val, ti prego. Io ti voglio bene. Non voglio perderti! L’hai detto: siamo cambiati, ma ciò non vuol dire che non possiamo restare... uniti ma in un modo diverso. Io voglio sempre sapere di te. So che non voglio perderti! Sei tanto importante per me! Io ti voglio bene!» «Non… vuoi… PERDERMI?» rispose il Crociato. «Che cosa hai appena fatto? Mi hai appena detto che ti sei consolata! E tu ora dici che non vuoi perdermi?! Io… non credo a ciò che sento! Tutte quelle stupidaggini sul “sei freddo con me”, nascondevano questo… Non voglio vederti mai più!» «Aspetta Val, ti scongiuro non lasciarmi così!» singhiozzò.
Il giovane non volle più sentire. Se ne andò sbattendo la porta e camminò come se avesse il demonio alle calcagna. Giunse fino a casa in un baleno che nemmeno si rese conto di avere percorso la strada corretta. Lilia tornò a casa diverso tempo dopo e vide il fratello seduto nella penombra con le mani sul volto. «Val, per l’Eterno che è successo?» gli disse lei. «Gala! Gala… ha un altro. È finita.» «Tradito? Non è possibile… ma come l’hai saputo?» «L’ha ammesso lei.» E detto questo crollò su una poltrona, in lacrime. Pianse singhiozzando, come non aveva mai pianto. Lilia gli si strinse vicino. Lei sapeva che Gala aveva conosciuto una persona ma non sapeva altro poiché la sua amica si era chiusa a riccio da tempo. Non credeva che questi potesse essere un rivale di Val. Gala le aveva sempre parlato del fratello: erano anni che sperava che Val la notasse e lei aveva fatto di tutto per favorire la loro unione. Il fratello le spiegò come era andata poco prima. Lilia lo ascoltò in silenzio e poi
fece un bel sospiro. «Val, io… non voglio giustificarla anche se è mia amica. Ma Gala ha ato brutti momenti come te in guerra e come me, quando eravamo piccoli.» Il fratello si voltò ad ascoltarla. «Non è una giustificazione per tradire» disse fermo il fratello. Lilia non commentò ma disse: «Val, la vita in collegio era uno schifo e le ragazze più grandi potevano fare ciò che volevano con le piccole. Io e Gala siamo state picchiate decine di volte. E costrette a fare... delle cose brutte.» A queste parole gli occhi le si riempirono di lacrime. Continuò: «È stato quando una ragazza più grande mi ha… che ho capito che non mi piacevano i maschi. Lei non era come le altre. Mi ha spinto a farlo, ma la cosa era già dentro di me: non mi ha obbligato. Continuava a tentarmi e fare allusioni: quando le avo vicino si strofinava apposta su di me o mi pizzicava il seno. Era come se quella ragazza mi conoscesse meglio di me stessa, come se avesse capito che cosa volevo, prima ancora di me. Mi aveva fatto capire.» Lilia divenne più cupa: e decise di liberarsi di tutto quel peso che portava da anni. «Quando è arrivata la sorella di Ran, in collegio, mi piacque subito: ha immediatamente fatto capire alle altre ragazze chi comandava grazie al fatto che conosceva già un po’ di magia. Un giorno stavo ad una finestra con lei a guardare dei ragazzi in un cortile. Nadia fantasticava e li osservava ma io fissavo lei. Io non ce la facevo più, stavo per scoppiare: le ho girato il volto e le ho dato un bacio, il mio primo bacio. Prima uno rapido, poi un altro e profondo.» «E Nadia?» chiese Val. «È stata ferma. Sempre ferma: non si capiva se le pie, se fosse curiosa o semplicemente fosse stata colta di sorpresa. La baciai tante volte e lei sempre ferma. Che belle labbra morbide, i suoi capelli scuri e quegli occhi così neri come due pozzi profondi. Mentre la baciavo erano fissi su di me, sempre aperti, sorpresi. Poi suonò una campana e andammo in direzioni diverse. Non la baciai
mai più e lei non baciò mai me. Non ne parlammo nemmeno, mai. Solo che lei continuava a guardare i ragazzi e io… le ragazze.» Lilia singhiozzò, ma continuò. «E nonostante quello che le ho fatto, mi ha protetta e aiutata. Finché non è arrivata con noi, io e Gala eravamo perse entrambe. Qualche giorno dopo, sono ata vicino a quell’altra ragazza più grande e stavolta, sono stata io a strisciare apposta contro il suo corpo. Volevo farle capire che… ero pronta. Mi prese subito per mano, dolcemente e mi portò nelle cucine. Io avevo il cuore che tremava ero… impaurita ed eccitata. Lei però smise di essere dolce e mi fece male. Sempre più male e mi obbligò a fare tutto quello che voleva.» Val per un attimo non pensò più ai suoi problemi: c’era solo Lilia e il suo dolore. «Tornai a letto con il sangue sulle cosce» disse Lilia, sempre più mesta. «Mi sdraiai e guardai il soffitto finché la Superiora non ci venne a svegliare al canto del gallo. E ogni notte prima di addormentarmi c’era la ragazza più grande che mi prendeva e mi portava nelle cucine e mi faceva fare tutte quelle cose che io forse desideravo ma che lei mi rovinava con la sua violenza.» Val le porse un fazzoletto, sospirando. Lilia si asciugò le lacrime e riprese: «Una volta, una singola volta che lei era forse stanca o forse aveva bevuto, stava ferma e allora… io ho fatto tutto senza che lei mi obbligasse ed è stato bello. Alla fine eravamo abbracciate e io pensavo che con il mio affetto l’avevo guarita. Sai, lei era proprio bella… anche se con quei capelli arruffati sembrava un maschiaccio. Poi però la sbornia o la stanchezza le arono e mi tirò uno schiaffo sulla guancia. Poi mi strinse il seno… sulla punta. Così forte da farmi sanguinare. Io credevo che avesse solo bisogno d’amore: mi sbagliavo. Era solo una sadica, che godeva a seviziare le altre. Se non ci fossero state Nadia e Gala sarei morta o impazzita.» «Perché non ci hai detto nulla?» chiese Val. «Tu eri sempre impegnato: avevi i tuoi draghi da cacciare e i tuoi orchi da sterminare, nella testa. Non pensavi ad altro! E io non potevo dire niente a mamma o papà. E dirlo a Thoran non era ugualmente una buona idea! Voi eravate i miei fratelli ma eravate tutti e due lontani. Ero sola. Avevo solo Gala e Nadia» disse Lilia.
«Avrei dovuto capirlo» disse Val scuotendo la testa, biasimando se stesso. «Non darti colpe: è andata così. Ho finto molto bene in casa con voi: finito il collegio è stato più facile. L’ultima estate siamo andate sulle alture con le Monache, a fare una merenda sui prati. Io ero andata con Nadia a cercare dei fiori e mi sono distratta. Così la ragazza più grande ha strattonato Gala e l’ha portata distante, appena fuori vista… Puoi immaginare come è finita. Me ne sono accorta troppo tardi e sono andata per fermarla. L’ho guardata dritta negli occhi, mentre Gala provava a ricomporsi. L’ho provocata: sapevo bene come fare. Così lei ha preso me, mi ha buttato per terra sulle pietre e mi ha strappato il vestito e Gala è scappata.» Per un attimo il dolore di Lilia si placò e Val vide sul suo volto la fierezza di quell’azione: l’avere aiutato un’amica. Lilia riprese: «Quella stessa sera sono tornata a letto col labbro ferito da un morso, un occhio nero e graffi e morsi sulle cosce: alle monache ho detto che ero caduta tra i rovi mentre cercavo dei narcisi, così mi hanno anche sgridato. Mi sono coricata sul materasso sperando di morire nel sonno e mentre stavo lì, sentivo Gala singhiozzare con la testa coperta dal cuscino.» Val non riusciva a immaginare come sarebbe finita. «Allora Nadia si è alzata senza dire nulla. Ci ha guardato per un istante, senza parlare, ed è andata fuori dalla camerata. È tornata dopo quasi un’ora e si è sdraiata nel letto, tranquilla. Da quel giorno né io né Gala siamo state più toccate e la ragazza più grande ha smesso di parlare con chiunque: se ne stava da sola in disparte, sempre ben lontana da Nadia. Anche Gala, ora lo sai, ha preso la sua bella dose di amarezze lì dentro. I suoi genitori non sono mai stati una famiglia comprensiva: c’eravamo solo Nadia ed io per lei, eravamo come tre sorelle. Allora, anche se tu odi tanto la sorella di Salaran, lei ci ha aiutato parecchio. E anche Nadia ha patito non poco la sua condizione: sai che è stata adottata?» «Ran si è lasciato sfuggire qualcosa in proposito, tempo fa» disse Val. «Sai quanto è dura crescere senza una famiglia? Abbiamo sofferto tutte e tre, come tu hai sofferto in guerra. Pensa a questo quando ritieni Gala una persona cattiva.» «Lo hai detto tante volte tu stessa che un tradimento non può essere giustificato»
ribatté Val. «Non so, Valen. So che non è una cosa piacevole e non andrebbe fatto. Ma è un momento difficile per lei e nessuno le è riuscito a starle vicino come andava fatto. Lei voleva te e tu non c’eri. Allora lei si è chiusa molto, come ha sempre fatto in questi casi. Neanche io sono riuscita a starle vicina. Tu devi essere comprensivo.» «Comprensivo? Non so nemmeno chi sia “lui”!» «Val tu sei stato lontano: sei sempre stato in giro per indagini e concentrato su tutto il resto e lei ha bisogno di qualcuno che sia presente! Tu sei freddo, fratello mio: anche se dentro hai sentimenti teneri e profondi, fatichi a mostrarli.» «D’accordo, ma bastava dirlo per tempo! Affrontare la cosa e non… trattarmi così!» «Ripeto che ha sbagliato ad affidarsi a chicchessia: è una cosa egoista e forse non molto matura ma tu l’hai lasciata andare senza far niente. Hai sempre pensato a cose più “elevate” e ti sei un po’ scordato di lei.» Val si fermò a guardare la sorella. Era di certo cresciuta. Le strinse le spalle. «Ho le mie colpe. Ma non meritavo questo.» «Non lo meritavi. Prova a parlarle ancora. Io credo che questa persona rappresenti per lei solo una figura di conforto in un momento di bisogno. Quest’uomo avrà notato che lei era in difficoltà e se ne sarà approfittato.» «Tu sai chi sia?» chiese Val. «No: non me ne ha parlato. Te l’ho detto si è chiusa anche con me. Eppure se tu riuscissi a farle capire che l’ami davvero, sono certo che tornerebbe da te.» «Ormai è tramontato il sole!» trasalì Val guardando fuori. Il tempo era volato e non si era reso conto di nulla. Si ricordò che Caviled sarebbe andato a prendere in custodia la giovane se non avesse avuto notizie. Così si asciugò il viso e corse fuori, lasciando Lilia incuriosita.
Si affrettò per giungere alla casa di Gala. Il cielo lo avvisò, non sapeva dire come. Sentiva qualcosa: si era rannuvolato rapidamente. C’era freddo, forse avrebbe nevicato a breve. Affrettò ancora il o. Un miliardo di pensieri gli affollarono la testa. “La amo? Quanto sono disposto a perdonarla? Ci sarà ancora un futuro assieme per noi?” E quando vide diverse persone attorno al portone della casa di Gala e molti erano Alabardieri, gli morì il cuore. Aveva già capito. Fu ancora peggiore vedere Caviled e Ser Ianos davanti alla porta riconoscerlo e chinare il capo. Val sgomitò tra la gente e le guardie e fece per entrare ma Caviled lo prese per le spalle di peso e lo fermò. «Galron… aspetta, ascoltami.» «No! Sergente, che è successo? Fatemi salire!» Ianos fece un cenno con la testa e Caviled precedette il Crociato sulle scale.
Non vi fu mai una visione più tetra e disperata di vedere la sua Gala bianca come un giglio con la testa leggermente reclinata sul fianco: un braccio pendente giù dal letto, l’altro appoggiato sul ventre. Val cadde in ginocchio, devastato nell’anima. La toccò. Era appena tiepida. Si ritrasse. Era morta. Caviled gli s’inginocchiò a fianco. «Cosa… come…?» disse Val singhiozzando. «Non ci sono segni di lotta o ferite. Sembra che sia… morta dormendo. Oppure…» Caviled sospirò, «oppure lei stessa si è data la morte.» Sul pavimento al bordo del letto c’erano molte fiale, alcune spezzate. Tra di esse ne svettava una inserita in una piccola statuetta d’avorio raffigurante una donna. Un Crociato le stava raccogliendo e infilandole dentro un astuccio di cuoio. «No. No! Lei… forse è stata avvelenata da qualcuno! Quelle boccette…» disse il Crociato indicandole.
«Non sappiamo di preciso cosa ci fosse dentro. Forse abbiamo trovato le erbe con le quali probabilmente sono state fatte: erano qui nell’armadio in un nascondiglio. Adesso per favore Val, lascia perdere le spiegazioni e preghiamo. Preghiamo per la sua anima. Nessuna indagine cambierà il fatto che lei ora non c’è più e ha bisogno che si preghi per lei.»
E così Caviled volse lo sguardo verso la giovane, si mise il pugno destro sul petto e lo coprì con l’altra mano. E pregò. Pregò con Val che singhiozzava al suo fianco, finché il Crociato non ce la fece più e la strinse. Le sue lacrime caddero come la pioggia scorrendo sui solchi del viso della ragazza. «Usciamo dalla stanza. Abbiamo preso ciò che ci serve, lasciate solo il ragazzo» disse Caviled. Ianos si avvicinò al Sergente gli bisbigliò nell’orecchio: «Forse dovresti prendere la spada e il pugnale di Galron. Mi sembra sconvolto, non voglio che faccia sciocchezze.» «Non lo farebbe, mi fido di lui. Andiamo pure» rispose il Sergente e usò un tono stizzoso. Voleva dire a Ianos in realtà: “Non sei stanco di dubitare sempre di ognuno e dovere mettere tutti alla prova? Sei contento di avere usato la giovane come esca?”. Ma non disse nulla, perché sapeva che anche Ianos dentro di sé, pur non dandolo minimamente a vedere, stava soffrendo per quella povera ragazzina. Lei, vittima sicuramente di sé stessa, ma catturata suo malgrado in un vortice dove pochi avrebbero mantenuto salda la ragione. Quando Val uscì, barcollava. Si sedette sul ciglio della strada, le mani nei capelli. Ancora una volta Caviled lo avvicinò. Faceva freddissimo fuori ma ormai a lui non importava. Il Sergente gli mise sulle spalle il suo mantello. Prese un respiro profondo e gli disse. «Shalamor, l’assassino che ha assalito Corvin, è scappato. Due uomini l’hanno aiutato a fuggire. Avevano una lettera di scarcerazione falsa e uniformi fasulle e così l’hanno liberato.» Il Crociato guardò attonito il Sergente. Caviled non faticò a immaginare che era stato Cromlan a liberare Shalamor. Quella vecchia uniforme da Paladino che indossava il complice dell’evasione valeva più di qualsiasi prova.
«Allora è lui! È stato lui: Shalamor! L’ha assassinata!» «Shalamor avrebbe potuto semplicemente pugnalarla: non è impossibile che sia stato lui ma non abbiamo prove. Avrà ato la giornata a nascondersi dopo che è scappato.» «Allora chi ha aiutato Shalamor a fuggire l’ha assassinata: per chiuderle la bocca dopo che si è saputo della nostra missione! Sergente, Gala non può essersi uccisa!» «Galron, abbiamo trovato un diario: affermava di essere sconvolta e la data era di oggi. Ma non ha aggiunto molto altro. L’inchiostro era così fresco che ha macchiato la pagina successiva. So che è molto penoso per te rispondere ora, ma devo capire cosa è successo. Lo esaminerò e cercherò delle prove ma credo abbia scritto poco dopo il vostro incontro.» «Sergente, non penserete…» «No, non fraintendermi. So che tu non c’entri. Abbiamo visto tutti la tua reazione e nessuno sospetta di te; e io non ti crederei nemmeno se me lo confessassi. «Mi avete lasciato fare» disse Val con delusa rabbia. «Mi stavate guardando tutti per vedere se l’avessi uccisa io. Siete ignobili!» «Ti ho lasciato fare: sono stato io a deciderlo perché sapevo del tuo dolore, non perché eri sotto esame. Avrete litigato, immagino. Dal diario sembrava molto addolorata. Le erbe che ho visto nell’armadio servono per stordire la mente: le conosco bene. A giudicare dagli strumenti che possedeva, temo che ne fe uso da tempo. Forse Gala ha esagerato con quegli intrugli. In ogni caso non c’era nessun altro in casa e la porta era chiusa dall’interno: sono stato io a sfondarla.» «Ne faceva uso da tempo?» disse Val incredulo. «Forse. Comunque non può avere imparato tutto da sola: qualcuno deve averle insegnato a usare le erbe e fare gli infusi.» «Lei… aveva trovato un’altra persona: me l’ha confidato, ormai amava lui! Sarebbe stata felice con lui. Non avrebbe avuto senso uccidersi per me. Non contavo più nulla per lei!»
«Non so risponderti. Io penso che non lo sapremo mai» disse Caviled. «Forse ha solo usato troppa leggerezza nel bere quelle pozioni. Leggerò accuratamente il diario. Non lo farò vedere a nessun altro e Ser Ianos è d’accordo.» «Voglio leggerlo.» «Lo capisco ma… sei sicuro che ti piacerebbe ciò che ci troveresti? Devi stare molto attento a volere entrare nella vita di una persona cara, così a fondo. Tutti hanno segreti e se lo sono, a volte è per un motivo. Per non fare soffrire gli altri.» Val si fermò a pensarci. Caviled riprese: «Faremo in modo che gli Alabardieri ci lascino indagare da soli.» Val si voltò verso il Sergente: l’ira gli aveva invaso il volto come se avesse capito di colpo qualcosa. «Ser Ianos non ha mandato me per puro caso a portare quella lettera. Sapeva di Gala: aveva previsto tutto. Ha usato me e anche lei.» Caviled non esitò a rispondere. «Ianos si è fidato di te, ma lui vede tutto in un contesto più ampio. Non è facile occupare la sua sedia e in ogni caso nessuno poteva prevedere cosa fosse successo. Voleva metterti alla prova per qualcos’altro. L’hai superata, a mio modo di vedere, anche se vorrei che tu non avessi raccontato nulla.» «Ho ato una prova, dite Sergente? Prova di che? A che prezzo?» «Occupiamoci del presente. … Che cosa ti ha detto Gala quando le hai parlato? Ti ha confidato qualcosa che ci potesse aiutare nelle indagini?» «Mi ha detto che aveva raccontato del mio viaggio a un suo amico. Non ha fatto nomi, poi abbiamo litigato e mi è ato di mente il dovere approfondire chi fosse costui. Non ho avuto tempo di saperlo. Il segreto… è morto come lei» disse Val guardando il selciato con mestizia. Poi aggiunse: «Scusate Sergente se non ho saputo tenere focalizzato il bene del Tempio contro i miei fatti personali» disse Val.
«Non dirlo nemmeno: ti capisco. Nessuno ce l’avrebbe fatta; quando il cuore si mette in mezzo, tutto si trasforma.» A Caviled vennero in mente vecchi ricordi e s’incupì. «Domattina ti farò sapere che dice il diario, te lo prometto. Adesso vai a casa. Non fare niente di avventato, ti prego» gli disse il Sergente come fosse un fratello minore. Ai familiari di Gala fu detto che lei era morta per un malore: il diario non fu menzionato e nemmeno le pozioni. Ianos aveva fatto occultare tutto dai Crociati prima che le trovassero gli Ispettori degli Alabardieri.
Il Cavaliere chiese udienza immediata con l’Esarca, usando tutti i suoi canali, anche se ormai era notte. La ottenne dopo molti strepiti e in un frangente mise pure mano alla spada. L’Esarca Bernet era sempre più tignoso: la faccenda dei Necromanti e degli omicidi stava gettando cattiva luce sull’Ecclesia. Quando Ianos gli disse che sospettava un coinvolgimento di qualche prelato a lui vicinissimo, l’Esarca saltò sulla sedia. «Non posso credere che serpi velenose siano giunte fino al mio Uffizio!» «Eppure è così, Eccellenza.» «State farneticando Ianos! Avete parlato di questi vostri sospetti a qualcuno?» «Ha importanza? La voce è sicuramente trapelata fuori dai nostri due templi.» «La notizia non deve uscire ulteriormente. Si non loqueris, cedet. Terminate subito tutte le vostre indagini sull’Uffizio! Non posso permettere che la nostra Ecclesia sia sottoposta a ulteriori scandali!» «Mio signore, abbiamo l’autorizzazione a fare indagini come previsto dall’accordo siglato tra…» «Non insegnatemi la storia, Ianos. Li conosco gli esiti dei Concili. Come voi sapete però, io posso impedire che voi indaghiate direttamente qui dentro se esiste una causa di forza maggiore e uno scandalo È una causa di forza maggiore. Voi mi avete ato l’informazione secondo i patti ed io reputo non necessario indire un’inchiesta interna. La vostra “giurisdizione” si ferma qui.»
«Eccellenza, se permettete,» disse Ianos insolitamente calmo, «anche la vostra vita è in pericolo. Il traditore potrebbe essere più vicino a voi di quanto pensiate!» «Ci penso io alla mia protezione! Io e l’Eterno. Se farete ancora indagini sull’Uffizio, giuro che vi farò inquisire! Arderete sul rogo! Igne comburatur sic quod moriatur!» «Il vostro antico sabano non vi salverà! Non posso credere a ciò che sento, Eccellenza!» Anche Ianos iniziò a scaldarsi. «Siamo in una situazione delicata! La nostra credibilità va difesa in nome dell’Eterno Reggente, dei fedeli e della Repubblica. Non ho uomini né volontà per effettuare indagini basate su vostre elucubrazioni, per di più ate dalla cattura di pazzi che hanno adoperato le arti Necromantiche e perso il senno, accusandoci di stregonerie! Ora ve lo ripeto, Ser: cessate ogni indagine sull’Uffizio! I Nemici della Vita stanno fuori dalla mia Ecclesia e non dentro!» Ianos se ne andò quasi senza salutare. Fu fermato da Thavion, ancora in vestaglia, che lo incrociò poco dopo aver varcato la soglia degli appartamenti esarcali. «Che succede, Ianos?» disse il Vicario. Ancora una volta il destino faceva incontrare Ianos con Thavion. Il Cavaliere si fermò ma fu bravo a non fare trasparire emozioni. «Bernet non vuole sentire ragioni. Siamo vicini alla verità e non vuole aiutarci: dobbiamo cessare le indagini.» «Verità? Che cosa avete scoperto?» fece con apprensione il Vicario. «Non ho più il permesso di dire nulla. Perdonami ma devo tornare al Tempio ora. E mi dispiace per la tua accolita.» «Mia accolita? Di chi parli?» «La signorina De Torne. Poche ore fa è stata trovata morta in casa sua.» Thavion sgranò gli occhi: non disse nulla e fece solo un piccolo o indietro.
«Era così giovane… e così brava. Come è successo?» «Sappiamo solo che è morta.» «Pregherò per lei» disse il Vicario voltandosi. Ianos lo osservò: tagliò la sua anima come se fosse burro e capì più di quanto non si potesse capire con uno sguardo. Thavion appariva sconvolto mentre nel contempo si irrigidiva facendo finta di considerare Gala come un animale domestico al quale era capitato un incidente prevedibile.
Caviled incontrò nuovamente Val verso l’alba nel chiostro pieno di brina ghiacciata e gli parlò del diario. Non lo portò con sé ed evito di menzionare molte cose che a Val avrebbero fatto parecchio male. Il giovane era pallido con gli occhi rossi e solcati da profonde occhiaie, spenti. Tremava e si copriva col manto. «Il suo diario parla, in effetti, di un uomo: un tizio piuttosto altolocato. Diceva di averlo conosciuto al Tempio, che si sentiva serena in sua compagnia ma che non gli piacevano alcuni personaggi del suo seguito. Purtroppo non dice il suo nome. La settimana scorsa ha scritto di avere parlato di te a costui e probabilmente gli avrà anche detto della tua missione con Salaran. Questa è quasi una conferma che l’informazione è arrivata ai Necromanti tramite lei e che era probabilmente in buona fede. Non sappiamo se questa persona abbia rivelato a sua volta a qualcun altro della tua missione o sia egli stesso la spia dei Necromanti. Però Gala ha menzionato un amico di quest’uomo: Mascan, un barbiere-chirurgo». Val iniziò a distogliere l’attenzione: finché si parlava di Gala era rimasto in silenzio ad ascoltare. Ma ora la cosa non parve più interessargli. Fissò il vuoto mentre il Sergente continuava: «Abbiamo catturato questo Mascan tempo fa. Egli ci ha parlato di un certo “Moloc” che è il suo capo tra i Necromanti. Gala parla male di questo individuo; lo definisce viscido e sgradevole. Una volta egli si lamentava col Vicario di fare spesso brutti sogni. E anche Gala dice spesso che qualcosa la tormentava nel sonno. L’abilità di influenzare i sogni di alcuni soggetti, specie nei loro momenti di debolezza, è propria dei Necromanti più potenti che pratichino anche magia Arcana o Stregoneria. E come sai, il Moloc delle favole per bambini e che vive
nell’armadio o sotto il letto, ha il potere di influenzare i sogni: non è un soprannome casuale.» «Perciò…» fece Val. «Credo che Moloc sia lo stesso che ha tormentato i sogni di Gala e di Mascan: è la spia dei Necromanti dentro la diocesi matriana. Il problema è che manca il suo vero nome.» «Se l’avessi lasciata prendere in custodia a voi, Sergente, ora sarebbe viva e voi avreste il nome che vi serve» disse Val sconsolato. «Galron… Non esagero se dico che Gala ha sbagliato molte cose, per quanto vorremmo che non fosse così. Ha commesso delle leggerezze imperdonabili. Ha appreso alcune pratiche che ben sapeva essere pericolose, come la preparazione di quegli infusi. Chi glielo aveva insegnato le ha garantito che fossero ricette sicure.» Il primo raggio di sole del mattino dipinse un triangolo giallo sulle tegole grigie del chiostro. Caviled si fece risoluto: «Stai certo che quando troveremo Moloc pagherà anche per la morte di Gala.» «Non è solo lui il responsabile, Sergente: l’ho lasciata da sola» disse Val. «Io non so come andasse tra voi, ma egli ha per certo plagiato la sua mente: non darti colpa per ciò che è successo. Non era più lei.» Caviled non aveva detto tutta la verità: era vero che Gala era stata manipolata, ma avrebbe potuto sottrarsi alla morsa se ne avesse avuto la volontà. In quel momento però non gli sembrava bene rigirare il coltello nella piaga. «Voglio partecipare all’indagine» disse Val: era come se si fosse svegliato. «Sei troppo coinvolto emotivamente» disse Ser Ianos. Come sempre il cavaliere arrivava al momento giusto. Giunse dietro di loro all’improvviso, come se li stesse spiando. Val ormai lo detestava quasi quanto odiava i Necromanti. Caviled chiuse gli occhi con disappunto per il pessimo tempismo del suo superiore. Fece per alzarsi e intervenire, ma Val lo precedette:
«Ser… mi avete mandato a Tila come uno specchietto per le allodole senza dirmi nulla. La mia fidanzata stava per essere inquisita e ora è morta! Io PRETENDO di partecipare a questa indagine o vi giuro che lo farò per conto mio! A costo di andare contro i vostri ordini: me l’avete insegnato voi e il Sergente. Penso con la mia testa e non m’importa se adesso è troppo calda: farò esattamente ciò che ho appreso, “signore”!» disse rabbioso mettendo la mano sul pomo della spada. Ianos lo fissò per qualche istante. Si rese conto che la misura era colma: aveva abusato di Val e della sua vita fin troppo. Non poteva negargli anche questo. Fece un cenno di assenso a Caviled. Si allontanò di qualche o. Poi si fermò, si voltò e disse a Val: «Sergente, tra due giorni portatelo dove sapete. Ma attento, Galron: pagherai gli errori di sentimento che farai. Sei un Crociato e devi essere al di sopra di tutto. Persino sopra al più grande dolore che provi. Anche… per lei, devi essere infallibile. Sergente Caviled, venga con me ora: siamo attesi. Galron, hai oggi e domani di permesso. Raffredda i bollenti spiriti e concentrati. Tra due giorni ti chiederemo di diventare parte attiva nella lotta a Moloc.»
Val ebbe molti problemi a organizzare la sepoltura di Gala: il suicidio era un grave peccato per quasi tutte le religioni e per quanto si fosse detto che Gala era morta per malore, i sospetti erano trapelati a tutto il clero. Al corpo sarebbero dovuti essere somministrati dei rituali deturpanti e degradanti per purificarlo dall’empietà della “auto somministrazione della morte”. Non tutti i matriani erano così rigidi, ma molti applicavano i dogmi alla lettera. Così Val andò alla Commenda dei Cavalieri Ospitalieri, da sempre pietosi nei confronti dei defunti e fece ufficiare il funerale da Railan, il giovane Ospitaliere che aveva conosciuto in guerra, che si dimostrò più che sensibile alla vicenda. La vestirono di bianco: la bara era così piccola che si pensò quasi che dentro vi fosse una bambina. Sotto il suo corpo vestito di bianco, Val mise il suo diario che Caviled alla fine gli aveva consegnato. Non lo aveva letto: aveva riflettuto su ciò che il Sergente gli aveva detto quel giorno. Quello che ci avrebbe trovato non poteva che causargli altro dolore e inoltre lei non aveva concepito quelle pagine scritte perché lui le leggesse. Le avrebbe seppellite con lei. I parenti di Gala mostravano dolore con sguaiata evidenza; la sceneggiata era
patetica. Val non li guardava: avevano sempre lasciato sola Gala e ora la piangevano noncuranti dei loro errori. In fondo alla Commenda però vide una donna vestita di nero e coperta da un velo. Era coperta in maniera quasi irriconoscibile. Seguì tutta la funzione ed accompagnò anche la salma al cimitero. Ma Val la riconobbe: era Greta. Si era camuffata poiché ad una prostituta non era concesso girare liberamente. Fu Milesia, la madre di Val, a riconoscerla per prima. «Come stai, Greta? Non sei più venuta a trovarci!» «Mi scuso, signora. Dopo la morte di mio padre ho avuto da fare.» «Lo so, stella mia. Come sei diventata grande e carina, mi ricordo quando eravate piccini, vero Val?» «Sembra ato un secolo» disse il Crociato in maniera sforzata. Milesia andò via con Lilia. Greta si strinse all’amico. Stavolta non c’era nessuna sensualità nel suo abbraccio: quel giorno non era una donna carnale, ma una giovane ragazza di cuore che provava affetto per quel ragazzo sempre troppo torvo, freddo e serioso. Era un abbraccio caldo e sapeva di speranza. Ma niente poteva lenire la pena di Val. «Hai mani grandi, Val. Mani fatte per abbracciare» gli disse Greta. «Le mani grandi sono fatte per stritolare… quando vorrebbero accarezzare. Per schiacciare quando vorrebbero sfiorare» rispose triste il Crociato.
Val corse a Beivades. Corse sullo scoglio dove era cresciuto, dove aveva pescato migliaia di volte. Di fronte a lui c’era il mare che urlava, gridava e sfidava gli uomini, mentre la pioggia gelata sferzava le case. C’era burrasca nell’aria. E Val cadde in ginocchio ed urlò, urlò così forte che il vento e la sua voce diventarono una cosa unica. E i tuoni distanti lo minacciarono e gli intimarono di andarsene. Ma lui non se ne andò. Come molti anni prima, un’altra parte di lui era morta. Adesso non era più un ragazzo. Era un giovane uomo, spada in pugno contro la
vita e aveva capito con largo anticipo ciò che spesso non si capisce nemmeno dopo un’esistenza intera. Era lontano da chi aveva avuto tutto: ora sapeva il prezzo delle cose. Avrebbe combattuto e saputo la verità. La notte gli toccò quello che per lui fu il vero rito funebre. Gala era entrata in contatto coi Necromanti e l’Eterno solo sapeva cosa potevano averle fatto. Il suo corpo non poteva riposare così indenne, nella nuda terra. Così, quella notte, lui e Caviled riesumarono la bara: poi Val chiese di essere lasciato solo. Cercò un ciliegio solitario, non lontano dal mare che Gala amava. Nelle sue vicinanze poggiò la bara e la bruciò. Le ceneri furono raccolte e sparse sulle radici dell’albero, come solevano fare i Popoli Antichi. “Quel ciliegio, da lì in poi, sarebbe fiorito ogni primavera nel ricordo di Gala”, pensò. «Nessun servo della Morte ti troverà mai qui. Da loro sarai libera per sempre» disse Val andandosene via.
Si recò la mattina da Corvin: era in parte rasserenato perché perlomeno aveva garantito alla sua amata il riposo eterno. Corvin accolse il suo dolore con compostezza. Parlarono e riuscì anche a strappare qualche sorriso dal Crociato. Val però spesso tornava ai problemi nonostante l’amico tentasse di distrarlo. Poi fu lo stesso Crociato, stufo di rimuginare sulle sue disgrazie, a cambiare argomento. «E tu, come va con Erin?» «Siamo felici.» «La ami?» «La amo.» «Io non so più dov’è l’amore. Io odio l’amore. Non voglio amare mai più» disse Val. Corvin non rispose. Non c’era niente da rispondere, in quel momento. Sapeva che per Val era tutto troppo vicino. «Ancora ricordo… un’estate fa eravamo a Beivades. La casa era solo per noi. Gala aveva freddo nonostante fosse caldissimo fuori. Se ne stava avvolta in quel lenzuolo di lino e dormiva, dolce. Quel giorno pensavo che l’avrei amata per
sempre, che avrei sempre voluto vederla dormire così. E invece… Come ha potuto fare tutto questo… non lei. Non posso crederlo: è questo che mi distrugge, più della sua morte.» «Capisco perfettamente. Forse si sentiva sola da quando era nata e nessuno avrebbe lenito la sua solitudine. Ma lascia che sia il tempo a suggerirti la verità. Nessuno di noi può vederla ora.» «So qual è la cosa migliore adesso. Devo prendere quel bastardo, quel lurido assassino e farlo confessare. Dovrà rispondermi se ha ucciso lui Gala. Io sono certo di sì.» Forse era meglio non conoscere la risposta, ma Val lo desiderava più di ogni altra cosa e Corvin sapeva che non si sarebbe fermato facilmente. «Ianos ha in mente qualcosa per me. Ha detto a Caviled di portarmi in un posto. Non li ho visti da l’altro ieri, non so altro.»
Al tempio di Sant’Isior vi fu un’assemblea convocata da Ser Ianos. Chiamò Chiliana e suo marito Mandecar, Caviled e Ser Bevarond: Ianos temeva che Val potesse fare qualche sciocchezza. Ancora una volta Caviled insistette e disse che Val sarebbe dovuto essere coinvolto maggiormente nelle indagini. «Dobbiamo tenerlo legato a noi. Ormai è troppo connesso con questa vicenda, dobbiamo dargli fiducia e usarlo come alleato, oppure ci ritroveremo un nemico o un ostacolo» disse Caviled. «È poco più di un ragazzino. Anche se ha combattuto bene non basta per prenderlo tra noi» disse Bevarond. «Ser, se lo lasciamo da solo, se non lo portiamo per mano fino alla verità, lo prenderanno loro. Abbiamo già perso qualcuno di caro perché non abbiamo saputo stargli vicino.» ribadì Caviled. «Lo sapete meglio di me che le vendette dei Necromanti colpiscono prima i sottoposti e poi i capi: “basta bloccare le braccia per rendere inefficace il pensiero”.» Ianos stette in silenzio, torvo.
«Caviled ha ragione. Ricordiamo cosa successe in ato quando il dramma di una persona non fu compreso e i Necromanti la circuirono. Adesso quella persona ce la troviamo contro ed è un nemico da non sottovalutare. Vorrei parlare io col giovane Galron» disse Dama Chiliana. Tutti la osservarono. Chiliana sapeva tenere viva l’attenzione anche solo parlando col suo tono gentile ma fermo. «Perdere la propria amata ed essere traditi nella fiducia è qualcosa che nessuno sopporterebbe senza una pena infinita dentro al cuore. Io voglio sapere cosa prova e voglio aiutarlo. Se vedrò giusto, gli parlerò del nostro Ordine e lo coinvolgerò.» Dama Chiliana era una persona meravigliosa, così saggia per quanto fosse tutto sommato giovane. Nessuno osò contraddirla.
«Valen Galron? Vorrei parlarti se puoi.» Appena Val vide la Paladina, s’inchinò. Era un grandissimo onore: Chiliana era un modello per tutti. «Mia Signora, comandate e vi servirò» disse Val. «Per favore, niente convenevoli tra noi, Valen» gli disse la donna. «Se dobbiamo combattere insieme, è necessario che ci rispettiamo come pari.» Val le sorrise, ma tanta amarezza traspariva dal suo viso. Era anche sorpreso della frase “Combattere insieme”; forse ella intendeva affidargli qualche incarico? Ma era una Paladina e lui dipendeva dai Crociati, pensò: giurisdizioni diverse. Stette pertanto a sentire, incuriosito. «Io ti porgo le mie condoglianze per la tua perdita e so che sono poca cosa. Caviled mi ha raccontato anche di quel giorno sul ponte dopo Gauna. Anch’io ho perso tanti amici in ato, combattendo» disse accarezzando un piccolo anello che portava sulla mano sinistra. «Giuro sulla tomba di Gala che troverò chi l’ha uccisa. Non posso credere che si sia data la morte.»
«Non giurare mai quando sei in collera o al settimo cielo, Valen: le circostanze possono cambiare e mutare la tua volontà contro ogni tua previsione» disse Chiliana. Val fu sorpreso da quelle parole: pensava che un giuramento fosse una cosa molto “da Paladini”. Proprio loro invece sapevano quanto è diffusa la pratica di giurare con leggerezza. «Cerca sempre di usare istinto e ragione in parallelo e non esagerare con le promesse.» «Ianos qualche giorno fa ha detto che Caviled avrebbe dovuto portarmi in un posto» disse Val intuendo che quel giorno era arrivato. «Esatto, e ho chiesto di farlo io: ne ho parlato con Caviled ed è stato d’accordo. Io e lui vorremmo sapere se possiamo contare sulla tua fedeltà.» «Voi l’avete già» disse. «Voi due» aggiunse. «Io capisco che tu possa avercela con Ianos. Ma lui è uno dei punti saldi della difesa di Lenvar dal male e le sue scelte non sono mai facili da fare.» «Comprendo. Ma egli non si fida di me: mi mette alla prova e poi mi tiene all’oscuro di tutto.» «Tutt’altro. Cromlan era forte, ma tu hai resistito; l’Eterno sia lodato perché Caviled ha deciso di seguirvi o forse vi avrebbe ucciso. Ma devi sapere che Ianos non ha fatto niente per impedire al Sergente di seguirti, anche a costo di perdere un uomo così prezioso come lui. Ianos era sicuro che ti avrebbe protetto, quindi posso dirti che aveva a cuore la tua salute. È un uomo difficile e non prova facilmente attaccamento per qualcuno. Ma in fondo è buono come Caviled.» «A proposito: c’è una cosa che non ho mai osato chiedere al Sergente. Quando mi addestravo al Tempio tutti dicevano che Caviled aveva commesso un grave crimine… è vero?» «Conosco quelle voci; girano da un bel po’. Ma non spetta a me dirtelo. Sono certa che lui si confiderà con te se oserai chiederglielo personalmente. Sai, ti ritiene quasi un fratello minore. Ma se tu venissi a sapere che ha compiuto qualcosa di grave, cambierebbe la tua stima in lui?»
«Mai!» «Non ti ho detto di non esagerare con le promesse?» «Ne sono certo: non posso dimenticare ciò che il Sergente ha fatto per me. Neanche se avesse ucciso sua madre appena uscito dal suo ventre.» «Valen, se ti chiedessi di aiutare me, il Sergente e altri... “amici”, ad ogni costo, anche dovendo tenere tutto nascosto a chi ami di più, tu lo faresti?» «Avete la mia parola. Non voglio più che le persone a me care siano coinvolte a causa del mio “mestiere”.» «Allora dobbiamo andare in quel famoso luogo di cui ti ha parlato Ianos. Monta a cavallo, si trova in città.»
Val fu stupito, quando vide Chiliana portarlo in uno dei bassifondi più puzzolenti dei quartieri vecchi. Lo fece coprire di un mantello rammendato e umile e anche lei si vestì ugualmente. Lasciarono il cavallo presso una stalla, ben distante dal luogo dove si recarono a piedi. Giunsero in un vicolo: Chiliana spostò alcuni barili e casse marcite e aprì quello che sembrava un tombino o una botola. Scesero in un cunicolo e Chiliana accese una vecchia torcia. Camminarono per quasi un’ora in interminabili corridoi stretti, a volte scavati nella roccia grezza. Talvolta a Val sembrò di osservare vere e proprie case, con porte e finestre. «Attento, non c’è corrimano qui» gli disse la paladina ad un certo punto. «Corrimano?!» chiese stupito Val. Chiliana gli indicò di guardare più attentamente nel buio. Qualche raggio di luce filtrava dall’alto: c’era una grossa caverna, piena di case in rovina a volte inglobate nelle rocce e nei terrapieni. Il tetto era sostenuto da colonne, alcune naturali e altre costruite. Era una città sotterranea. «Così è vero che la vecchia città sabana è stata in parte sepolta» disse Val. «È incredibile.»
«È così. Succede alle città: ricambio. Queste rovine sono vecchie quanto l’Antico Impero. Vieni, dobbiamo camminare ancora un po’.» Val non avrebbe saputo tornare indietro senza aiuto, mentre la Paladina sembrava muoversi sicura come a casa propria. A volte diceva a Val di tenersi a destra o a sinistra, o di non calpestare alcune lastre affermando che fossero fragili o celassero trappole. Arrivarono fino a un vicolo cieco in fondo a una caverna piccola. Muschio viscido cresceva sulle sue pareti. La Paladina lo spostò e tirò una leva. Una porta nascosta si aprì con un fragore di pietra strisciata. Percorsero un altro tunnel e poi di fronte a Val si diradò una nebbiolina: erano in una grande caverna dal soffitto piuttosto basso, con stalagmiti che ne formavano i pilastri e tutto era immerso nell’acqua scura. Una barchetta di legno era legata a un palo di metallo che affiorava dal lago. Chiliana slegò la corda e fece salire Val: gli diede una pertica e lo fece spingere mentre si mise a prua. «Andiamo in questa direzione. Coraggio: costerà un po’ di fatica, ma sarà ben ripagata.» Val spinse. Si sentiva stranamente a disagio in quella zona: sentiva come echi lontani. Ogni tanto la pertica scivolava su qualcosa: il fondale era tutto sommato basso e stranamente bozzoluto. «Ci sono delle pietre molto scivolose! Alcune sembrano rompersi, o muoversi» disse il Crociato. «Non sono pietre.» Val trasalì. Allora si guardò in giro: dalle piccole isolette che sbucavano sopra il pelo dell’acqua gli parve di intravedere qualcosa, come strane formazioni calcaree, rotonde. Chiliana si voltò a guardarlo: prese un sassolino da una tasca. gli batté la mano sopra, disse due parole in sabano e lo lanciò nell’acqua. Dopo qualche istante il sassolino splendette di luce forte e illuminò il fondale e qualche isoletta. Non erano concrezioni! Erano ossa umane: migliaia e migliaia di crani, tibie, costole e quant’altro. Val fu sbigottito e cadde a sedere sulla barca, facendola
rollare. Chiliana si inginocchiò per non cascare fuori bordo. «Calma! Non ti faranno niente, sono solo gusci vuoti ormai» disse la Paladina. «Le loro anime sono in pace: questo è un luogo di riposo ora.» «Come sono finiti qui tutti questi scheletri?» chiese Val. «La peste di un secolo fa. I morti sono stati parecchi e questa zona della città non era ancora abitata. Li seppellirono qui sotto a migliaia: poi la città li inghiottì. Qui sopra c’è un parco, l’avresti detto? La loro tomba sorge sotto un bellissimo giardino fiorito. un piccolo sollievo per la sofferenza di questa gente.» «Perché mi avete portato qui, mia Signora?» chiese Val. «Qui io e i miei compagni abbiamo combattuto una battaglia segreta, che ha cambiato i destini di Lenvar. Eravamo di più allora. Con noi c’era anche Cromlan, che hai conosciuto: non era il grigio e freddo cavaliere che è oggi. E c’erano altri che ora sono… svaniti. Forse siamo nuovamente all’alba di un’altra dura lotta.» «Cromlan era…» «Era un Paladino. Fedelissimo alla causa, ma per i chierici aveva un difetto insanabile.» «Ragionava con la sua testa?» chiese Val sarcastico. «Era devoto ai dogmi, non fu quello il problema. Si disse ad un certo punto che lo scudiero di Cromlan avesse un particolare “attaccamento” verso di lui. Cromlan veniva da lontano, dall’Est. E Cromlan non è nemmeno il suo vero nome: è il modo in cui l’abbiamo “lenvarizzato” noialtri. Viene dalla terra degli Hela-rai: sai le storie che si raccontano su di loro?» «Si, che deridano gli sconfitti e non facciano prigionieri. Umiliano i vinti con pratiche degradanti.» «Sono semplici chiacchiere. Ho viaggiato per quelle terre e i guerrieri Hela-rai non fanno né più né meno che le loro controparti di qui: uccidono, saccheggiano e violentano esattamente come qui. Quelle storie sono invenzioni per spingere le “genti civilizzate” a combatterli. La cosa che fa davvero scandalo nelle nostre
terre è che per i loro guerrieri il “legarsi” affettivamente non è visto come un’ignominia. E talvolta capita che questi legami diventino… molto più forti. Da noi questo è più che proibito.» E nel dire questo, pensò a Mandecar. Anche loro in fondo erano due guerrieri legati da un profondo amore. «Cromlan era un Paladino però… Pensavo che gli Hela-rai non credessero nell’Eterno Reggente» disse Val. «No, infatti. Hanno le loro religioni: la famiglia di Cromlan però è stata convertita dai missionari ed è sfuggita alle persecuzioni operate contro i matriani laggiù. Cromlan entrò in un convento a Werdand e lì divenne Paladino» disse Chiliana. Mentre raccontava, tutta l’ammirazione che aveva per quell’uomo sbocciò senza nascondersi. «Lo stesso Achastor che è il più grande Paladino vivente, lo investì del titolo e lo mandò a combattere il male qui dalle nostre parti.» Val la guardò silenzioso. Ella proseguì: «Cromlan era sempre accompagnato dal suo scudiero, ma non lo trattava con sufficienza come i cavalieri fanno normalmente con i loro scudieri. Aveva un’attenzione per lui che destarono sospetti.» Val comprese subito, stavolta. «Nessuno di noi era sicuro che Cromlan fosse in qualche modo legato al suo scudiero più che dal semplice affetto che si crea tra maestro e allievo. E nessuno di noi voleva chiedere: semplicemente per noi non era importante. Era un cavaliere nobile e senza eguali: ha salvato molti in battaglia. Ma la cosa creò scalpore.» Chiliana si fece cupa a quel punto. «La notizia trapelò. I prelati arrestarono lo scudiero e lo accusarono di avere sedotto Cromlan. Nonostante egli fosse stato l’eroe di quei giorni del male, il più forte tra di noi, il Capitano del suo ordine gli disse che se fosse stato vero, avrebbero bruciato lo scudiero sul rogo con l’accusa di plagio.» Val fece un profondo sospiro a sentire quelle vicende.
«È un crimine amare qualcuno?» Questa frase gli uscì con grande naturalezza, come se a dirla fosse stata proprio colei che gliel’aveva insegnata. Chiliana sorrise da dentro il cuore. Era già convinta che Val fosse una persona valida ma con quella frase tutto le fu confermato. Continuò: «Il Capitano chiese a Cromlan di confessare. Cromlan era e rimane un tipo orgoglioso: si indispettì e non smentì né confermò nulla. Anzi stuzzicava i prelati con frasi ambigue. Si impuntò e non volle abbandonare il ragazzo.» Chiliana si fermò un istante. Guardò Val e pensò a quello scudiero. A quei tempi aveva pressappoco l’età di Val. «Dapprima riuscimmo a commutare la condanna a morte in clausura: io ed altri protestammo vibratamente e ci ascoltarono almeno su questo. Poi lo scudiero si ammalò: le circostanze non furono mai molto chiare a noi, né Cromlan volle confidarsi con me né altri. Ma capimmo che lo scudiero aveva il “sangue pallido”. Iniziò ad essere sempre stanco, affannato e non era in grado di sostenere sforzi prolungati: così l’Abate volle farlo trasferire altrove, in un sanatorio dove probabilmente sarebbe stato lasciato lì a morire. Cromlan minacciò di abbandonare i Paladini e allora il Capitano gli venne incontro dando allo scudiero blandi compiti di servitù e proibendogli l’uso delle armi. Diedero a Cromlan una missione: doveva partire per un viaggio e sapeva che se avesse lasciato lì lo scudiero da solo, probabilmente non l’avrebbe più trovato al ritorno. Le malelingue ormai parlavano apertamente di una relazione tra i due. Così un giorno i chierici portarono al cospetto di Cromlan una donna che lui non aveva mai visto né conosciuto.» «Che caos» commentò Val. «Quante elucubrazioni inutili per un semplice legame affettivo!» «Sono felice che tu la pensi così. Gli dissero che doveva sposarla e poi avrebbe anche potuto ripudiarla, usando come pretesto che ella non potesse avere figli. Ella era probabilmente una prostituta pagata dai sacerdoti per eseguire e tacere.» «Combatterono un peccato con un altro?» rispose Val meravigliato. «Fu degradante e disgustoso per noi tutti. Cromlan non accettò, si imbufalì e da
lì perdemmo il contatto con lui. Io ricordo come Caviled gli suggerì di essere accomodante. Ma rifiutò e fu marchiato con il disonore. Si era convinto che i chierici stessi avevano infettato il ragazzo con un morbo oscuro per sbarazzarsene. Non so chi gli mise in testa questa idea: forse non era del tutto sua. Comunque Cromlan sarebbe stato processato per la sua presunta condotta malsana; così un giorno prelevò il ragazzo dalle cucine e se ne andò via con lui. A tutt’oggi c’è una condanna al rogo per entrambi: se noi dovessimo vederli, avremmo l’ordine di portarli al cospetto dell’Inquisizione o ucciderli sul posto» disse la Paladina guardando con tristezza le piccole increspature sull’acqua. «Capisco. E voi non volete, perché avete combattuto assieme.» «Sì, Valen. Era più che nostro amico: era un fratello. Fai attenzione a ciò che ti dico ora: lui si sentì tradito da tutti anche se sapeva che noi non avremmo mai eseguito quell’ordine e saremmo rimasti al suo fianco; di nascosto se necessario. Forse è stato persuaso dai Nemici della Vita che eravamo tutti vermi della stessa mela marcia e ora egli è nell’Ombra. Non ho mai saputo come l’abbiano convinto a are dalla loro parte ma a spesso usano sotterfugi per mettere le persone contro le loro credenze.» «Penso di capire cosa state dicendo. Non dovete temere per me, io non cascherò mai nella loro rete.» «Ne sono sicura, per questo siamo qui» rispose e voltandosi verso Val gli sorrise con calore. «Ecco, siamo arrivati.»
Giunti all’altra estremità della grotta, Val notò un piccolo molo di pietra. Altre barche vi erano legate. I due scesero e Val osservò alcune colonne lavorate reggere un soffitto di pietra decorato con scene che lasciavano pochi dubbi: erano immagini funerarie, sacrifici e resurrezione di corpi morti. Immagini necromantiche, di certo. Troneggiava sopra il muro, sotto un bassorilievo con il teschio di caprone, il motto dei Necromanti scritto in antico sabano: “Per Mortem, Ad Vitam” «Questo era un tempio di Egrothar una volta, non è vero?» chiese Val. «Sì. Da molto non lo è più. I Necromanti pensano che sia crollata la volta e non
valga la pena di scavare. Inoltre tutti quelli di loro che sapevano come arrivare qui sono morti.» «Perché non avete cancellato la scritta?» «Perché dovremmo? La memoria delle cose va preservata. Non dobbiamo cancellare la storia: dobbiamo insegnarla perché non si ripeta e non fare finta che non sia accaduta.» Oltrearono un archivolto e scesero alcune scale, fino a giungere in una grande sala, un tempio. Era in pezzi. Alcune colonne erano abbattute, parte del soffitto era crollata. Di fronte all’entrata troneggiava una statua di Egrothar con il teschio di caprone sulla testa a mo’ di elmo. In fondo alla sala c’era una grande lastra di pietra a mo’ di tavolo ed attorno ad essa diverse figure sedute su troni di legno. Val non fece fatica a riconoscerle: c’erano Ianos, Bevarond, Caviled ed ancora Kenarnon. Ma c’erano due individui che non conosceva: uno era certamente un mago, incappucciato e vestito d’una veste verde chiaro decorata d’oro; l’altra era una sacerdotessa matriana di mezz’età, con una cuffia bianca fermata da una tiara d’argento con tre gemme bianche. «Galron, benvenuto» disse Ser Ianos. «Io vi ringrazio e vi saluto» rispose il Crociato. «Mi chiedo che cosa sia successo qui in ato.» «Olde Hystory» rispose Bevarond. «Storia antica. Anni fa questo era il ritrovo di una setta di Necromanti sacerdoti di Egrothar. Erano capeggiati da un individuo empio che avrebbe potuto soggiogare Lenvar se non fossimo intervenuti. Noi l’abbiamo fermato.» «E abbiamo capito alcune cose» disse Chiliana. «Che il potere a poco a poco distrugge l’umanità che c’è in noi. Più lo cerchiamo, più siamo schiavi di esso, scendiamo a compromessi e infine… cadiamo.» «Perciò da quel giorno abbiamo fondato un Ordine segreto e ci riuniamo qui perché solo noi ormai conosciamo questo luogo. Per noi è un simbolo. Quest’Ordine è così nascosto che non ha nemmeno un nome preciso» disse Kenarnon. E aggiunse: «assieme giurammo di proteggere la gente dai
Necromanti e ci dividemmo per il Continente fondando nuovi nuclei a noi fedeli, per diventare più forti.» Vi fu un attimo di silenzio. Val era quasi a bocca aperta. Parlò Ianos: «Una sola condizione esiste, per potere fare parte dell’Ordine: limitare il nostro potere. Non abbiamo un capo e siamo, per nostra volontà, capillari nell’organizzazione. Non abbiamo statuti o documenti scritti: solo la volontà di combattere i Nemici della Vita.» «Limitare il potere?» disse Val. «Dividersi per il continente per fondare altre “basi” e diventare più estesi, non è forse guadagnare maggior potere?» Tutti rimasero di stucco. Quello di Val fu considerato un fare arrogante. Ma dopotutto egli sentiva di non avere granché da perdere. E poi aveva ragione, in fondo. Non cascava più nei bei discorsi idealistici, da quando era stato in guerra. «Vedo che il tuo ragazzo è sveglio, Ianos.» Fu il mago vestito di verde a parlare: «Mi chiamo Allistar e appartengo alla casata dei Grilam. Sono un incantatore, come vedi. Ciò che dici è giusto, ma ciò che intendeva Ser Ianos è limitare il proprio potere individuale. Prendi Kenarnon: egli è un principe ed ha rinunciato al trono per essere dov’è ora.» «Perdonatemi» disse Val con un inchino. «Il vostro gesto ha dell’incredibile in questo mondo privo di giustizia. Vi porgo omaggio.» Ormai nutriva per Kenarnon quasi la stessa stima che aveva per Caviled. L’elfo gli sorrise come risposta. «I nostri ranghi si assottigliano» riprese a parlare Ianos. «Ormai tu sei invischiato in questo pasticcio e ci dovrai aiutare: noi possiamo proteggere te e i tuoi cari. ,Essi non devono essere messi a parte della nostra esistenza». «Noi ci muoviamo parallelamente a ciò che fanno le chiese, o i governanti» intervenne Bevarond. «A volte utilizziamo le loro forze ma senza dargli troppi dettagli. Abbiamo gli stessi nemici, ma li combattiamo con la segretezza. Le spie dei Necromanti sono ovunque e spesso occupano posizioni altolocate. Sono tanti coloro che nei nostri giorni usano le Nere Arti per prolungare la vita e ottenere la conoscenza. A che prezzo? La perdita del senno, il vilipendio dei defunti, i sacrifici umani. Non possiamo permetterlo: e se ciò vuol dire non combattere
alla luce del sole, così sia.» «Con ciò, Val, vogliamo che tu faccia parte del nostro Ordine» disse Caviled sorridendo. Si alzò e gli tese la mano. Val esitò. Ormai non si fidava molto di Ianos, ma sapere Caviled e Kenarnon membri di quel curioso Ordine, lo confortava. Era ancora scettico tuttavia e il suo buon senso lo fece parlare. «E se rifiutassi?» Vi fu di nuovo silenzio. Caviled lo guardò con disappunto, anche se comprendeva le sue ragioni. «Nonsense. Se tu rifiutassi la cosa si complicherebbe for ye» disse Ser Bevarond. «Se noi ti lasciassimo andare liberamente dopo averti parlato di questo Ordine con te, saresti una preziosa fonte d’informazione per i Necromanti.» Val aprì la bocca per parlare, ma Ianos lo anticipò: «Non ti consiglio di rifiutare» disse. «Ormai sei dentro fino al collo e i Necromanti ora sanno troppe cose: potrebbero anche sospettare che tu sia coinvolto e che tu sia una persona importante per l’Ordine, giacché Caviled è venuto a soccorrerti contro Cromlan.» «Quindi non ho scelta. E mi prendereste solo dopo che mi avete coinvolto, VOI stessi» disse Val contrariato. «Che cosa dovrei dirvi? Dopo che mi avete usato come esca, dopo che la mia amata è morta, ora mi dite che la mia famiglia è a rischio e che sono OBBLIGATO a fare il vostro lavoro di sotterfugio? Adesso fatico davvero a capire se sono i Necromanti i veri cospiratori! Il manipolatore finora siete stato voi, Ser! Shalamor adesso è libero e se i Necromanti sospettano di me, devo proteggere la mia famiglia!» Val fece per voltarsi, Chiliana lo prese per le spalle. Gli girò attorno e lo guardò in viso. «Per favore, Valen» gli disse dolcemente. «Resta con noi: quando questa storia finirà potrai andare dove vuoi. Proteggeremo noi la tua famiglia e i tuoi amici: abbiamo già mandato uomini fidati a sorvegliarli, non gli succederà niente.
Parola mia, devi credermi.» «Avete mandato uomini fidati anche a sorvegliare Gala, quando volevate inquisirla?» rispose Val. Ianos si alzò: «Gala ha fatto la sua scelta; quella sbagliata e lo sai. Comprendo il tuo dolore, ma devi capire che la sua leggerezza poteva costare cara a tanti. Potevi pagare con la vita, tu e anche il tuo amico» disse. «Gala è caduta vittima dell’ombra per la sua paura, perché ha creduto a qualsiasi persona purché le desse sollievo dalle sue pene. Ella non aveva nessun tipo di…» «Cessate di parlare di Gala, Ser!» disse Val molto contrariato. «A cosa vi servo poi? Non sono che un semplice Crociato. Perché avete bisogno di me?» «Siamo pochi ormai qui a Lenvar. Da tanto la Repubblica non era minacciata dai Necromanti e non abbiamo più addestrato nessuno. Adesso ci servono uomini fidati e tu potresti essere uno di questi. Questo è un segno di fiducia. Val, resta con noi. Se ci volti le spalle sei da solo… Contro di loro» gli disse Caviled. «Pensa a coloro che ti stanno vicini. Sei un Crociato, come hai detto: c’è il dovere per noi, prima di tutto.» «Ascolta il Sergente» aggiunse Ianos. «È stato lui a sostenere la tua ammissione.»
ò un interminabile minuto. Il Crociato abbassò il capo. Voleva piangere o spaccare tutto. Si sentiva ora debole, ora furioso: un pulcino e un toro. Poi alzò la testa, fieramente. Pensò ai suoi genitori, alla sorella, a Gala, a Greta, Corvin e Ran: era come se li avesse tutti davanti, che lo osservavano e gli davano forza. Guardò Chiliana e lei gli parlò con i soli occhi. A Val venne in mente il racconto sull’esilio di Cromlan e finalmente capì appieno cosa voleva dire la Paladina. Finché c’erano persone di cui fidarsi come lei, Kenarnon e Caviled, avrebbe potuto sostenere l’Ordine. Prese un bel respiro e disse: «Bene, non ho scelta. Ma non aspettatevi che obbedisca ciecamente alle vostre strategie. Ho il diritto di essere informato, dato che mi avete trascinato dentro contro la mia volontà mettendo a rischio tutto ciò che ho di caro. Combatterò
questa battaglia, anche se non so contro chi; e quando sarà finita e Lenvar sarà al sicuro, mi lascerete libero dagli impegni. Solo questo vi chiedo.» «Non puoi fare quello che vorrai, una volta che sarai dentro» disse Ianos. «Se avete intenzione di imprigionarmi, siete in superiorità numerica e non dubito che ci riuscirete» rispose Val. «Le mie condizioni sono queste e penso di averne diritto.» «Non essere patetico, Galron. Ti dimentichi che hai un’uniforme, che porti il Solecroce sul petto. Potresti anche non approvare i nostri metodi, ma rimani un Crociato e combattere i Necromanti è una missione per la quale hai giurato, anche fuori dall’Ordine. Se decidi di non intraprenderla, non ci sarà più posto per te nemmeno nel Tempio» aggiunse Ianos. «Ser, combatterò il Male al meglio delle mie possibilità. Chiedo soltanto di continuare a farlo, una volta finita questa battaglia, secondo i miei metodi.» Ianos guardò in alto, sbuffando. Conscio di non potere continuare quel battibecco all’infinito, rispose: «D’accordo. Ma fino alla fine di questa lotta, sei alle nostre dipendenze. Sergente, conducilo fuori. T’informeremo su ciò che ci sarà da fare al più presto, Galron. Sei ancora il mio personale attendente e sarai esentato da tutti i compiti più ingrati al Tempio. Vai adesso e cerca di mettere in ordine le idee.» Val e Caviled si allontanarono. L’anziana sacerdotessa matriana, la Badessa Clodis, parlò. «Quel ragazzo mi ricorda tanto Sìlian, che l’Eterno lo abbia in gloria. Stessa scarsa predisposizione a obbedire che aveva lui, ma un senso di giustizia che va oltre le leggi.» Da una bisaccia estrasse alcuni carteggi e poi continuò: «Ora, amici miei, parliamo di questa situazione. Sappiamo che il Necromante più forte di questa nuova orda si fa chiamare Moloc. E che probabilmente, ahimè, fa parte della mia Ecclesia. L’Esarca è stato informato del rischio che ci sia un infiltrato, ma non ha indetto indagini affermando che se ne sarebbe occupato lui stesso. Curioso fatto.»
«Il Gran Maestro dei Paladini, Achastor, è preoccupato» disse Dama Chiliana. «Molti dei nostri scudieri sono stati messi a guardia dei cimiteri e non pochi hanno visto i morti alzarsi dalle tombe. Finora il fenomeno è stato circoscritto prima che creasse troppo baccano, ma sta diventando sempre peggio. I più colpiti sono i cimiteri di campagna lontani dalle città: ci vorrebbero i soldati per proteggerli tutti.» «Sul fronte degli omicidi, l’investigatore Morlav ci farà sapere presto cosa ha trovato: ci ha promesso qualcosa d’interessante» disse Ser Bevarond. «Tutte le piste puntano alla Cattedrale. Abbiamo due indiziati: il Vicario e l’Esarca stesso. È Sua Eccellenza il più accreditato» disse Ianos. «Ma temo che anche Thavion Descor sia coinvolto.» «Non è detto che sia lui» disse la Badessa con voce fredda. «A volte il peggior sospettato è l’ombra che nasconde il vero colpevole.» «Ho parlato con Sua Eccellenza» ribadì Ianos che non amava farsi contraddire, soprattutto da una persona di sesso femminile «e la sua volontà di non indire indagini è troppo sospetta.» «Forse teme solo uno scandalo» disse Clodis. «Non può essere l’Esarca il colpevole, lo conosco bene: è un uomo pieno di magagne ma non appoggerebbe mai i Necromanti!» «Vi confermo ciò che vi stavo dicendo prima che entrasse il ragazzo» li interruppe Allistar, che non voleva ulteriori battibecchi: era troppo saggio per sprecare tempo su questioni di principio come amava fare Ianos. «Vi dicevo che ho letto molti testi in questi mesi, da quando c’è stato il Vento delle Stelle. Ebbene, ho confermato la connessione tra esso e i tesori della cripta sotto la Cattedrale» disse Allistar. «Il Vento allora…» disse Bevarond. «il Vento di Stelle funge da attivatore magico. Attiva gli Artefatti quiescenti e ne potenzia i poteri. Possiedo alcuni… pezzi interessanti nella mia collezione di antichità.» «Fratello mio» disse la Badessa al mago «Non dovresti possedere Artefatti. Se gli Alabardieri lo sapessero…»
«Ho preferito non lasciarli tutti nelle mani dei tuoi amici prelati» rispose sarcastico il mago. «Questi pezzi hanno incredibilmente sprigionato i loro poteri da quando c’è il Vento. Sono sempre stati sotto il mio naso, ma credevo che fossero inattivi. È bastato provare ad adoperarli per scovare che si erano riattivati!» «Allistar, abbiamo grossi problemi allora: ovunque ci siano Artefatti, i Necromanti hanno un obiettivo da raggiungere» disse Ianos. «Occorre semplicemente proteggerli quel tanto che basta per alcuni mesi dopo il Vento. Essi perdono gradualmente potere: il nostro nemico Moloc dovrà sbrigarsi se vuole usarli.» «Cosa potrebbe farci?» chiese Kenarnon. «Difficile a dirsi. Sicuramente nulla di buono» disse la Badessa Clodis. Si fece greve e continuò: «amici, tutto questo è ciò che non abbiamo terminato molti anni fa. Da quando abbiamo cercato notizie sulla Terza Spada fino alla vicenda di Sìlian, è ato tanto tempo e ci siamo adagiati sugli allori. Dobbiamo concludere ciò che abbiamo iniziato.» «Adesso sì che ci servirebbero le Tre Spade» disse Chiliana (v. Appendici – Le Tre Spade). «Non abbiamo abbastanza uomini fidati per riprendere la loro ricerca. Prima dovremo distruggere Moloc e i suoi servi. Poi vedremo» disse Ianos.
* * *
«Sergente, che succede? Che cosa vogliono questi Necromanti?» chiese Val mentre spingeva indietro la barca. «Galron, conosci le leggende sugli Artefatti, vero?» «Gli oggetti di potere? Sì, certo. Padre Adis mi ha fatto una testa enorme su quegli affari.»
«Qualcuno deve avere capito come utilizzarli a piena potenza. Una cosa che non accadeva dai tempi dell’Impero.» «Credevo che nessuno potesse!» «Fino a non molto tempo fa lo credevo anch’io. E invece i Necromanti hanno imparato a usarli e non sono i soli. Allistar sospettava che il loro uso fosse legato anche al Vento delle Stelle. E il Vento è venuto di recente: perciò gli oggetti si sono destati come mai era accaduto e gli studiosi hanno capito il loro funzionamento, probabilmente anche negli altri Paesi. C’è tanto potere dentro quegli Artefatti e se cadessero in mani sbagliate… Il Tesoro della Cattedrale, come sai, ne contiene alcuni. Se un Necromante mettesse le mani sopra quegli oggetti e conoscesse come utilizzarli, potrebbe diventare piuttosto potente.» «Così è tutto qui l’arcano: non potremmo semplicemente distruggerli?» «E credi che l’Esarca o il Doge accetterebbero di farlo? O che noi riusciremmo ad entrare nella cripta e farlo per conto nostro? È tutto molto complesso e c’è poco tempo per decidere. Non basta una semplice conoscenza della magia per adoperare gli Artefatti: occorrono mesi, annidi studio e grande forza interiore. Distruggerli potrebbe essere pericoloso; qualcuno dice che essi libererebbero il loro potere e sarebbe devastante per chi si trovasse lì. Non è qualcosa che si può fare a mente leggera purtroppo, Val.» «Perché quest’Ordine segreto si riunisce in questo luogo?» chiese Val cambiando repentinamente argomento. Aveva la testa piena di domande. «Nessuno ci troverebbe qui. Inoltre, hai visto quanti corpi ci sono in queste caverne? Non possiamo incendiare questo posto allagato; né possiamo farlo crollare perché sopra c’è la città e trasportare tutto via richiederebbe molti uomini e giorni di lavoro: addio segretezza. Così abbiamo deciso di proteggere questo posto perché i Necromanti non vi possano giungere e avere così a disposizione migliaia di cadaveri da rianimare. Questo luogo è una minaccia per Lenvar e adesso che i Nemici della Vita sono tornati, non possiamo lasciarlo incustodito. Forse un giorno sigilleremo gli accessi.» «Sergente, posso chiedervi altro?» chiese Val. «È il momento delle curiosità, vedo. Beh, è giusto, dimmi pure.»
«Sono anni che volevo farvi questa domanda» disse Val prendendo un respiro lungo. Caviled si voltò a guardare Val, come se intuisse. «Tutti dicono che avete ato una esperienza terribile da giovane. Che cos’è accaduto, nel vostro ato, che vi abbia spinto a diventare un Crociato di Sant’Isior?» Il Sergente sospirò, poi guardò l’acqua buia e fredda. Un cranio gli sembrava sorridere beffardo. «Ho ucciso mio fratello. Avevamo vent’anni: lui era più giovane di poco.» A Val venne in mente ciò che gli aveva detto Chiliana. Fu un bel colpo sentire che Caviled, il suo miglior maestro era un fratricida. «La sua donna, vedi… la amavo anch’io» proseguì Caviled. «Lui mi aggredì perché lei non lo desiderava più. Lei alla fine gli disse che amava me e mi avrebbe sposato. L’amore mi accecò e lo stesso avvenne a lui: c’era tanta rabbia in noi. Brandimmo le spade, un colpo tirava l’altro. Egli mi ferì ed io persi la testa: lo colpì una volta sola e gli fu fatale. Non ricordo se volevo davvero ferirlo a morte o solo farlo desistere. Ciò che contò fu che cadde al suolo, nel suo sangue. Io volevo marcire legato a un remo, affondare su di una galea o essere frustato fino a perire. Ma dissero che avevamo combattuto in duello e quindi non fui accusato di niente. Gli armigeri mi buttarono a calci fuori dal palazzo del magistrato dicendo di non importunarli con i miei sensi di colpa. Mi chiamavano “assassino fortunato”, per schernirmi. Mi dissero di impiccarmi da solo e farmi mangiare dai corvi.» Val fu impietrito. Quella frase della Paladina ronzava nella sua testa: “Cambieresti il giudizio su di lui, se sapessi quello che ha fatto?” Il Sergente riprese come se volesse vuotare il fardello che aveva tenuto dentro per tanti anni: «Ero consumato dalla disperazione. Lei naturalmente non volle più saperne di me; rese la morte di mio fratello ancora più inutile. D’altra parte nessuno vuole un’omicida per compagno.»
Caviled accompagnò Val oltre il lago. Stettero in silenzio per molti minuti. Val voleva dire qualcosa, ma cosa poteva dire? Ogni frase sarebbe stata sbagliata. Non poteva commiserarlo né dirgli che aveva fatto bene a uccidere il fratello per una donna. Fu il Sergente, percorrendo le grotte, a riprendere il racconto spontaneamente: «Pensai più volte di uccidermi ma qualcosa me lo impedì. Mi trovarono gli Ospitalieri, per strada: ero ridotto male, l’ombra di me stesso. Mi portarono alla Commenda di San Càlista al porto. Mi tennero per un po’ con loro e m’insegnarono qualcosa, ma la vita dell’Ospitaliere non era dura come speravo. Il confratello che mi salvò è morto qualche anno fa, ma lo ricordo ancora come fosse un angelo sceso in terra. Poiché volevo espiare la mia colpa combattendo il male e sputando sangue, magari morendo su qualche campo di battaglia, il mio superiore mi presentò a Ianos e lui mi prese tra i Crociati. Ricordo ancora quando combattemmo contro il potente nemico di cui si è parlato questa sera: avevo la tua età e non ero nemmeno Sergente. Volevo perire lì, ma sopravvissi.» Il pensiero di Val era stato ormai smosso come da un terremoto. Non poteva quasi credere a quelle parole. Eppure la sua fiducia nel Sergente non vacillò. Rispose da solo, nella sua mente, alla domanda di Chiliana: ribadì il suo “No”. Mai avrebbe cambiato idea, anzi: Caviled dopo quella confessione gli appariva soltanto più umano. «Sergente io credo che… che voi abbiate fatto una cosa non da tutti: pochi avrebbero deciso di dedicare la propria vita alla lotta contro i maligni.» «Val, forse è così. Ianos me lo disse tante volte, finché si stufò di dirmelo. Ma lo rivedo ancora di notte: mio fratello, nella pozza del suo sangue. Non ebbi praticamente più nessuna donna da allora, ormai non so nemmeno quanti anni siano ati. Poi conobbi quel Necromante e Bevarond mi salvò di nuovo. Questa storia te l’ho già raccontata.» «Sergente, avete salvato tante vite dei nostri insegnandogli a combattere, a guarire le ferite. La mia stima per voi non cambia. Per ciò che mi riguarda, avete ampiamente pagato il vostro debito.» «Vorrei dirti che è vero, ma solo Sant’Isior mi dirà quando sarà pagato sul serio. Ora usciamo: mi si gelano le ossa a stare qui sotto. Appena tornati al Tempio, c’è un libro che voglio che tu legga.»
«Che libro?» «È una ballata scritta da un bardo: Marlin Merrstarr. Sembra una storia di fantasia e diciamo che in un certo senso lo è, ma… beh, leggilo.»
Chiliana uscì per ultima dai sotterranei, quando la loro assemblea fu finita: Ianos la fermò. «Il barbiere ha finalmente rivelato dov’è quel bastardo. Dobbiamo andare a prenderlo.»
Riassunto della Seconda Parte
Dopo la guerra, Lenvar vede l’ascesa di un misterioso culto di Necromanti comandati da qualcuno la cui identità è sconosciuta e aiutati dal rinnegato exPaladino Cromlan e dall’assassino delenar di nome Shalamor. A combatterli, un misterioso Ordine segreto composto dal Principe Silvano Kenarnon e i suoi Cacciatori, dai Paladini Mandecar e Chiliana e dai Cavalieri Crociati Ser Ianos e Ser Bevarond assieme al Sergente Caviled e altri alleati. Corvin si invaghisce della giovane Alabardiera Erin Lindei e assieme a lei e al mago investigatore Morlav, indaga su uno degli omicidi di Shalamor; quest’ultimo tenta di asse Corvin ed Erin senza successo, venendo catturato dai Cacciatori. Val viene coinvolto nei piani di Ianos per scovare le spie dei Necromanti e mentre viaggia per consegnare una lettera assieme a Salaran, viene aggredito da Cromlan. Anni prima il Paladino era stato accusato di avere una relazione con il suo scudiero ed aveva abbandonato l’ordine dei Paladini per poi essere traviato dai Necromanti. Ser Ianos aveva fatto in modo che Val dicesse alla sua fidanzata Gala la destinazione suo viaggio per osservare se ella fosse una spia, consapevole o meno, dei Necromanti infiltrati nella Cattedrale matriana. La giovane viene trovata però trovata morta in casa, forse suicida oppure morta per abuso di alcuni misteriosi preparati, o forse assassinata da Shalamor, secondo Val. Il delenar riesce a fuggire dalla prigionia grazie all’aiuto di Cromlan e del suo padrone: il Necromante che si fa chiamare Moloc, capo del culto in ascesa. Val viene infine ammesso nell’Ordine segreto che combatte Moloc, anche per paura che i Necromanti possano trovarlo anzitempo dato il suo legame con Gala, e traviarlo come hanno fatto con Cromlan e apprende l’oscuro ato del Sergente Caviled.
Parte III: Il Giorno del Male.
“L’Eterno ha fatto ogni cosa per uno scopo: anche l'empio, per il Giorno del Male. Chi è malvagio d’animo è un abominio per l’Eterno; di certo non rimarrà impunito.”
-- Proverbi 16:4
“E che la felicità dei malvagi non infligga tristezza nei buoni: Dio vi renda miti nei Giorni del Male. I Giorni del Male eranno, quelli in cui assisterete a questa specie di perversità; e verranno i giorni nei quali nessun malvagio sarà più felice e nessun buono sarà più triste.”
-- Sant’Agostino
11.
La Compagnia Senza Nome
Chiliana era nervosa mentre galoppava verso un monastero arroccato sulle montagne attorno ad Arga. A quanto sembrava dalla confessione del barbiere, l’abate di quel monastero, Parva era un Necromante. Tra poco sarebbe stato trasferito ad un altro convento ed aveva già i bagagli pronti. Aveva cavalcato tutta la notte nonostante il freddo, facendo bere occasionalmente al suo destriero un decotto la cui ricetta i Paladini si tramandavano da generazioni. Ser Mandecar era sulle tracce di Shalamor e non poteva aiutarla. «Vado da sola, farò prima», aveva detto a Ianos. «Sarà pericoloso”, aveva ribadito il Crociato per farla desistere. «Proprio per questo vado da sola» era stata la sua risposta, da persona devota qual era. Non avrebbe mai messo a repentaglio le vite degli altri se avesse potuto. Quando Chiliana chiese ad un chierico di incontrare l’abate, il cappellano la fece attendere sulla porta: lei non disse nulla sui motivi della sua visita. La Paladina eggiò avanti e indietro, osservando le belle siepi curate dai monaci. Gli alberi erano privi di foglie e sembravano scheletri grigi proiettati verso il cielo del medesimo colore. Qualche debole fiocco di neve cadeva lento e rendeva tutto insolitamente silenzioso e bello. Quindi udì un urlo: si lanciò dentro il convento noncurante di tutto e giunta nel cortile interno, vide l’abate che stava per gettarsi da una finestra del campanile. «Per l’Eterno, che fate?! Restate fermo lì!» gridò Chiliana. «Non capite! Mi prenderanno! Sono finito!» disse l’Abate. «Nessuno vi prenderà, di chi parlate?» chiese la Paladina. «Sapranno che voi siete qui! La mia vita è finita! O Padre del Cielo: perché ho ceduto!» «Vi scongiuro, tornate dentro! Vi scorterò lontano da questo posto e vi offrirò la mia protezione! Sono venuta per questo!» Dopo diversi sforzi, Chiliana fece desistere l’uomo dal folle gesto. Fece
approntare una piccola carrozza e ordinò al cocchiere di vagare senza meta precisa per stradini di campagna evitando le strade principali mentre all’interno dell’abitacolo cercava di capire le ragioni dell’Abate. Gli diede da bere un po’ di vino caldo e lo fece rilassare per quanto potesse, ma egli sembrava troppo inquieto. Farfugliò qualcosa su un gruppo di persone, una setta segreta che lo stava cercando. «Di che state parlando?» chiese la Paladina. «Sono pochi, ma molto potenti. Io ne facevo parte» disse l’Abate Parva madido di sudore, sprofondando sul sedile come se fosse stato ferito a morte. «Si fanno chiamare “la Congiura degli Otto”: sette Congiurati più un Maestro. Sono sempre mascherati e celano le loro voci con la magia. Forse qualcuno di loro era donna. Io... io ero uno dei sette: lo divenni quando ero un prelato a Orvelàs, in Gaberne. Mi chiamarono una notte... mi diedero...» La sua voce si arrestò per un attimo. Poi riprese: «Mi diedero ciò che chiesi. Di questo non parlerò. Ma attratto da tanta facilità nell’ottenere ciò che un mortale desidera e con la promessa di ottenere di più, cedetti e mi recai in un posto che non saprei mai ritrovare. Il Maestro non ci lasciava portare nemmeno una piccola scorta per la carrozza che ci inviava ed il cocchiere viaggiava sempre di notte, senza luci e quando non c’era luna. Impossibile determinare dove si andasse: si galoppava a volte tutta la notte, a volte poche ore. Il posto cambiava sempre.» «Come faceva il cocchiere a sapere esattamente dove andare, se non poteva vedere?» chiese Chiliana come se sapesse già la risposta. «È chiaro che egli non era un … vivente» disse Parva facendosi sempre più mesto e curvo. «Ma quali sono gli scopi di questa Setta? È qualcosa di inerente all’Ecclesia Matriana?» «No. Affatto. Lo scopo della Congiura è quello di accumulare potere, conoscenza e ricchezza. Molto più banale di quello che pensavate, vero?» disse Parva facendosi cinicamente beffardo. «Le mosse della Congiura prevedevano di rovesciare nobili, confiscare terreni, rimuovere personaggi politici scomodi... Gli Otto non si conoscevano tra loro per tutelare la segretezza degli affari. Il mio
nome all’interno della Congiura era “Aurea Serenità”» aggiunse con rammarico. «Quella che ho perduto per sempre. Ognuno di noi conosceva grossolanamente l’area di potere degli altri: dunque, loro sapevano che io ero un prelato Matriano. Allo stesso modo tra di noi c’era “Moloc”, come la bestia delle fiabe: anch’egli era un chierico Matriano. C'era poi un cavaliere non ben specificato che si faceva chiamare “Idra” e due nobili: uno era “Vampa d’Autunno”; l’altro pareva fosse addirittura un Re ed era chiamato “Titano”. C'era poi un mago: “Sole Cremisi” e un'altra persona… “Veggente”, non si sapeva molto di lei.» «Come si entra nella Congiura?» «Non si entra: sono loro a chiamare. L’identità di ognuno è nota solo al Maestro che decide di nominarti. Qualora un altro diventasse Maestro, non saprebbe affatto chi sei. Quindi il Maestro sa chi sono. Nessuno dei Congiurati ha alcun tipo di morale e il Maestro è spesso eletto dopo “improvvisa morte” del predecessore. L’attuale si fa chiamare “Nembo”, è in carica da molti anni ormai.» «Moloc non è quindi il Maestro?» «No, no. Moloc è il terzultimo arrivato. È nella congiura da poco tempo.» «Cosa vi chiedeva di fare Nembo?» chiese ancora Chiliana. «Condannare per eresia, chiudere monasteri, votare le dimissioni di altri prelati, ottenere finanziamenti» rispose Parva. «In cambio avrei continuato ad avere… quello che volevo.» Chiliana era curiosa di sapere qual era la contropartita di Parva: ma non era importante ai fini dell’indagine. E aveva paura di cosa avrebbe potuto scoprire da quell’uomo vile, così sorvolò. «Siete certo che il Maestro non nascondesse altri scopi più grandi?» «Impossibile a dirsi. È probabile, ma non saprei che scopi. Gli ordini arrivavano dal Maestro solo dopo votazioni segrete. Il potere degli altri frenava le ambizioni di quelli più avidi: se “Vampa d’Autunno” avesse avuto necessità di uccidere un Barone, si sarebbe votato e la decisione al massimo sarebbe stata mutata in “minacciarlo di morte” per fargli abbandonare la sua terra. O uccidergli uno dei figli per lo stesso scopo. Ma intanto solo il Maestro avrebbe saputo chi era il
Barone; noi ci saremmo limitati a votare “al buio”. Era tutto così strano e complesso che non so nemmeno come fe a funzionare.» Chiliana fece fermare la carrozza. Una faggeta di alberi nudi li circondava. I cavalli emettevano fiato spesso e fumante. «Questo non ha senso... nessuno farebbe delle azioni tanto riconoscibili quanto minacciare un Barone... tutti capirebbero chi è il mandante. A che scopo allora il nascondersi, le maschere...» chiese Chiliana. «I membri della Congiura facevano buon viso a cattivo gioco naturalmente. Vampa d’Autunno magari era il migliore amico del Barone, o almeno questo è quello che gli faceva credere. Solo l’Eterno sa come Nembo riuscisse a tenere in piedi tutto. E mano a mano che andavamo avanti, c’erano sempre più sottoposti che non partecipavano alle votazioni. La congiura aveva otto membri segreti, ma c’erano anche molti membri a viso scoperto che ottenevano privilegi minori. Come il barbiere Mascan.» Chiliana si decise a chiedere: «E cosa ottenevate voi dalla Congiura?» «Principalmente denaro, libri introvabili e… ricette. Di pozioni antiche, roba potente ma pericolosa, capace di farti impazzire. L’Ecclesia Matriana non è più ricca da decenni e la mia rendita non era consona allo stile di vita che mi ero prefissato.» Chiliana aveva un sesto senso, tipico dei Paladini, per individuare chi mentiva. E Parva non aveva detto tutto, ma ci sarebbe stato tempo per un interrogatorio più approfondito. Qualcosa attirò la sua attenzione: guardò fuori. Il sole era praticamente sparito, ma mezzogiorno non era ato da molto. Il cielo era nuvoloso, di piombo. Tutto si immerse in un silenzio surreale e persino il nevischio smise di cadere. «Siamo perduti» disse Parva terrorizzato, come se avesse intuito qualcosa. «Cocchiere, torniamo indietro!» gridò Chiliana. Iniziò a sentire freddo alle articolazioni: uno dei modi in cui i Paladini potevano percepire la presenza della Magia Nera.
La carrozza ballonzolò sulla strada sterrata e iniziò a muoversi sempre più velocemente; nuvoloni neri oscurarono il sole che ormai sembrava non esistere più. «Sono loro, vero?» chiese Chiliana sguainando la spada. «Siamo morti. Morti» blaterò l’abate, sgranando il suo rosario. Chiliana abbassò gli occhi: inorridì. Una mano, nera come la pece, era entrata dal finestrino e stava per prendere l’abate. La colpì con la spada gridando. Un’altra mano nera entrò dall’altra parte e tentò di disarmarla. Ella colpì ancora e la mano nera si ritrasse. L’Abate spalancò gli occhi terrorizzato: puntò i piedi e si rizzò quasi sul sedile urlando come una bambina. Altre mani entrarono da tutti i finestrini e lo ghermirono. Chiliana cercò di colpirle, ma non aveva spazio sufficiente per mulinare la spada. Le mani si strinsero attorno all’abate: lo strattonarono furiose fuori, sfondando una delle porticine. Il suo grido di paura diventò di dolore: si allontanò fino a sparire. Chiliana si sporse fuori e guardò la cassetta: il cocchiere non c’era più. Si aggrappò al fianco della carrozza che procedeva all’impazzata ormai. Si issò sopra la cassetta e prese le redini. Una mano nera le strattonò lo stivale: la calciò via. Altre due mani le afferrarono le braccia. La Dama Si voltò per guardare quale bieca creatura fosse quella che la stava aggredendo, ma non vide nulla: le mani sembravano iniziare dal buio o da dietro angoli fuori dalla sua visuale. Gli artigli la ghermirono: le presero gambe e braccia, il collo e l’addome. Le loro unghie nere iniziarono a conficcarsi nelle carni. Allora Chiliana guardò un anellino che portava al dito: chiuse gli occhi. E bisbigliò qualcosa. Esso emanò una grande luce, calda e bella, che a volte sembrava bianca e a volte colorata. La carrozza si schiantò andando in pezzi, i cavalli nitrirono e divelsero il timone portandoselo letteralmente via mentre fuggivano. Il cielo tornò sereno. Il corpo di Chiliana stette a terra immobile. Era piombata dentro un grosso cespuglio di ginestra che in qualche modo le aveva attutito la caduta. Il sangue le usciva da un labbro. Alzò la mano dolorante: la pietra rossa dell’anello era diventata bianchissima. Lo guardò e disse ad alta voce: “Grazie”.
* * *
Nella città di Lenvar le cose non andavano davvero per il verso giusto. Nonostante il freddo pungente che avvolgeva il Continente e le sporadiche nevicate, gli animi erano fin troppo caldi. Le casate dei Fedra, dei D’Angora e le famiglie loro alleate continuavano a scontrarsi tra loro. I Grilam e i Siblei tentarono di restare fuori dalle vicende ma le famiglie mercantili emergenti, da sempre tagliate fuori dal potere decisionale sulla città, trovarono negli scontri l’occasione di dire la propria. Né il Doge né il Capitano del Popolo riuscivano a calmare gli animi. Girare in città diventava sempre più arduo: bande armate di partigiani spadroneggiavano senza che gli Alabardieri potessero mantenere il controllo. Qualche volta ci scappava anche il morto. I faziosi entravano nelle locande ad una o l’altra casata, portando scompiglio e ricevendo insulti in cambio, quando non si arrivava alle spade. Tutto complicava gli sforzi dell’Ordine Segreto di Ianos e degli ordini cavallereschi ufficiali, di contrastare i Necromanti.
Il giorno 11 di Brinafredda del 1301, si compì il piano del capofamiglia dei Fedra, il Conte Gastil. «Vi ho detto di no! E ringraziate che non vi faccia arrestare!» urlò Corvin dallo spioncino. Era sera e sicuramente tutti l’avrebbero udito. Le persiane di alcune finestre si chio e le luci interne si spensero. «Messer Siblei, ci avete chiarito la vostra posizione. Io spero che voi non vi pentiate della vostra scelta» disse il suo interlocutore minacciosamente, incamminandosi. «Quando tutto sarà finito, ci ricorderemo di chi si è schierato e da che parte.» Val assistette a questa scena mentre andava da Corvin, verso il tramonto. Quattro uomini incappucciati si stavano allontanando dalle scale del suo palazzo mentre
due guardie Siblei tenevano le lance pronte. «Che succede?» chiese Val all’amico. Corvin chiuse lo spioncino e dopo un rumore di chiavistelli, aprì il portone del palazzo. Era intirizzito dal freddo ma vestito in maniera leggera, come se fosse stato obbligato a uscire di colpo senza abiti di rappresentanza. «Erano messi dei Fedra. Mi hanno chiesto sostegno a una “impresa” del Conte. Pazzi: devo avvisare mio padre. Temo che stasera succederà qualcosa di brutto.» «Cosa vuoi dire?» chiese Val. «Credo che Gastil Fedra voglia fare un cambio al vertice.»
Fu proprio così. Il Conte Fedra prese molti uomini a lui fedeli e nottetempo corse verso il porto per incendiare le galee dei D’Angora e assalire i loro palazzi. Gli Alabardieri furono colti di sorpresa e non riuscirono a organizzarsi in tempo per arginare i facinorosi. La città era piombata di colpo nella guerra civile e mentre le truppe fedeli al Doge cercavano di salvare il salvabile, sciacalli e criminali uscirono dalle loro tane per compiere delitti nella piena impunità. Vicolo dopo vicolo, gli uomini dei Fedra ingaggiavano furibondi scontri contro i loro rivali e la neve sulle strade si tingeva di sangue: calpestata da centinaia di piedi, formò pozzanghere rosate e fredde. “Fedra e libertà!” gridavano i congiurati. E questo grido si levava dalle strade, dai vicoli, ovunque i partigiani dei Fedra fossero. Gastil Fedra era nell’estasi della battaglia: piantava la sua spada nel petto dell’avversario mentre continuava a gridare ordini e fomentare canti contro i D’Angora. Corse verso il porto con i suoi uomini meglio corazzati, con il piano di liberare gli schiavi e i prigionieri incatenati ai remi per fomentarli contro i loro padroni. Ma non fece i conti con il destino. Forse l’Eterno Reggente lo vide e non gradì i suoi sforzi di destabilizzare l’ordine cittadino: questa fu la versione preferita dai
D’Angora. Forse fu troppo accecato dai sogni di gloria o magari semplicemente era giunta la sua ora. Nel saltare da una galea all’altra cadde da una erella e il peso dell’armatura che lo aveva protetto dalle frecce e dalle stoccate nemiche lo trascinò verso la sua fine orrenda sul fondo del porto. L’acqua gelida lo avviluppò: prese i suoi 25 anni, tutti i suoi desideri e li congelò per poi frantumarli in mille pezzi con un maglio d’acciaio. La sua ambizione e il destino della sua casata terminarono col suo respiro. Il fumo e i bagliori degli incendi vicino al porto guidavano gli sguardi attoniti dei cittadini che salivano sui tetti ghiacciati per osservare. Il nevischio scendeva ora lieve ora spesso. Molti temettero un’invasione da parte di Zevira, o dei pirati dell’Arcipelago come tre secoli prima. Gli anziani si sentirono male, o si strinsero raccontando storie ate ai loro nipoti attorno ai focolari, con le finestre sbarrate. Le donne volevano correre a pregare nei templi ma uscire di casa voleva dire rischiare la vita.
Il luogotenente Erin Lindei era disperata: la zona del porto era più che altro una zona di guerra, ormai. Con i pochi Alabardieri che aveva tentò di difendere la sua caserma dai facinorosi. Essendo il Doge un membro della famiglia D’Angora, alcuni rivoltosi decisero di assalire i simboli del potere accusando gli Alabardieri di collaborare con la famiglia rivale. «Luogotenente, stanno per sfondare la porta!» tuonò un Sergente alla giovane. «Allora fatevi indietro, prendete le alabarde! Avanti gli scudi! Voglio i balestrieri in cima alle scale e che tutti stiano lontani dalle finestre!» urlò Erin. La porta della caserma fu sfondata dalle asce: gli sgherri urlavano ingiurie, chiamavano gli Alabardieri “Servi dei porci”. Appena due faziosi entrarono furono sventrati dalle alabarde tenute saldamente parallele al suolo, mentre dietro di loro gli altri lanciavano fiasche di pece, olio e altri combustibili contro i difensori. Poi volò dentro una torcia e uno degli Alabardieri avvampò urlando. La puzza di carne bruciata riempì l’aria. Gli altri Alabardieri indietreggiarono e gli assalitori penetrarono dentro la caserma. I balestrieri ne uccisero altri due, ma dietro di loro gli altri facinorosi avanzavano spingendo un’improvvisata barricata di assi di legno che spinsero fino alle scale. Gli Alabardieri e i balestrieri si rifugiarono al piano superiore scagliando sugli assedianti tavoli,
sedie, pietre e dardi. Ne uccisero altri tre, ma sembravano non finire mai. Il pugno di difensori subì altre perdite: alcuni di loro furono strattonati giù dalle scale, trascinati in mezzo agli assalitori e linciati a calci, pugnalate e bastonate. I rimanenti Alabardieri si chio dentro l’ultima stanza sbarrando la porta con tutto il possibile. All’esterno c’era un’insolita calma: nuvole di fumo e bagliori si levavano da alcune galee nel porto. «Luogotenente, proporremo la resa e ci consegneremo in cambio della vostra salvezza» disse il Sergente. «Non dite sciocchezze!» tuonò Erin guardando disperatamente dalla finestra. Nessuno sarebbe accorso in loro soccorso. «Non stiamo combattendo un esercito regolare: questi se ne fregano della resa. Ci ammazzeranno!» «Dovremmo provarci: siamo tutti d’accordo, lo faremo per voi, Signora!» aggiunse un balestriere. «Se vi prendessero…» «No! No: ci salveremo assieme, o affronterò lo stesso vostro destino, parola mia. Siete sotto la mia responsabilità!» rispose Erin. Un’ascia si abbatté contro la porta e tutti si prepararono all’ultima difesa. Bam! Bam! Il metallo si fece strada nel legno, colpo dopo colpo. Erin aveva la schiena tremante. Forse l’avrebbero violentata prima di ucciderla. Nessuno avrebbe mai indagato sulla sua morte e il suo assassino avrebbe vissuto impunito: questa era la cosa che più la faceva ribollire di rabbia. Decise che avrebbe ucciso almeno uno di quei bastardi prima di soccombere. Qualsiasi cosa avessero deciso di fare del suo corpo, non lo avrebbero fatto con lei viva. Bam! Altre schegge di legno volarono quasi ferendola agli occhi. Non avrebbe più rivisto Corvin. Se lo immaginò al suo funerale che piangeva. Non voleva che nessuno piangesse per lei. Pochi istanti dopo una voce squillante alle loro spalle sorprese tutti. «Resistere fino alla morte è nobile cosa ma è meglio sopravvivere ancora un po’, secondo me.» «Corvin!» esclamò Erin voltandosi.
Aggrappato al davanzale, il nobile era riuscito a raggiungerli. «Legate questa corda a qualcosa e caliamoci giù nel cortile: qui sotto è sicuro, tutti quei bifolchi sono accalcati dalla porta, muoviamoci!» Erin fu fatta calare per prima: fu lo stesso Sergente a sollevarla e a metterla sul davanzale, poiché lei voleva andare per ultima. Poi scesero i suoi uomini mentre la porta cedeva. Nove di loro si erano calati a terra quando la porta si schiantò e si aprì del tutto. Alcuni Alabardieri, compreso il Sergente, erano rimasti ancora al piano superiore. Urla strazianti provenivano dalla finestra. «Li hanno presi!» gridò Erin disperata. Tentò di riafferrare la corda. «Sono perduti! Non puoi fare nulla se non morire anche tu! E io non lo permetterò!» urlò Corvin. La fune rimase nelle mani di Erin: qualcuno l’aveva tagliata. “Il Sergente” pensò Erin. Non poteva che essere stato lui, per impedire che gli assalitori scoprissero la loro via di fuga. Erin corse via piangendo, strattonata da Corvin dietro a un vicolo. «Siete ferita?» le disse una voce. Lei non capiva nulla, accecata dalle lacrime. Si strofinò gli occhi e si accorse che con il nobile c’erano anche gli elfi Kenarnon, Kandui e Lorkan: diversi cadaveri di uomini armati punteggiati di frecce elfiche giacevano poco distanti da loro. Mentre fuggivano, udì le urla di chi era restato indietro. E le risentì per molte volte, nei suoi sogni. I fuggitivi si mossero veloci per i vicoli ormai deserti, i loro fiati congelavano alla luce della luna che emergeva ogni tanto dalle nubi. Erin stava per crollare in ginocchio, ma non c’era tempo ancora. «Succedono spesso queste cose da voi?» chiese Kenarnon ripulendo dal sangue la sua splendida spada. «Solo quando ci sono nuove elezioni, ma in genere sono soltanto baruffe. Questa è una congiura vera e propria!» «Che suggerite di fare? Non mi oriento senza alberi, sassi o ruscelli e non so dove possiamo andare» disse il lyblis.
«Abbiamo corso così tanto che nemmeno io capisco dove siamo» disse Corvin. Orientarsi tra i vicoli di Lenvar non era semplice. Alcuni degli Alabardieri e balestrieri superstiti iniziarono a formulare delle ipotesi, ma ottennero solo di fare più confusione. Kenarnon allora disse qualcosa in silvano a Kandui: la bella lyblis annuì e si arrampicò agile, di finestra in grondaia, di cornicione in davanzale, fino su ai tetti. Scrutò la notte gelida per un minuto, poi indicò una direzione. «Quello è il Nord» disse Kenarnon mentre la bella silvana scendeva. «Kandui, hai visto i campanili della Cattedrale? Dove?» La bellissima silvana indicò la direzione. «Allora ho capito dove siamo» disse Corvin. «Abbiamo più o meno sempre seguito il Nord e dobbiamo andare a Est: ad Ovest ci sono i quartieri dei D’Angora e lì gli scontri lì saranno anche peggiori» disse Corvin. «Allora io andrò ad Ovest» disse Erin. «Devo dare una mano agli altri miei uomini.» «Non credo potreste fare molto con questo pugno di soldati, Signora» disse con decisione Kenarnon. «Credo che dovreste riorganizzarvi alla caserma più vicina prima di fare gesti avventati.» Corvin, che aveva già messo in conto di dovere fare una sonora litigata con Erin per convincerla a desistere, fu grato al principe per l’intervento. Erin guardò i suoi uomini e pensò che avrebbe potuto perderne altri. Si convinse e annuì. «Di qua!» disse Corvin «Se continuiamo arriveremo di certo in Via di San Ludias e da lì orientarsi sarà più semplice.»
Purtroppo, giunti nella via citata da Corvin, trovarono una barricata che i congiurati avevano dato alle fiamme. Con la torcia in una mano e una spada nell’altra, Galco Marsten III, il vecchio commilitone di Val e avversario da sempre della famiglia Siblei, stava piantato al centro della strada, vestito di una cotta di maglia e attorniato da una trentina dei suoi.
«Siblei! Ecco la prova che la tua famiglia sta coi D’Angora! Hai addirittura Alabardieri al seguito! Questa è la mia serata fortunata!» «Non c’è bisogno di prove per sapere che noi stiamo con la Repubblica e con il Doge, qualsiasi sia il suo cognome» rispose Corvin. «Deponete le armi, tornate alle vostre case e sgombrate la strada in nome della Repubblica!» disse imperiosa Erin. «Non rappresentate più l’ordine qui: i Fedra restituiranno la libertà al popolo oppresso dalla tirannia delle vostre famiglie!»
Marsten e i suoi si lanciarono avanti: Lorkan e Kandui però, con una rapidità ai limiti dell’umano, avevano già incoccato due frecce ai loro archi silvani. Esse volarono rapide e sibilanti dentro due colli e i corpi a loro attaccati crollarono al suolo, morti. Marsten schiantò la spada sulla faccia di un balestriere che invano aveva tentato di caricare l’arma. Tutti gli sgherri dei Marsten si fecero innanzi e fu un corpo a corpo furibondo. Kenarnon e Lorkan erano poderosi e abbattevano rapidamente i loro nemici: purtroppo la strada era poco spaziosa e i loro aggraziati movimenti di scherma lyblis dovevano lasciare spazio a più grossolane stoccate di pugnale e spada corta. Il principe silvano inflisse un fendente al petto di un congiurato, poi lo oltreò e lo trafisse rapido alla schiena. Kandui indietreggiò protetta dagli Alabardieri che, avendo lasciato le loro armi lunghe nella caserma, combattevano con le sole spade d’ordinanza. Uno dei congiurati colpì violentemente Lorkan con un pugno al volto e lo scostò: il silvano volò addosso ad un altro congiurato e si mise a lottare a mani nude con lui. Così, il congiurato che prima l’aveva colpito si avventò su Kandui che, terrorizzata, mulinò la sua lama corta davanti al viso per respingerlo. L’uomo la disarmò: Kandui non era molto brava a combattere corpo a corpo. In quel momento concitato nessuno notò che la lyblis era in pericolo. L’uomo strinse le mani attorno al collo della silvana, sempre più intensamente. Lei non poteva gridare. Tentò di liberarsi ma lui era troppo forte: sentiva la vita abbandonarla. Se solo avesse potuto gridare! Non voleva morire, ma non poteva parlare. La voce non le usciva. Chiuse gli occhi e aprì leggermente la bocca cercando aria, disperata. L’uomo le gridava insulti e sconcezze mentre la strozzava. Lei di colpo aprì gli occhi e lo
sorprese: gli sembravano così meravigliosi e chiari e si rese conto di avere tra le mani una delle più belle creature che avessero calpestato il suolo del creato. La voleva: desiderava possedere il suo corpo lì, sul selciato sporco di neve e sangue, tra la puzza e le urla. Allentò un poco la presa, pensando di trascinarla in un vicolo: pensò di poterla stuprare rapidamente, sgozzarla e tornare al suo posto in fretta senza are per codardo. Era così eccitato che non stava più nella pelle. Mentre rifletteva al suo piano, Kandui chiuse di nuovo gli occhi. Poi fece un piccolo scatto e un’espressione di sforzo, come se tentasse di aprire una bottiglia chiusa ermeticamente. L’uomo strabuzzò le palpebre, mentre si rendeva conto di avere uno stiletto conficcato tra collo e mandibola. Kandui spinse ancora verso l’alto: l’uomo rovesciò gli occhi e cadde all’indietro colpendo violentemente il selciato con la testa. Kandui corse a ripararsi dietro un angolo tenendosi il collo e piangendo per ciò che era stata costretta a fare. Corvin invece era impegnato in un furibondo duello personale con Marsten: entrambi stringevano una schiavona e una mancina e si colpivano come veri schermidori nobili, in contrasto con la grezza mischia che li circondava. Ben presto i congiurati furono tutti a terra, morti o fuggiti: i due nobili continuavano a lottare. «Arrendetevi!» intimò Erin a Marsten. Egli non accennava a smettere. Lorkan fece per alzare il bastone e colpirlo da dietro alla testa; ma Corvin lo fermò: «No! È mio! Ora basta: l’ho sopportato troppo questi anni!» Con violenza, la sua schiavona si schiantò sulla mano del congiurato e tre dita volarono via come fuscelli. Marsten gridò cadendo in ginocchio, tenendosi la mano ferita. «Impara la lezione: tu e quel maledetto affamatore schifoso di tuo padre! Ne avete fatte di indecenze in questi anni protetti dal Conte Fedra, anche nei nostri feudi. Ora raccogli le dita e vattene, cane!» Erin era quasi spaventata di vedere il suo fidanzato comportarsi così. Corvin si ergeva sul congiurato con la schiavona puntata al suo collo, respirando a pieni polmoni e con gli occhi iniettati di sangue. Erin si frappose tra il suo amato e Galco e disse:
«La legge deve prevalere. È ciò che ci distingue dalle bestie. E da loro» disse indicando i congiurati. Erin si guardò attorno: due balestrieri e due alabardieri erano stati uccisi durante lo scontro; attorno a loro, molti feriti di ambo le parti. «Basta morti per oggi. Basta morti lenvari» ribadì al suo amato. Corvin rimise nel fodero la schiavona: colpì Marsten con un poderoso calcio e lo spedì a terra tra i suoi uomini. «Portate i feriti al Santuario di San Càlista che c’è alla fine di questa strada e fateli curare. Sorvegliate i prigionieri e non perdeteli di vista mai» disse Erin ai restanti alabardieri. «Andiamo al Tempio di Sant’Isior» disse Kenarnon. «Venite con noi, Luogotenente?» «Faremo un pezzo di strada assieme, ma dovremo fermarci da un amico prima» disse Erin. «Prima che tutto questo disastro scoppiasse, so che doveva parlarmi. Speriamo che i congiurati non l’abbiano preso di mira.»
Morlav si era barricato in casa e quando Corvin bussò ci mancò poco che non fosse folgorato da un incantesimo. «Mi è giunta voce di scontri giù al molo» disse il mago. Corvin notò che Morlav aveva una cornacchia grigia appollaiata sul braccio. Si chiese se fosse quella la sua fonte di informazioni: i maghi sapevano dominare la volontà degli animali. «Veniamo proprio da lì: per poco non sono stata uccisa. Mi sono salvata grazie ai miei soldati e a Corvin e Kenarnon con i suoi» disse Erin. Quando entrò, non poté fare a meno di notare che sul pavimento vicino alla porta c’erano due salme, coperte da teli di iuta. «Ma…» fece Erin. «Violazione di domicilio. Temo di avere esagerato con i mezzi difensivi. Il mio servitore mi farà da testimone quando verrò a fare denuncia.» Scoprì i teli, che rivelarono uomini in armature leggere. Uno di loro aveva i
capelli dritti e gli arti completamente contratti fino alle dita. Di certo erano congiurati. Morlav era piuttosto imparziale nella politica cittadina ma era pur sempre stato al servizio degli Alabardieri e questo l’aveva reso un bersaglio. «Ho importanti novità sulla nostra indagine» disse Morlav a Erin. «Mi sono recato alle prigioni come mi avevi chiesto ed ho scoperto un importante pezzo del mosaico. Dobbiamo andare immediatamente al Tempio dei Crociati con prudenza e celerità» disse il mago.
La notizia della rivolta era giunta anche fino alla Strada del Tempio. Crociati, Ospitalieri e Paladini si erano riuniti al Tempio di Sant’Isior, lontano dagli scontri più della Cattedrale, per decidere il da farsi. Mentre il concilio principale degli ordini religiosi liquidò in poco tempo la congiura, consigliando l’astensione da ogni provvedimento, l’Ordine Segreto di Ser Ianos era in fermento. Railan l’Ospitaliere era giunto al Tempio con la sua delegazione, ma si era trattenuto a parlare con Val. «Ci capisci qualcosa?» chiese. «Meno di nulla. Nessuna delle Ecclesie vuole immischiarsi nella politica» rispose Val. Poi riprese: «Lo sai che Gastil Fedra mi promise che… voglio dire… mi suggerì che forse poteva aiutarmi a diventare cavaliere, se lo avessi sostenuto?» «E tu come mai non lo hai fatto?» gli chiese Railan. «Perché non era così che intendevo diventare cavaliere. Non facendo prendere il potere a nessuno, specie ribellandosi al Doge.» «Sì, capisco cosa vuoi dire. Certo è che è quasi impossibile diventarlo senza appoggi politici. Perché piantoni quella porta? Credevo che gli incontri fossero finiti» chiese Railan osservano Val impettito proteggere una porta chiusa. «Alcuni si stanno ancora riunendo qui. Ianos e altri cavalieri più qualcuno del clero matriano.»
«Faccende segrete?» «Se lo fossero, forse non dovrei dirtelo» commentò Val. «È come se mi avessi risposto» commentò l’Ospitaliere sorridendo.
Al di là della porta, una Paladina vestita di abiti strappati e sporchi, parlò ai membri dell’Ordine: «Devo riferirvi notizie vitali. Ma ho fallito in parte» disse Dama Chiliana esausta e mesta. Raccontò agli altri tutto ciò che l’Abate le aveva detto e le era successo, tra gli sguardi attoniti. «Questo assalto che hai subito da parte delle Ombre è grave. Il potere dei Nemici della vita cresce. Ma non abbiamo prove che questa insurrezione dei Fedra sia opera della “Congiura degli Otto”» disse la Badessa Clodis. «Not casual» rispose Ser Bevarond. «Non credo più alle coincidenze.» «Io credo che il Maestro dei Necromanti abbia semplicemente deciso di agire prevedendo questa crisi» disse il mago Allistar. «Deve essere un individuo dotato di grande astuzia, perciò può avere calcolato benissimo il rapido degenerare della situazione politica lenvare. D’altra parte è molto che si temeva una congiura da parte dei Fedra.» «È chiaro che l’Esarca è in pericolo» disse Dama Chiliana. «Dobbiamo correre alla Cattedrale: non ci negheranno l’entrata se diciamo che è per la sua sicurezza. Non vi sono che pochi Paladini a proteggere Sua Eccellenza all’interno della Cattedrale: sono guerrieri forti, ma non possono respingere un’orda di assalitori se i Necromanti hanno veramente un ruolo in tutto questo. E Shalamor potrebbe comunque arrivare ad aggirarli, aiutato dal Necromante infiltrato nell’Uffizio.» «Questo, Dama, sempre che l’Esarca non sia direttamente implicato» disse Ser Ianos. «Ma sospetto che sia il Vicario il vero colpevole.» «Conosco Thavion, il Vicario, fin da quando era in seminario» disse la Badessa Clodis. «Sono una delle poche che può chiamarlo per nome senza titoli altisonanti davanti. Io credo nella sua innocenza, ma se uno dei suoi aiutanti o
l’Esarca è il capo dei Necromanti in città, Thavion è in pericolo. Dobbiamo andare là e confutare coi nostri occhi la verità.» Val irruppe in quel momento nella sala. «Perdonate se non ho bussato: è giunto Morlav, l’investigatore. Dice di avere importanti notizie da rivelare e chiede udienza immediata.» «Fallo are» disse Ser Ianos.
Il mago giunse, assieme ad Erin e Corvin. Dapprima i membri dell’assemblea sembrarono imbarazzati dalla presenza dei due giovani, ma presto si resero conto che non c’era tempo per nascondere il loro improvvisato concilio. «Ho delle novità piuttosto importanti» disse Morlav. Estrasse dalla bisaccia due rotoli di pergamena e li mise sul tavolo. Poi aggiunse: «Questo è il sigillo della lettera che ha portato alla scarcerazione di Shalamor. E questa è un’altra lettera: si tratta di un banale ordine di approvvigionamento, siglato dall’Esarca. I due sigilli, se confrontati, sono identici. Addirittura, potete notare questa piccola imperfezione sul bordo: è ripetuta in ambedue. Questo non è un semplice timbro di servizio: è quello dell’Esarca in persona e solo lui dovrebbe poterne aver accesso. Lui oppure il suo Vicario. Ormai la scelta può solo ricadere su questi due: questa prova di fronte all’Inquisizione è più che valida, per procedere.» «Altri potrebbero avere sottratto il sigillo» disse Allistar. «È alquanto improbabile ed in ogni caso questo è facilmente verificabile. Il sigillo dovrebbe essere tenuto sotto chiave ed è accessibile solo dal Vicario o dall’Esarca: basterà vedere se è ancora lì. In ogni caso, tutto punta all’Uffizio: questa è una prova schiacciante» disse Ianos. «Dove avete preso quella nota di approvvigionamento?» chiese la Badessa Clodis con tono inquisitorio. Morlav esitò.
«Suvvia» intervenne Dama Chiliana. «Non è il momento di essere ligi alle regole: la situazione è grave e straordinaria.» «Mi chiedo solo se le lettere siano autentiche» disse la Badessa diffidente. Morlav non ribatté: aveva capito che era un’obiezione lecita. «Osservate la carta e i sigilli. La cera e lo spessore del foglio. Un falsario avrebbe dovuto spendere un occhio per contraffarli.» La Badessa toccò ed osservò i fogli. Fu convinta, ma aggiunse: «tuttavia è d’uopo che questa prova venga consegnata agli Alabardieri e qui vedo un Luogotenente» disse ed indicò Erin. «Porterò queste pergamene al sicuro, al Palazzo del Conestabile. Mi occorrerà una scorta» disse la giovane. «Verrò con te» disse Corvin aprendole la porta della stanza. «Vi serviranno uomini fidati, in questa notte di tumulti per scortarvi» disse Chiliana. Si fermò un istante a pensare, poi scorse Railan che era rimasto fuori dalla porta. «Ospitaliere, mi occorre vedere un tuo superiore, immediatamente.» Ed alzandosi, la Paladina condusse fuori Railan, Morlav, Corvin ed Erin. Val stava per chiudere la porta ed uscire con loro, ma fu trattenuto dal Sergente Caviled. «È giusto che tu resti. Fai parte di noi ora» gli disse sorridendo. «Grazie, Sergente» disse Val ricambiando il sorriso. Ianos parlò: «Andiamo alla Cattedrale. Ogni lama è ben accetta: non sappiamo cosa ci troveremo. Non possiamo tuttavia mobilitare troppi uomini, non senza sentire il Priore al Tempio Rosso, che vorrà del tempo per pensarci e prove. E tempo noi non ne abbiamo da sprecare. I Necromanti potrebbero sospettare anzitempo del nostro piano e agire prima che possiamo farlo noi.» «Dovremmo andare tutti noi, tutto l’Ordine, anche se ormai è notte» disse
Allistar. «Certo, ma solo noi potremmo essere troppo pochi. N’est pas possible» disse Ser Mandecar. «Non possiamo portare altri Crociati?» chiese Val. «No, Galron. Ciò che stiamo per fare n’est pas officiel… non è ufficiale» disse Mandecar. «Se facciamo un buco nell’acqua pagheremo cara la nostra irruzione. Servono persone più che fidate e molto abili a combattere, che vengano senza fare troppe domande.» «C’è una giovane maga, mia apprendista, molto promettente; ma è troppo piccola» disse Allistar. «Posso fornirvi io una lama fidata e valida in più» disse Val. «È di strada.» «Prudenza: dovremmo prima vagliare noi se questa persona è fidata» disse la Badessa Clodis. «Non possiamo fare gli schizzinosi a questo punto» commentò Caviled. «La parola di Galron per me è sufficiente. E probabilmente so di chi parla.» Chiliana rientrò: «Ho mandato alcuni Ospitalieri a scortare madama Erin e messer Corvin. È tutta gente affidabile.» «À les Enferes! Andiamo alla Cattedrale, basta indugi» le disse Mandecar alzandosi. «È tempo di chiudere i conti.» I membri dell’Ordine uscirono dalla stanza; fuori sulle scale videro Morlav che si metteva i guanti osservando il cielo notturno rannuvolarsi e coprire la luna. Chiliana si fermò a parlargli qualche istante. Gli spiegò poche cose e poi gli chiese soltanto: «Morlav, verreste con noi alla Cattedrale? ci serve tutto l’aiuto possibile. Normalmente avremmo chiamato alcuni alleati ma non c’è tempo.» «Dato che è in rischio la sicurezza di tutti noi, sarebbe sciocco non aiutarvi» commentò il Mago facendo un sorriso sarcastico.
«Noi andiamo a recuperare il nostro equipaggiamento» disse Mandecar. «Avviseremo anche Kenarnon e i suoi cacciatori, lungo il tragitto. Ci vediamo sul retro della Cattedrale, presso l’abside, tra un’ora al massimo.»
Val, Caviled, Ianos e Bevarond indossarono rapidamente corazze di maglia con rinforzi di metallo. Presero armi, elmi e scudi e corsero fuori a piedi. «Perché tutti di corsa alla Cattedrale proprio adesso? Qual è il pericolo?» Chiese Val mentre avanzavano. «Chi possiede gli Artefatti della Cattedrale può usarli per… aprire una “porta”, anche se è molto difficile.» rispose Caviled. «Una porta? Dove condurrebbe?» «Verso un luogo che non esiste qui. Esiste nel cielo e non è un luogo dove vorresti finire. Le creature che lo abitano non… sono di questo mondo e non devono venire qui.» «È quello che ho letto sul libro che mi avete detto, la ballata di Marlin Merstarr!» «Sì. I Necromanti l’hanno fatto un’altra volta in ato: quasi nessuno lo sa perché li abbiamo fermati.» «Perché ci andiamo proprio ora?» «Temiamo che questa congiura dei Fedra sia stata favorita da loro per fare la cerimonia di apertura della porta senza essere disturbati Se fosse stato per me avrei chiamato un intero plotone di Crociati in armi: non concordo con Mandecar. Dovevamo giocarci tutto e non essere così cauti. Porta tutte le spade che puoi trovare, Galron. Qui non si scherza più. » «Vado subito a procurarvene una.» Val si fermò a casa di Salaran: lo trovò in piedi spada in pugno e coltello nell’altra mano, una fine lama di fattura selese che gli avevano regalato Val e Corvin. Val gli raccontò alcune delle cose che erano successe e Salaran ascoltò
in silenzio. «Ran, è la nostra battaglia. È peggio del previsto: questa è la vera battaglia per Lenvar, non quella sulle piane di Gauna.» «Mi hai già fatto combattere una battaglia non mia una volta, quando siamo stati assaliti sulla strada per Tila.» A queste parole, Val abbassò lo sguardo. «Ed è stato divertente, in fondo. Io verrò con te, Valen: con te e Corvin. È il momento in cui noi tre dobbiamo combattere assieme. Nessuno ci fermerà, fratello.» E gli strinse la mano con calore.
Ormai stava nevicando ed in città c’era un silenzio spettrale, dando a tutto l’aspetto di un posto infestato dai fantasmi. «Ma che succede di preciso allora?» chiese Ran mentre con Val camminavano svelti verso la Cattedrale. «Pensiamo che il Vicario o l’Esarca sia il capo dei Necromanti. Dobbiamo andare alla Cattedrale: uno dei due potrebbe essere in pericolo.» «Sai, non vedo l’ora di piantare la spada nel petto a qualcuno di quei necrofili bastardi!» disse Ran. «Non sai quanto ne abbia voglia io. Per Gala… per tutti noi.»
Si trovarono assieme agli altri sul retro della Cattedrale: il muro semicircolare dell’abside offriva un poco d’ombra, dove defilarsi. Allistar il mago aveva indossato una pesante tunica verde, ornata da filigrane d’oro. Con lui c’era la badessa Clodis, che stava patendo visibilmente il freddo, date le molte lune che aveva sulle spalle. Morlav portava un cappello piumato, il suo poncho (un ricordo dei suoi viaggi giovanili) e diverse bisacce e cinture dalle molte tasche.
Kenarnon appariva splendido nelle sue vesti da battaglia lyblis: una casacca scura copriva un’armatura a strisce di leggerissimo e fine argento elfico. Portava il cappuccio amaranto tenuto fisso da una sottile fascia fatta del medesimo metallo della cotta, lo scudo d’oro e smeraldo a forma di foglia e la meravigliosa spada temprata nelle sorgenti del Bosco Nero, un’arma senza prezzo. Stava lì assieme a Sofos e ai suoi figli Lorkan e Kandui. «Mia sorella?» chiese nella sua lingua a Sofos. «Viaggia verso nord, come avete comandato. Avviserà gli altri Cacciatori che ci aspettano al Crocevia, che Shalamor è fuggito.» «Mi sarebbe servita ora. Ma Shalamor è altrettanto importante.»
Tutti gli altri compagni erano bardati come se andassero in guerra: Ianos portava un grosso scudo così come Val, mentre Mandecar e Chiliana erano vestiti di armature complete da battaglia, celate da manti blu. Anche Corvin era giunto: Erin era stata trattenuta per fare rapporto al Conestabile in persona, ma sperava di fare arrivare rinforzi il più presto possibile. Corvin raccontò agli altri che durante la strada erano stati nuovamente aggrediti dai facinorosi, ma grazie a Railan e agli Ospitalieri di scorta, l’avevano scampata. «Non possiamo entrare armati nel convento, non senza l’autorizzazione dell’Inquisizione» disse Ser Mandecar. «Dobbiamo fare una scelta: ci giochiamo tutto, amici. Ci giochiamo i nostri titoli e le nostre posizioni, ma non possiamo aspettare che ci autorizzino ufficialmente. Occorre entrare e accettare le conseguenze, o potrebbe essere tardi» disse Ianos. Poi aggiunse: «Morlav, Messer Salaran e messer Corvin, non siete obbligati a venire. Non siete ancora coinvolti e potete sottrarvi finché siete in tempo. Quello che ci aspetta è ignoto e potenzialmente mortale. Non c’è spazio per persone non convinte» disse duramente. «Sono un uomo libero» disse Salaran. «Libero e liberamente scelgo di affrontare questa minaccia, con o senza il vostro “permesso”» aggiunse sfrontato.
Parlò Morlav: «Ho servito per anni sotto il Conestabile; fare un po’ di straordinario non mi disturba» aggiunse sorridendo. «Mi unisco perché sono fedele alla Repubblica e a voi per la lotta contro i Nemici della Vita. È un onore poterci essere» disse Corvin. «La Compagnia Senza Nome, che nasce qui ora, si muoverà stasera contro i Necromanti» disse Ianos sottovoce ma solenne. «Che l’Eterno e i Santi ci proteggano tutti.» “La Compagnia Senza Nome”, pensò Val. Questo sarebbe stato il nome che i bardi avrebbero cantato nei secoli? Sempre che qualcuno di loro fosse sopravvissuto. Se Ianos aveva chiamato tanta gente armata era perché sapeva che questa missione era disperata.
Il gruppo avanzò sul lato della Cattedrale. Si trovarono di fronte e videro tutta la sua potenza. Tante volte l’avevano osservata in ato: la Cattedrale Matriana dedicata a San Lelan, uno dei Santi protettori della Repubblica. Ai lati della scalinata, due gigantesche statue di leoni albini osservavano silenziose nel marmo il gruppo di commilitoni. La facciata era splendidamente ornata da statue, da strisce e colonne di pietra di colore nero, bianco e rosso, alcune ondulate, che circondavano i tre grossi portali per altrettante navate. Tutta la facciata era a strisce orizzontali bianche e nere, secondo lo stile del tempo. Le due torri campanarie si stagliavano nel cielo plumbeo con i loro tetti di ardesia. Il rosone sopra la porta maggiore era un mosaico di vetro colorato splendidamente ornato. Tutto lo sfarzo non poteva che convincere la gente della potenza dell’Eterno Reggente. Era impossibile entrare dal davanti: i giganteschi portali erano serrati, così gli uomini si mossero verso il portone laterale. Mentre la calpestavano, la neve fresca scricchiolava finemente. Non c’erano guardie: forse tutti erano fuggiti per i disordini. Questo fu un grosso vantaggio. Ma il portone era chiuso ermeticamente.
«iamo dal Convento. Ho la chiave di un piccolo cancello» disse la Badessa Clodis. Ad attardarsi furono i Cacciatori: Sofos ansimava ancora dopo la corsa fatta per giungere fino al Tempio. Nessuno avrebbe potuto sospettarlo, ma vari secoli di età gravavano sulle sue spalle. Lorkan, figlio amorevole, lo sosteneva con la sua spalla e Kandui prese il suo fagotto. «Padre mio,» gli disse Lorkan nella lingua silvana, «non puoi procedere oltre. Torna al sicuro in uno dei templi degli uomini, sappiamo combattere e poi il Principe è con noi!» «Avrei dovuto farlo prima, Lorkan» rispose Sofos. «Ma ho giurato alla mia Stella che mi vede dall’alto che finché avrei avuto forza nelle gambe avrei vegliato su di te; ti chiamano il Forte ormai ed io rifiuto ancora di vederti così, alto e adulto. Mi sembri sempre quel figlio che colpiva le pigne con la fionda. E tu Kandui, mia gemma, persino la neve fresca è meno candida di te, questa notte» e la accarezzò. I due figli lo abbracciarono. La bella Kandui ticchettò sulle sue perle e suonò poche e tristi note. Quel presentimento che non si può descrivere gravava nelle loro teste. Sofos probabilmente non aveva ancora troppo tempo da are sul suolo terrestre, che i silvani giudicavano sacro come un dio. Privare un Cacciatore della sua caccia era inaccettabile e dovettero rassegnarsi al volere del padre. Lo portarono con loro mentre Kenarnon li guardava ammirato ma triste, tirando sugli occhi il suo cappuccio. Ci misero un po’ a trovare la porta di servizio che diceva la Badessa. Il piccolo cancello di metallo fu spaccato da Mandecar e Caviled. Clodis avanzò lasciando piccole impronte nella neve del piccolo cortile. Vide la porta incriminata. Le sue vecchie mani infreddolite trovarono infine la chiave e la inserirono nella toppa. Non girò. «Demoni degli inferi!» esclamò la chierica buttando la chiave per terra. Quando vide che tutti la osservarono sbigottiti li redarguì. «Beh? Anche noi Badesse imprechiamo! Non ho mai usato questa chiave: ho sempre varcato la soglia principale e non sono mai entrata di soppiatto!»
Corvin si fece innanzi e poggiò sulla neve una bisaccia di cuoio. La srotolò: dentro c’erano ferri di tutti i generi. Si mise con i suoi strumenti a lavorare sulla serratura. «Dove avete imparato a fare queste cose?» gli chiese Kenarnon. «Lasciamo stare: l’importante è che stasera ci tornino utili» rispose Corvin sorridendo. «Ma ho le mani intirizzite.» La Badessa Clodis si fece avanti: disse poche parole rituali giocando con il suo ciondolo a forma di clessidra e poi sfiorò la mano di Corvin come un’amorevole nonna. Il nobile sentì subito caldo, la guardò e inchinò la testa in segno di ringraziamento. «Nessuna sentinella, non un adepto, non un Paladino» commentò Caviled guardandosi attorno con la mano sull’elsa della spada. «Aye, C’è sicuramente un motivo per questo: I donnot lyke it» disse Bevarond. «Potrebbero essere tutti trincerati dentro per i tumulti» disse Mandecar. «Anche se è strano che nessuna sentinella ci stia osservando dalle finestre.» «Fatto. È scattata!» disse Corvin. «Temo che dentro possano avere sentito, però!» La compagnia entrò nel convento, freddo e vuoto. Nessuno sembrava essere presente all’interno del piano terra. «Forse i prelati sono chiusi nelle celle di sopra, o sono scappati» disse Caviled. I Cacciatori si mossero rapidi ed ispezionarono le stanze vicine con le lame in pugno. Si muovevano con i leggeri tenendo piccole lampade dalla luce molto fioca e non facevano più rumore di un moscone che vola. «Kirie, una luce proviene dalla Cattedrale… e c’è rumore anche» disse Sofos a Kenarnon in lingua silvana, incoccando una freccia. Kenarnon riferì agli altri. «Forse sta succedendo ciò che temo» disse Ianos a bassa voce. «Stanno mettendo le mani sugli Artefatti: le reliquie nella cripta! Dobbiamo controllare subito nel Tempio: dopo saliremo dall’Esarca. Questo è più importante.»
Era mezzanotte e i campanili scandirono lenti i loro rintocchi. Quando Ianos entrò nella Cattedrale, vi era un grande silenzio. I ceri votivi erano accesi e tutto giaceva in una quieta penombra. Il cielo si aprì e smise di nevicare. La luce della luna piena filtrava pallida dai grandi rosoni e dalle finestre della cupola. Non c’era nessuno. Le colonne scure, sovrastate dai matronei, davano un senso di imponenza. Lentamente entrarono tutti i restanti: Caviled e Ser Bevarond, armi in pugno, scrutarono le navate deserte. Dama Chiliana aveva il volto grave come il suo amato Mandecar, quasi un presagio. Dietro tutti, Salaran avanzava quieto brandendo energicamente la sua flamberga. Morlav scostò oltre le spalle il suo poncho e prese in mano un libretto fissato con una catenella alla sua cintura. Pronunciò sottovoce alcune parole buttando un occhio alle pagine. Poi, come si fosse accorto di qualcosa che non andava, parlò sottovoce ad Allistar. Ianos li vide e si avvicinò cauto: posò una mano sulla spalla del mago e confabulò con loro. Val non capì che dicessero ed osservò in attesa: fissò meglio lo scudo al suo braccio. Si voltò e si accorse che Corvin, dopo essere entrato era sparito nel nulla. Non era preoccupato e sorrise dentro la sua mente poiché se lo aspettava, ma le labbra non si mossero: erano serrate dalla tensione. Poi una voce echeggiò per le navate vuote, rompendo quell’assordante silenzio in cui solo il battito dei cuori in gola scandiva il tempo come un tamburo. «È vilipendio che individui armati s’introducano nella casa dell’Eterno Reggente!» Ma nessuno sembrava presente: la voce poteva provenire da ovunque, dato che rimbombava tra le colonne. Fu allora che Ianos si fece avanti: giunse poco prima dell’altare e posò la punta della spada per terra, appoggiandosi ad essa tronfio. Rispose: «Questa non è più la casa dell’Eterno. Qualcuno l’ha trasformata in quella del Male!» Fu allora che dal coro posto dietro all’altare, apparve una figura: portava ricche vesti, dall’alto bavero. Disse: «Blasfemia oltre al vilipendio!» La penombra impediva di vederlo in faccia: egli avanzava con gli avambracci e i palmi delle mani in avanti. Come se volesse spingere qualcosa di invisibile.
«Galron, ragazzi!» disse Caviled. «Le scale ai lati dell’altare portano alle cripte sotterranee. Ho timore che qualcosa potrà uscire da lì; se ciò accadrà, dovrete aiutarmi a respingerlo.» «Uscirà qualcosa? Di che genere?» chiese Val preoccupato. «Tu colpisci con forza» rispose l’uomo. Mentre Val e Ran si guardavano attoniti, Dama Chiliana e Ser Mandecar, fianco a fianco e perfettamente al o, giunsero vicino a Ianos. La donna levò dal capo il suo cappuccio azzurro e rivelò una cuffia di splendida cotta di maglia a fini anelli dorati. Con una voce squillante e di sfida, intimò: «Vi riconosco. Ci apparite in circostanze misteriose ma al contrario fin troppo chiare sono le prove che ci hanno portato a voi. Un complotto è in atto nella nostra Lenvar e i fili dei burattini che sono stati mossi portano a questa Cattedrale. Poiché la nostra legge divina ci impedisce di agire senza dare voce a coloro che sono indagati, rispondete alla mia domanda: avete stretto legami con i servi dell’Oscurità, del Signore della Fine e del Male?» L’uomo non si scompose: non rise né sembrò adirato. Si limitò a dire: «Obbedii per decenni ai veri servi del Male e non me ne accorsi finché non trovai la verità. La risposta alla vostra domanda è sì, dal vostro punto di vista. Ma se volessimo essere realisti, io dovrei fare la medesima domanda a voi e voi mi rispondereste pensando di essere innocente. Il concetto del Male è solo soggettivo.» «Dunque siete un traditore dell’Ecclesia e della patria» disse Ianos alzando la spada. «Moloc siete voi, c’est vrai?» disse Ser Mandecar, facendo un segno al suo compagno di fermarsi. «Moloc è il mio nuovo nome e non ne porterò più altri da oggi» disse fieramente e senza esitare l’uomo. Rimase sempre fermo, con le mani protese in avanti. «Seguiteci senza resistere presso il tribunale dell’Ecclesia e potrete difendervi dalle accuse» disse Chiliana. «Come vedete siamo in superiorità e ben armati. Arrendetevi.»
«C’mon, Chiliana, non perdiamo tempo!» disse Ser Bevarond. Il protocollo era quanto mai inadatto in quel frangente poiché era chiaro che Moloc non si sarebbe arreso, ma i Paladini avevano un codice di comportamento tra i più stretti che esistessero: non potevano attaccare senza prima offrire una resa onorevole ed anche in quel frangente Chiliana si attenne ai suoi dogmi. «Avete la mia parola che vi sarà un processo equo» ribadì la Paladina. Moloc rise di gusto. La sua voce apparve d’improvviso sgradevole e carica di boria e di odio. L’uomo che stava di fronte all’altare con i palmi protesi balzò in avanti. Avanzò quel tanto da entrare nel cono di luce delle candele. Infine il suo volto fu chiaro: era l’Esarca Bernet. Aveva il viso terrorizzato, però: quasi cadde in avanti come fosse stato spinto da dietro e tremava come una foglia. «Eccellenza… come avete potuto…» disse Chiliana. Ma trasalì, perché dietro l’Esarca c’era un'altra persona: tutti furono colti di sorpresa. Apparve una figura incappucciata, vestita di ricche vesti clericali che pungolava l’Esarca con un bastone appuntito e preziosamente ornato, attorno alla cui sommità fluttuavano per magia delle pietre colorate. «Fermo! Lascia Sua Eccellenza! Deponi l’arma subito!» disse Mandecar. «Non voglio deporre le armi. Voglio fare questo» rispose Moloc. Come una radice nata all’improvviso, dal petto dell’Esarca scaturì un pezzo di metallo che spruzzò di sangue il pavimento e il suo viso fu contrito di dolore. Non urlò, fece un sussulto e crollò in ginocchio: Moloc sfilò il bastone dal corpo e lasciò l’Esarca lì boccheggiante a sanguinare. L’omicida si fece avanti, vestito di tunica e mantello di color rosso e nero: gettò all’indietro il cappuccio e si rivelò. Thavion Descor, Vicario di Lenvar, era Moloc, Signore Necromante e causa di sofferenza, morte e minaccia per molti. La Badessa Clodis scosse il capo e si strinse al fratello Allistar. Thavion contorse il viso; disse alcune parole sconosciute, come una cantilena. L’Esarca era immobile e in ginocchio; respirava sempre più velocemente. Il suo corpo d’improvviso fu come risucchiato: le sue carni avvizzirono fino a farlo sembrare un cadavere morto per stenti. Thavion allora piantò nuovamente il suo
bastone nella schiena dell’Esarca, impalandolo; alzò il bastone con il corpo conficcato sopra la propria testa, come se il corpo dell’Esarca pesasse ormai come una piuma. Poi scagliò via il cadavere oltre il coro ed esso cozzò con un rumore orrendo contro la parete e stette immobile per sempre. «Assassino! Cane!» Urlò Mandecar lanciandosi in avanti con la spada sguainata. Moloc impugnò il bastone saldamente con le sue mani e lo sbatté violentemente al suolo poco prima che la spada di Mandecar potesse calare sul suo collo. Il Paladino fu spinto da qualcosa di invisibile all’indietro e ricadde, sorretto da Dama Chiliana. Tutti i membri della Compagnia sguainarono le armi e le puntarono contro Moloc. Egli non pareva preoccupato. Con calma, assumendo una posizione di guardia disse: «Lui era maledetto. Non sapete quante malefatte ha compiuto, quante persone sono morte sul rogo, nelle prigioni, per i suoi capricci». Poi si rilassò e tornò ad usare il bastone come semplice appoggio. Indi proseguì: «La sua forza ora è al mio servizio. Dama Chiliana, avete servito anche voi il dio sbagliato! Un dio che ha limitato la vostra conoscenza e vi ha costretto a veder perire i vostri amici per la sua gloria! Io ho scelto la via della Verità e con il are degli anni le mie conoscenze cresceranno: con esse smaschererò le bugie che i Patriarchi ci hanno propinato per un millennio! Questa è una strada che mi sento di aprire anche a voi! Siete stata sempre giusta e sarete una preziosa alleata!» «Thavion…» fu la Badessa Clodis a farsi avanti. «Tu non ascolti nemmeno ciò che dici. Rifletti sulle tue parole! Ci hanno insegnato che il pentimento è la più grande delle vittorie e dei sacrifici. Siamo noi a chiederti di desistere e tornare in seno al tuo popolo! Non posso crederti un assassino! Se dici che l’Esarca è stato colpevole di malefatte orrende io ti crederò, ma ora ti prego: posa il bastone e arrenditi… in pace!» «È abbastanza» disse annuendo violentemente Moloc. «È abbastanza sentirmi fare la predica da una vecchia: il simbolo dell’immobilità di questa Repubblica, del mondo intero! Tutto ciò che viene costruito in questo luogo dannato è sempre per i vecchi, per proteggere chi è venuto prima a scapito di chi segue! Non ho mai sopportato i tuoi insegnamenti, Clodis. Non ti seguirò più. Se oserete salire
uno solo degli scalini dell’altare, prometto che alcuni di voi resteranno a terra immobili… e freddi.» Poi girò leggermente il capo e grido: «Cromlan!» Ci fu un attimo di silenzio e Moloc ripeté: «Cromlan! Vieni fuori!» Ma non vi fu risposta, solo il rumore di un sorriso nell’ombra che si allontanava. «Tradimento! Bastardo! Tu sia maledetto! Dopo tutto l’aiuto, dopo il mio perdono per il tuo fallimento! Ti inseguirò, mi senti?! A morte! A morte tutti!» urlò il Vicario. Ma ora aveva perso tutta la sua umanità: Thavion stava per morire dentro di lui e rimanere solo Moloc. Dama Chiliana guardò Mandecar e poi girò lo sguardo verso Ianos, a cercare la loro intesa. Dietro di loro i maghi avevano iniziato a pronunciare alcuni incantesimi di difesa. I Cacciatori avevano trovato riparo dietro le colonne, mentre Kenarnon avanzava scuotendo la testa, lo sguardo al suolo, la spada in pugno, la tristezza che trasudava dal suo cuore. «Siete dentro un Tempio, idioti! La vostra magia qui avrà meno potere e lo sapete» gridò Moloc. Ed aveva ragione, perché la terra di una Cattedrale era stata consacrata con incantesimi appositi per impedire l’uso della magia all’interno. «Anche la tua sarà più debole!» disse Clodis. «Lo vedrai!» Il sacrificio dell’Esarca aveva dato grande forza a Moloc ed egli con un semplice gesto del suo bastone chiuse la porta dalla quale era entrato il gruppo.
12.
Il Giorno del Male
Val e gli altri si fecero indietro: dalle scale che portavano alle cripte, uscì una nebbia gelida, inodore ma spaventosamente densa, che pareva essere viva nella sua danza. «Restate al posto!» tuonò Bevarond e dopo avere detto queste parole, iniziò a cantare alcune strofe in sabano, agitando le mani e compiendo simboli rituali. Caviled fece lo stesso: erano le Preghiere da battaglia più avanzate dei Crociati, potenti Miracoli capaci di instillare nei cuori coraggio e saggezza. Subito il vigore tornò nelle menti dei più giovani che si serrarono ognuno vicino al proprio compagno pronti ad affrontare qualsiasi cosa fosse salita da quelle scale. Gli elfi tesero gli archi e incoccarono le loro splendide frecce e Val seguì l’esempio dei suoi maestri: pronunciò le parole rituali e o una mano delicatamente sulla sua lama. La sua spada per un attimo sembrò rilucere di speranza e un bagliore balenò nelle sue pupille. Ora era convinto che ciò che stava facendo era il suo dovere, che poteva rischiare la vita ma che non sarebbe stata sprecata. Sant’Isior, lo sentiva, gli sarebbe stato vicino perché la loro causa era giusta. Moloc doveva pagare. Thavion Descor avrebbe pagato anche per Gala, loro lo avrebbero ucciso o costretto alla resta per farlo giustiziare. «Potevate andarvene ma io ora vi prometto sangue: Il vostro!» gridò Moloc impugnando il bastone con entrambe le mani. Poi si fermò e squadrò i suoi assalitori, ghignando. Attendeva qualcosa. «Mascherate male la paura di sostenere uno scontro eccellenza! Questa è l'ultima saggezza della vostra mente che vi consiglia la cautela: ascoltatela! Sto venendo a disarmarvi, vi avverto: se resisterete, la mia lama non esiterà a calare su di voi!» gridò Dama Chiliana. Si mise ad avanzare, anch’ella intonando una strana preghiera tra i denti: al suo fianco avanzava il marito Ser Mandecar, fiero e deciso. La badessa Clodis si mise vicino ad Allistar e alzò il ciondolo con la clessidra, il simbolo sacro dell’Eterno Reggente. Pregò con tutta la forza che aveva in corpo
e con grande sofferenza, come se presumesse qualcosa di orribile. D’un tratto le armature dei due Paladini emanarono una luce accecante e divennero di uno splendente color paglierino. Mandecar e Chiliana si fermarono e guardarono le loro vesti. Sorrisero e cantarono all’unisono con la badessa: le loro lame si tinsero di una luce azzurra carica di speranza. Era infatti tra i matriani una consuetudine quella di unire le proprie forze nei Miracoli, per aumentarne la potenza. Così Val vide uno dei più incredibili poteri dei Paladini: l’Aura di San Vardem, rafforzata dall’amore che i due sposi provavano l’uno per l’altra. Nel fulgore di luce gli parve di vederli vestiti di abiti bianchi come neve, mano nella mano con le spade levate nell’altra e in quel momento invidiò quell’Amore: lui che era stato ferito da quel sentimento e non aveva quasi più fiducia in esso. Dietro di loro avanzò Ianos la cui spada si accese di fuoco e con lui Bevarond, la sua lama anch’essa avvolta da luce bianca e rossa. Moloc dapprima apparve impressionato: pensò forse per un istante di avere fatto male i suoi calcoli. Quel potere era immenso e pochi al mondo, da soli, avrebbero potuto resistervi: forse nemmeno il potente Arcimago Cardis Digor, morto secoli prima, avrebbe potuto contrastare tutta quella potenza. Ma il malvagio sorrise: aveva previsto tutto e perciò alzò il suo bastone con sicurezza. Con la punta colpì violentemente l’altare e lo spaccò a metà come fosse di ceramica. I frammenti, grandi come pugni, volarono per la navata centrale. I cavalieri furono respinti indietro al centro del transetto, schivando le schegge. Non erano feriti, ma Moloc era riuscito a dividere Mandecar e Chiliana: le loro armature divennero meno lucenti e tornarono a sembrare due normali guerrieri. Mandecar si rialzò e levò in alto la sua spada: fece qualche o di corsa, vibrò un fendente urlando con tutte le forze contro Moloc che lo parò con il suo bastone senza fatica e con una mano sola. Sembrava fortissimo e il Paladino spalancò gli occhi. Allora Mandecar ritirò indietro la sua lama e colpì per altre tre volte, arrivando col terzo colpo a squarciare la tunica del Vicario all’altezza della gamba ma senza toccare le carni. Moloc fece un salto all’indietro, aggraziato come un gatto: rimase col busto eretto e allargò le braccia mentre fluttuava letteralmente nell’aria all’indietro. Atterrò davanti al tempietto e dietro i resti dell’altare, tunica e mantello svolazzanti: anch’esse sembravano farsi beffa del Paladino. Chiliana affiancò suo marito e tentò di caricare Moloc. Egli sorrise malignamente e si alzò nuovamente in volo a circa quattro metri sopra l’altare. Ivi rimase sospeso nel vuoto. «Se conosce il Potere del Volo, è molto più abile di quanto pensassimo» disse
Allistar. Quell’incantesimo, infatti era appannaggio solo dei più sapienti maghi o sacerdoti. Allora Allistar tirò fuori dalla bisaccia una polvere gialla. Prese quasi con violenza il suo libro degli incantesimi e diede un colpo con la mano alle pagine che girarono rapide, posizionandosi esattamente su quella che desiderava senza che nemmeno lui guardasse. Allistar liberò nell’aria la polvere e disse cinque parole in sabano: “Vis caeli ad terram cadit”. Mentre lo faceva le miniature e le lettere sulla pagina del libro s’illuminavano e cambiavano forma. Puntò la mano contro il maligno: una saetta di elettricità balenò e si diresse verso il Vicario rapidissima. Moloc non cessò di ridere e alzò il bastone avanti a sé per deflettere il fulmine. La saetta esplose in mille scintille ed egli fu praticamente illeso. «È fortissimo» disse tra i denti Morlav sfogliando il suo libro con meno grazia e più fretta di Allistar. «Dobbiamo bucare la sua magia difensiva!» «Sì. E so come fare: ho appena cominciato!» rispose sicuro Allistar. Val, Salaran e Caviled da un lato e i Silvani dall’altro si erano posizionati vicino alle scale, pronti ad aggredire qualsiasi cosa salisse dalla nebbia. «i! i dalle cripte!» gridò Val: e come ebbe detto l’ultima parola, un cranio polveroso si alzò dal parapetto della scala. Val lo colpì spaccandolo, ma dopo un instante ne uscirono altri due: interi scheletri armati di vecchie armi e armature uscirono emettendo un sibilo spettrale. Animati dalla Necromanzia, muscoli e legamenti erano sostituiti da magia che li rendeva forti quanto un uomo vivo, seppure un po’ impacciati. Kenarnon vide un altro scheletro affacciarsi dal suo lato. Menò un fendente diagonale, dal basso e le ossa furono tagliate come carta: era chiaro che la sua spada era stata incantata da potenti artigiani. Sofos e Lorkan, accanto a lui, colpivano con veemenza. Kandui scoccò una freccia verso Moloc, ma questa parve conficcarsi nella sua tunica senza dargli pensiero. Nel mentre, decine di scheletri uscirono disordinatamente dalle scale. Lorkan rinfoderò le spade e prese il bastone borchiato, sicuramente più adatto a rompere le ossa. Lui e il padre colpivano senza pietà coprendosi a vicenda. Gli scheletri erano fragili e cadevano rompendosi in frantumi che talvolta conservavano il loro empio incantesimo: gli arti mozzati si muovevano, le mandibole mordevano e i combattenti scivolavano sulle ossa spezzate. Dall’altro lato del transetto non
andava meglio: per quanto Salaran fosse feroce con la sua spada a due mani e Val e Caviled combattessero prodemente, gli scheletri erano molti e le loro spade non erano efficaci come la lama di Kenarnon per tagliare le ossa. «C’è una necropoli qui sotto! Siamo nei guai!» urlò Caviled mentre spaccava un cranio vecchio e polveroso. Bevarond corse ad aiutarlo.
Moloc non aveva cessato di ridere. Né Ianos né i due Paladini erano riusciti ad impensierirlo: ogni volta che si avvicinavano per colpirlo egli li respingeva come se fosse invincibile e li ricacciava indietro. Lo assalirono tutti e tre per tre volte, letali nei movimenti, ma inefficaci. Egli parava i loro colpi senza fatica come se li prevedesse e quando veniva colpito mostrava ben poco dolore. Quando ebbe ricacciato nuovamente gli assalitori oltre l’altare frantumato, gli scheletri aggredirono anche loro e li costrinsero a difendersi. Conscio di avere finalmente campo libero, Moloc alzò il bastone e lo roteò in aria, creando a poco a poco un vortice nero sopra la sua testa. Val osservò per un istante e si ricordò del libro che il Sergente gli aveva detto di leggere. «Non può essere vero!» disse spingendo via uno scheletro che gli strattonava la tunica. «Sì, la Porta non deve aprirsi!» rispose Caviled. «Cosa? Di che parlate?!» tuonò Ran. «Non deve aprire una specie di portale o da lì usciranno creature che neanche immaginiamo!» gli spiegò Val. Allistar e Morlav intuirono che la situazione si faceva critica. Così unirono le forze, presero dalla bisaccia due piccoli cristalli che sembravano quasi di ghiaccio e li sbriciolarono tra le dita, muovendo all’unisono le mani e recitando le formule “vis glaciei, procella nivei, grando caeli!”: d’incanto alcune vetrate dei rosoni e della cupola s’infransero e un fortissimo vento gelido permeò la parte alta della Cattedrale. Dopo il vento venne una bufera di neve e ne seguì grandine a chicchi grossi come un pollice che piovvero addosso al prelato. Moloc allora cessò per la prima volta di ridere e il vortice sopra la sua testa si affievolì. Le palline di ghiaccio picchiettavano sul suo volto e le sue mani erano
intirizzite. Disturbato nell’esecuzione del suo incantesimo, dovette abbassarsi fino a terra. La grandine continuava a flagellarlo impedendogli di concentrarsi anche per volare. Giunse al suolo e con un’espressione di furente disprezzo alzò il bastone e urlò qualcosa in una lingua sconosciuta: “Sakin geri-gel!”. Con un lampo disperse la tormenta. Stranamente, si diresse verso il tempietto e lo controllò con lo sguardo e le mani con apprensione, come se fosse preoccupato. Chiliana, Ianos e Mandecar lo affrontarono nuovamente, ma stavolta lo misero in difficoltà. I tre colpivano senza pietà mentre la badessa Clodis dietro di loro, il braccio alzato e la mano aperta, impartiva benedizioni e canti di coraggio o assisteva i compagni che affrontavano gli scheletri: era una guaritrice di vistosa potenza e aveva molti strani unguenti nella sua bisaccia capaci di fare rimarginare le ferite o are il dolore in poco tempo. Ogni qualvolta qualcuno era ferito ella lo raggiungeva e gli impartiva coraggio e cure, protetta da Ser Bevarond. Moloc indietreggiò fino quasi all’abside del Tempio incalzato dagli assalitori. Emise un grido di rabbia fortissimo, quasi assordante e dalla porta della canonica giunsero due guardie entrambe bardate dentro pesanti armature, gli elmi completamente chiusi con giusto una fenditura per gli occhi. Erano fin troppo simili a quel cavaliere nero che Salaran e Val avevano affrontato sul ponte, quando furono assaliti da Cromlan. «Sono due Ritornati!» gridò Caviled. «Galron, Salaran! Indietro!» e così dicendo corse verso le due figure in armatura. Anche Bevarond, resosi conto della grave minaccia, corse ad aiutare il Sergente. I due Ritornati levarono in alto le loro grosse azze da guerra e caricarono senza pietà Mandecar e Chiliana, costringendoli a mollare la presa su Moloc. Lo scudo di Ianos fu frantumato da un colpo d’azza e Bevarond venne colpito così violentemente che cadde dalle scale dell’altare.
Tutti i contendenti, presi dalla foga del combattimento, non si erano accorti della figura grigia e ammantata che strisciava carponi a destra dell’altare con il pugnale tra i denti. Nessuno aveva visto Shalamor, che aveva reputato quello il migliore momento per uscire dalle ombre. Era così vicino al terreno che pareva un serpente. Si
avvicinò a Dama Chiliana assaporando il momento in cui l’avrebbe vista sprizzare sangue dalla gola. Nella sua malvagità individuò il punto del collo dove pulsava rapida e schioccante la carotide, come se potesse vederla sotto il cappuccio di maglia. Sembrava un coccodrillo affamato mentre avanzava: staccò una mano da terra e delicatamente afferrò il pugnale dalla bocca. fece per balzare. Ma commise un errore: non aveva visto che nella Compagnia Senza Nome c’era un individuo che conosceva la furtività come lui. Corvin aveva scorto l’empio assassino e non poteva permettergli di compiere il suo delitto. Così raccolse il coraggio e fece un o avanti: aprì il suo mantello nero uscendo dalle ombre e prese lo slancio. Shalamor fece appena in tempo a voltarsi verso destra per capire il suo sbaglio: era acquattato in una posizione fin troppo vulnerabile. Un calcio lo colpì con violenza al volto. Il delenar si rovesciò e finì al suolo, supino. Mise una mano sul viso e dove c’era il suo occhio destro, ora c’era una cavità piena di poltiglia sanguinolenta. L’assassino urlò e imprecò nella sua lingua, mentre il sangue lordava ovunque il pavimento e le sue vesti. Chiliana udì il grido: si voltò e capì la sorte alla quale era sfuggita. Cieco e sanguinante, Shalamor si alzò di scatto, come una molla: mentre con una mano teneva l’occhio ferito, raccolse un ultimo slancio d’odio e lanciò la sua lama: colpì Corvin sotto la clavicola e lo fece sobbalzare all’indietro contro il tempietto. Incredulo, il nobile scivolò lentamente al suolo e boccheggiò dal dolore, mentre l’assassino scappava via, ansimando e maledicendo tutti.
Chiliana lasciò il marito a combattere da solo con Moloc e trascinò Corvin fino dalla Badessa Clodis che era rimasta senza l’aiuto di Bevarond e fuggiva dagli ultimi scheletri rimasti, mostrando loro la clessidra sacra che portava al collo, urlando preghiere. Alla vista del simbolo, gli scheletri apparivano essere repulsi e si tenevano alla larga. Kandui continuava a scoccare frecce a Moloc, essendo l’arco inefficace contro gli scheletri e ogni volta che Mandecar le concedeva spazio per mirare. Più di una volta il suo dardo bloccò un contrattacco di Moloc che poteva seriamente mettere in difficoltà il Paladino. Ma le frecce non lo ferivano. La Badessa Clodis fece sdraiare Corvin aiutata da Chiliana; il nobile stava
impallidendo. Pronunciò alcune parole rituali, versò dell’acqua benedetta sulla ferita e aiutata da Chiliana estrasse via il pugnale. Non c’era veleno: Shalamor non aveva bagnato la lama, dovendola trasportare con la bocca. Ma Corvin era lo stesso debole e perdeva sangue nonostante i Miracoli impartiti. La lama era fatta di adamantio molto tagliente e la ferita era difficile a rimarginarsi. Chiliana gettò uno sguardo alla situazione: Ianos combatteva con un Ritornato e Moloc aveva respinto Mandecar, ormai esausto e rimasto da solo a combatterlo ed aveva di nuovo spiccato il volo. Roteava il bastone sopra la testa e un vortice nero cominciava a formarsi in aria sopra di lui. Kandui aveva rinunciato a colpirlo e scagliava le sue frecce contro i Ritornati, ma le armature erano ben temprate e pertanto essi resistevano indomiti. Si udirono allora molti rumori, come di lastre di pietra che strisciavano le une sulle altre o cadevano a terra: dalle antichissime tombe sotto i pavimenti delle navate erano spuntanti altri scheletri. Val e Salaran, combattendo come forsennati, diedero il tempo alla Badessa e ai due maghi di portare Corvin al riparo in un’alcova dedicata a San Vardem e in parte chiusa da una cancellata: la statua del Primo Paladino sembrava vegliare silenziosa su di loro. Val ribaltò alcune panche a formare una barricata, mentre colpiva ogni scheletro che si avvicinasse al nobile e alla sacerdotessa. Era chiaro che Moloc aveva radunato un piccolo esercito sotto alla Cattedrale: tutti quegli scheletri non potevano provenire solo dalle tombe o dagli ossari originali, per quanto vi fosse un’intera necropoli sotto l’edificio. Questo era lavoro fatto in anni di sotterfugi e probabilmente con la complicità di qualcuno. Val e Ran erano stati feriti, seppur lievemente, ed erano ormai circondati. Val usava più lo scudo per frantumare le ossa che la sua spada, mentre Ran spesso colpiva con l’elsa della flamberga, direttamente sui crani. Ormai Moloc volava fuori dalla portata delle spade e Chiliana, lasciato Corvin alla Badessa, che con molta fatica e vari incantamenti era riuscita a fermare il sangue che usciva dalla ferita di Corvin, corse ad aiutare Ran e Val. I Silvani, non potendo più contare sul fianco coperto dai due ragazzi, si strinsero per non farsi circondare e indietreggiarono anch’essi verso l’alcova di San Vardem. Morlav si aprì la strada picchiando col suo bastone attraverso gli scheletri e
raggiunse il piccolo presidio riparato dalle panche rovesciate. Vedendo Moloc convocare il vortice nero, lui e Allistar concentrarono ancora le loro forze. Sbucarono dalla navata laterale, aprirono le dita di fronte a loro, tennero saldo il libro con l’altra mano e alle parole “ignis sagitta”, strali infuocati si sprigionarono dalle loro mani costringendo il maligno ad abbassare nuovamente il bastone per defletterli. Uno degli strali tuttavia lo ferì ed egli urlò di dolore. «Il suo potere! Finalmente cede!» disse Morlav. «Non può controllare gli scheletri, volare come un cardellino, parare i nostri incantesimi ed evocare quello strano vortice tutto assieme. Continuiamo così!» gridò risoluto Allistar. I Ritornati cessarono di combattere contro Ianos e compagni e indietreggiarono a proteggere il loro padrone. La Compagnia Senza Nome era riuscita anche questa volta a disturbare il rito e per la seconda volta Moloc aveva smesso di ridere. Ma la sua furia era grande ora: «Avete ancora il coraggio di sfidare la tigre nella sua tana? Vermi! Io vi mostrerò cos’è la vera magia!»
E così Moloc si liberò del mantello e le rune della sua tunica si accesero di un bagliore rosso e scuro, che proiettava sia luce che ombra, in un caleidoscopio di immagini vive. Il diadema attorno alla sua testa si mise a brillare e un motivo geometrico apparve incandescente su di esso. Sembrava provasse un dolore lancinante: stava dando fondo a tutta la sua forza interiore. Il cuore gli batteva all’impazzata, le vene si gonfiavano. Le pupille erano ormai due capocchie di spillo e la mandibola era serrata. Non gli importava più niente: tutto ciò che era umano in lui era stato spazzato via. Puntò il bastone verso il basso urlando a squarciagola, un grido che assordò tutti: Kandui si getto al suolo tappandosi le orecchie. Corvin si ridestò di colpo dal torpore. Gli scheletri si fermarono tutti all’unisono. Un raggio verde, dapprima sottile, poi ampio e luminoso, partì dal bastone e colpì il suolo lasciando un solco nero al aggio. Sofos gridò qualcosa inorridito nella sua lingua, come se sapesse di che si trattasse. Poi Moloc alzò il bastone tenendolo a due mani come se ora pesasse
una tonnellata: lo alzò di quel tanto che bastò per fare convergere il raggio contro la barricata. La cancellata si fuse come neve al sole e la barricata si incenerì: Kenarnon corse indietro e riuscì a strattonare Corvin dietro una colonna ma la Badessa Clodis, nel disperato gesto di proteggere Allistar spingendolo via, fu trafitta dal raggio. Le vesti le presero brevemente fuoco nel punto in cui fu colpita, di una fiamma azzurrognola che si spense subito. Cadde rovinosamente con la faccia al suolo e non si mosse mai più. Così terminò la sua esistenza, nel sacrificio. Allistar, suo fratello, gridò amaramente. Ma solo per un istante, poiché la rabbia si impadronì lesta di lui. Moloc si appoggiò esausto al bastone: era di un pallore mortale ormai e iniziava a mostrare segni di cedimento. Allistar era risoluto invece: raccolse una sfera viola dalla tasca della propria tunica e sfogliò nuovamente con rabbia il suo libro. Disse solo una parola: “interitus”. La urlò con tale forza che persino gli scheletri e i Ritornati sembrarono turbarsi. Alzò la sfera e la lanciò contro il malvagio prelato. Essa accelerò così veloce lasciò una scia bianca mentre gli sfrecciava contro. Vi fu un’esplosione immensa che mandò in frantumi tutte le vetrate, schiacciò al suolo i contendenti e fece volare schegge, ossa e pezzi di legno ovunque e distrusse una intera colonna facendo crollare parte dell’intonaco. Moloc fu spinto violentemente contro il tempietto e batté la testa. Tutto il tempio fu invaso da una nebbia di calcinacci e per un istante rimase nel silenzio, interrotto solo dal suono dei pezzi di pietra e intonaco che cadevano dal soffitto. Kenarnon aveva fatto da scudo col suo corpo a Corvin e l'aveva trascinato al sicuro aiutato da Lorkan, che poi corse ad aiutare il padre, dolorante e appoggiato ad una colonna. Val si ritrovò sbalzato dentro un confessionale e non capiva come potesse essere finito fino a lì. Ran era appoggiato alla flamberga in un angolo boccheggiante e tossiva. Moloc si rialzò stancamente e lo osservò nuovamente preoccupato. Chiliana notò ancora questa reazione e iniziò a capire. Kandui si rialzò aggraziata dal suo riparo: scostò un ciuffo di capelli chiari da davanti agli occhi. Era tutta coperta di polvere. prese l’arco con compostezza, incoccò e mirò a Moloc. Stavolta lo ferì a un braccio: la sua magia si era infine affievolita. Ma il Necromante non era ancora stato sconfitto. Mandecar, intontito dalla botta, lo attaccò colpendolo un po’ maldestramente: Moloc alzò il bastone ed esso emise un suono fragoroso, come uno sparo e il Paladino fu scagliato a
diversi metri di distanza, andando a rovinare sulle panche. Era visibilmente ferito. Moloc era esausto, ma ai suoi avversari non andava meglio: gli altri combattenti erano tutti storditi. Bevarond giaceva semisvenuto sotto i frammenti di alcune panche e persino i Ritornati e gli scheletri erano sparpagliati e confusi. Molti di quest’ultimi erano stati letteralmente frantumati dall’esplosione. Pezzi di affresco e mosaici si staccavano dai soffitti: un danno incalcolabile, ma amaramente necessario. Indi il Maligno barcollò all’indietro, temendo per la prima volta la sconfitta. Non si aspettava una tale reazione da Allistar poiché pensava che il mago non fosse così sapiente nell’Arte Arcana. Per un attimo non seppe che pesci prendere: aveva contro un formidabile gruppo di combattenti votati a distruggerlo. Non poteva più contare sul suo sicario Shalamor ed era stato tradito dal suo braccio destro Cromlan. Aveva dato fondo a quasi tutte le sue energie, ma gli restava ancora qualcosa da fare: Sì lo avrebbe fatto. Chiliana non aveva capito. Lui le aveva dato la possibilità di unirsi a lui. L’aveva proposto solo a lei. Adesso era il caso di vendicarsi. Vomitò una cantilena oscena e orribile in sabano. Dapprima lentamente, poi le parole si succedettero così rapide che nessuno poteva più discernere le lettere che le componevano. Conscio che qualche potere terribile stava per scatenarsi, Ser Mandecar, non appena si resse in piedi, alzò la lama e tentò il colpo finale. Ma Moloc sorrise per la terza volta e disse un’ultima parola.
Per un secondo vi fu silenzio, tutti parevano immobili. Poi un’alta lingua di fiamma lunga dieci metri e larga due si alzò dal suolo e il Paladino fu investito; di striscio furono colpiti anche Morlav, Allistar e Kandui, che gettò a terra il suo arco dal dolore. Mandecar fu invece preso in pieno e avvampò come una torcia. Cadde a terra dimenandosi come un pazzo. Allora Ianos gli corse incontro col suo mantello e tentò di spegnere le fiamme, mentre Moloc guardava soddisfatto. Le ustioni erano orrende e solo una parte del viso aveva mantenuto le fattezze intatte. Chiliana, che si era appena alzata e ripresa dopo l’esplosione, sentì un canto di morte provenirle dal cuore: era l’urlo di Mandecar che aveva riconosciuto anche nello stordimento. Sofos corse verso Kandui per portarla al sicuro. Diede le spalle a Moloc, mentre tornava indietro.
Solo un sibilo. Poi sentì una voce dietro di lui, sussurrare nella lingua degli Antichi Popoli: «Te l’avevo promesso, vecchio. Goditi la tua fine.» Un dardo avvelenato germogliava dalla schiena di Sofos. Shalamor svanì, ridendo. Lorkan e Kandui videro il padre cadere. Lorkan gridò: «Lam!» e corse con la sorella verso il suo corpo. Gli altri combattenti erano sparsi per la Cattedrale, a terra o barcollanti e sommersi di ossa, polvere e calcinacci.
Moloc aveva recuperato le energie: vedere Mandecar, Clodis e Sofos soccombere lo aveva malignamente ringalluzzito. Bevve il contenuto di una fiaschetta e si sentì meglio: si pulì la bocca con la manica sputacchiando mentre rideva disgustosamente. E così per la terza volta spiccò il volo roteando il bastone sopra la sua testa: stavolta la sua voce sapeva di beffa mentre intonava l’incantesimo. E il vortice nero si formò indisturbato ancora una volta. Ianos intanto aveva approfittato della confusione generata dall’esplosione per attirare lontano uno dei Ritornati, mentre Val e Caviled combattevano l’altro. Dalle cripte salivano ormai pochi scheletri, così Chiliana poté abbandonare la barricata difesa egregiamente dai silvani e correre dall’amato Mandecar, esanime. Ma prima disse a Salaran, che le era vicino: «Corri! Vai a suonare le campane, che Lenvar accorra! Ci serve aiuto!» Salaran comprese la gravità della situazione: non c’era più nessuno in grado di contrastare Moloc. Allistar era ferito e non poteva pronunciare alcun incantesimo più potente di quelli che già aveva scatenato. Morlav difendeva Corvin, Kandui aveva le mani ustionate e assisteva il padre, Lorkan e Kenarnon combattevano con gli scheletri rimasti per proteggerli. Moloc ormai era di nuovo in volo ed irraggiungibile dalla lama di Chiliana. La situazione volgeva verso la disperazione. Così Ran, con uno slancio, corse attraverso la navata, travolgendo e spaccando gli scheletri che trovava sul cammino. Sfondò la porta che conduceva ad uno dei campanili e iniziò a salire a perdifiato.
Sofos era grave e boccheggiava al suolo. Il veleno di Shalamor era più che potente e la Badessa Clodis sarebbe stata l’unica in grado di porvi rimedio. Forse nemmeno lei. Val fece del suo meglio per impedire l’avanzata degli ultimi scheletri, che erano meglio armati, verso la improvvisata barricata dove sostavano i feriti lasciando Caviled a vedersela con uno dei Ritornati. Bevarond, che si era ripreso dal brutto urto, corse ad aiutare il Sergente: uniti uccisero il Ritornato colpendolo da due lati con grande coordinazione. I Crociati allora si riunirono con Ianos e si concentrarono sull’ultimo Ritornato, esausti e feriti. Ianos spinse con violenza indietro il non-morto, finché Kenarnon non gli balzò addosso spiccando un salto da una panca rovesciata e trafiggendolo dietro la nuca. Esso si divincolò e il silvano cadde, ma Ianos diede al Ritornato il colpo finale, spaccando il suo elmo.
Chiliana prese il viso di suo marito tra le mani: era sfigurato e impressionante da vedere, ma questo non accecava minimamente il suo amore. Gli disse qualcosa fra i denti e le lacrime le sgorgarono profonde. Singhiozzò. E dal suolo si alzò un vento scuro e malefico che veniva risucchiato dal vortice nero che Moloc aveva creato sotto la cupola. Egli stava ascendendo lentamente, come se volesse entrarvi. Solo l’Eterno sapeva cosa sarebbe successo se avesse raggiunto quel vortice, o cosa sarebbe potuto uscirne. Allistar, che non era più giovane, si era fatto male cadendo rovinosamente dopo l’esplosione e il fuoco di Moloc lo aveva bruciato. Morlav tentava di sorreggerlo e non sapeva più quale potere usare contro il Necromante. Il suolo consacrato imponeva una certa difficoltà nel lancio degli incantesimi: aveva consumato più del dovuto le loro energie e a Morlav la testa sembrava scoppiare. «Assaggiate l’oblio!» gridò Moloc. «Giungete dunque alla fine, perché non avete creduto nella vera conoscenza!» E schegge, ossa, frammenti di legno e polvere si alzarono dal suolo e volteggiarono nell’aria, attorno al malvagio. Venivano risucchiati dal vortice e avevano formato un cono rotante di detriti sotto di esso. Il vento costrinse presto tutti ad aggrapparsi a qualcosa. Le scintille che si emanavano dal basso e salivano verso l’alto non lasciarono dubbi a Morlav: era il Vento delle Stelle che Moloc, grazie alla potenza degli Artefatti era riuscito ad evocare.
Dal centro del vortice, a Caviled parve di vedere una imponente figura nera sporgersi come da una finestra, come se volesse guardarli. Gradualmente divenne sempre più difficile restare in piedi senza reggersi: solo stando acquattati sul pavimento si riusciva a non venire trascinati via. Mantelli e vesti svolazzavano e gli occhi faticavano a restare aperti. Moloc si girò. Diede le spalle a tutti e iniziò a ruotare il bastone sempre più lentamente davanti al vortice. Non voleva entrarvi ma stava effettuando qualche strano rituale: oltre il varco, nere nubi si stavano formando e alcune di esse assumevano forme antropomorfe. Moloc iniziò a gridare formule oscure e la sua voce echeggiava nella Cattedrale. Dama Chiliana riconobbe quelle forme nere: le stesse che l’avevano assalita sulla carrozza mentre tentava di interrogare l’Abate. E le sovvenne un pensiero: ricordò di come anni prima un’anziana saggia le avesse previsto quel momento e le avesse spiegato come sarebbe andata. Cercò di vincere la tristezza di vedere Mandecar morente. E si concentrò. Spalancò gli occhi e gridò ai suoi compagni: «La fonte del potere! Non è indosso a lui! È qui: la sua forza è alta, la sento!» La Paladina allora si alzò reggendosi al parapetto che separava il transetto dal presbiterio, dopo avere dato una carezza a Mandecar. Le campane ora suonavano all’impazzata: Salaran ce l’aveva fatta. «Aiutatemi fratelli miei! Dobbiamo raggiungere l’altare!» gridò la Paladina quasi strisciando per terra. Allora Kenarnon, Ianos, Val e Bevarond si serrarono e si strinsero insieme. Trattennero Chiliana, quasi come fossero una corda umana fatta di braccia. Erano in posa come un’eroica scultura e assieme erano forti. La corda di braccia servì allo scopo e consentì a Chiliana di arrivare al tempietto senza volare via. Chiliana si resse alla mano di Kenarnon con la sua sinistra: con la destra stringeva forte la spada di Mandecar, un’arma fine e potente. Con la sua lama azzurra, Chiliana spaccò la piccola porticina del reliquiario posta al centro del tempietto e vide un’ampolla piena di liquido che ribolliva: era il sangue di San Càlista, la grande reliquia riportata a Lenvar dopo tante guerre. Ma non era più rosso, bensì azzurro ed emanava luce: era carico di energia.
«Chiliana!» gli gridò Kenarnon «Non sappiamo cosa succederà se…» Allora lei guardò l’elfo e gli sorrise. Mollò il suo braccio mentre recitava un pezzo del rosario del Morente: «E con l’aiuto della Tua forza e di coloro che mi sono cari, oltreerò La Soglia, serena, nella certezza di riabbracciarli!» Stava per essere risucchiata via. Colpì con un affondo preciso l’ampolla. La spezzò. E Moloc smise di ridere. Per sempre. Il vortice si fermò e svanì. Il Vicario cadde al suolo con violenza, ma tenne stretto il bastone. Il suo potere si sgretolò, la sua tunica si spense e il diadema apparve freddo.
Chiliana sentì freddo e morte. I suoi presagi più tetri si erano realizzati: un’onda di ghiaccio si propagò dall’ampolla distrutta alla lama della sua spada, rapida. Poi ò all’elsa e poi alle sue dita che congelarono ed ella non riuscì a lasciare l’arma: erano incollate. Rapidamente le braccia divennero ghiaccio mentre mille aghi gelati le trafiggevano i nervi e lei urlò e pianse dal dolore. L’onda di gelo, lenta la stava prendendo, arrivando quasi al cuore. La stava divorando. Poi con le ultime forze, la Paladina diede uno strattone all’indietro con i piedi piantati contro il tempietto e il suolo: le braccia ormai senza vita, si spezzarono letteralmente come cristalli di ghiaccio, rimanendo attaccate orribilmente alla spada. Andarono poi in frantumi con la lama stessa. Il resto del suo corpo, congelato e mutilato, cadde. Scivolò all’indietro sugli scalini fino ad arrivare vicino a quello del marito. Moloc perse ogni fattezza umana e il suo viso parve uno scheletro pieno di pezzi di carne consunta, le orbite vuote. Ianos e Bevarond allora si fecero avanti e urlando di odio lo trafissero ripetutamente, mentre Kenarnon tentava di strappargli di mano il bastone. Moloc emise solo sibili mentre i suoi carnefici lo colpivano senza quartiere. Egli commise un ultimo gesto crudele: con l’alito finale di vita, afferrò il cristallo in cima al bastone e lo strinse con forza. Kenarnon aveva intuito cosa volesse fare e con la mano allontanò gli altri cristalli che fluttuavano attorno alla testa del
bastone e li infilò in tasca. Essi divennero pallidi appena furono lontani dal cristallo centrale. Questo atto li salvò tutti, poiché dentro i cristalli v’era una sconosciuta fonte di potere che se liberata avrebbe come minimo distrutto la Cattedrale. Il cristallo centrale si sbriciolò pressato dalla mano di Moloc: si udì un tonfo frastornante, un’onda d’urto li investì e li fece cadere tutto al suolo come paralizzati, incapaci di muoversi, spogliandoli delle loro forze rimaste. La Cattedrale fu squassata da quello che appariva come un terremoto. Una delle torri campanarie vacillò e fu squarciata di sbieco da una crepa. Poi si inclinò e crollò afflosciandosi sulla piazza in un rombo assordante e una nuvola di polvere e neve. Val vide i calcinacci provenire dalla porta. E fu terrorizzato perché le campane smisero di suonare. Pensò a Salaran. Appoggiò la testa sul pavimento, provato dalla lotta. Il marmo era gelido. Pensò a Corvin, ferito, a Gala, agli splendidi affreschi distrutti. Alla Badessa che giaceva immobile. A Chiliana, morente con suo marito. A Sofos le cui vene erano piene di veleno. Una strage. Ma avevano vinto. Moloc giaceva morto appoggiato al tempietto, con i suoi uccisori ancora stretti alle lame conficcate nel suo corpo, stremati. Nessuno riusciva a muoversi. Era freddo, molto freddo.
Fu allora che qualcuno entrò nella navata, avanzando lento e guardingo. In mano reggeva una spada. Osservava tutto immerso nel silenzio. Fece qualche o fino a che la luce che filtrava dai vetri ormai rotti non illuminò il suo viso. «R… Ran!» biascicò Val. Salaran si era salvato: era salito sull’altra torre e anche se essa era stata ugualmente lesionata, aveva retto. Trovò tutti i combattenti per terra, immobili. Si avvicinò ai corpi: ora era tutto silenzio e si poteva sentire il vento soffiare fuori. Mezza cupola era crollata, ma non aveva investito nessuno. Val guardò l’amico: non riusciva nemmeno parlare era senza forze. «Coraggio, tra un po’ ce ne staremo a bere e ricordare questo giorno di gloria!» disse Ran soddisfatto. Salaran gettò un occhio al corpo martoriato di Thavion. Non poté fare a meno di notare il diadema che gli era scivolato dalla testa. Quello era l’unico degli
Artefatti che si era salvato dalla lotta: la tunica era lacera, il bastone in pezzi, il sangue di San Càlista era ormai congelato e giaceva in frammenti sparsi attorno all’ampolla spaccata da Chiliana. Il Diadema di Cnos era una reliquia sacra delle Crociate, un Artefatto: come tale, era legato al Vento di Stelle, lo stesso Vento che gli aveva portato via il padre. Gli ci volle meno di un attimo a decidere, come molte decisioni che aveva preso nella vita. Era rapido a pensare: non voleva perdere tempo. E non voleva restare indietro mentre tutti gli altri progredivano. Si avvicinò e raccolse il diadema. Kenarnon allora fece per alzare una mano e impedirglielo, ma al giovane bastò fare un o indietro e mentre lo faceva, pareva schernire la mancanza di forza del lyblis. Val era incredulo. Pian piano le forze gli stavano tornando e riuscì a bofonchiare qualcosa: «Ran… n… non toccarlo… è pericoloso…» Salaran non disse nulla. E si limitò ad osservare la fine fattura dell’Artefatto, imibile. Ianos lo aggredì verbalmente: «Kard, posa a terra quel diadema! Non è un oggetto da prendere alla leggera, è dotato di molto potere!» Tentò di alzarsi ma ricadde al suolo. Val gettò un’occhiataccia a Ianos. Aveva capito che Ran era in dubbio e il comportamento del Cavaliere non stava aiutando la situazione. “Devo essere il primo tra i miei simili!” disse fra sé Ran squadrando l’oggetto. Era come se percepisse il potere in esso. Poi si chinò presso Val: in quel momento lui e Corvin erano i soli di cui gli importasse lì dentro, fuori da tutti i giochi di potere, fuori dagli strani ordini segreti e fuori dalle ecclesie. A lui importava solo dei suoi amici e di se stesso. Guardò Val e gli sorrise: «Ho finito di servire gente ingrata. Lo porterò via, al sicuro e lo custodirò io. Starà meglio con me, Val. E il suo potere non andrà sprecato: servirà il sottoscritto e il mio progetto. Ma non preoccuparti: I Necromanti non l’avranno. Ci rivedremo un giorno, hai la mia parola.» «Ti prego. S…Salaran, lascialo qui. Abbiamo vinto, è finita!» ripeté Val. «Val, dai un occhio a Corvin e spiegagli… beh spiegagli tutto. Devi cercare di
capirmi. E abbiate cura di Nadia per me» disse Salaran rialzandosi e osservando Corvin che respirava calmo, con gli occhi chiusi. «Salaran!» ribadì Ser Ianos tentando di strisciare verso Ran. «Se te ne vai con quell’oggetto, sarà tradimento! Sarai condannato a morte e non potrai più tornare a Lenvar! Ripensaci!» Il giovane sorrise e guardò il cielo attraverso le finestre infrante, scuotendo la testa. Adesso c’erano le stelle in quella fredda notte d’inverno. Guardò Ianos con disprezzo. «Adesso mi chiamate per nome, “Ser”? Cosa mi ha dato Lenvar alla fine? Terrò quest’oggetto meglio di come avete fatto voi! Dovreste riconoscere il valore dei più giovani che hanno combattuto con voi, oggi, senza i quali sareste forse tutti morti. Sono stanco di prendere ordini o rimproveri da vecchi saccenti!» E così dicendo, schifato, se ne andò. «Non credo a ciò che ho visto» disse Val ad alta voce. Non riusciva ancora ad alzarsi ma le forze gli stavano tornando. Con gli altri sopravvissuti allora avanzò strisciando verso Dama Chiliana: lei giaceva con il viso vicino a quello di Mandecar, occhi negli occhi. Mandecar era morto prima di apprendere che Moloc era stato sconfitto. Per lei tutto il resto del mondo era defunto con suo marito: non c’era nessuno in quella stanza. Libera da ogni imbarazzo, poté dirgli apertamente ciò che sentiva:
«Amore mio, non ho più braccia per accarezzarti. Ma ti amo fino al punto di desiderare questa morte dolorosa che mi prende, pur di rivederti ancora.» Fece per baciare le sue labbra e spirò.
Val pianse e comprese infine davvero il significato dell’attaccamento che i due avevano e da un certo punto di vista invidiò un amore così grande. Aveva detto a Corvin che odiava l’amore. Lo odiava perché non l’aveva più. Quelle non furono le uniche lacrime ad essere versate: Sofos parlò nella sua
lingua madre, bellissima, ai suoi figli. Disse loro che era fiero di ciò che erano diventati e che nella sua vita non aveva mai assistito ad uno spettacolo così bello come vedere il mare ruggire sulle scogliere di Lenvar. Egli poi mise tra le mani di Kenarnon un ciondolo. «Sono certo che vi servirà un giorno. Per inseguire Lui, vivrete altri pericoli e sfiderete altri poteri.» «Lo cattureremo, come facesti tu. Rimarrai per sempre colui che l’aveva catturato. Gli Umani l’hanno fatto scappare, ma tu c’eri riuscito: l’avevi preso. La tua leggenda vivrà tra i silvani. Grazie per tutto, mio maestro» gli disse Kenarnon. Sofos si spense accarezzando i suoi figli, i frutti dell’amore per la sua compagna ormai scomparsa. A tutti piacque pensare che si fosse finalmente ricongiunto anch’egli alla moglie, colei che l’aveva spinto a viaggiare lontano dalle sue foreste. Kandui la bella parlò, dopo tanto silenzio. La sua voce era distrutta, strascicata. Disse solo la parola “lam” – “padre”. La ripeté molte volte tra i singhiozzi. Poi si rinchiuse di nuovo nel silenzio mentre Lorkan la stringeva.
Così gravi perdite aveva subito l’Ordine: anche la morte della Badessa Clodis si aggiungeva ai due Paladini e a Sofos e restavano inoltre Corvin e Allistar feriti. Morlav cercò di aiutare alla bell’e meglio il vecchio mago ad alzarsi. Caviled si riprese con fatica dal torpore. Quando vide Chiliana e Mandecar morti, chinò il capo e si girò mentre silenziose le lacrime gli rigavano i solchi del viso maturo. Non voleva che lo vedessero piangere. Fissò uno dei pochi affreschi che erano rimasti integri sulla navata laterale: era stato quasi consumato dalla battaglia, ma era ancora chiaro. Ritraeva due guerrieri, che si difendevano a schiena a schiena, sopra un colle al tramonto, feriti e soverchiati da nemici.
Quando Erin condusse gli Alabardieri e gli Ospitalieri davanti alla Cattedrale, sfondando un portone laterale, trovò uno scempio che difficilmente parole di uomini avrebbero potuto descrivere. Railan entrò e Val lo fece immediatamente dirigere da Corvin.
Mentre Val veniva condotto fuori, notò alcuni giovani Paladini farsi strada tra le macerie e i frammenti di legno: si inginocchiarono e pregarono per i loro due commilitoni che erano morti. Val osservò con la coda nell’occhio una giovane scudiera dai capelli castani che, nel vedere Chiliana, singhiozzava mentre si copriva con il suo cappuccio grigio-azzurro il volto. Poi aiutò Railan a trasportare i feriti fino alla Commenda degli Ospitalieri.
13. Epilogo
I frammenti
Così terminò il Giorno del Male a Lenvar. La città non seppe mai davvero cosa avvenne nella Cattedrale e fu meglio così. Non si seppe nulla del destino di Salaran, né di Shalamor. L’Abate Parva non fu mai più ritrovato da quando era stato strappato via dalla carrozza di Chiliana. Ma comunque la rete della Congiura degli Otto a Lenvar andò in pezzi. Molti dei suoi affiliati minori confessarono spontaneamente, altri fuggirono o si uccisero. Con i documenti trovati nelle stanze del Vicario, diversi Necromanti e i loro collaborazionisti furono condannati dall’Inquisizione, impiccati alle mura cittadine o sparirono tra le grinfie dei Silenziari. I roghi arsero per giorni sulle piazze, mentre i prelati decantavano le lodi all’Eterno e ai Santi.
Mandecar e Chiliana furono sepolti con tutti gli onori dal nuovo Vicario, in attesa della nomina di un altro Esarca. Egli era timido e impacciato dopo la triste vicenda che aveva segnato un così grave scandalo per l’Ecclesia matriana. Il clero cercò di far trapelare la notizia che l’Esarca e il Vicario erano morti eroicamente combattendo contro un potente Necromante: ci vollero molte delle conoscenze di Ser Ianos per far sì che l’Inquisizione non esagerasse con le indagini e scoprisse la verità. Ianos e Bevarond si raccomandarono caldamente ai testimoni di quella battaglia, di non rivelare la scomparsa dell’ultimo Artefatto. Ai prelati matriani fu detto che tutte le reliquie di potere erano state distrutti nella lotta: era necessario che non si sapesse del furto. Il ruolo preciso di Salaran nella battaglia non fu menzionato e per la sua sparizione furono incolpati i Necromanti. Nadia però non credette mai a questa storia e tentò molte volte di sapere la verità da Val. Lui le disse che Ran era fuggito dopo la battaglia, stufo di stare a Lenvar. Gli sembrava una semplice omissione più che una menzogna. Alla fine fu detto che il corpo del famigerato Moloc si disintegrò dopo la distruzione dell’ampolla da parte di Chiliana e l’Esarca e il Vicario Thavion furono nominati martiri: nell’alcova di San Vardem fu eretta una statua sopra
l’arca funebre che fu costruita in brevissimo tempo con l’ausilio della magia, per Mandecar e Chiliana. Li raffigurava seduti, con una mano giunta a quella dell’altro mentre con l’altra brandivano insieme una spada. I due volti si guardavano teneramente e tutti gli innamorati si recarono per secoli alla loro tomba a chiedere la grazia che il loro amore fosse forte come quello dei due Paladini. Ironia della sorte, nella cappella di fronte a loro furono sepolti in due splendide arche i poveri resti dell’Esarca Bernet e di Thavion Descor, senza che si sapesse che lì giaceva in realtà Moloc il Necromante.
Caviled andò a rendere omaggio alla tomba dei Paladini, vi trovò innanzi Corvin, con il braccio al collo e Val che teneva in mano una rosa bianca. In silenzio essi pregarono per quei due maestosi esempi di dedizione, lealtà e amore, fiori rari di un mondo in declino. Quando Val e Corvin andarono via, era da poco ato il tramonto, Caviled, ancora malconcio, si sedette per un istante su una panca contemplando il monumento funebre. Un chierico lo avvisò che la Cattedrale sarebbe chiusa d di lì a poco. Il Sergente si alzò faticosamente. Appena giunto al portale si voltò ancora e gli sembrò nella penombra di vedere qualcuno: un mantello scarlatto appena riparato da una colonna, davanti alla tomba. Zoppicando Caviled si avvicinò: e quando sbucò dall’altro lato del colonnato, non c’era più nessuno. Forse si era sbagliato. Ma non lo credette mai davvero.
Val era confuso come mai nella vita; la madre Milesia e la sorella Lilia gli stettero vicino, poiché lo vedevano estremamente provato. Anche Greta lo vide e capì che doveva averne ate di tutti i colori. «Val… ho sentito cosa è successo nella Cattedrale. E che il tuo amico Ran è sparito» gli disse l’amica. «Come fai a saperlo?» «I clienti parlano quando sono felici.» «Devo chiederti di non parlarne troppo. Come stai tu?» le chiese Val.
«Inizio a stancarmi. Posso farlo ancora per qualche anno ma poi… mi ammalerò o qualche cliente ci andrà con la mano pesante. Devo iniziare a pensare qualcosa di altro.» «Hai idee?» «Sposare uno che mi mantenga» disse. «Ma è successo solo a una delle mie excolleghe, e lui era un vecchio dai gusti un po’ strani.» «E più seriamente?» «Val, io non credo che arriverò oltre i quarant’anni. Quando sarò troppo vecchia per essere appetibile mi metteranno a pulire e a cambiare i letti nel bordello. Magari potrei fare la serva di qualche mercante senza troppe pretese e “scaldargli il letto” ogni tanto per arrotondare.» «Non ci sono proprio altre possibilità?» «Io so fare questo nella vita: so sedurre. Anche se non ci sono riuscita con tutti.» Val sopportò quella frecciata con un silenzio. Quando Greta fu stufa dell’imbarazzo, gli chiese di raccontare cosa era successo quella notte. Lei accolse i suoi pensieri come sempre, anche se non lo guardava con gli occhi di semplice amica. E ogni confessione che Val gli faceva, lei voleva baciarlo e dirgli che era innamorata. Lui avrebbe potuto portarla lontano e lei avrebbe smesso di fare la prostituta. Ma era solo un sogno e quella maledetta notte nella Cattedrale aveva distrutto i sogni di molte persone.
I membri superstiti dell’Ordine dovettero meditare a lungo su come rinfoltire le schiere dopo la perdita della badessa e dei due Paladini. «I Nemici della Vita sono soliti prima colpire gli anelli deboli della catena di comando. È meglio che i giovani non vengano menzionati troppo in questa impresa. Noi possiamo difenderci, ma loro rischierebbero grosso» disse Allistar. «True… e poi se si venisse a sapere, inoltre, che il Diadema di Cnos è stato sottratto da Salaran, sarebbe un disastro: i nostri rapporti con i matriani sono più che tesi. Dobbiamo sperare che coloro che abbiamo chiamato arrivino presto e ci
aiutino qui: il nuovo Esarca vorrà più di una spiegazione e potrebbe decidere di indagare e interrogare il giovane Siblei, Galron o Morlav. Dobbiamo fare sì che loro siano legati a noi e non ci tradiscano. Prendiamoli nell'Ordine: li controlleremo meglio» disse Bevarond. «Non coinvolgerò per un po’ nessuno nell’Ordine. Galron è già stata una scommessa rischiosa» disse Ianos andosi una mano tra i capelli. «Forse potremmo fare un’eccezione soltanto per Morlav: ci sarebbe utile. Resta da capire cosa dobbiamo fare con il fuggiasco. Vorrei mettere degli uomini alle costole di Salaran, catturarlo e riprendere il diadema. Possibilmente senza giustiziarlo o alla peggio anche così: è grande ormai e deve prendersi le sue responsabilità. Anche se ci ha aiutato, non gli dobbiamo nulla: è un traditore.» «Kard Damian non sospetta nulla: pensa che Salaran sia sparito di sua sponte. Ha mandato dei Kard a indagare, bloody men; sono degli stupidi bruti, non troveranno nulla» disse Bevarond. «Resta da capire come faremo a trovarlo noi.» «Galron conosce bene il fuggiasco: è la persona che ha più possibilità di rintracciarlo» disse Ianos. «Se parlate di giustiziare un suo amico, dubito che otterrete la sua collaborazione» disse Caviled guardando storto Ianos. «Hell yes: dovremmo avere un approccio più “morbido”. Più correttivo che distruttivo. Che notizie abbiamo di Mornei?» disse Bevarond. «Salaran ha oltreato la porta settentrionale meno di due ore dopo la battaglia, prima che potessimo mandare uomini a presidiare le porte. Ha raccolto pochi effetti in casa propria e non ha perso tempo. Si è recato a nord, poi ha probabilmente lasciato la strada. Potrebbe essere andato ovunque. Stando a ciò che dice Galron, non ha avvisato nemmeno la sorella, che è apprendista maga presso i Grilam» rispose Ianos. «Nadia, certo. Lei la tengo già d’occhio io: il fratello potrebbe contattarla prima o poi» disse Allistar. «Se scoprirò qualcosa, riferirò. Mio cugino il Conte la tiene in grande considerazione: è un’allieva promettente e vedremo di educarla anche moralmente e non solo arcanamente.» «Una Necromante promettente, se non stiamo attenti» disse Ianos. «Mornei sarà tentato dalla Congiura se essa lo raggiungerà; ammesso che non lo uccida prima,
per farne un Ritornato.» «Aye, se il fratello trascinasse Nadia nel baratro con sé, potrebbero farsi vincere dal potere e diventare schiavi della Congiura entrambi. Un bel guaio: un abile guerriero e una promettente maga! Controllala bene, Allistar. Stay close to her» disse Bevarond. «E c’è di più: ho il timore che possano avere degli strumenti incantati per trovare gli Artefatti. Kenarnon qualche giorno fa mi ha detto che esistono strumenti del genere di fattura gnomica e che funzionano davvero. Non so se i Necromanti ne possiedono, ma questo non ci autorizza ad abbassare la guardia» disse Ianos. Kenarnon annuì. «Più tempo ci mettiamo ad organizzarci e partire, più vantaggio avrà Mornei su di noi» rispose Bevarond. «Se questo ti preoccupa, ricorda: come noi non sappiamo dov’è Salaran, così è per i Necromanti» rispose Allistar. «Se non ha contattato nessuno, ha buone probabilità che non venga trovato nemmeno da loro. Non voglio mettere in dubbio le parole di Kenarnon» disse il mago facendo un mezzo inchino col volto all’indirizzo del silvano, «ma gli strumenti di divinazione sono alquanto rari e quei pochi che esistono sono imprecisi. Non è detto che la Congiura ne possa disporre. Dobbiamo solo sperare che Salaran non decida di vendere l’Artefatto o peggio di consegnarlo proprio ai nostri nemici in cambio di chissà cosa. Adesso la priorità è capire se Moloc ha agito da solo o era fedele al Maestro dei Necromanti.» «Shalamor e Cromlan inoltre restano in circolazione» disse Bevarond. «Io non credo che Shalamor sia fedele alla loro causa» disse Kenarnon. «Non è fedele a nulla.» «Per quello che riguarda Cromlan, lo avete sentito: Moloc ha chiamato il suo nome prima della battaglia, ma egli non è intervenuto, a differenza di Shalamor. L’ha tradito e forse non dobbiamo più considerarlo un avversario» disse Caviled. «Cromlan sarà per sempre nostro avversario finché non si consegnerà a noi con le buone, Caviled. Non lasciare che la tua amicizia ti influenzi. Tu sei troppo emotivo, Sergente. Ora Cromlan potrebbe essere il nuovo comandante dei Necromanti da queste parti» disse severamente Ianos.
«Io non credo che a Cromlan interessi il comando. Se un po’ lo conosco, si sarà semplicemente accorto che Moloc voleva solo più potere per sé e non aspirava alla Vera Conoscenza, come gli antichi servi di Egrothar concepirono inizialmente la Necromanzia» rispose Caviled. «Dobbiamo riprendere anche la ricerca delle Tre Spade» disse Bevarond. «È chiaro che se i Necromanti sono alla caccia degli Artefatti attivati dal Vento, esse saranno nella loro lista.» «Con queste, la Terza Spada è più vicina» disse Kenarnon. E dalla tasca tirò fuori le due gemme che aveva salvato dal bastone di Moloc, tra lo stupore generale.
Ianos eggiò nel chiostro con Caviled alla fine dell’incontro. Il Sergente gli disse: «Che cosa sono stati questi giorni... A volte mi chiedo cosa penseremo di essi, quando e se diventeremo vecchi.» «Io sono già vecchio, Sergente. È in periodi bui come questi che sorgono esseri luminosi e che gli uomini sviluppano la vera saggezza. Traiamo tutto ciò che possiamo dagli errori, Sergente. Ci si aspetta di non ripeterli più» rispose Ianos.
* * *
Nei mesi a venire vi fu una grande calma in tutta la Repubblica: nessun morto che risorgeva dalla tomba, nessuno strano rito. I Crociati e i Paladini furono impegnati a fondo nell’eliminare i Necromanti rimasti. Val, i Cavalieri e Caviled fecero irruzione in molti covi e case e, in alcuni frangenti, dovettero affrontare anche alcuni non-morti.
Quando Ianos e gli altri proposero a Morlav di entrare a far parte del loro Ordine
egli rifiutò: «Ho combattuto felicemente con voi. Ho visto grande onore e lealtà in coloro che sono deceduti e nei sopravvissuti. Ma questo non fa per me. Non desidero abbracciare il male, né per questo sono pronto a sacrificare la mia vita per combatterlo. Sarò sempre un vostro alleato quando servirà, ma io voglio volare libero e decidere quando fermarmi.» «Prendiamo atto di questo» disse Bevarond avvicinandosi e pareva minaccioso. «Ora dovete uccidermi?» disse Morlav a metà tra il serio e il sarcastico. Bevarond gli sorrise beffardo. Poi alzò una mano e la posò sulla sua spalla. «Non possiamo chiedere altro a un mago coraggioso. Andate liberamente: noi non siamo Necromanti che uccidono chi non è con noi. Siete libero come un gabbiano. Allistar ha garantito per voi e sapeva che ci avreste risposto così.» «Ma vi chiediamo ugualmente di non fare parola di ciò che avete visto. E se un giorno lo farete, aiuterete purtroppo chi avete combattuto e rischierete la morte allora. Per mano loro… o altrui» disse Ianos. «Ho recepito il messaggio» disse il mago sghignazzando. «E non ho intenzione di parlare a nessuno di questo. In ogni caso nessuno mi crederebbe: guardatemi! Ho forse l'aspetto di un nobile cavaliere che combatte il male? No, non c'è bardo che canterà di Morlav l’Astuto, quando me ne partirò anch’io per il Mondo di Chi Non Torna.» E così dicendo fece un sorriso e guardò il sole iniziare la discesa del pomeriggio, per affondare nel mare. Poi aggiunse: «È stato bello però potere fare parte di qualcosa di puro, in mezzo a tanta corruzione ed empietà del Mondo.» E lo videro andarsene con il suo cappello piumato, fischiettando una canzone. «Ne avessi di più come lui sotto il mio comando» disse Ianos. Val guardò il Cavaliere. Prese un respiro e gli disse:
«Ser, avete promesso che qualora fosse finita la minaccia di Moloc, io sarei stato libero dai compiti di Crociato» disse Val. «Ebbene? Vuoi dunque lasciarci?» «Non esattamente. Cercherò Salaran finché non lo troverò. Chiedo di essere io a guidare la sua ricerca e nessun’altro dei vostri uomini: sceglierò io chi mi accompagnerà. E vi prometto che riporterò indietro Salaran e l’Artefatto sani e salvi, o almeno tenterò. Questo vi chiedo e credo me lo dobbiate.» Ianos lo guardò. Ormai non era più un ragazzino, ma un giovane uomo, spada in pugno, affacciato alla vita. Poi guardò Caviled. Egli annuì. Il Sergente disse: «Chi meglio di un suo caro amico potrebbe sapere dove trovarlo? La scelta mi sembra ottima.» Ianos acconsentì e disse: «Fa come ritieni giusto. Ma sappi che non abbiamo finito coi Necromanti. Ricordati che Moloc ha sicuramente avuto degli alleati e dobbiamo scovarli.» «Ser…» fece per interromperlo Val, ma Ianos proseguì. «Tu ci aiuterai a farlo: riprenderemo le indagini con gli appunti che ci ha lasciato Dama Chiliana e tutto ciò che abbiamo trovato nella Cattedrale. Quando avremo finito con gli alleati di Moloc, la tua prossima missione sarà di scovare Salaran Mornei o per lo meno il diadema» disse Ianos. «E se sarà necessario, dovrai strapparlo via dal suo cadavere. Sei pronto a farlo? Ricorda che la nostra priorità è il Diadema e non il tuo amico. Se egli resiste, devi essere pronto a fare scelte sgradevoli. Sei pronto? Galron, guardami negli occhi. Sei pronto a farle se sarà necessario?» Val osservò i freddi occhi del cavaliere. E rispose senza parlare.
Così il giovane Crociato se ne tornò verso casa. Invidiava Corvin per avere trovato in Erin una compagna. Si recava di nascosto sulla tomba di Gala e le faceva sempre la stessa domanda:
«Ti sei uccisa davvero con le tue mani, o è stato Lui ad assti?» Shalamor era ancora vivo e avrebbe dovuto rispondere a questa domanda prima di essere giustiziato. Val diceva spesso che non avrebbe amato mai più. Eppure non poteva scordare l’esempio di Chiliana, l’amore vero, quello che va oltre la morte. Non poteva dimenticarlo, ma sembrava così irraggiungibile. Pensò: “più i il tempo da solo, più diventi cinico e smaliziato e hai sempre meno fiducia nelle persone. Ogni delusione ti pesa sempre di meno finché ti dimentichi cos'è l'amore. Ed è proprio allora che vieni sorpreso, perché solo allora sei veramente pronto ad amare al massimo.”
Quattro giorni dopo la Congiura dei Fedra, il cadavere del Conte Gastil fu ripescato. La famiglia D’Angora, tramite il potere conferito al Doge, fece esporre il suo corpo per due mesi, lasciandolo a imputridirsi davanti alla Darsena come monito per tutti. Poi, lo rigettarono in mare verso la sua definitiva tomba. Con la fine del giovane Conte, finì anche la fortuna della casata Fedra, i cui feudi furono tutti spodestati dai D’Angora, non senza ulteriore violenza. Val volle vedere il corpo, assieme a Corvin. Osservò il cadavere ormai gonfio d’acqua, le fattezze del viso rese mostruose, la puzza della carne marcia. L’Ecclesia chiese clemenza e rispetto per il suo cadavere (i Fedra avevano anche dato a Matri ben due Patriarchi, nella storia), ma i D’Angora non vollero sentire ragioni: durante la sommossa, Ianelos D’Angora era uscito incautamente dalla sua abitazione per verificare perché ci fosse stato tanto trambusto. Un dardo da balestra dei Fedra gli aveva spaccato in due il cuore e la sua famiglia lo stava piangendo con grande dolore. «Sic transit gloria mundi» commentò Val guardando il viso tumido del Conte. «Anche se ha fatto ciò che ha fatto, non merita una tale umiliazione» disse Corvin. «Credo tu abbia ragione. Guardalo: prometteva gloria e ricchezza a coloro che si fossero schierati con lui. Ora i suoi castelli sono sotto assedio e i suoi congiurati pendono dalle forche. Credi che se ci fosse riuscito, a fare il colpo di stato
intendo… le cose sarebbero davvero migliorate?» «La storia la scrivono i vincitori e questo è risaputo» rispose Corvin. «Non lo sapremo mai. Ma io non penso. Credo che i suoi risentimenti personali contassero di più del restituire la libertà alla Repubblica. Libertà che non abbiamo del tutto perso, per altro.» «Credo di avere imparato la lezione più importante, Corvin» disse Val. «Sarebbe?» «Nessuna entità, nessuna associazione o ordine superiore è puro. Non può esistere la purezza in qualcosa creato dall’uomo. Dovremmo sempre fare i conti con un certo grado di decadenza, di corruzione. Nessuno è completamente nel giusto. Perciò queste associazioni di uomini forse non dovrebbero nemmeno esistere e dovrebbe essere esclusivamente il buon senso a governarci.» «In un mondo perfetto, sì» ribatté Corvin. «Ma sai come me che il potere è il fine ultimo dell’essere umano.» «Lo è anche la pace. Non la pace delle armate sulla Terra: la pace dentro. Un uomo che la raggiunge, smette di combattere. A me non importa più dei giochi di nessun potere. Ho il mio codice, quello che ho forgiato io e ho imparato dall’esempio delle persone rette e non dai dogmi o dalle stupide regole ereditate da chissà che millenari avi. Basta con le regole da eseguire senza discutere, come fossi un golem.» «Sono d’accordo con te, amico mio. C’è una cosa che so che ti preme e che preme anche a me.» «Sì. Quando saremo sicuri che i Necromanti non minaccino più le nostre famiglie e Lenvar, voglio partire subito per cercare Salaran. Penso di sapere dove andrà» disse Val. «Detesta il freddo: lo troveremo a Sud o a Ovest.» «Appena saremo al sicuro allora, ti aiuterò a cercarlo» rispose Corvin. «Sarà meno dura assieme.» «Lo spero, Corvin. Perché non può esistere evento così tanto avverso che separi tre Amici come noi. Guarda indietro: abbiamo combattuto per le strade, nella Cattedrale o sulle piane di Gauna, uccidendo uomini come noi. Abbiamo perduto
persone importanti e perciò almeno una la dobbiamo ritrovare ad ogni costo.» Corvin annuì. Val si fermò un istante e poi riprese: «Corvin, io a volte mi sento intrappolato qui… Fra Terra e Cielo. In un limbo dove sono combattuto tra ciò che è giusto fare e ciò che posso realisticamente compiere con le mie poche forze. Anche se la nostra anima è spezzata, per il domani e per un Amico vero vale sempre la pena di combattere. Non c’è che una cosa da fare: raccogliere i frammenti della nostra anima e proseguire.»
Riassunto della Terza Parte
Grazie a Dama Chiliana, l’Ordine segreto scopre che i Necromanti sono comandati da un certo Moloc, che si scopre poi essere il Vicario Thavion Descor, l’uomo che faceva da confidente a Gala. Egli arriverà ad uccidere l’Esarca per assorbirne in qualche modo la forza vitale per compiere un rito necromantico. In città, durante una congiura ordita verso il Doge da una delle famiglie nobiliari, i Fedra, i membri dell’Ordine segreto si riuniscono davanti alla Cattedrale per la resa dei conti finale. Val chiama anche gli amici Salaran e Corvin. Quest’ultimo durante i tumulti riesce a salvare l’Alabardiera Erin Lindei dal linciaggio da parte dei partigiani dei Fedra che irrompono nella sua caserma e nella fuga, mozza tre dita della mano a Galco Marsten III, un suo rivale ed excommilitone di Val. Oltre ai due amici di Val, anche il mago Morlav, mentore di Erin, si unisce alla “Compagnia Senza Nome”: nucleo formato da Ser Ianos e Bevarond, dai silvani di Kenarnon, dalla Badessa Clodis con il fratello Allistar, da Dama Chiliana con il marito Mandecar e da Val e i suoi amici. Durante lo scontro devastante combattuto tra Thavion e la Compagnia nella Cattedrale, perdono la vita Sofos il Cacciatore, la Badessa Clodis, Ser Mandecar e Dama Chiliana. Quest’ultima tuttavia riesce a scoprire la fonte del potere di Moloc e la distrugge consentendo ai suoi alleati di uccidere il Necromante. Nello scontro appare anche Shalamor, che però viene accecato da un occhio da Corvin riuscendo tuttavia a fuggire. Parte del potere di Thavion/Moloc derivava da alcuni Artefatti custoditi nelle cripte della Cattedrale e indossati dal Necromante: Salaran sottrae uno di questi (un diadema) e si allontana dalla Cattedrale senza potere essere fermato da Val e compagni. La vicenda quindi termina con la riflessione del giovane Val che dovrà mettersi sulle tracce dell’amico per recuperare l’Artefatto sottratto.
Considerazioni finali dell’autore
La storia di Valen e compagni non finisce ovviamente qui: questo romanzo rappresenta in realtà un preludio alla loro saga.
Non si dovrebbero fare troppe promesse, ma mi sento di dirvi che il prossimo episodio, già in stesura, sarà ancora più emozionante, cupo e spettacolare e non sto nella pelle al pensiero di finirlo e farvelo leggere. Finalmente varcheremo i confini della Repubblica per vedere il resto del Mondo.
Tornando a questo romanzo, che avete avuto la pazienza di leggere, pensavo che creare una storia non è poi così complesso. È molto difficile invece raccontarla e renderla interessante; tutto è molto simile al lavoro di un sarto che taglia e cuce. Quello che nella tua mente è chiaro e che a parole potresti colorare col tono della tua voce e i gesti, diventa terribilmente complesso da rendere nella pagina scritta. Raccontare in meno di 300 pagine il cammino che porta un uomo dall’adolescenza alla maturità non è altresì semplice e per quanto molti di noi rivivano spesso “la stessa giornata” mille volte, ogni piccola esperienza ci forma più di quanto immaginiamo.
Come ho detto nella prefazione, mi ritengo di più un raccontastorie che uno scrittore, per cui beh… perdonatemi l’uso “personale” di ortografia e grammatica a volte. E anzi, sarei ben lieto di avere le vostre segnalazioni per le future edizioni, come ho detto nella Prefazione.
Come è uscito questo libro? Forse a qualcuno potrà interessare.
La penna o la tastiera in questo caso, a volte si muove in maniera automatica e noi non ne abbiamo il pieno controllo, sia ben chiaro: non esagero a dire che la storia si è scritta da sé, come se fosse già presente nella mia memoria. Quando tornavo su un pezzo che non ricordavo di avere già scritto, lo riscrivevo esattamente uguale, per poi girare due pagine e dirmi da solo: “Ma lo avevo già scritto così!!!” Semplicemente, non potevo farlo in altra maniera (errori a parte). E questa non vuole essere una giustificazione per essere autorizzati a “scrivere male” o essere noiosi, ma vuole spiegare come alcune cose, “sfuggano al tuo controllo” mentre le scrivi. Questo è un processo che in anni di stesura e correzione mi si è ripresentato quasi ogni volta che cancellavo una parte per riscriverla. Tornava uguale a prima. Pertanto credo che avrei solo potuto raccontare questa vicenda con più dettagli e meno errori, ma mai diversamente.
Ho cercato di affrontare tutta la storia in modo non troppo approfondito e nel contempo non troppo superficiale, a partire dalle descrizioni che ho voluto lasciare molto vaghe per consentire al lettore di colmarle con la propria esperienza. Anche i temi trattati come l’amore, il tradimento, l’amicizia, la guerra, il potere, si sono fusi dentro la vicenda più “d’azione”, quella degli “effetti speciali” che ho comunque voluto tenere più scarni possibile fino alla battaglia nella Cattedrale per non stordire subito il lettore non avvezzo al fantasy.
Per ogni altra considerazione e segnalazione, vi rimando al sito ufficiale: LorenzoFabre.com. In esso ho intenzione di mettere un’Enciclopedia di questo mondo con molti riferimenti al dietro le quinte del libro, approfondimenti su luoghi e personaggi e magari dei racconti del Continente da leggere. Insomma uno spazio dove espandere questo Mondo che abita la mia mente ma che vorrei fosse esteso anche a voi.
Ora vi lascio alle Appendici, se vorrete visionarle.
Grazie per avere letto questo romanzo e se vi è piaciuto, ricordate che il secondo è già in fase di scrittura!
“… Se invece fossimo riusciti ad annojarvi, credete che non si è fatto apposta” (A. Manzoni).
Lorenzo Fabre
Appendici
Molte altre informazioni sono reperibili sull’enciclopedia online di LorenzoFabre.com.
I personaggi
Allistar Grilam e Badessa Clodis Grilam: il primo è un potente mago della casata dei Grilam, da sempre interessata alla magia. La Badessa Clodis, sua sorella, è una sacerdotessa matriana, abilissima nelle arti curative. Entrambi hanno molto inverni sulle spalle, ma non meno combattività.
Bèrnet è l’Esarca di Lenvar, cioè il capo del culto matriano in città. Vecchio e scorbutico, è anche il capo di Gala De Torne al Santo Uffizio.
Bèvarond: v. Ianos.
Càviled è un Sergente Crociato. Addestra gli accoliti ed è uno dei migliori combattenti del Tempio Rosso di Sant’Isior. Affianca i cavalieri nelle loro decisioni come se fosse uno di loro, eppure un’ombra nel suo ato gli impedisce di raggiungere posizioni più elevate, alle quali egli comunque non sembra ansioso di arrivare. Considera Val come un fratello.
Chiliana e Màndecar sono due Paladini dell’Ecclesia matriana. Dama Chiliana ha combattuto diverse battaglie nonostante sia piuttosto giovane. Ha conosciuto il marito combattendo: quando si incontrarono, Mandecar non pensava altro che a colpire i servi del male; ne era ossessionato. Non credeva nella redenzione del mondo e le sue mani erano spesso coperte di sangue. Chiliana fu l’unica ad avvicinarsi e con tanta pazienza e tempo, credette in lui e fece uscire le sue buone qualità. Nonostante le opposizioni, ottenne il consenso dalla sua Ecclesia per sposarlo, cosa poco comune tra i Paladini. Mandecar è un uomo duro, ama sua moglie, ma è piuttosto burbero col resto del mondo.
Clodis Grilam: v. Allistar Grilam.
Còlerin Mornèi: è il padre di Salaran. E’ partito per il Nuovo Mondo e non è più tornato. I suoi figli non ne hanno più notizia.
Còrvin Sìblei è il figlio di uno dei Dogi di Lenvar, Oberius Siblei, poi nominato Console dei Placiti. Ha l’insolito hobby di rubare a ricchi e malevoli possidenti per tenersi alcuni oggetti di suo gradimento o per distribuirli ai poveri oppure per semplice esercizio. Tramite l’attività politica del padre è in contatto con vari interessi della Repubblica. Generoso e altruista, è un buon amico di Val.
Cròmlan, soprannominato “il Cavaliere Grigio”, è un oscuro soldato al servizio dei Necromanti. Pur non apparendo completamente spietato o sanguinario, è un personaggio ambiguo. Sembra avere un grande attaccamento per il suo scudiero e certamente conosce Caviled anche se le circostanze del loro incontro sono misteriose.
Dàgovir, soprannominato Dago, è un amico d’infanzia di Val. È simpatico, gentile e uno degli adepti più promettenti.
Dàmian Mornèi è lo zio di Sàlaran ed è un Kard. Desidera che suo nipote diventi un Kard a sua volta.
Èrin Lindèi, è un’Alabardiera, una delle prime donne ammessa nel corpo. Comanda una piccola caserma al porto della città e nonostante sia giovane è
considerata in gamba. Avrà a che fare con Corvin, ignorando le sue “attività segrete”.
Gàla De Tòrne, è una sacerdotessa matriana al servizio dell’Esarca cittadino. Ha un debole per Val. È una ragazza fragile e piena di dubbi, che non mancheranno di complicarle l’esistenza.
Iànos e Bèvarond sono due dei più famosi cavalieri Crociati di Lenvar. Decorati in battaglia e durante le Crociate essi operano la loro battaglia contro il male in modi a volte misteriosi. Se Bevarond appare sempre distaccato dalle vicende, Iànos è un eccezionale stratega, che non esita a compiere sacrifici difficili da fare, in nome di un bene superiore. Eppure Caviled lo considera ugualmente una buona persona, per quanto pragmatica.
Kàndui: v. Kenarnon.
Kènarnon e i suoi cacciatori, sono alcuni membri della razza silvana o lyblis, giunti a Lenvar per trovare l’assassino chiamato Shalamor. Sono tutti esperti nel seguire le tracce, agili come daini e risoluti come tigri. Credono anch’essi negli stessi ideali di Ianos e compagni e hanno combattuto in ato assieme a loro. Essi vengono dalla grande Foresta del Nord o Selva Nera, regno dei lyblis; Kenarnon è di sangue reale. Sua sorella Èredwan, fredda e silenziosa, è un’abilissima arciera. I Cacciatori hanno ato interi anni delle loro vite alla caccia di Shalamor e altri esseri malevoli. La moglie di Sòfos partì anch’essa anni prima per una delle Grandi Caccie e fu proprio questo a spingere il marito ad errare con i figli: Lòrkan il forte e la bella Kàndui. Quest’ultima ha perso la capacità di parlare e si esprime a gesti e facendo suonare le nocche sulla sua collana o con un flauto.
Greta, figlia del mugnaio di Beivades, è una cara amica di infanzia di Val. Dalla sensualità prorompente, nutre un sincero affetto per l’amico, a volte ambiguamente. Le sue umili origini e la situazione familiare tuttavia le complicano non poco la vita.
Lilia Galron è la sorella minore di Val. Ha avuto una brutta esperienza nel collegio dove studiava con Gala e Nadia, della quale non vuole parlare. Ama Val con tutto il cuore e si augura il meglio per lui.
Lòrkan: v. Kenarnon.
Màndecar: v. Chiliana.
Mascan: è un barbiere in combutta coi Necromanti.
Milesia Galron è la madre di Val. Apprensiva, è sempre costantemente convinta che suo figlio sia in pericolo o non sia completamente in grado di gestire le cose, pur avendo per lui un grande affetto.
Mòrlav il mago, è uno dei più celebri investigatori di Lenvar. Dopo avere prestato per anni servizio come investigatore negli Alabardieri, si è ritirato e svolge le medesime mansioni, privatamente. Abile con la magia, è forse uno degli individui più astuti di Lenvar. È stato ed è uno dei mentori di Erin Lindei.
Nadia Mornèi è la sorella di Salaran ed aspirante maga presso la corte dei
Grilam. Antipatica e strafottente quanto precoce nell’apprendere le arti arcane.
Ràilan è un Ospitaliere di San Càlista, un ordine monastico-guerriero, i cui membri sono abili nella guarigione delle ferite e delle malattie. Val conoscerà Ràilan durante la guerra e stringerà amicizia con lui.
Sàlaran Mornèi è uno dei primi amici di Val. Ossessionato dalla ricerca di un maggior potere, ha tuttavia un cuore buono, nonostante i suoi comportamenti ambivalenti. Suo padre è partito molti anni prima per il Nuovo Mondo. Da allora Sàlaran e sua sorella Nadia sono affidate allo zio, Kard Dàmian.
Shàlamor è uno dei più feroci assassini che esistano sulla faccia del Continente. Membro della razza dei delenar, è uno degli ultimi a cui è stata insegnata l’arte dell’omicidio, che pratica con efferatezza, ben oltre i desideri dei suoi mandanti. Ha ucciso anche donne e bambini senza remore e non ha cuore. Il suo ato è oscuro come il suo sguardo.
Sòfos: v. Kènarnon.
Thàvion Dèscor è il Vicario della città di Lenvar, ovvero il vice-capo del culto matriano cittadino. Diventerà un punto fondamentale nella formazione di Gala de Torne, sua accolita.
Vàlen Gàlron, o Val come si fa chiamare, è un Crociato di Sant’Isior e protagonista della vicenda. Testardo, ma sempre pronto a ragionare, crede in poche cose, ma ad esse dà devozione completa. Durante la vicenda
narrata, avrà modo di maturare e farsi la sua opinione sulla vita.
Vita nel Continente
La società del Continente presenta numerose analogie con quella medievale europea del XIII-XVI secolo. Le campagne sono abitate da contadini ed allevatori e i territori sono ovunque dominati da nobili feudali. Nelle città, a volte organizzate in “comuni”, viene esercitato un governo differente, spesso di tipo oligarchico con un reggente e un consiglio o un senato che aiuta nelle decisioni. I bottegai e gli artigiani sono raccolti in Corporazioni o Gilde, che ne regolamentano le attività. Il divario tra ceti abbienti e meno abbienti è massimo: le classi più povere vivono nella miseria completa e hanno pochi mezzi per emergere. Chi nasce in un ceto, raramente (se si escludono matrimoni o colpi di fortuna) riesce a salire a quello successivo. Fanno eccezione a Lenvar i commercianti e gli artigiani, vero cuore dinamico della Repubblica, che grazie alle loro attività stanno guadagnando un sempre maggior potere politico. I cittadini e i contadini sono anche la forza principale degli eserciti: essi devono provvedere al loro equipaggiamento e sono chiamati a combattere obbligatoriamente in caso di guerra. Coloro che provengono dalle città e più specificatamente dalle classi più elevate, hanno in genere corazze e armi vere e proprie, mentre i contadini combattono con ciò che trovano e non di rado con i loro strumenti da lavoro come asce, forconi o falci. Diverse nazioni integrano le loro forze con soldati di professione, ben addestrati ed equipaggiati. Quando non sono addestrati in loco, si possono ingaggiare sotto forma di compagnie mercenarie. I nobili fungono sovente da cavalleria pesante, mentre gli allevatori e coloro che possono permettersi un cavallo, spesso militano in corpi di cavalleggeri, per ricognizione e azioni “mordi e fuggi”. Le guerre sono combattute quasi esclusivamente per fini politici o espansionistici. Le “Crociate”, a differenza di quelle avvenute nel nostro mondo, non sono guerre di religione (o almeno mascherate come tali), ma spedizioni preventive per arginare imponenti invasioni di popolazioni nomadi o non-umane, come quelle degli orchi o dei draghi e implicano l’alleanza tra più nazioni; con questo termine si intendono anche le campagne per impedire il diffondersi di
culti malefici come le Crociate contro i Necromanti. Durante le Crociate si sono alleati anche monarchi di religioni differenti, qualora la minaccia sia stata globale.
Dal punto di vista tecnico-scientifico, non vi sono molte differenze con l’Europa medievale e rinascimentale. Qualche strumento musicale, come il pianoforte, è stato scoperto anzitempo e inoltre numerose culture hanno potuto, grazie alla magia, assaporare il sogno del volo a bordo di imbarcazioni incantate, o tramite incantesimi. Con la scoperta del Nuovo Mondo, nuove piante, animali e materiali stanno gradatamente entrando anche nel Continente (come i pomodori, le patate, il tabacco, il cacao o il tacchino). La medicina è quasi tutta in mano alle organizzazioni religiose. La farmacologia è più avanzata rispetto agli standard medievali e la cura delle infezioni, principale causa di morte per ferite ed epidemie, è più accurata poiché coadiuvata dall’alchimia e dalla magia. La chirurgia soffre ancora della mancanza di disinfezione e di strumenti adeguati e pertanto il suo ruolo è limitato pressoché interamente a fini ortopedici e traumatologici. Gli Ospitalieri sono l’ordine religioso con le maggiori conoscenze in tal senso.
A nord del continente (il “Norden”) vivono altre etnie, come i nani, gli gnomi, i silvani o lyblis e i delenar. Essi hanno stili di vita estremamente differenti da quelli umani e anche i mari sono pieni di creature straordinarie (vedi la parte delle appendici “I Misteri”).
La misurazione del tempo
L’anno negli ex-territori sabani ha 12 mesi e dura 360 giorni. Gli anni bisestili non vengono proclamati in maniera regolare come accade a noi e i giorni persi secondo l’astronomia vengono recuperati con accorgimenti diversi, in modo da mantenere i calendari sincroni con le stagioni. Tutti i mesi sono di trenta giorni. In realtà il nostro calendario Gregoriano e quello sabano, sono sfasati di una decina di giorni, poiché il 22 Marzo del nostro calendario gregoriano, corrisponde in realtà al primo giorno di Piovisio. Tuttavia i mesi possono essere grossolanamente accoppiati come segue:
(Calendario Gregoriano - Calendario Sabano –Stagione) 22 Gennaio – 21 Febbraio: corrisponde al 1-30 Nevìsio (Inverno); 22 Febbraio – 21 Marzo: corrisponde al 1-30 Brezzafresca (Inverno); 22 Marzo – 21 Aprile: corrisponde al 1-30 Piovìsio (Primavera); 22 Aprile – 21 Maggio: corrisponde al 1-30 Tiepìdio (Primavera); 22 Maggio – 21 Giugno: corrisponde al 1-30 Sempiverde (Primavera); 22 Giugno – 21 Luglio: corrisponde al 1-30 Ardifronte (Estate); 22 Luglio – 21 Agosto: corrisponde al 1-30 Solebianco (Estate); 22 Agosto – 21 Settembre: corrisponde al 1-30 Frescombroso (Estate); 22 Settembre – 21 Ottobre: corrisponde al 1-30 Fòglicado (Autunno) 22 Ottobre – 21 Novembre: corrisponde al 1-30 Seminante (Autunno) 22 Novembre – 21 Dicembre: corrisponde al 1-30 Piovinale (Autunno)
22 Dicembre – 21 Gennaio: corrisponde al 1-30 Brinafredda (Inverno)
Il Capodanno si svolge il giorno 1 Piovisio, equinozio di primavera, e viene molto sentito in quanto formalmente è il termine dell’inverno. Altre festività importanti sono il giorno di Mezza Estate o Festa della Mietitura (15 Luglio o 25 Frontecalda) o la Festa d’Inizio Inverno (22 dicembre o 1 Brinafredda), dove i contadini ma anche i naviganti e gran parte dei cittadini auspicano che l’inverno non sia troppo rigido e per dimostrare la loro bontà, si prodigano in opere benefiche, tra cui lo scambio di doni reciproci. La settimana dura in realtà sei giorni. Il sesto giorno o “sestiero”, è tradizionalmente dedicato al riposo e alla vita privata e ogni mese ha 5 settimane. Ogni mese essendo sempre di 30 giorni, ha pertanto il medesimo calendario, ovvero ad esempio il 9 di ogni mese è sempre un “terziero” ovvero un mercoledì. Il primo giorno del mese è sempre l’inizio di una settimana ed è assimilabile ad un lunedì, mentre l’ultimo è sempre un “sestiero”, ovvero una domenica. Ecco come funziona:
(Nome sabano – Cadenza -Equivalente reale) Primiero cade nei giorni 1-7-13-19-25 e sarebbe il Lunedì; Secondiero cade nei giorni 2-8-14-20-26 e sarebbe il Martedì; Terziero cade nei giorni 3-9-15-21-27 e sarebbe il Mercoledì/Giovedì (metà settimana); Quartiero cade nei giorni 4-10-16-22-28 e sarebbe il Venerdì; Quintiero cade nei giorni 5-11-17-23-29 e sarebbe il Sabato; Sestiero cade nei giorni 6-12-18-24-30 e sarebbe Domenica.
Le funzioni religiose non sono tuttavia sempre collocate il medesimo giorno ma variano a seconda delle stagioni, sebbene ogni famiglia usi visitare i templi il sestiero, poiché è un giorno libero da impegni lavorativi. In molte nazioni anche nel quintiero viene generalmente utilizzato un orario lavorativo più blando, come ad esempio la sola mattinata. Le ore vengono misurate soprattutto grazie ai campanili, che seppur sprovvisti di orologi (tranne nei Templi più grandi, nelle Cattedrali o nell’Arcanocrazia di Cardis), rintoccano le ore. La misurazione è fatta in 24 ore come nel nostro mondo. Il giorno inizia formalmente verso l’alba. Le definizioni di “pomeriggio”, “sera” e “notte” vengono adattate secondo la luce e le stagioni. Il pranzo avviene quasi sempre verso mezzogiorno, mentre la cena è più soggetta alle variazioni di luce essendo collocata poco prima l’ora del coricarsi. Per risparmiare candele, torce e olio da lume difatti, quasi tutta la popolazione, specialmente le fasce più povere, è costretta a coricarsi poco dopo il tramonto. Le botteghe seguono il ritmo circadiano: aprono all’alba e chiudono un po’ prima del tramonto, con orari però più rigidamente stabiliti.
La Repubblica di Lenvar e le famiglie nobiliari
Lenvar è una repubblica plutocratica basata sull’elezione di un Doge scelto tra i maggiorenti della città ed in carica per alcuni anni (in genere due) con mandato rinnovabile fino a due volte. Il Doge, da sempre più vicino agli aristocratici, è a capo di un Consiglio detto “delle Compagnie” (raggruppamenti di cittadini su base circoscrizionale) e coadiuvato da un Capitano del Popolo che porta gli interessi dei ceti borghesi e popolari. Lenvar è un porto tra i più grandi del sud del continente, possiede colonie in diverse isole dell’Arcipelago e oltremare. I precedenti governi della Repubblica erano composti dai Consoli dello Stato (entrati in carica dopo la cacciata del Re) e successivamente dai Podestà, scelti esternamente alla Repubblica per mantenere l’imparzialità. Nell’ambito del Consiglio delle Compagnie era presente il Consiglio di Credenza, i cui membri e dipendenti erano chiamati “Silenziari”. Il compito del Consiglio di Credenza era di amministrare gli affari “privati”. Essi fungevano da polizia segreta o da diplomatici e gestivano ogni trattativa che non dovesse essere resa pubblica. Quattro grosse casate feudali si sono spartite per secoli il potere nella città di Lenvar, e spesso in parte dell’entroterra. La casata D’Àngora è forse la famiglia più potente. Capitani di mare, soldati, avventurieri, mercenari e mercanti, hanno dato molti Dogi e prima ancora Consoli alla Repubblica. Sono spesso alleati con i Siblei, con i quali condividono l’idea di una natura “laica” dello Stato per i quali si sono spesso scontrati con i Fédra. Questi ultimi, nati come signori feudali, si adeguarono presto alla prassi di svolgere la mercatura come attività, e si diedero anche alla finanza, pur mantenendo sempre e soprattutto la natura di nobili terrieri, che consolidarono con la costruzione di diversi castelli. Da sempre pii, riuscirono persino a fornire all’Ecclesia Matriana ben due patriarchi e diversi esarchi a Lenvar. Per quello che concerne i Grìlam, anch’essi diventati ricchi grazie al commercio ma interessati anche al dominio feudale, essi furono i primi a diffondere lo
studio della magia tra i loro membri. Nel 1297 uno dei loro familiari conquistò la Rocca del Calvo strappandola al dominio della Repubblica e tentò di fondare una scuola di magia che rimase in piedi per 4 anni, prima di essere riconquistata da Lenvar. Nonostante la loro natura di esperti dell’Arcano, riuscirono spesso a mantenere buoni rapporti con i Fedra; per non attirare le ire religiose inoltre furono sempre sostenitori dei diritti dell’Ecclesia Matriana. Per ultimi i Sìblei sono una famiglia molto ricca, che trae molti dei suoi profitti dal commercio e dalla finanza, ma tra i suoi membri vi sono anche diversi condottieri militari e possidenti terrieri. Pur non amando l’intrusione dell’Ecclesia nella vita politica cittadina, diversi membri dei Siblei divennero Esarchi. Attorno a queste grandi casate cittadine, ne sorsero altre come gli Zacàra, i De Mornèi (o Mornèi) e i De Torne, che non di rado stringevano alleanze con le grandi a formare raggruppamenti detti “Alberghi”, mentre fuori dalla città resistevano famiglie esclusivamente feudali come i Marsten o i De Clar, che rifiutavano l’autorità della città e spesso si scontravano con essa. Le lotte tra famiglie sono all’ordine del giorno, quasi sempre per spartire feudi e privilegi commerciali nelle “maone”, società per azioni vere e proprie affidate a nobili famiglie, per governare i fondaci o le colonie commerciali d’oltremare.
I cittadini-soldato di Lenvar
Lo statuto della Repubblica di Lenvar prevedeva che ogni cittadino dovesse mantenere un equipaggiamento adatto alla guerra nel caso fosse chiamato a combattere con una coscrizione che aveva carattere obbligatorio. In quel caso, le forze armate coscritte prendevano il nome di “milizie”. Gli abitanti delle città e dei borghi erano certamente i meglio armati: i più abbienti potevano disporre di armature leggere (di cuoio borchiato, “brigantine” o addirittura di maglia di ferro), lance, scudi e spade. Diversa era la situazione dei villici, spesso dotati soltanto di una giubba di cuoio o semplici vestiti imbottiti di paglia e armati di forconi, falci, coltelli, roncole, asce e qualche lancia. Non di rado essi servivano da arcieri, poiché sovente utilizzavano l’arco per cacciare e potevano così essere tenuti a distanze e non inviati in corpo a corpo: a causa della loro scarsa preparazione bellica, infatti, erano considerati inaffidabili e troppo soggetti a improvvise ritirate. I Patrizi e i Nobili in genere combattevano a cavallo: erano dotati di cotte di maglia, alcune delle quali rinforzate da placche di metallo (chiamate talvolta “armature da campo”), similarmente a quelle degli Ordini militari, religiosi o meno. Soltanto i Cavalieri come i Kard e specialmente i Paladini potevano permettersi armature di piastre complete. V’erano poi veri e propri soldati di professione, non coscritti: tra di essi spiccavano i balestrieri Lenvari, fiore all’occhiello della Repubblica. Essi venivano addestrati con il patrocinio del governo che talvolta li inviava in aiuto alle nazioni alleate o come mercenari: la loro preparazione professionale era un vanto per la Repubblica. Essi erano ati dai “pavesari” che trasportavano grossi scudi (i Pavesi) in modo da ripararli durante le lunghe fasi di ricarica.
La religione nel Continente
La principale religione nella parte occidentale del Continente è quella professata dall’Ecclesia Matriana. Essa prende il nome dal profeta San Matri, il profeta che teorizzò e riscrisse l’antica dottrina imperiale dell’Eterno Reggente (il cui simbolo è una clessidra rotta che zampilla sabbia) che secondo Matri aveva il pieno controllo de “L’Aldilà”. Nella sua dottrina i popoli avrebbero dovuto perseguire l’Armonia per l’interesse dell’Eterno nel preservare perennemente il Mondo impedendone la fine, a differenza di quello che vorrebbero fare Egrothar o Sit, divinità malvage patrone della Morte e del Male. I “Popoli Giusti”, ovvero coloro che avessero raggiunto l’armonia perfetta, sarebbero stati eletti dall’Eterno come guardiani dell’equilibrio e pertanto avrebbero ricevuto la sua benevolenza e i loro membri sarebbero ospitati nel suo Paradiso. Quando Matri morì, Esenia, prese il suo posto come Patriarca dopo il voto della Santa Assemblea degli Esarchi. Egli rivalutò il Culto dei Santi, entità benevole “protettrici” di determinate “missioni”: lo stesso Matri fu canonizzato. Tra i Santi secondo la mitologia c’era il fratello minore dell’Eterno Reggente, Sant’Isior, che Esenia teneva in grande ammirazione. Sotto Esenia si compì anche la stesura del “Canone”, il Libro Sacro su cui si basa tutta la dottrina Matriana, iniziato dal Profeta e finito dai suoi successori. Secondo i miti, L’Eterno diede a Isior il compito di combattere il male e preservare la bontà dei popoli in modo da favorire l’Armonia. Onore, coraggio, devozione, difesa dei giusti e lotta contro l’Oscurità erano i capisaldi degli Isiorici. L’Ecclesia Matriana preferiva non sporcarsi le mani con eretici e culti sotterranei, perciò segretamente lauti finanziamenti erano conferiti ai chierici e ai Crociati di Sant’Isior perché con le loro sante Crociate eradicassero il “male” laddove esistesse. Il Culto di Sant’Isior quindi dipende ormai inesorabilmente dall’Ecclesia Matriana e dal suo Patriarca stanziato nella ex-città di Saba, antica capitale dell’Impero che prese poi il nome di Città di Matri, in onore del Profeta.
Assieme al culto di Isior, altre religioni minori prima considerate pagane furono gradualmente assorbite e riportate in seno all’Ecclesia. Tra esse il culto di Kària, prima moglie dell’Eterno Reggente e divinità patrona della conquista o quella di Sedune, divinità del mare. Il Patriarca dalla città Matri tenta spesso di mediare tra le piccole potenze dei Mari del Sud, incanalando le loro forze per opporsi alla Grande Minaccia dell’Arcanocrazia dei maghi di Cardis, da sempre spauracchio di tutti i patriarchi. I maghi non vedono l’ora di fare pagare ai chierici secoli di abiure, inquisizioni e roghi. Per ora la pace ha perdurato, perché il culto matriano è diffuso in tutto il Continente e se Cardis avesse osato attaccare, le nazioni matriane avrebbero potuto coalizzarsi in una nuova Crociata, stavolta contro i maghi. Tutta la bilancia del potere del Continente oscilla di pochi millimetri ora da un lato, ora dall’altro.
Sant’Isior e i Crociati
Come è stato detto, secondo i miti l’Eterno diede al fratello, Sant’Isior, il compito di combattere il male. La loro presenza e il sempre maggior favore che godevano gli isiorici verso il secondo Patriarca, Esenia, fece scontrare quasi da subito il culto dell’Eterno con quello del Santo. I successori di Esenia dovettero fronteggiare il crescente potere degli isiorici, e il loro favore verso le classi militari e popolari. Nel 266, cultisti di entrambe le ecclesie arrivarono allo scontro diretto e fu Vardem, uno dei Protettori matriani, un corpo militare di difensori della fede che più tardi avrebbe dato vita all’Ordine dei Paladini, a tentare di riportare la calma. I Protettori erano molto devoti a Sant’Isior e spesso usavano le sue insegne in battaglia. Quando un grosso contingente di umanoidi, orchi per lo più, invase le terre civilizzate, Vardem unì i culti dell’Eterno e di Sant’Isior contro “i barbari” e lanciò la “Guerra Santa”, che poi prese il nome in seguito di “Crociata” dal nome del Solecroce, il sole a quattro raggi simbolo del culto isiorico che Vardem usò come vessillo per pacificare i due culti. La sua morte eroica fu d’ispirazione per tutti verso la pace, ed egli fu canonizzato e noto come San Vardem. Per controllare meglio il culto isiorico, il Patriarca Esenia II, decise di proporre che il clero isiorico fosse retto da un Concilio di Priori piuttosto che da un capo supremo come il Patriarca dell’Ecclesia matriana: in tal modo sarebbe mancato un possibile rivale diretto del Patriarca e inoltre i vari Priori difficilmente avrebbero messo da parte le differenze per unirsi contro i matriani. Essi accettarono di buon grado di avere ognuno una cospicua fetta di potere senza nessun capo sopra di loro e votarono favorevolmente. Con questa formula, il Patriarca Esenia II astutamente divise i vertici dell’Ecclesia Isiorica e mantenne il predominio su di essi: “divide et impera”. Il culto di Sant’Isior è molto semplice dal punto di vista gerarchico: ogni città ha un grande Tempio (a volte accompagnato da alcuni templi minori) con annesso un convento dove risiede il Priore. Esistono poi piccoli santuari retti ognuno da un esiguo numero di chierici, chiamati anche “cappellani”. I templi isiorici sono spesso a pianta quadrata o cruciforme con una cupola circolare, e in genere molto finestrati e illuminati.
I Crociati sono divisi in tre grossi gradi: I Cavalieri, provenienti da famiglie almeno patrizie e retti dal Maestro dei Cavalieri, gli Ufficiali o Graduati che comprendono i Capitani, i Sergenti e i ruoli ausiliari come l’Alfiere o il Furiere; vi sono infine i Militi, che comprendono i Confratelli Crociati (o semplicemente Crociati) che compongono la forza base di fanteria assieme ai Conversi. Questi ultimi sono il braccio armato “laico”, composti da persone appartenenti alle classi sociali meno abbienti e con poche possibilità di carriera. Ai Cavalieri inoltre vengono affidati degli scudieri che possono essere Crociati o Conversi (sono in genere giovanissimi), oppure diventarlo qualora il Cavaliere lo fosse già al momento di prendere i voti e avesse già uno o più scudieri propri. Per diventare Cavaliere infatti esistevano due strade: partire dal grado di Crociato, Ufficiale e poi essere investito Cavaliere, oppure essere già stato investito Cavaliere da un feudatario o da un monarca e avere richiesto di prendere i voti: questo consentiva di essere ammesso direttamente come Cavaliere Crociato.
Kària e i suoi guerrieri
Kària la Vincitrice era l’Immortale patrona della Guerra, la Dea della Conquista. I dogmi dei Kard, i suoi soldati, erano lontanissimi da quelli dei Crociati. Era infatti comandamento dei Crociati quello di difendere gli inermi e di attaccare solo per necessità preventiva, mentre i Kard predicavano spesso la conquista esercitata dal forte sul debole: raramente prendevano prigionieri e coloro che finivano catturati preferivano essere uccisi, o almeno questo è quello che veniva raccontato. Quando l’Ecclesia Matriana si diffuse, dapprima i Kard si scontrarono con il nuovo culto, bollandolo come “roba da donnicciole”. Ma presto arono in posizione di inferiorità e per sfuggire alle persecuzioni contro i pagani che seguirono al diffondersi del credo matriano, i Kard gradualmente rinnegarono il culto della Dea così com’era in origine. La figura di Kària fu ridisegnata dai Matriani come una “santa peccatrice” pentita. Fu scritto nel Canone che l’Eterno Reggente aveva perdonato Kària affidandole l’ingrato compito di diventare la sua “boia vendicatrice” celeste e i Kard sopravvissero. Il loro ordine rimase uno dei più pericolosi e temuti del Continente: i suoi membri sono guerrieri, attaccabrighe avvezzi allo scontro e pieni di boria, vere e proprie mine vaganti tenute a bada a fatica dai regnanti, che tuttavia non hanno mai pensato di abolirne l’ordine. I Kard infatti sono un valido aiuto in guerra ed è anche ammesso che i Kard si possano combattere tra loro “per una buona ragione”. Ecco perché molti Kard sono anche mercenari e soldati di professione. Ovviamente non sono ben visti da nessun culto, che li considera fanatici e intrattabili. Dopo le persecuzioni, il credo di Kària perse una struttura precisa come l’ordine dei Crociati di Sant’Isior. I Kard più stanziali si aggregarono tra loro in santuari che assomigliavano più a caserme che a templi (infatti prendevano il nome di “Sale d’Armi”), o più spesso vagarono per il mondo come compagnie di ventura. Non essendoci una organizzazione centrale, i Kard obbedivano solo a chi reggeva la Sala d’Armi o al Comandante della compagnia. Non v’è una investitura propriamente detta: semplicemente chi comanda decide se
l’applicante è degno o meno di diventare Kard, spesso dopo una prova di forza o combattimento che non esclude la morte del candidato in caso di fallimento.
I misteri
Gli altri popoli e creature
Ispirati dalla mitologia norrena, i nani sono esperti minatori e fabbri. Qui nel Continente vivono in città costruite sulle pendici delle montagne o sottoterra e sono alla costante ricerca di ricchezze estraibili dal terreno. Condividono con i lyblis soltanto l’organizzazione in “clan”, vere e proprie strutture familiari allargate, spesso con valenza governativa su un territorio. Ogni clan è poi composto da varie famiglie. Quando le comunità naniche si trasferiscono in altri luoghi, essi si riuniscono in “ghetti”, enclavi cittadine chiuse dove possono commerciare, vendere artigianato, armi o prestare denaro tramite l’usura.
Gli “Antichi Popoli”, data la loro precoce civilizzazione, sono diffusi nel Norden. A queste stirpi appartengono i “lyblis”, i “delenar” e i “lauroch”, più altre etnie meno note agli uomini. Gli Antichi sono chiamati spesso “elfi” dagli umani, Nelle leggende degli uomini, composte prima che i due popoli s’incontrassero per la prima volta, esistevano infatti le figure degli elfi: esseri abitanti i boschi dall’aspetto meraviglioso e le orecchie appuntite. Così quando gli umani videro il “Popolo Eletto” (come si autodefinivano tutti coloro che facevano parte di quella stirpe) per la prima volta, credettero di avere a che fare con gli elfi delle leggende e li appellarono in tal modo. Gli umani, quando conobbero la storia millenaria dei due popoli, li ribattezzarono “Antichi”, dato che “Popolo Eletto” non gli aggradava molto perché ogni popolo in fondo pensava di essere “eletto”, sopra gli altri: in molti casi continuarono a chiamarli elfi. A questo soprannome i lyblis in genere sorridevano poiché davano grande importanza alle storie e alle leggende ed essere paragonati ad esseri mitici non gli dispiaceva, al contrario dei loro altezzosi parenti “delenar”, un’altra stirpe antica che considerava questo nome un po’ offensivo. Gli umani li consideravano all’inizio una stirpe unica, ma parecchi secoli or sono le etnie lyblis e delenar si erano divise poiché i silvani preferirono una vita
maggiormente in armonia con la natura, mentre i delenar, più progressisti, vollero spostare i loro domini oltre una grande catena montuosa per poterne sfruttare adeguatamente le risorse e migliorare la loro condizione anche attraverso la magia e lo sviluppo tecnologico. I caratteri razziali delle due razze erano davvero simili: orecchie appuntite, occhi dalle grandi pupille verdi, azzurre o marrone chiaro con aspetto delle iridi “a cielo stellato”; capelli biondi, bianchi o castani, altezza come uomini o poco meno. Erano in genere agilissimi e molto longevi (potevano, infatti, vivere per secoli interi), ma poco prolifici. Non stupisce che grazie a questi caratteri gli uomini avessero pensato di avere trovato un popolo degno di miti e leggende. Ma come tutti gli esseri viventi anche gli “elfi” erano soggetti a ioni e desideri come i loro parenti umani, con le dovute differenze. Sono tutt’altro che immortali, pur avendo un ciclo vitale molto lungo che dura addirittura diversi secoli. I lyblis o Elfi delle Foreste o Silvani (traducendo letteralmente il nome), vivono soprattutto nella Foresta (o Selva) Nera, in città costruite sugli alberi secolari o capanne mimetizzate con l’ambiente circostante protette al massimo da terrapieni e palizzate, talvolta rinforzate in pietra. Vivono di caccia e frutti del bosco e praticano la magia druidica, una forma di stregoneria basata sulla natura e abitano da secoli il Norden del Continente. I delenar, chiamati anche Elfi Chiari o Elfi Bianchi dagli umani, pur imparentati con i Silvani, sono più “aristocratici” e vivono in città dove domina il bianco circondate da mura di pietra come quelle umane. Sono grandi studiosi di magia e custodi del “segreto del volo”. Le loro Navi Stella sono tra le più veloci del Continente e spesso in grado di volare o scivolare sul ghiaccio. Per ultimi i lauroch o Elfi d’Argento sono una popolazione che ha scelto di vivere in maniera intermedia tra le due culture, ovvero senza staccarsi troppo dalla vita naturale ma neanche evitando la tecnologia. Esistono poi altre misteriose etnie di “elfi” con cui gli umani hanno poco contatto.
Ci sono anche popolazioni definite “umanoidi”. I loro rappresentanti principali, orchi e goblin, sono creature primitive e bestiali e non di rado sono definiti “mostri” dalle etnie più progredite. Sugli orchi si può dire che la loro natura brutale né fa pessimi “vicini di casa”,
dato che la cultura orchesca prevede il saccheggio e l’omicidio come mezzi di realizzazione e prosperità della propria tribù. Le varie Crociate hanno confinato gli orchi in caverne sotterranee situate specialmente nelle montagne centroorientali. Nani e Antichi sono i nemici numero uno di queste creature, poiché gli umani hanno respinto gli orchi molto più vicino ai loro territori. I goblin sono piccoli esseri antropomorfi dal viso appuntito e dalle grandi orecchie a punta. Sono codardi se affrontati singolarmente ma reagiscono con astuzia e crudeltà quando incontrati in gruppo. Con le Crociate hanno subito lo stesso destino degli Orchi, ma sono in realtà ancora diffusi in piccole tribù in tutto il continente, dato che sono difficili da stanare per le loro piccole dimensioni e per il fatto che vivono quasi esclusivamente sottoterra: una tribù può sopravvivere a lungo cibandosi di qualsiasi cosa (molte delle quali non vorreste sapere). Non di rado accade che i contadini vengano infastiditi, più che minacciati, dalle loro scorribande notturne in quanto essi non amano la luce del sole, cosa che condividono con i loro fratelli maggiori orchi. Prediligono colline e montagne o comunque luoghi facilmente difendibili.
Il Continente e i suoi mari, sono anche ricchi di altre creature misteriose. Sicuramente una menzione meritano i draghi, grossi rettili alati capaci di soffiare fiamme, acido o aria gelida. Cacciati dall’espansione umana nelle terre meridionali, vivono ancora sulle montagne settentrionali. In acqua salata, i serpenti marini e le piovre giganti sono una minaccia più che consistente per le navi che osano solcare i tratti di mare più pericolosi. Creature dei boschi come le driadi, gli uomini-albero, le aquile giganti e altri favolosi esseri, sono ormai un ricordo confinato a quella regione settentrionale chiamata “La Frontiera” o “Norden”, dove tribù barbariche lottano ancora per respingere la civilizzazione.
Il Vento di Stelle
Si tratta di uno dei fenomeni più magici che avvengano nel Mondo di Fabre, un evento bellissimo e misterioso: alcuni segni premonitori anticipano spesso il suo arrivo, anche se non sempre sono molto attendibili. L'inverno è sovente freddo e spesso nevica anche sulla costa. Nel cielo compaiono nuove stelle che svaniscono alla fine del "Vento" e pochi giorni prima del suo arrivo scintillano intensamente di luce e sembrano muoversi. In pochissimi giorni (a volte uno solo) si forma una gigantesca scia di luce e stelle nel cielo notturno, simile all’Aurora Boreale, fino a che il Vento non cessa, qualche settimana dopo. Gli abitanti del Continente hanno imparato a utilizzare il Vento di Stelle usando imbarcazioni con vele apposite, le “Navi Stella”, che potevano sfruttare questo fenomeno e navigare verso Ovest fino al Nuovo Mondo a grande velocità: anche in due settimane contro un mese abbondante che avrebbero impiegato con la brezza normale. Il Vento, prima di raggiungere le coste del Nuovo Continente, si biforca in un ramo settentrionale e uno meridionale che curvano a U di nuovo verso Est, aiutando le navi a ritornare in patria. Ma il Vento di Ritorno non è così forte come quello di andata e questo è un problema. Com’è un problema l'impossibilità di datare con certezza il vento successivo. Il Vento di Stelle, infatti, non avviene tutti gli anni e quando succede soffia generalmente solo d’Estate. Questo fa sì che non si possano stabilire grandi e durature colonie nel Nuovo Mondo, poiché esse non possono ricevere frequenti rifornimenti dalla patria: L’Oceano Rosso è inoltre poco clemente con le navi ordinarie che sfruttano i venti normali, anche se diversi naviganti sono riusciti a raggiungere il Nuovo Mondo anche con mezzi ordinari. Per di più, Il nuovo continente è abitato da creature selvagge e ostili e secondo le dicerie di chi è tornato, da una strana popolazione battagliera che odia i forestieri. Comunque, quando giungono i segni premonitori del Vento, in tutte le nazioni comincia una vera e propria corsa ad armare le navi che possono sfruttarlo, talvolta costose e inutilizzabili in periodi di vento normale. Il popolo dei delenar a Nord è maestro indiscusso nella fabbricazione delle Navi Stella, seguito solo dai maghi dell’Arcanocrazia di Cardis con le loro imbarcazioni volanti.
Numerosi avventurieri si sono arricchiti e altrettanti hanno trovato la morte sfruttando questo fenomeno; i più fortunati sono tornati carichi di tesori dal nuovo continente, alimentando speranze e sogni in chi era rimasto.
La Magia
Tutti i processi di manipolazione degli elementi naturali, evocazione di poteri nascosti e modificazione dei fenomeni fisici e chimici prendono il nome di “magia”. La magia è la forza più misteriosa del Continente: all’inizio dell’addestramento utilizzarla è stancante e debilitante. Man mano che l’esperienza dell’utilizzatore cresce, i poteri diventano sempre più facili da gestire e se ne possono imparare di nuovi e più potenti. La più antica forma di magia nel Continente, la Magia Naturale (o Stregoneria), fu padroneggiata dagli antichi delenar molti secoli prima della nascita degli Imperi degli Uomini. Fu poi la Magia Divina clericale, sotto forma di “Miracoli”, “Preghiere” e “Benedizioni”, a seguire nello sviluppo e furono proprio gli umani a portarla alla sua quint’essenza. Per finire, completamente slegata dal significato religioso, fu studiata la Magia Arcana e praticata dai “maghi”. Nello specifico essa deriva dalla conoscenza della chimica e della fisica del mondo e utilizza quasi sempre componenti dette “reagenti”, sintetizzati nei laboratori alchemici o estratti in precedenza da piante, minerali, animali e funghi. È la più giovane ma forse la più potente dei tipi di magia. Da sempre contrapposta alla Magia Divina, quella Arcana infatti non si basa su principi religiosi ma piuttosto sulla manipolazione delle sostanze per creare effetti anche devastanti, mentre la Magia Divina punta alla guarigione e al potenziamento dello spirito. Non tutte le persone sono in grado di utilizzare la Magia ed anzi questa è una dote rara. I Crociati di Sant’Isior per definizione devono tutti avere una capacità anche minima di manipolare questa energia, altrimenti se vogliono proseguire nell’addestramento devono unirsi alla forza dei Conversi, addestrati solo nell’uso delle armi. Per i maghi, che sono stati perseguitati per lungo tempo dai chierici fino a che non hanno trovato nell’Arcanocrazia di Cardis la loro terra promessa, la cosa è ancora più complicata. Non potendo basare il loro potere su un ricettacolo divino pre-incantato quale il simbolo sacro dei chierici, prima di imparare a lanciare un incantesimo i maghi devono studiare per anni. Anche così, la loro mente deve essere addestrata per reggere l’incanalarsi dell’energia
Arcana, e solo pochi (una persona su mille potrebbe essere una buona stima) vi riescono. E tra costoro, una esigua frazione soltanto riesce a conquistare poteri considerevoli. Nonostante le persecuzioni, tuttavia, la loro utilità li ha resi preziosi alleati dei regnanti di tutto il Continente, fino ad arrivare ad essere perfettamente tollerati contro il volere dell’Ecclesia Matriana. Maghi e sacerdoti utilizzano reagenti o simboli sacri ma anche la parola per lanciare incantesimi: alcuni maghi sostengono invece che la parola sia superflua e che basti semplicemente il reagente e la propria forza interiore per lanciare un incantesimo ovvero che la parola sia solo un “escamotage” per cui la mente si dà forza e autorevolezza da sola. Gli stregoni invece possiedono poteri magici innati che riescono a far scaturire a volte anche dal loro stesso corpo. Questo tipo di magia è il più selvaggio e imprevedibile: spesso streghe e stregoni sono considerati pazzi e inaffidabili; non di rado essi studiano anche la Magia Arcana per compensare le loro lacune. È probabile, infatti, che uno stregone sia capace di evocare solo poteri legati ad un certo elemento (come il fuoco) o possa ad esempio manipolare la mente o creare illusioni. I druidi, per finire, sono una forma particolare di stregoni che utilizza solo incantesimi basati sul potere della natura. A differenza di uno stregone che possiede abilità innate, un druido attraverso diversi rituali può mettersi in comunione con la natura e conquistare tali poteri, a volte a prezzo della sanità mentale.
I Necromanti
Le origini della Necromanzia si perdono nella notte dei tempi. I precursori bevevano il sangue dei morti, si cibavano delle loro carni o dei loro organi per acquisirne la forza o la conoscenza, con scarsi risultati. I primi a raggiungere dei progressi furono coloro che veneravano Egrothar, la divinità della Morte, il cui simbolo è un teschio di caprone. Dapprima era lodato dai fedeli perché proteggesse il loro transito verso l’aldilà, ma gradualmente in epoca imperiale sabana il suo culto degenerò fino a divenire un’esaltazione della morte. I sacerdoti devoti a Egrothar furono scacciati dalle comunità e iniziarono esperimenti di rianimazione dei corpi morti, come già facevano per scopi abietti i cultisti di Sit, “il Demonio”. Con l’avvento dell’Ecclesia Matriana, il culto di Egrothar fu definitivamente dichiarato fuorilegge e i suoi cultisti processati per eresia e stregoneria e bruciati sul rogo. Numerosi testi sulle “Nere Arti” furono tuttavia scritti in segreto e ad avvicinarsi a esse furono anche molti maghi o semplici sapienti, che le spogliarono dall’aspetto religioso e si focalizzarono su quello della perpetrazione della vita attraverso “la Non-Morte”. Tra i riti della Necromanzia, difatti, v’era quello di prolungare la vita quasi sempre a scapito della parziale o totale perdita del senno. Per compiere i riti Necromantici erano necessarie radici e piante, cadaveri o peggio parti di persone vive, sacrificate in nome del dio Egrothar o del semplice interesse individuale. L’energia oscura scatenata dagli incantesimi necromantici però, corrompeva menti e corpi di chi la utilizzava alla lunga, fino a rendere l’utilizzatore un involucro vuoto e insensibile. Alcuni grandi maghi Necromanti potevano vivere per secoli come fossero delenar ma dimenticavano ciò che era la gioia della vita, pur diventando pozzi di esperienza; altri si consumavano nell’intento trovando una orribile fine. Pochi comunque rimanevano davvero devoti a Egrothar ed anche tra i Necromanti questo provocava faziosità e spaccature interne.
Le Tre Spade
Esistevano tre lame forgiate, si dice, durante la Guerra degli Imperi sabano e khamalico; erano la chiave per liberare un certo potere misterioso. Furono create ufficialmente per tenere a bada il male e specialmente i Necromanti. Non era noto se quello di cui si parlava, fosse un potere gestibile, o un eventuale quarto oggetto. Ciò che si sa è che se le Tre Spade fossero state riunite allora il potere sarebbe stato rilasciato ma avrebbe richiesto un tributo di sangue. Chi le forgiò, ed anche questo è un mistero, le diede a tre grandi eroi che rappresentassero tre punti del Continente.
La Prima Spada (la Spada del Nord o Spada della Libertà), è di certo nelle mani del Popolo Antico, gli “Elfi”. Non è chiaro se sia nelle mani di delenar, lauroch o lyblis, tuttavia. La Seconda Spada (la Spada dell’Ovest o Spada dell’Equilibrio) era custodita dall’Ordine dei Kard di Kària. Le sue vicende si perdono diversi decenni prima. Pare che l’ordine l’abbia acquisita per “conquista” e che non fosse destinata ad un Kard. Una volta messe le mani sull’oggetto, i Kard avrebbero cancellato ogni riferimento al vero padrone, almeno è quello che dicono i loro detrattori. La Terza Spada (la Spada dell’Est, o Spada della Legge), apparteneva addirittura a San Vardem, il Primo Paladino. Fu l’arma di diversi Re dell’Est, prima di cadere nel dimenticatoio.
Eppure è scritto che sulla Seconda e sulla Prima Spada esistono segni capaci di rivelare la posizione della Terza lama, anche nota come “l’Ultima Chiave”. Sulla Prima Spada inoltre vi sono indicazioni per localizzare anche la Seconda, tramite la magia. In parole povere, le spade possono essere trovate in successione, a partire dalla prima. Non è nota l’esistenza, come ci si aspetterebbe, di una Spada del Sud. L’Ordine cercò queste armi per molti anni, finché lo sforzo fu fermato dopo gli
insoddisfacenti risultati. Forse le tre armi riunite possono evocare quest’ultima e misteriosa arma, ma la leggenda e il mito qui sono davvero troppo nebulosi.
Con questo abbiamo davvero finito. Spero che possiate presto leggere il secondo libro che, come vi ho detto, sto già scrivendo e spero proprio non vi deluderà.
Indice
Titolo pagina Prefazione Prima di cominciare Parte I: Gioventù. Stringere bene lo scudo Amici di vecchia data Non lo faranno più altri per te Fragile come l’acciaio Vittime Sprofondare nel buio Riassunto della Prima Parte Parte II: Benvenuto tra gli uomini Una casa diversa Nuovi ospiti Trame sconosciute, pedine sacrificabili L’importanza delle parole Riassunto della Seconda Parte Parte III: Il Giorno del Male.
La Compagnia Senza Nome Il Giorno del Male I frammenti Riassunto della Terza Parte Considerazioni finali dell’autore Appendici I personaggi Vita nel Continente La misurazione del tempo La Repubblica di Lenvar e le famiglie nobiliari I cittadini-soldato di Lenvar La religione nel Continente Sant’Isior e i Crociati Kària e i suoi guerrieri I misteri Gli altri popoli e creature Il Vento di Stelle La Magia I Necromanti Le Tre Spade