Beautiful Face Saga CHOICE
by Mara B. Gori
Copyright 2014 Mara B. Gori Smashwords Edition
Licenza d’uso
Questo file ebook è protetto dalle leggi viggenti sul diritto di Copyright, tutti i diritti sono riservati a Mara B. Gori. Non può essere riprodotto, copiato e distribuito per fini commerciali o non commerciali. Non può essere archiviato su server o computer ai fini della condivisione web pubblica o privata. Non può essere manipolato o modificato in alcun modo. L’Acquisto e il , danno diritto alla sola fruizione personale, attraverso apposite applicazioni software per la lettura dello stesso.
Indice
1 – Vendetta 2 – Tenera è la Notte 3 – Strani compagni di letto 4 – Ballerine 5 – Vacanze Romane 6 – Paura d'Amare 7 – Nell’ Ombra 8 – Le parole che non ti ho detto 9 – Amore e Orgoglio 10 – Amore e Guerra 11 – La Congiura 12 – Innamorati Cronici 13 – La Decisione... 14 – Angolo di Paradiso Epilogo Ringraziamenti Contatti Saga
1 Vendetta
Rebecca
«Ma chi diavolo è?!» Il mio unico pensiero razionale fu un groviglio di rabbia sonno e frustrazione. Scattai seduta sul letto e, in un secondo, mentre il cell sul comodino trillava, realizzai la realtà al posto del sogno che stavo facendo: non ero più al ballo inquietantemente avvinta al quasi sosia di Tony: alias Eddy. Mentre, ancora più inquietantemente, sospiravo beata accettando i suoi baci bollenti e, casti insieme, sulle guance, ma mai sulle labbra. Battei le palpebre, ritornai lucida e afferrai il cellulare nel buio della mia stanza al Lodge Hotel. Il nome casa Carlton lampeggiava insieme all’ora: le cinque del mattino. Imprecando e, decidendo di dare una suoneria personalizzata al numero dei miei ex (per me) parenti, afferrai il telefono sperando che almeno fosse Eddy e, insieme, preoccupata per la stessa ragione, era troppo strano chiamare a quell’ora. «Sì?! Eddy, sei tu? Ma cosa...». Non riuscii a finire, era Amber, ma prima che potessi riattaccare, mi arrivò la sua voce sull’orlo dell’isteria. «Reb, corri! Ti prego corri! Si stanno ammazzando!». «Amber?! Calmati, chi si sta ammazzando?!» Che mia cugina avesse alzato troppo il gomito al ballo, era un ipotesi da non scartare, pensai a Eddy e Matty, mio cugino, ma non tornava, quei due andavano più d’accordo di me e Jas...
«Reb! Tuo fratello e Eddy, Reb! Oh mio Dio! Mamma è ad un convegno con Charles e Matt non è rientrato...Reb ti supplico corri! So che non dovrei dirtelo così, ma ho paura Rebecca! ... non smettono!». Sentii del trambusto, parolacce, grugniti, e poi...poi iniziai a tremare da capo a piedi, il letto sembrava tremasse con me, il cellulare, scosso fra le mie dita instabili, quasi mi sfuggiva di mano. Quando Amber aveva detto: “tuo fratello” io avevo pensato subito a Jason. Era strano, ma non impossibile, che fosse venuto. Era rimasto sconvolto dall’esistenza di Eddy e, ancor di più dalla reazione, di mamma, forse stava facendo l’irresponsabile prendendosela con chi non aveva colpa. Ma mentre elaboravo e, decidevo di vedermela a quattrocchi con Jas, i rumori di sottofondo si erano fatti più distinti, e avevo colto una voce, la sua voce. Non potevo sbagliare, la voce di Tony era marchiata a fuoco nei miei ricordi: un suono lenitivo e dolorosissimo insieme che riascoltavo spesso nella testa. Che lo volessi per nostalgia, o lo temessi per la troppa sofferenza. Gridai strozzata, più in panico, di mia cugina: «Mio fratello chi?! Amber?!». «Reb, Tony! E’ vivo! E’ venuto qui e... Dio Edgar! No!» Un tonfo più potente degl’altri e cadde la linea. Il panico m’invase ma lo scacciai, dovevo ragionare, agire. Gioia e tremendo sollievo, ammantarono ogni singola cellula, dolore e preoccupazione anche, domai tutto, e lo strano panico che avevo per Edgar...Edgar Carlton. Balzai dal letto e in cinque minuti ero fuori in strada, avevo già chiesto un taxi che arrivò subito e, dieci lunghissimi minuti dopo, ero alla villa dello zio; pagato il tassista con un pugno di banconote che, non avevo contato, mi catapultai fuori, le grida indistinte arrivavano fino al vialetto. Martellai la porta di pugni. «Aprite! Sono Rebecca!» Stavo per rivedere Tony. Era vivo!
Ero in panico e lottavo per non far trasparire emozione dalla concitazione, adesso era in pericolo, erano in pericolo tutti e due. Due secondi dopo arrivò Amber, scarmigliata, in pigiama, e con le lacrime agli occhi. «Oh Reb! Devi fermarli! Non mi ascoltano! Dobbiamo farli ragionare! E’ tutta colpa di Samantha Lee!». La furia mi invase potente, non richiesta ma utile. «Come al solito», sibilai irosa. Scansai Amber con la mano e mi misi a correre verso la porta sul retro da dove provenivano i schiocchi e i grugniti, appena la varcai trovai i due ragazzi che si fronteggiavano a gambe flesse, occhi negli occhi, si lanciavano accuse e insulti, le facce tumefatte per i pugni, ansimavano ma nessuno di loro mollava. Questo lo registrò solo un angolo razionale della mente, perché appena lo vidi, lui: mio fratello vivo e di nuovo con me. Lanciai un grido strozzato e svenni.
Edgar
Non era un suono acuto, ma roco, angosciato, per quanto fossi dolorante e accecato dalla rabbia, quell’urlo mi raggelò. Era Reb. Dio! Non avevo mai visto quell’espressione nei suoi occhi! O forse sì, alla spiaggia. Mi mossi senza riflettere e in un balzo ero da lei, la sostenni prima che rovinasse al suolo, svenuta. Oddio, che avevo fatto? Doveva essere atroce per Rebecca assistere a quello che io e Tony Somerset stavamo facendo, perché io e lui volevamo vincere, e vincere significava annientarci. Una preoccupazione repentina, pungente, ammantò la rabbia di colpa e questa si
attenuò. Reb aveva sofferto già così tanto. Io lo sapevo bene. Quando l’abbracciai per la vita, mi sentii strattonare violentemente il braccio, una mano coperta di rivoli di sangue: quello del mio sopracciglio destro. Mi aveva artigliato. Era violenta, ma, quando alzai il viso sulla copia del mio che, mi fissava con i suoi occhi di ghiaccio verde, tenni a freno la furia della reazione istintiva. La sua voce era metallica, eppure vibrante di un’emozione nascosta e profonda, un sentimento legittimo a cui dovevo chinare la testa. «Lasciala, Carlton, ci penso io a mia sorella!». Allentai la presa, Tony le ò un braccio intorno alla schiena, l’altro sotto le ginocchia e la prese in braccio. Zoppicava, e, fece una smorfia di dolore, quando il busto di Rebecca urtò le costole che avevo colpito ripetutamente, ma non emise alcun suono e, come se non pesasse nulla, la trasportò in silenzio sul dondolo. Dovevo ammettere che Somerset era tosto, tosto davvero. Aveva incassato quanto me, che ero sempre stato un buon picchiatore, o almeno, era quello che pensavo, dopo aver notato come mi muovevo agile e preciso, mentre cercavo di ammazzarlo per farlo scomparire dalla vita di Sam. Ma lui non era affatto da meno e, il risultato, era che eravamo pesti e esausti ma stavamo in piedi tutti e due e, probabilmente, ci saremmo rimasti fino ad ucciderci sul serio. Neanche mia sorella era riuscita a dissuaderci; per quanto mi spie spaventarla, la furia era troppa, alimentata dalla gelosia, dall’odio dei ricordi frammentari, e dalle rivelazioni della stessa Amber. Però, all’inizio, ero stato più che disposto a ragionare. In fondo, solo il giorno prima, io volevo vendicare l’amore malriposto di Tony, quanto il mio. Ma questa sera al ballo, dopo aver messo Mark sul taxi, come spinto da un’ipnosi avevo proposto un giro di valzer alla mia nuova dama. Lì nel cortile. Sam mi aveva guardato con quegli occhi timidi e languidi insieme, e avevo mandato alle ortiche propositi e buon senso baciandola sul collo, promettendole che ci saremmo rivisti prestissimo, e, infatti, quando l’avevo lasciata sul vialetto
buio di casa sua, lei si era attardata a salutarmi con una carezza bollente sul viso, che, bruciava di più, delle escoriazioni di adesso. Dopo ero tornato alla festa riaccompagnando mia cugina in albergo. I suoi occhi erano accesi di entusiasmo e anche i miei, avrei voluto confidarmi con lei. Mi sentivo sempre bene con Reb, ma sapevo che non potevo farlo, così, alla sua domanda scherzosa: «Perché sei così di buon umore Eddy? Sorridi come uno scemo!» Avevo risposto con un ghigno obliquo e un bacio sul suo zigomo perfetto. Lei mi aveva scrutato intensamente, poi, era scoppiata a ridere, scendendo dalla mini agitando a mo’ di saluto il nastro vinto con la scritta: “La coppia di primavera”. Per poi sparire in fretta attraverso la porta girevole dell’ingresso. Quindi no. Quando, Tony Somerset, tornato dal regno dei morti, mi si era parato davanti mentre lo placcavo credendo fosse un ladro, non avevo avuto empatia: era scomparsa, seppellita, inghiottita dalla gelosia, dal feroce possesso. Da questa sera io rivolevo la mia Samy, e lui era solo un rivale con la mia faccia, o meglio, io con la sua. Grugnii, infastidito, al ricordo dello sgomento di quando mi ero reso conto della nostra somiglianza strabiliante anche nel fisico. Ma, tuttavia, avevo reagito male davvero, solo quando lui mi aveva attaccato rendendosi conto che Sam l’aveva appena scambiato per me, e, così facendo, aveva dato fuoco alla miccia della mia ira: perché, adesso sapevo, che l’aveva baciata anche stanotte. E, anche adesso, non ne aveva alcun diritto. Samy aspettava me, non lui! Così, accecato dalla gelosia avevo confessato. Sì, confessato di essere Steve. Gli avevo sputato in faccia il mio odio per i suoi tentativi di sedurre la mia ragazza quando lei era fidanzata con me. Lui mi aveva rigettato tutto addosso, sostenendo che, io, invece, l’avevo rubata a lui con i miei sotterfugi, e che, adesso, con la sua faccia, completavo l’opera. Da lì a venire alle mani seriamente, il o era stato molto breve. Amber si era svegliata mentre distruggevamo l’ingresso lottando. Non riuscendo
a calmarci - seppur scioccata- era riuscita a chiamare Reb, e, noi, non ce n’eravamo neanche accorti, intenti a darcele di santa ragione. E adesso? Adesso avevamo spaventato Rebecca, tanto che era svenuta. Il senso di colpa m’invase di nuovo, prepotente. Mi avvicinai al dondolo, Tony si era seduto e l’aveva adagiata sdraiata con la testa sulle sue ginocchia, adesso le carezzava una guancia chiamandola dolcemente. «Reb tesoro, scusami... sono Tony, sono vivo sorellina!». Non li raggiunsi, di nuovo fui trattenuto, questa volta era Amber, vedendo Tony prendere Reb era corsa dentro e ne era uscita con un asciugamano bagnato e un bicchiere di cognac, che aveva posato vicino a loro sul tavolino, e ora, si stava premurando, di trascinarmi in casa, e, forse, aveva ragione lei. «Eddy, ti prego, stai sanguinando, vieni dentro...c’è...Tony con lei. Credo sia solo lo shock, è normale, anche io prima stavo per svenire!» fu scossa da un brivido; d’istinto l’abbracciai alle spalle, e lei mi sorresse per la schiena. Accorgendomi che anch’io barcollavo, mi feci condurre volentieri in cucina.
Samantha
Di certo non ero più riuscita a dormire, due notti prima, e avevo avuto l’intero week end per pensare alla mostruosità di quello che aveva fatto Edgar Carlton. Fingersi Tony per intrufolarsi nella mia stanza e saltarmi addosso, era stato a dir poco schifoso! Insomma, diciamo che gli sei saltata addosso tu, per essere precisi... Una vocina irritante, voleva farmi vedere le cose sotto una prospettiva meno estrema, ma non le davo retta.
La verità era sotto i miei occhi, lui mi aveva chiamato Isy! E, poi, il suo aspetto trasandato, le sue insistenze nel dire: “Sono io! Tony!”. Tutto deponeva a suo sfavore, ed era una fortuna che me ne fossi accorta, «prima di...». «Prima di...cosa?». Non mi ero resa conto di aver parlato ad alta voce, riscossa dai miei pensieri mi ero girata. Le chiavi della jeep mi ciondolavano in mano, ero nel parcheggio della scuola. La testa cominciò a girare talmente forte che allungai una mano per sorreggermi allo sportello chiuso. Un flotto di calore, incredulità, paura, angoscia e sollievo. Lui fece appena in tempo a sorreggermi, e poi fu tutto indistinto. La voce mi giungeva ovattata, ma stavolta non potevo pensare che fosse una squallida imitazione, perché avevo visto i suoi occhi che rubavano il colore al prato appena tagliato del campus, i capelli chiari dai riflessi caldi. «Isy? Tutto bene?!». Non ero caduta, mi sosteneva abbracciandomi, e le gambe cominciavano a rispondere di nuovo, battei le ciglia e lo fissai, aveva una ferita escoriata sulla tempia, il labbro un po’ gonfio con un taglio ancora semiaperto all’angolo della bocca, e ombre violacee ai lati dell’occhio destro mentre un cerotto faceva bella mostra di se sul sopracciglio sinistro. «I...io?! E tu?! Sei, sei v...vivo! E... e... ferito! Non è possibile... non è possibile! Sei morto! Hanno detto... hanno detto che...». Nel parlare mi divincolavo scuotendo la testa come impazzita, lui mi mollò subito. «Ero disperso...non morto. O meglio, mi sono salvato ma non mi hanno trovato, stavo su un isola e...». «Un isola?!» Strabuzzai gli occhi credendo di sognare di nuovo, era troppo assurdo! Convinta che presto mi sarei svegliata iniziai a protestare sibilando: «E’ un sogno, uno stupido, patetico, sogno!» mentre mi davo un pizzicotto al braccio con tutta la cattiveria che avevo, ma, il risultato, fu solo un urlo di dolore: il mio. «Ahi!», maledizione! Era reale! Ma come poteva essere?
Lui aveva spalancato gli occhi, e teso un braccio per fermarmi, ma ero stata troppo veloce. «Samantha, ma sei impazzita?! Ti sei fatta male?!». Io, alla sua affermazione, scoppiai in un riso isterico, il mio cervello si difese dallo shock con della becera ironia: «Io?! Tu hai la faccia maciullata, fantasma Somerset!». «Isy, è lunga da spiegare...e comunque...lasciamo perdere...» Fece un gesto stanco e impotente con le braccia desistendo dal darmi altre spiegazioni. Lasciamo perdere?! Ma i fantasmi, sono anche matti? Non lo sapevo, era il primo che incontravo. Mi ripresi un po’, aiutata dalla mia sdrammatizzazione, e poi, una strisciante consapevolezza mi prese: «Allora eri veramente tu... l’altra notte!». «Sì». «Io non...», non finii la frase che lui mi interruppe agitato: «Sì, lo so, credevi fossi Edgar, il mio...il tuo...Dio che casino!», sputò l’ultima parola con un respiro corto e secco. I suoi occhi si affilarono, ma anche i miei. Adesso il sollievo di vederlo vivo si stava diffondendo, e insieme ad esso, l’antico desiderio bruciante, ma anche la rabbia. E’ successo. Di nuovo. Di nuovo, mi aveva baciata di sorpresa, e, di nuovo, gli avevo ceduto, per errore di persona stavolta, ma era veramente così? Non lo sapevo. «Sono qui per...per sapere Isy...ss-so che sei sconvolta ma, devo farlo!» Esitando un secondo si ò distrattamente la lingua sul labbro spaccato, fece una smorfia di dolore, e io, contro ogni logica, gli toccai le labbra come per lenirla, mossa da un istinto insopprimibile che mi turbinava dentro, fu un attimo, lui mi attirò a se. «Dio! Isy! Lo sapevo. Lo sapevo! So che mi appartieni!».
Aveva un altro profumo addosso, non l’acqua di colonia che ricordavo, inspirai e quando il suo respiro caldo ò dall’orecchio, a cui mi aveva parlato, alla guancia, strizzai gli occhi e mi divincolai. Il mio corpo lo ricordava bene...ma il mio naso mi aveva dato uno scossone, indossava il profumo di Edgar, lo stesso del ballo, rividi le labbra di lui sul collo, gli occhi d’ambra bollente così simili a quelli di Steven, Dio, mi sembrava di essere risalita sulle montagne russe! Steve e Tony e ora Tony e Edgar, sembrava una maledizione, e stavolta era peggio. Molto peggio. Stavolta erano anche praticamente identici! Ma lassù, erano impazziti tutti quanti? No, dico, va bene sperare nei miracoli, ma quando questi non sono incubi! E adesso, adesso non c’era un precipizio abbastanza alto, toccava rimboccarsi le maniche e vivere; un brivido freddo mi percorse, avevo meno paura prima di saltare giù dalla scogliera.
Immagino che con queste premesse il mio comportamento dei giorni successivi o, meglio, delle settimane successive, potesse essere scusato, eppure, eppure un’angolino del mio cervello mi diceva che me l’ero cercata. Cercata davvero. Non ressi allo stress, ma non nel mio modo consueto, scappando, gemendo e autodistruggendomi. No. Alle sue parole apionate quella stramaledetta mattina risposi: «Io appartengo solo a me stessa! Adesso basta. Basta davvero! Te la dico io la verità una volta per tutte!». In quel parcheggio dissi a Tony tutto il fatto suo, con insulti e accuse, cattiverie che, a dirla tutta, non meritava affatto, ma erano un balsamo per me che non volevo crollare e sbavargli dietro, perché era vivo e pronto a ricominciare a tormentarmi, nè permettere più che, due ragazzi dall’aspetto ipnotizzante, con le loro moine, mi fero girare come una trottola.
Per fare ciò mentii a lui, e poi, a Edgar Carlton che, replicò, le azioni di Tony nel parcheggio, appena mi vide a mensa quel giorno. Mentii anche a me stessa. Li respinsi beffardamente esultando della mia forza d’animo, assumendo atteggiamenti e toni da egoista superficiale. E loro se la bevvero tutta, e non potevo darne torto, a nessuno dei due, infondo avevo baciato e allontanato Tony, già una volta, mentre ero impegnata con un altro. Questo comportamento poteva essere frainteso facilmente e, considerato egoista e cinico, non conoscendo l’intera storia. Edgar Carlton, poi, mi conosceva poco, e, comunque, prima del ballo, già mi mal sopportava. Quindi, fu semplice soffocare i miei sensi di colpa per tutte le cattiverie false e gratuite che avevo rovesciato addosso ai due ragazzi, respingendoli ferocemente. Facendogli credere che, ero una meschina, che non aveva mai amato veramente nessuno, se non se stessa. Era semplice, almeno fino alla notte, di ogni singolo giorno, che trascorrevo piangendo ficcandomi il piumino in bocca per soffocare il rumore per non far preoccupare mio padre, che, obiettivamente, ne aveva ate già troppe a causa mia. La verità era tutt’altra. La verità era che la punizione era arrivata puntuale, e peggiore della morte che, volevo infliggermi, poco tempo prima. La verità mi trovava spaccata a metà, come se mi avessero diviso in due, con la spada della giustizia, per porre fine alla contesa di due spasimanti rivali. Una metà amava Edgar. Una metà amava Tony. E io dovevo solo cercare di sopravvivere con questo peso nella testa e nel cuore, lasciando perdere tutti e due. Ma, stavolta, senza dare speranze a nessuno. Questa lezione l’avevo imparata, me l’aveva impartita la morte di Steve e quella
presunta di Tony. Quando ripensavo a Steven, sentivo la ragione del mio nuovo e inaspettato sentimento per Edgar, perché il mio primo e unico ragazzo lo avevo amato, e se Tony Somerset non mi fosse mai venuto a cercare, se Steve non fosse morto, forse sarei stata con lui per sempre. Ma questo ragionamento era duplice e mendace, in fondo lo sapevo, e mi odiavo per questo. Perché amavo Edgar non solo per le sue assurde similitudini con Steve, ma anche per il suo viso identico a quello di Tony! Ed ecco che i miei ragionamenti si concludevano ancora lì, ancora spezzata in due, e le lacrime che potevo versare nel buio non erano mai abbastanza. Ma, almeno, di giorno era diverso, potevo resistere alla loro attrazione e alienarmi la loro stima, o meglio, allontanare da me Edgar Carlton. Tony, dal giorno del suo ritorno, non l’avevo più visto, e certamente mi mancava, ma fino al momento del puntuale crollo notturno non osavo ammetterlo. Quando, una mattina di quattro settimane dopo, mentre in barba ai miei bei propositi cedevo e mi perdevo pensando segretamente a Tony. A mensa non capitò l’inaspettato. «I suoi occhi verdi...» emisi un sospiro di emozione, lasciandomi scappare l’affermazione ad alta voce, Ania, un amica, mi fissò perplessa -e ne aveva tutte le ragioni- mentre parlavo a me stessa più che a lei, fissavo Carlton (attenta che non se n’accorgesse). Ed era noto a tutti che lui aveva gli occhi castano dorato. Ma non dovei spiegarle nulla, perché la porta della mensa si spalancò, e nella sua luce si stagliò Tony, che con un’occhiata truce di giada mi percorse quasi a spogliarmi. Ma dove era finita la compostezza di Somerset? Ania era allibita, e anch’io. Ero furiosa, sebbene mi meritassi quel comportamento scortese. Furiosa con lui e, con il mio corpo, che lo riconosceva, grato di rivederlo.
Sentii qualcuno sferrare un pugno al tavolo, mi girai, Edgar fissava feroce Tony e me, ma quest'ultimo sogghignò e finì la sua sfilata sedendosi di fronte a lui e parlando abbastanza forte da farsi sentire da me che, ero attentissima, ad origliare: «Tranquillo cugino, non le dare soddisfazione!». Le sue parole dure, di ghiaccio, mi traarono. Ania, in trance, invece non lo aveva ascoltato. «Oh. Mio. Dio! Ma Carlton ha un gemello? I suoi occhi chiari... Ehi mi sciolgo come il burro accidenti! Ecco di chi diavolo parlavi!» era esterrefatta e, io pure, di ritrovarlo nella mensa della mia scuola di Winter Harbor. Benissimo! Adesso era qui anche lui, e...mi odiavano in due! Era quello che volevi Sam? No-oo?! La porta si aprì di nuovo ed entrò Rebecca Somerset, seguita da sua cugina Amber. Ma perfetto! Sembrava che mezza Dallas si fosse trasferita qui. Tutte e due ci ignorarono per andare a sedersi vicino a i due ragazzi, il loro tavolo si animò immediatamente di calore e risate, attirando gli sguardi invidiosi e ammirati di tutti. Sembravano uno spot pubblicitario vivente: quattro splendidi amici a pranzo. Ma quando vidi Edgar guardare con dolcezza Reb e scostarle una ciocca d’oro dalla guancia per rimetterla dietro l’orecchio, distolsi lo sguardo con un piccolo gemito. Adesso sapevo che Edgar non era il vero cugino di Rebecca, ma la somiglianza di lui con Tony era incredibile. E infatti, Ania asseriva proprio in quel momento - felice di spettegolare un po’- che dopo il ballo aveva sentito dire che lei non era una vera parente. Le stesse dicerie frammentarie che avevo colto anch’io. Nessuno aveva approfondito le informazioni, stava continuando a dire, ma le attenzioni di Edgar per la sorella di Tony adesso mi apparvero sotto una nuova luce.
Non avevo il diritto di essere gelosa, non io, che amavo due persone contemporaneamente e le avevo deluse tutte e due, volutamente. Valla a dire alle mie viscere contorte questa bella favoletta... Mi trascinai a scuola, giorno dopo giorno, per le due settimane successive, e ogni volta ero testimone dell’indifferenza dei Carlton-Somerset e delle occhiate di comione di Ania che, non aveva capito bene chi amassi dei due, ma a cui non riuscivo a mentire altrettanto efficacemente. Fin quando, una mattina, entrando nell’aula di chimica, non trovai l’intera classe intenta a fare un capannello vicino al banco di Brooke: la ragazza, soprannominata “gossip girl” che era il guru di riferimento per ogni succulento pettegolezzo. Sbuffando, annoiata, mi diressi al mio banco felice che fosse vuoto, e che, Edgar, avesse cambiato posto da tempo, sedendosi vicino a Rebecca. Ma nè i Carlton, nè i Somerset erano in classe al momento. E fu un bene, perché, quello che udii, non volendo, da Brooke, mi avrebbe fatto schizzare d’istinto da Tony a chiedergli spiegazioni: in barba ai miei, composti e ragionevoli propositi, di lasciarlo perdere. «Ma sì! Vi dico! E' vero! Hanno dato l’annuncio del fidanzamento al “Lodge”, tre giorni fa, e Cindy l’ha anche vista! Pare sia bellissima: bruna, sui venti, e innegabilmente incinta di almeno cinque mesi!». La ragazza soffocò un urletto prima di proseguire con aria cospiratrice: «Chissà se la sposa prima, o dopo, la fine dell’anno scolastico! Certo che perdere un partito come Tony Somerset è un brutto colpo per tutte noi! Ma chi ce lo vedeva come uno da matrimonio riparatore?! Dio che darei per stare al posto di quella là! Mi sopporterei pure due gemelli!», Brooke ridacchiò, e le sue amiche gli fecero eco, i ragazzi sbuffarono annoiati e poi tutti tornarono a sedere, perché, nel frattempo, era entrato il professor Cortes, mentre io…beh io ero sconvolta, e, anche adesso, senza averne nessun diritto, pensai mentre due lacrimoni scendevano lungo le guance, e non vedevo più niente. La gelosia di poco prima era nulla: adesso ero dilaniata, annientata da un mostro feroce che mi faceva morire e desiderare di uccidere contemporaneamente. Piegata in due, cominciai a rovistare nello zaino in cerca di un fazzoletto e, quando riemersi, da sotto il banco, asciugandomi gli occhi sperando che il
mascara non fosse colato, rendendomi più patetica di quanto non lo fossi già, vidi solo una mano che mi tendeva un altro fazzoletto. Apparteneva al mio ex compagno di banco che, proprio adesso, aveva deciso di sedersi ancora vicino a me. Allontanai la sua mano con stizza. «Non mi serve, grazie!» poi continuai irritata, forte della rabbia interna contrapposta al dolore della gelosia: «Che ci fai a questo banco?!». «Infrango le regole» rispose a denti stretti. «Cosa?!» ribattei pronta, ma lui mi aveva già afferrato il mento e, sfruttando il fatto che il professore era voltato a scrivere alla lavagna, mi aveva sibilato: «Perché piangi? “Miss Senza-Cuore”?». «Non sono affari tuoi!» avevo risposto col cuore che mi si spezzava nel petto, ma continuava a martellare con troppa vitalità, come se volesse urlargli che invece c’era e sanguinava. «Ah. No?! Forse... Hai saputo la notizia del momento? Sto per diventare zio. Non sei contenta? Oh... scommetto che piangevi per la felicità giusto?!». Aveva lo sguardo affilato e duro, eppure, era come una maschera, fissavo quegli occhi d’oro e ci vedevo solo rabbia, ma dietro c’era qualcos’altro. Dietro c’era la comprensione di...Steve. Lo stesso Steven che non riusciva mai a portarmi rancore anche quando ero capricciosa e volevo fare a modo mio. Ma era Edgar, non Steven, e paragonarlo a lui mi faceva stare peggio. Perciò mi divincolai, ma lui aumentò la stretta solo per continuare a torturarmi. «Dimmelo Samy! Dimmi che non stai piangendo per mio cugino...sarebbe troppo anche per una come te!» Erano parole dure, affilate come rasoi; eppure, perché non sentivo niente altro che la parola: “Samy”?! Chiusi gli occhi, e, non vidi più Edgar, ma il viso di Steve: così diverso e altrettanto bello. Era la sua voce, il suo modo di chiamarmi, mi cullai nell’irrealtà della sua presenza, prima di riaprire gli occhi e scoprire che, Edgar aveva mollato il mio viso, per sogghignare, raccogliere le sue cose in fretta, e
trasferirsi, di nuovo, lontano da me. Era appena entrata Rebecca Somerset, e, il sorriso di lui, da smorfia sprezzante, si era trasformato in un’aperta e sincera espressione di serenità, mentre l'accoglieva al loro banco. Strinsi gli occhi per non vedere oltre, poi li riaprii e alzai la mano. «Sì? Signorina Lee?» rispose pronto al mio gesto il Professor Cortes. «Mi scusi, non mi sento bene, vado in infermeria». «Ma certo...» fece conciliante l’insegnante preoccupato. Ma non ascoltavo già più. Ero scappata via, adesso, le mie lacrime erano anche per Edgar e bruciavano maledettamente, non ero disposta a fargli vedere anche queste.
2 Tenera è la notte
Samantha
Mi rigiravo nel letto, inquieta, le gambe scalciavano le lenzuola, nervose, incuranti del fresco della notte primaverile di Winter Harbor, che mi lambiva con volute simili, a tentacoli gelidi, le gambe lasciate scoperte dai miei shorts del pigiama. Pensavo, sognavo. Un misto fra coscienza e onirico, fra angoscia e oblio, in cui, qualche volta, il pensiero deviava verso lidi dolci, dove era facile perdersi. Perdersi: in due volti identici, in due sguardi troppo diversi, in due corpi che mi chiamavano a loro come fossero calamite staccate dal ferro della mia pelle. Dio, volevo strapparmela questa carne incoerente! Che faceva il paio con la mente e con il cuore. Non sopportavo il grigio: era subdolo, egoista, meschino. L’amore per me era bianco o nero. Se c’era: era totale assoluto, solido, pieno, appagante. Se non c’era: era vuoto, indifferente, senza mezze misure. Ero questa persona, lo ero sempre stata, e, dopo il primo bacio con , al parco, questa certezza si era sbriciolata in schegge che mi perforavano il cuore e la testa. Le avevo combattute aspramente queste spine che mi punzecchiavano la ragione. Eh sì! Io avevo il controllo di me stessa.
Io potevo decidere! Non la mia incoerenza: i stramaledetti ormoni di una ragazzina infantile! La mia battaglia si era conclusa con il dolore. Puro, liquido dolore, che aveva quasi cancellato il mio io: ciò che volevo essere nella vita, ciò che volevo fare. Edgar Carlton: lo scherzo del mio destino. L’incubo e il miracolo, il ragazzo ibrido del mio rimorso. Lui, con le sue diffidenze, la sua tagliente ironia, l’astio ingiustificato per me, e, il suo fascino, l’inaspettata dolcezza, la sua protezione. Mi avevano riportato, o dopo o, a me stessa, a una vita che volevo proseguire. E ora? E’ tutto di nuovo orribile. Gemetti, e, il suono si trasformò in un singhiozzo. Lo soffocai con un pugno premuto in bocca. «Tony... Dio, Tony!» Lo dissi circospetta verso me stessa: mi vergognavo a farlo sentire alle mie stesse orecchie. Perché questo sentimento dilaniante non dovevo provarlo, ora, come non avrei dovuto, allora. Ero sfinita. La testa pulsava, inesorabilmente, mentre mi avviavo alla mia ennesima notte insonne. Gemetti di più, e, alla fine, spalancai gli occhi e decisi di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non continuare a piangermi addosso. Balzai dal letto, e come un automa arrancai verso il bagno; sapevo di essere quanto meno fuori di me, ma, andarmene a gironzolare di notte per smaltire l’angoscia, non era peggio che restare a fissare il soffitto, alternando veglia e incubo, con un bel condimento di sensi di colpa. Mi spruzzai acqua fredda sul viso, raccolsi frettolosamente i capelli in una coda, e mi fissai allo specchio: avevo pesanti occhiaie e il naso rosso. Girai gli occhi, infastidita, posando distrattamente lo sguardo sulla gruccia appesa alla doccia. Il vestito che avevo indossato, a scuola, per il primo colloquio con i rappresentanti dei college, era lì, appeso ad asciugare.
Lo toccai, era asciutto, morbido, senza pensare mi sfilai il pigiama e infilai l’abitino dalla testa: era a maniche tre quarti, leggermente scollato. Il tessuto abbastanza pesante permetteva di evitare il reggiseno, e la gonna ampia e svasata arrivava un po’ sopra il ginocchio. Perfetto, così sono già vestita! Solo una boccata d’aria fresca per schiarirmi le idee, poi, in un baleno, sarò di nuovo in pigiama e a letto! Mi dissi con la speranza di riposare un po' questa volta. Ma, quando, lo sguardo ò ai miei piedi calzati nelle pantofole, feci una smorfia. Non potevo mettere le All-Star con quel vestito, e i tacchi avrebbero svegliato Ted. Un lampo, un idea: ballerine! Eccitata, dalla consapevolezza di aver trovato delle soluzioni pratiche, che mi distoglievano la mente dalle ragioni della mia fuga, mi affrettai ad infilare le scarpe, e, a o felpato, scesi la scala. Chiudere piano la porta, per non fare rumore, mi richiese, una goccia di sudore freddo, che si tuffò dalla fronte per finire sul pavimento, ma, adesso, ero fuori sul portico illuminato dal lampione. Oltre quella luce circoscritta: il buio e il silenzio assoluto rotto solo dal frinire degli insetti e da qualche richiamo degli uccelli notturni. Ma che stavo facendo? Dove credevo di andare sola, al buio? Scossi la testa e cercai di ragionare, il buon senso cozzava con la voglia di correre, magari prendere a calci qualcosa, tutto pur di sfogarmi, di costringermi a prendermela con il mondo, e non con me stessa autodistruggendomi. Ma Winter Harbor è una noia mortale mi stava ripetendo adesso una vocina maliziosa che voleva proseguissi imperterrita nei miei intenti. Una eggiatina non mi avrebbe ucciso. Sottolineai con un alzata di spalle il pensiero, strinsi gli occhi, scesi i tre gradini del portico e, mi ritrovai avvolta nella luce soffusa del lampione, allora, con gli occhi fissati alla punta delle scarpe, feci, i quattro i necessari affinchè m’immergessi nel buio, rischiarato solo dal bagliore della luna e dell’alba, che cominciava a rendere il cielo da nero a grigio caldo; la stoffa blu scuro che indossavo, mi rendeva,
quasi, mimetizzata con le ombre se non fosse stato per la mia pelle pallida. Continuai a camminare, beandomi dell’aria fresca che, asciugava la fronte madida, lenendo le guance arrossate dal pianto. Seguii il marciapiede, cercando di sgombrare la mente, poi svoltai a destra e mi inoltrai per il sentiero, altri i, foglie morte e ghiaia gemevano sotto le suole sottili delle ballerine nere. Non badavo molto al percorso, concentrata com’ero sulle sensazioni piacevoli. Mi concessi di percorrere tutto il viottolo al riverbero dei lampioncini solari disseminati sul percorso in modo regolare, nonostante, la desolazione fosse opprimente, alla vista delle sagome del parco giochi, che, si stagliavano tristi, nella foschia. Eppure, io mi sentivo, meno sola lì, che dentro al mio letto a tormentare le lenzuola con la mia angoscia. Scorgendo il pino più grande che, delimitava a nord il parco, vicino a una delle panchine, dovetti fare i conti con la realtà. A chi la raccontavo? Nel mio incedere, quasi sonnambulo, ero finita nel posto in cui erano iniziati i problemi. Ma quale voglia di evadere? Stavo semplicemente scavando nel torbido, non risalendo la china. Mi scappò un singhiozzo disperato e, senza accorgermene, corsi ad accasciarmi lì, schiena all’albero che mi aveva spinto fra le sue braccia. Seduta sulla sporgenza della radice più grande, incurante di sporcare il vestito: inadatto a un simile sedile. Scalciai, con rabbia, il piccolo tentacolo nodoso che riconobbi, anche nella penombra, davanti alla punta del mio piede. Era, quel pezzo di radice, il primo responsabile della mia perdita di controllo. Chiusi gli occhi. Cercare capi espiatori era davvero il mio forte! Ero bravissima
in questo! Un sorriso amaro mi increspò le labbra. D’improvviso, un secco crepitio, mi fece voltare di scatto, in meno di un secondo, un flotto di calore potente m’inondò le membra irrigidite dalla tensione. Era l’adrenalina. Era la paura. Ero sola al buio, o meglio: non più sola ormai, ma indifesa sì. La ragione e l’istinto alla fine avevano prevalso. Cercai di alzarmi, il più repentinamente possibile senza far rumore, scrutando la penombra fitta e rotta solo dal chiarore dell'albeggio e dal bagliore dei lampioncini lontani sul sentiero che, adesso, mi sembravano una via di fuga fatta apposta per me, ma, non ero, un aereo che doveva atterrare su quella pista male illuminata, ero un uccellino indifeso senz’ali per volare via. Merda! Ma perché non sono un maschio alto due metri e grosso come un armadio? Almeno, in quel caso, l’essere imprudente non sarebbe stato tanto pericoloso. Ma era tardi per le recriminazioni, dal viottolo avanzava una sagoma scura contro luce, che, davvero, ai miei sensi preoccupati, parve minacciosa, più che altro perché, era evidente, che si trattasse di un uomo, e, anche alto e ben piazzato. Appunto! Calmati Sam! Razionalizza! Sarà un custode. Magari un volontario per la ronda di quartiere, O uno spazzino! Sì! Di quelli che vuotano i cestini! Non ha sacchi della spazzatura con se...non potei far a meno di osservare, sempre più allarmata. E' ridicolo! Winter Harbor è sicura, non è Dallas! Mi ripetei ancora, tentando di calmare, il tremito delle gambe.
Casa è vicina... Se grido forte, Papà mi sentirà, deve! Ma avrò il tempo di gridare? Adesso tremavo tutta, ma le mie mani erano strette a pugno. Attaccare per prima: questa è la miglior difesa! «Ehi! Chi c'è là?!». Per tutta risposta mi giunse una specie di grugnito iroso, e poi, lo sconosciuto iniziò a correre nella mia direzione. Panico. Puro e destabilizzante: non ragionai, agii d’istinto. Un grido isterico proruppe dalle mie labbra. Sembrava avessi visto un fantasma, o un cadavere, e l’avevo visto, certo! Avevo immaginato me stessa morta per mano di un maniaco. Mentre gridavo, avevo chiuso di riflesso gli occhi, quando li riaprii, una mano bollente mi tappava la bocca; sarei svenuta dalla paura, se, non fosse, che avevo perfettamente riconosciuto il profumo di quella pelle premuta sul mio naso, e la voce preoccupata che mi urlava nell’orecchio. «Maledizione Isy! Ma che diavolo ci fai al buio nel parco?!». La sagoma, indistinta, che adesso era reale dietro di me, riprese fiato e continuò, soffocato ora, ma, sempre più iroso e frustrato: «Dio! Samantha! Potevi incontrare chiunque! Sei una stupida incosciente!». “Stupida” capii quella parola. Quella, la distinsi bene, nella nebbia della mia mente. Sì, perché l’adrenalina dentro di me era ai picchi massimi. Tony mi stringeva con la mano la bocca e con l’avambraccio la clavicola, e, io mi ci ero istintivamente aggrappata, nell’iniziale intento di liberarmi, e, tutta la paura, e la preparazione allo scontro del mio corpo, aveva trasformato il mio essere in una bomba d’emozione, che, adesso, con il panico non c’entrava più nulla. Il cuore palpitava e stava per mettere le ali e fuggirmi dal seno, le gambe erano
molli, e lui si era rimesso, lo stramaledettissimo suo vecchio profumo. E cavolo, a quello, era estremamente difficile rimanere indifferenti. Mi ricordava , lo stesso posto, inondato di sole calante. Mi ricordava le sue labbra, e la voglia di scordarmi che esistesse altro, oltre a quella sensazione sublime. Mi ricordava il mio senso di colpa. Stupida. Sì, lo ero davvero. Adesso, avevo la prova, inconfutabile, che ero perfettamente al punto di partenza, lacerata in due: una maledizione, una condanna da cui non mi sarei liberata mai... a meno che... Fu, un lampo nella mente, ma bastò, tutto il mio essere all’erta lo registrò, trasformando, definitivamente, in languore bollente tutta l’adrenalina nelle mie vene. Lasciai indietreggiare il mio tallone, rilassai le spalle contratte, feci leva sul suo braccio solo per farmi mollare la bocca dischiusa, da cui non provenivano suoni, e, smisi, definitivamente, di opporgli resistenza. Mi appoggiai a lui con la schiena, lasciai che la curva morbida del mio corpo si fondesse con le sue gambe, che le spalle si posassero al centro del suo torace, che i miei capelli sfiorassero la sua clavicola. Cosa stavo facendo? Quell’attimo di consapevolezza aveva deciso per me: c’era un unico modo per sapere la verità sui miei sentimenti. Il più pericoloso e doloroso, ma sperai: non per lui. In tutti casi avrei regalato qualcosa a entrambi: a me una consapevolezza e a lui qualcosa di prezioso. Sempre che l’avesse voluto ancora. Dovevo riuscire, e, il mio corpo, in quell’attimo, mi disse che non era affatto difficile assecondare la mia decisione.
Anche se mi faceva ribrezzo, comportarmi in una maniera così scorretta verso la sua fidanzata, la scelta era: impazzire nel dubbio o trovare finalmente la risposta, e dovevo andare fino infondo per cercarla. Lo avrei sedotto, e non mi sarei fermata, anche se significava are la notte con lui. «Non sono sola al buio, adesso, ci sei tu, giusto?». La voce mi tremava dallo spavento, e non sapevo se, era più paura residua, o eccitazione per i miei, improvvisi, quanto insensati propositi. Oppure, più semplicemente, era il calore che emanava il corpo premuto dietro di me, che mi faceva fremere tanto, da farmi incrinare la voce. Bella seduttrice! Ma sperai fosse lo stesso. Può funzionare? Adesso mi odia! Ama un'altra, la sposerà e avrà un figlio con lei. Che stai facendo Sam? Stavo per cedere e ritrarmi, scappando, come sempre, dall’orrore della realtà, proprio ora che avevo deciso di attaccare, vivere l’emozione, saggiarne le conseguenze; e, invece, all’unisono col mio pensiero, lui bisbigliò emozionato al mio orecchio: «Che stai facendo Samantha?» per parlarmi era affondato con le labbra nella parte interna di questo, e, la sua voce, seppure un sussurro, mi rimbombava nel petto, nella testa, nel cuore. «Tu... io, credo che lo sai!». Un fremito delle stesse labbra che non si erano allontanate: un solletico potente che si irradiava alla stregua di una scossa elettrica fino alle tempie, annebbiandomi, e, nello stesso tempo, stimolando la mia tensione. Ero pronta a scattare, ma non per fuggire. «Forse sì, ma, a questo punto, devo dirti di nuovo, di chieder...». Lo sapevo! Sapevo cosa stava per dire: era il déjà-vu di quel pomeriggio.
Tutto lo era: il posto, noi due, perfino -in qualche modo- la nostra conversazione. Stava per dirmi di chiedergli di baciarmi! Tutto identico, tranne la conclusione: quella doveva essere per forza diversa. E...o agivo ora, o me ne sarei pentita, e non l’avrei fatto più. Quindi, chiamai a raccolta tutto il mio coraggio, scollegai la testa, la ragione, Sam Lee, e la sua razionalità, lasciai entrare solo l’istinto. Non gli feci finire di parlare, con un braccio proteso all’indietro, gli artigliai il ciuffo di capelli alla sommità della fronte, mi girai e gli incollai le labbra alle sue, mentre, con l’altra mano lo serravo alla nuca come quel giorno...sì, esattamente, come quel giorno. Io, l’avevo baciato, ma, non era per un caso, stavolta. Io, gli mordevo le labbra per costringerlo ad aprirle. Io, stiravo le mie, in un sorriso stentato che, voleva essere trionfante, quando lui, gemendo mi obbediva, e spalancava la bocca per accogliermi. Più che trionfante... il mio sorriso a dire il vero era imbarazzato: come ghigno malizioso da seduttrice non era granché in effetti. Ma ebbe lo stesso effetto, quando, mi ritrovai incollata a lui, e la notte si fu trasformata in giorno, tanta era la luce dentro le mie palpebre serrate. Le aprii, e a quella reale e fioca, vidi due occhi grigi come l’acqua del mare all’alba. Sapevo che, se avessi aspettato, si sarebbero tinti del colore della chioma dell’albero, che ci ombreggiava dalla luna. «Isy, se non è ciò che vuoi...ti scongiuro non dirmelo! Non ora, ancora per un momento... No!» Mi tormentava con una mano la coda, facendosela scivolare lentamente fra le dita, e con l'altra scendeva dalla vita al fianco, da questo al profilo esterno della coscia, e risaliva su portandosi appresso la stoffa cedevole del vestito, tutto questo mentre mi baciava, fra una parola e l’altra, tutto il viso, il naso, le guance, la linea del mento; quasi mi mordeva delicatamente, mentre io, non con altrettanta delicatezza, gli afferravo le spalle per assicurarmi che non si scostasse
di un centimetro da me. Capii che non ero disposta a cedere alla paura, non più, quando gli risposi audacemente: «Non ora, e nemmeno fra un po’, andiamo via?». Si fermò di colpo, staccandosi da me, e il mio essere si ribellò, come privato di qualcosa di vitale che necessitava di diritto, piantai i miei occhi nei suoi, erano spalancati e increduli. «Isy, io, non...». Dio! Ma perché faceva il complicato, nell’unico momento in cui non lo ero io?! Poi ebbi paura: e se?... «E’ per...per la tua...fidanzata? Non ti chiedo niente Tony, solo questo momento per noi» Ero definitivamente caduta in basso, eppure non mi sembrava il fondo di un pozzo, era la luce della consapevolezza, per una volta. Lo desideravo, l’avevo ammesso, me l’ero concesso, e solo sviscerando questo desiderio potevo sapere se, era fuso nell’amore che già provavo per lui, o se invece lo consumava in una vampata, lo annientava, restando quel che era, e cioè solo chimica e non sentimento. Detto ciò a me stessa, quindi, feci leva verso di me per attirarlo ancora negli stessi baci. La sua reazione era la risposta. Era stato solo un attimo di paura, ma, sentivo, che in questo momento era mio. Quasi un burattino sotto le mie mani. Annientato dal desiderio come me che, avevo messo da parte tutto, orgoglio, amor proprio, correttezza. Imprigionò di nuovo il mio labbro inferiore tirandolo con le sue labbra fino a mollarlo di scatto, e mi rispose guizzando gli occhi mobili nel mio sguardo diretto.
«No! Non è per quello. Non è mai stato per quello, ma non così, Isy! C’è da parlare, da capire e...». «Dannazione Tony!» gli urlai in faccia le parole e le condii attirandolo a me con più ferocia che mi riuscì. Gli montai, quasi, addosso, cercando di scalarlo aggrappata alle sue spalle. Ma che devo fare di più? A questo punto non lo sapevo...o meglio lo intuivo benissimo, in teoria, ma non volevo provarci lì nel parco, sarebbe potuto venire qualcuno, specie, dopo il mio urlo isterico di poco prima. E...a proposito, ma che ci faceva Tony qui?! Ancora ragionavo, non si sa bene come, sugli aspetti insoliti della vicenda, mentre lui, staccatosi da me un attimo, mi ava le braccia sotto le ginocchia, prendendomi in braccio e parlandomi sulla bocca: «Okay, ricevuto, niente parole!» sottolineò l’intento mentre mi baciava affrettandosi verso il vialetto. Frapposi un dito fra le nostre bocche per parlare e, infrangere la regola, appena stabilita, che aveva finalmente recepito: «Allora qual è il piano?» gli dissi maliziosamente. «Improvviserò, come sei messa con tuo padre, Isy?». «Se non si accorge che sono sparita -e non dovrebbe- va a pesca e torna verso metà pomeriggio» «Okay» Tony, si lasciò sfuggire una risatina sommessa, prima di tapparmi la bocca di nuovo, e io lasciai, che annebbiasse ogni mia razionalità, mentre già scorgevo il suo SUV parcheggiato vicino al marciapiede. Aveva percorso tutto lo sterrato con me in braccio senza ansimare nonostante l’apnea. Notevole. «A proposito, che ci fai qui?» Riuscii a dire fra un assalto e l’altro della sua bocca. «Potrei fare la stessa domanda a te, piccola seduttrice notturna». «Davvero, sono curiosa» lasciai scorrere il dito sulla sua guancia.
Ma da dove mi usciva tanta naturalezza? Possibile fosse solo l’istinto? «Non riuscivo a dormire, ed è uno dei miei posti da riflessioni notturne». «Idem». «Cosa?» Si era staccato per fissarmi, era arrivato allo sportello, mi mise giù e fece scattare le serrature. Lo aprì ed aspettò che mi sedessi, poi si sporse verso di me, prima di chiuderlo. «Cosa hai detto Samantha...?» Parlava piano, cercando di essere serio, ma io, alla luce dell’abitacolo, vedevo tremolargli le labbra in un mezzo sorrisetto trattenuto, e, notavo, finalmente, il colore giusto dei suoi occhi. Avvolsi il suo viso nelle mani, d’istinto, e gli baciai l’angolo della bocca rispondendogli: «Ho detto: Idem, stessa ragione» lui ricoprì le mie con le sue, e, ne carezzò il dorso, per un dolcissimo, breve istante, trattenendole, prima di lasciarmi allontanare, e, mentre chiudeva lo sportello, borbottò: «Ah bene...! Sei una pazza ad andartene in giro sola di notte. Dovrei farti un discorsetto sul buonsenso!». Abbassando il vetro gli sussurrai divertita di rimando con un sorrisetto furbo: «Sola? C’eri tu mi sembra!», «Sì, ero lì. La mia notte fortunata...amor. Samantha» mi rispose, frettolosamente, prima di allontanarsi e, ricomparire, dal lato conducente, per entrare nell’abitacolo del SUV di lusso che, seppur spazioso, d’un tratto mi parve davvero soffocante. Andavo a fuoco accidenti! Era così che era giusto sentirsi? Tutto era nuovo, ma, incredibilmente naturale, una volta che avevo slegato, finalmente, i miei freni inibitori.
Edgar Anthony
Stava accadendo? Dico... davvero? Fissavo i suoi occhi maliziosi, il suo sguardo mi torturava il corpo, ma anche
l’anima. Mi sentivo euforico come un vincitore di una lotteria miliardaria: ero frastornato, eccitato e tremendamente innamorato. Dio come avevo fatto a pensare di riuscire a odiarla? Come mi ero mentito con tanta facilità? Stava accadendo tutto senza raziocinio, logica, o un minimo di coerenza da parte di nessuno dei due, ma, se c’era un giorno in cui il controllato Edgar Anthony doveva mollare il punto: era questo. Niente razionalità, solo istinto, lo leggevo nei suoi occhi questo messaggio, ma, soprattutto, me lo aveva comunicato il suo corpo avvinghiato al mio: un estasi, così profonda e inaspettata, da spazzare via ogni mia voglia di essere logico. Un colpo di spugna: assennato Edgar Junior addio! Benvenuto pazzo Tony! Sì, pazzo di lei! I miei piedi avevano volato mentre la portavo alla macchina e, il resto di me, bruciava, assetato di Samantha. Ma...ecco, non c’ero riuscito, stavolta no. Come mi era sempre risultato facile chiamarla amore! Anche la notte del mio ritorno. Beh, adesso, non...ci riuscivo, mi sentivo scoperto, quasi... usato. Dentro di me sapevo che era strana questa sua reazione: perché sedurmi, proprio ora? Non ero mai stato uno stupido, e, sebbene, perso nei miei sensi, non lo ero neanche adesso, intuivo che non poteva essere così semplice. Samantha aveva dato di se molte facce, fra cui -l’ultima prima di questa- quella dell’egoismo e della superficialità. Era stato acido nelle vene, ma me l’ero bevuta tutta. Le sue parole maligne di quella mattina mi aleggiavano nelle orecchie e non erano state le peggiori che aveva pronunciato. Un incubo vederla, improvvisamente, per ciò che era: un egoista insensibile, una belva che fagocitava il mio cuore e lo risputava infastidita dal suo peso in bocca.
Un incubo durato settimane, in cui il poco ristoro me lo dava il piacere della vendetta. Pat era stato un fulmine a ciel sereno, era comparsa alla mia porta per portarmi la notizia della morte di suo padre e, dirmi che Peter, mi aveva lasciato una piantagione, e una casa, su un’isoletta turistica al largo di Panama. Ero sbalordito e triste insieme, per quell’uomo bizzarro che, forse, mi aveva amato di più di quel che immaginavo. Era così affranta, così indifesa sua figlia, quando l’avevo rivista, che, era bastato un attimo, e avevo preso la mia decisione. Sapevo che il mio cuore era avvizzito come un frutto secco. Dopo la consapevolezza della meschinità di Sam, non riuscivo a provare più niente, o meglio, sapevo che l’amavo ancora, e mi odiavo visceralmente per questo, ma, per il resto, il nulla. Non sarei mai stato un buon compagno per nessuna, lo sentivo, e quindi, perché non offrire a tutti e due: me e Pat. Una scappatoia? Un modo per vivere normalmente nascondendo al mondo i nostri fantasmi? La mia amica aveva bisogno di sostegno, si capiva dal suo sguardo smarrito, e io anche, o non avrei retto i mesi che mi separavano dalla partenza per il college. Non avrei sopportato la mia sistematica crudeltà verso la ragazza che era l’incubo e il sogno della mia vita. E così le avevo proposto un patto: un’esistenza di facciata che si basava sull’affetto e l’amore che avremmo nutrito per sua figlia. Sì, mi disse subito che era una femmina, e l’avrebbe chiamata Charlotte. Lei si era ribellata all'idea inizialmente, ma alla fine, lusingata dalla mia insistenza, aveva ceduto. Non le ero completamente indifferente, anche se, amava ancora, dolorosamente, Mick, la stessa cosa valeva per me, e, sebbene, ci fosse stata solo attrazione fisica tra noi due, e, neanche troppo intensa da parte mia, potevo pregare, e sperare, che bastasse per sempre, o almeno, finché avremmo avuto bisogno l’uno dell’altra.
E poi, così avrei dimostrato a Samantha la mia indifferenza, il mio odio, perché ero terrorizzato che scoprisse, quanto, profondamente aveva conficcato gli artigli nel mio cuore. Tony Somerset non poteva permettersi un tale fallimento del suo orgoglio. Era stata dura, da principio, far digerire ai miei la bugia, ma c’eravamo riusciti. In fondo, era quanto meno plausibile, che fosse successo qualcosa di simile tra di noi: con me smemorato, lei che mi aveva salvato, l’isola deserta e la convivenza forzata. Patricia era bellissima, brillante, con una forte personalità, non era difficile immaginare che fosse la verità dopotutto. E, se lei non avesse confessato, all’ultimo minuto, i suoi meschini propositi, forse, lo sarebbe stata la verità, solo che, in quel caso, basata su un altro tipo di bugia. Ma di notte era il tormento, chiudevo gli occhi e vedevo solo Samantha. Sempre lei, che mi fissava a scuola, che abbassava lo sguardo alle mie occhiate gelide di sfacciato apprezzamento. Mascheravo così lo struggente desiderio di lei, con la becera ironia, con il disprezzo. Edgar, (non riuscivo a chiamarlo Steve) aveva ricevuto lo stesso trattamento da Sam, e non sapevo fino a che punto soffrisse, ma intuivo che era a pezzi. Non le aveva detto la verità sul suo ato, perché lei, nel suo gioco al massacro, gli aveva addirittura rinfacciato la sua somiglianza con Steve Moore informandolo che, nel suo caso, aveva sofferto per la perdita di un amico d’infanzia e non di un vero amore. Dio, quanto doveva averla odiata in quel momento! Forse più di me. Ricordava solo pochi frammenti della sua vita con lei. Questi non bastavano a smentire ciò che “la sua Samy” gli aveva vomitato contro. Ci eravamo trovati così, soli e feriti, come due improbabili alleati, coalizzati contro il mostro che ci aveva stritolato il cuore. Sapevo che Edgar ci stava male, e questo, lo rendeva quasi un vero fratello, molto più della straordinaria somiglianza. Ma adesso? Non riuscivo a essere leale a me stesso figuriamoci a lui.
Ero qui, catapultato in una realtà parallela, in cui, la mia piccola, dolce Isy, era tornata; una visione sensuale fasciata di velluto, nel buio nebbioso delle mie notti a caccia di ricordi dolorosi da usare come pugnali per ferirmi, e, provare di nuovo qualcosa, al posto del desolante vuoto che sembrava inghiottirmi. Ora davanti ai miei occhi increduli, c’era di nuovo lei: l’apionata ragazza che mi aveva baciato vinta dal desiderio, nonostante asserisse di amare un altro, quell’anima affine che avevo sentita mia allora come nel breve attimo, in cui, aveva accarezzato i segni lasciati dal mio scontro con Edgar. Quindi stavo dando retta a questo: al desiderio, al bisogno. Senza pormi domande. Ma poi, in uno sprazzo di lucidità, avevo voluto sapere, indagare, era troppo strano e incoerente ciò che stava accadendo tra di noi. Eppure magicamente -non saprei definirlo diversamente- lei aveva abbattuto ogni ritrosia, ogni pudore o infrastruttura fra noi, e mi aveva imposto di amarla. Amarla e basta! E io potevo solo obbedirle. Obbedirle e basta! Ma potevo ancora chiamarla amore? Potevo, osare, pronunciare ancora quell’appellativo? Il mio cuore si era ricongiunto nei suoi pezzi aguzzi, ma non erano saldi, scalfivano e graffiavano le giunture che ancora sanguinavano. No, non avrebbe retto a un altro colpo d’impietosa accetta. O...forse sì. Se a brandire l’arnese che frantumava la mia anima fossero state le sue mani che adesso mi carezzavano dolci le guance con dolcezza. Sì, forse sì. Forse, semplicemente, per me non c’era più speranza, avrei sopportato altro e peggio, pur di avere almeno un contatto. Perché ero vivo sotto la pelle di velluto che carezzava quella del mio viso. Vivo, come non lo ero da troppo tempo. E mi piaceva... Ne volevo sempre di più!
3 Strani Compagni di Letto
Edgar Anthony
Era mattino inoltrato oramai, la luce filtrava dalle tende smosse dalla brezza leggera, le coprii le spalle nude con il lenzuolo posandole un bacio leggero sulla tempia, non volevo svegliarla ma bearmi ancora un po’ di quell’adorabile vista. Ero stato delicato, eppure al mio tocco lieve si destò lo stesso. Aprì un occhio poi l’altro. Io baciai consecutivamente tutti e due. Lei si sfregò con il dorso della mano palpebra dopo palpebra: lo sfregamento energico delle sue nocche, appena dopo lo sfioramento delle mie labbra. Un sorrisetto le aleggiava sul viso. «Ehi! Dai! Così non...» iniziò a protestare. Poi, come se fosse stata punta da un calabrone, lanciò un gridolino mettendosi a sedere. Stringeva il lenzuolo sul seno. Si girò verso di me: lo sguardo stralunato ma intenso. C’era paura. C’era sorpresa, ma non c’era rimpianto. I suoi profondi occhi grigi fissavano i miei terrorizzati, ma non a causa mia. «Dio! Tony! Che ora è?!» L’abbracciai stretta, al diavolo l’ora! Lei si divincolò con una risatina nervosa, adesso le sfioravo la nuca con le labbra facendola rabbrividire. «Toonyyy!» si lamentò fremente per il brivido. «Solo le 10.30, Isy!». Le concessi.
Lei si girò fissandomi, ero a torso nudo, e portavo il pantalone del pigiama di mio zio: di quelli classici da uomo un po’ retrò con improbabili e ripetuti disegni geometrici. Lei ruotò lo sguardo verso il suo braccio che, fasciato in una manica della stessa foggia, stringeva il lembo del lenzuolo, ma la giacca troppo grande era semi aperta e le era scivolata giù dalle spalle. Con un sorrisetto, meno convinto e più imbarazzato, se la tirò su, come se si fosse resa conto, solo in quel momento, di essere nuda sotto. Io scoppiai a ridere baciandole la testa, anche per mascherare, l’intensa vampa di desiderio che mi aveva colto a quella vista. «Beh, sei puerile tesoro, no?! Dopotutto...» feci ironico inclinando il viso andomi una mano sulla frangia, omaggiandola del mio miglior sorriso assassino. Avevo decisamente iniziato le ostilità e se anche davo -per così dire- una mano al nemico, ero, e rimanevo, pur sempre l’arma di distruzione originale. Aveva scosso la testa come infastidita da quel mio sorriso, ma sapevo che in realtà era tesa e affascinata quanto lo ero io da lei. Adesso aveva scalciato tutte le coperte e si era messa in ginocchio sul letto. Le gambe nude erano abbaglianti, nel sole pieno che filtrava dalla finestra di fronte al letto. Con estremo piacere mi accorsi che balzava vicino a me. Mi artigliò i capelli al lato del collo poi mi diede uno schiaffo poco gentile fra la nuca e l’attaccatura dei capelli. «Edgar Anthony, non fare lo stupido! Non ho i postumi di una sbronza, e ricordo tutto...io!». «Touché!». «Ecco, bravo!». Ritornò a fissarmi negli occhi e le baciai il naso. «Tony, io...» dal suo tono improvvisamente smarrito capii che il mio gesto l’aveva emozionata. L’abbracciai stretta, per poi mollarla l’attimo dopo sul letto lì a fissarmi. «“Io”...niente! Isy! Vestiti! Vado in cucina e vedo se c’è del caffè!».
Stavo usando un argomento pratico e neutro per controllare i miei veri propositi. «Questo cottage i miei zii lo usano raramente, per fortuna direi, non saprei spiegare efficacemente il nostro abbigliamento a mia zia Eveline...credo che questo pigiama sia un suo regalo al marito» Ero sceso dal letto, e ciarlavo mentre già mi dirigevo nel locale attiguo che faceva da soggiorno e angolo cottura. Sentii un fruscio e un piccolo tonfo dietro a me mentre aprivo il frigo, e poi... qualcosa artigliò l’elastico del pantalone e mi costrinse ad indietreggiare. “Buon Dio! Smettila Samantha!” «Non la smetto per niente, perché non è detto che voglia dar retta a te...signorino!». Mi girai allibito, adesso leggeva nella mia mente? Ma, invece di considerare il fatto, che, probabilmente, avevo sussurrato ad alta voce quel pensiero, considerai lei, seduta sul bancone con le gambe che scalciavano il vuoto -come una bimba impaziente- e le dita ancora chiuse sull’elastico, e, soprattutto, il mio aspetto, che stava cominciando ad assomigliare, a un clown: le cui braghe dalla vita enorme erano sorrette da improbabili bretelle. Ma non era quella la priorità. «Smettila, Isy!» Ripetei schiaffeggiandole gentilmente la mano per farla desistere, oltretutto, ero pure terrorizzato che sbirciasse nella “vita del Clown!”. Adesso ero puerile io, ma diamine ero un Somerset! E amavo il mio decoro! “Decoro” Dio! Pensavo come mio nonno! (neanche mio padre!) Lei stava solo giocando “innocentemente”. Dopo le ultime ore non me la dava a bere con i suoi modi da seduttrice. Ma io non stavo giocando affatto, feci un sospiro, e mi aggrappai all’imperturbabilità dei Somerset. E allora perché diavolo la stavo assaporando mentre mi restituiva il bacio?
Oddio! Non ne uscivo. Sulle mie labbra parlò: «Continuo a essere della mia idea Tony», «e io della mia Isy...o dovrei dire... Samy?» ribattei pungente. Non volevo essere caustico, solo convincerla a desistere, ma la prese diversamente. Si staccò subito: gli occhi fiammeggianti, le braccia conserte a strizzarsi il seno per proteggersi, con l’unico risultato di aprire di più lo scollo largo della giacca maschile. Distolsi lo sguardo. «Colpo basso Tony! Credevo di averti spiegato che...» la interruppi subito: «Appunto! Anche io Isy! E adesso vestiti! Sono solo un ragazzo, non un ghostbuster sai?!» Ero conscio di mentirle, nessuno più di me sapeva che, il problema era vivo e vegeto non una presenza impalpabile. «Ma che c’entra?! Voglio te e basta!» Mi rigirai di scatto afferrandole il viso con le mani dapprima concitate e poi dolci; le carezzavo le guance coi pollici. «Tu vuoi dimenticare una parte di te! E io non ti aiuterò! Non così Samantha... non così!» ribadii con dolcezza mista a triste emozione. Ma lei si ribellò attaccando: «Tu! Sei la parte viva di me! Questo...» fece un gesto eloquente indicando noi due vicini e seminudi, «è per dimostrare che non è solo una parte, ma l’intero!». Mollai il suo viso, infastidito, scuotendo la testa e rivolgendo di nuovo l’attenzione al frigo aperto e al cartone del latte con la sua scadenza. «L’amore non è una dimostrazione!» borbottai senza guardarla, poi mi girai piantandole, a mo’ di fanali, le iridi nelle sue, quasi volessi gridarle: “Maledizione! Isy! Questi occhi sono verdi! Questo sono io!” Ma non lo feci, dissi solo: «l’amore dev’essere naturale Isy, non un esame. Non funziona così!» Scossi la testa. Ero triste e frustrato. Lei mi fissava sempre più furente. «Ah, ma certo! “Dottor Stranamore!” Tu sei un esperto vero? Infatti stai per sposare una ragazza incinta mentre sei seminudo qui con me!» «Isy...»cercai di blandirla ma non funzionò facendola, invece, attaccare con foga: «Dillo Tony, Dai! Dillo! E’ per Patricia! Io non voglio niente da te okay? Solo risposte per me stessa. So bene che ti ho perso al parco, un anno fa, e non ti voglio costringere a perdonarmi! Non è così che funziona, certo, sarò pazza ma
lo so! Voglio solo liberarmi dai miei fantasmi!». Grugnii, stava blaterando senza senso! «Smettila, Samantha!» alzai il tono di un ottava, ero fuori di me; le recriminazioni uscirono come un torrente in piena dalla mia bocca, avevo perso la mia caratteriale imperturbabilità. «E dopo. Eh? Che fai...dopo? Che faccio io?!» Risi senza gioia per continuare sempre più duro: «Risposta A: mi ami! Oh si, maledizione! Mi ami per quanto mi desideri! Alleluya! Hai vinto la bambolina! E che fai?! Mi molli nelle braccia di Pat?! Soffri e basta... in silenzio?! Ma ti sei chiesta che ne penso io?!». Lei aprì la bocca per rispondere, ma la fermai con un gesto irritato: il palmo teso verso il suo viso per zittirla e proseguire con la mia sparata. «Noo, Miss Lee! Aspetti Signorina!» La redarguii con scherno, proseguendo: «C’è l’ipotesi due! B: mi ami, ma diciamo... non abbastanza?! Diciamo ami di più un fantasma? Oh meglio, forse... chi gli somiglia più di me a quel fantasma?! Edgar Carlton! Ecco il tuo vincitore!» Feci un cenno deferente con la testa, sapevo che miei occhi erano folgori che fulminavano i suoi, e non avevo intenzione di fermarmi: «Ah, okay! Mio caro amici come prima!» iniziai a scimmiottare il suo tono femminile mi uscì una voce effettata: «Grazie della bella notte Tooony, sei proprio un drago! Ma sai beh...non è abbastanza lo stesso, adesso scappo a farmi venire la depressione peggio di prima, perché...». Mimai brevemente il gesto di cambiare riga su un quaderno per continuare a scrivere. «…Adesso che ho deciso per Edgar, la prima ipotesi è struggermi per un fantasma. La seconda è sperare che il sosia del mio -quasi totale- amore, che sorpresa mi ricorda anche l’altro (Cioè io!) -così ho fatto pure BINGO!- Mi odi di meno in futuro! Ah, sì! Dimenticavo! Edgar mi odia perché ...» Rifeci il gesto precedente ringhiando adesso: «Mi odia perché l’ho voluto io!» La fissai risentito: «Ho scordato qualcosa? Samantha?!». Ero sconvolto, ansimavo come un toro imbufalito, la rabbia che non avevo voluto provare nelle ore precedenti per non negarmi dei momenti che, a parte tutto, erano stati quanto di più meraviglioso potessi chiedere, adesso era esplosa, anche se avevo giurato a me stesso di non esternarla. La guerra non era vinta e questo non era il modo giusto per combatterla. In questo pasticcio, una cosa era certissima: Isy mi amava e non...poco. Lo diceva il suo corpo prima delle sue ammissioni.
Sì, mi aveva raccontato tutto stretta la mio petto nudo: i mesi a sognarmi sentendosi in colpa, il dolore lancinante quando aveva creduto fossi morto. Ma amava anche Steve... e non poco, anche lui. Senza neanche sapere che era vivo. O meglio, lei, in qualche modo, rivedeva nel mio finto gemello, Steve. Lei amava Edgar, mi aveva detto anche questo, era spaccata a metà. Me lo aveva confessato per prima cosa dopo che...be’, in un bel momento topico, si era ritratta e aveva sussurrato: “chiamami Samy”. Io ero scattato allontanandomi istantaneamente, le furia mi si leggeva negli occhi. Lei spaventata, non comprendendo la mia reazione, (io sapevo che solo Steve la chiamava così), mi aveva spiegato, tutto... anche che, dopo i nostri approcci sessuali di pochi istanti prima, si era convinta che amasse solo me, era stata un intera ora a ripeterlo ossessivamente, ma. A quel punto, avevo avuto paura che tentasse solo di convincere se stessa. Continuava a dirmi che mi aveva chiesto di chiamarla così solo per...scacciare ogni dubbio, che sentiva che pronunciato dalla mia voce quel nomignolo non avrebbe avuto significato, schiacciato dal sentimento reale che sentiva in quel momento per me. Ma si era spezzato qualcosa tra noi: il momento intimo era ato; non ero pronto a rischiare, perché sapevo che avrei potuto perdere tutto. Dovevo aspettare, conquistarla completamente, definitivamente, perché una cosa era cristallina: lei amava Edgar perché aveva la voce e gli occhi di Steve ma anche perché aveva la mia stramaledetta faccia! Ansimavo, la fissai negli occhi, i suoi erano pieni di lacrime, scese piano dal tavolo tentando di non farsi tremare la voce nel ribattere: «Che dire? Be’, me lo merito, ma la mia punizione ce l’ho già che mi aspetta!». Alzò la testa in un moto di orgoglio e dolore insieme, restituendomi l’occhiata bellicosa ora e alzando il tono di voce anche lei. «Perché Tony, se è A: tu sposi un'altra e se è B: Edgar mi odia... e se è C: come credi che mi senta io, spaccata così?! Non voglio amare due persone! Anche se vi somigliate io… voglio solo... amarne uno, anche se non potrò mai averlo! In tutti i casi, se ottengo una risposta, beh riavrò perlomeno il rispetto di me stessa,
mi basta!». Fece una risata isterica quasi, e proseguì: «Ah beh! Se il rispetto di me stessa non contempla: essere l’amante di un ragazzo padre e ufficialmente fidanzato si intende!» Scosse la testa avvilita, e poi mi traò con un altro sguardo: sorprendentemente fiero e risoluto. «Ma non mi importa Tony! Questo no! Se sei tu, sei tu! E almeno sarai stato mio per un po’! E sarà la mia giusta punizione». Non l’ascoltavo più, ero da lei e la stringevo in un abbraccio folle mentre si dibatteva come un pesciolino nel retino, e più si agitava e più io stringevo, sussurrai sui suoi capelli fra un: “lasciami” e un grugnito. Adorabile. Era adorabile. L’amavo da impazzire, tutta, compresa la sua dolce incoerenza. Sono definitivamente andato pensai con buona pace del proverbiale orgoglio dei Somerset. «No, se scegli me, ti prendi tutto il pacchetto» lei si ribellò di più, urlando: «Sono pazza, ma non una santa Tony! Io non me lo subisco tuo figlio! Non scherzare e lasciami!». Un bacio con lo schiocco sulla fronte, e queste parole, furono la mia risposta: «Io e Pat...è complicato, ma non è mio figlio Isy». Lei si fermò, immobile come una statua di sale, poi, appena la mollai un poco, alzò gli occhi, caricò il braccio destro e mi stampò le cinque dita su uno zigomo. Mentre, confuso, mi massaggiavo la guancia, lei correva in camera, afferrava il vestito e spariva in bagno sbattendo la porta. La raggiunsi e bussai a palmo teso sull’uscio sprangato «Isy? Perché?...Samantha?!» La mia voce era incredula ed esitante, non avevo capito il suo gesto furioso dopo le mie ultime parole che, volevo solo la rassicurassero, sui miei rapporti con Patricia. «Vattene! Bastardo! Ma che bravo! Bravissimo! Tutto lì a dire in quei momenti: “Non la amo! Amo te...è solo per il bambino! Mi stai ferendo con le tue indecisioni! E poi...? Ti accolli anche suo figlio pur di sposarla?!» Una pausa fra
le sue grida e poi un ringhio sputato fra i denti, abbastanza squillante da arrivarmi alle orecchie: «Ma che mi importa poi?! Ero pronta a rinunciare a te! Sono pronta, a rinunciare a te!». Un grugnito. «Perché me la prendo?!» Adesso gridava apertamente a se stessa. «Eh...no!» riprese, come se ci avesse riflettuto su un attimo. «Sei un bastardo lo stesso! Perché...mi fai sentire una merda peggio di quello che già faccio da sola!» Grugnì di nuovo per poi scimmiottarmi irosa: «I miei sentimenti Isy? I miei sentimenti!» E proseguire concitata: «Beh sono per qualcun'altra questi famosi sentimenti! Mi odi Tony?! Okaaay, guarda che...beh! Mi hai punito abbastanza! Hai ragione, contento? Raaagione! E...adesso me ne vado!» concluse. Stavo per controbattere, e poi, un pensiero mi sfiorò la mente: era gelosa! Avevo più di qualche speranza, dopotutto, non sembrava un amore tanto a metà. La porta si spalancò e uscì un ciclone in sexy abitino blu. Ma perché sei così demente Tony? Gliel’avevi sfilato quel coso! Adesso invece sei al punto di partenza! Se fosse stato solo per il sesso, io e Isy non avremmo avuto nessun problema, questo ormai era un fatto acclarato, anche se non approfondito a dovere. Scacciai il ricordo troppo vivido. La fermai artigliandole un polso prima di ribattere: «Amo te e basta. Lo sai bene questo. Quante volte te lo devo ripetere? Vuoi un disegnino Samantha?» le proposi maliziosamente ironico. «Lasciami Somerset!» mi rispose gridando. «Sì, lasciala Somerset! O ti spacco di nuovo la faccia!». Ci girammo all’unisono verso la porta del soggiorno: Edgar e Rebecca ci stavano fissando. Credo che le nostre facce esprimessero tutto: sorpresa, sbigottimento, ma la mia, anche una sorta di trionfo. La battaglia dopotutto iniziava prima di quanto
credessi. Allora adottai le strategie del mio nemico. Sam era rossa in viso, ancora sotto shock, mi chinai su di lei e, le dissi in un sussurro, prima di abbracciarla e baciarla con ione feroce: «Sai quanto ti adoro Isy!». Lei rispose al bacio in automatico, anche perché le stavo mordendo con insistenza le labbra, poi, si scansò, respingendomi e, con un grugnito, e il volto ancora più in fiamme, mi assestò un altro schiaffo. Immediatamente dopo, infilò la porta come un fulmine, ando a un metro da Edgar e Reb, che, guardavano me, e lei, alternativamente in cagnesco. Lui sprizzava fiamme dalle iridi dorate: colore che stavo cominciando ad odiare. «Tony, se ti sei approfittato di lei, giuro che stavolta ti ammazzo a mani nude!». Reb sbuffando stizzita mise una mano sul braccio di Edgar per fermarlo: stava già scattando verso di me. E io...che lo dico a fare? Ero prontissimo! «Edgar, smettila! Ma sei ceco? La cara Samantha non aveva l’aria della vittima! Quello schiaffo era scena per te!» E poi rivolta a me: «Tony, sei deficiente per caso?! Con Pat in quelle condizioni, ci ricaschi con la Lee?! Ti si è fritto il cervello insieme all’elicottero?!». Rebecca emise un gemito, non le era piaciuta la similitudine che lei stessa aveva usato, lo sapevo, ma, mia sorella era dispiaciuta e furiosa insieme, anche se, odiava prendersela con me in questo modo duro da quando era successa la tragedia. «Reb smettila! Ti sentirà...» sibilai; ma sapevo che Sam era arrivata allo spiazzo di fronte al cottage e, probabilmente, ora aspettava vicino alla mia auto: non c’era modo di tornare a piedi. Immaginai stesse prendendosela con la carrozzeria per sfogarsi. Sorrisi sghembo a quell’immagine mentale; ma Edgar era talmente furioso che il mio ghigno lo fece sbottare. Nè lui nè Reb sapevano la verità su Patricia. «La odiavi Eh? Ma questo non ti ha impedito di portartela a letto! Ma che bel codice d’onore soldatino! Mi fa schifo ciò che è...» deglutì inorridito l’insulto,
che sapevo gli era balenato in mente, «...diventata Samy, ma la conosco da sempre e...cerca di tenere le mani lontano da lei!». Lo fissai con espressione di ghiaccio, adesso avevo due possibilità: sferrare un attacco preventivo e causare danni favorevoli, oppure difendere la base di me stesso. E, non riuscivo a tradirla, la spina dorsale che mi sosteneva, perché c’era impressa a fuoco l’anima di Samantha. Neanche averla ad ogni costo poteva violentare il mio rispetto per lei. «Non è come sembra, o, almeno, non come immagini tu. Questo è tutto quello che saprai da me!». Poi rivolto a Rebecca esclamai: «Non sto con lei, per ora, e questi comunque non sono affari tuoi, e ti proibisco di parlarne con Samantha o chiunque altro, Reb. Mi fido di te, tu fidati di me». «Fidati di me!» Edgar era scoppiato a ridere, imitandomi con cattiveria mentre già stava uscendo dal cottage. Allarmato lo richiamai: «Che vuoi fare?» Corso alle sue spalle gli avevo artigliato una spalla costringendolo a voltarsi di nuovo. «Accompagno a casa Samy! Sei quasi nudo cugino! E suppongo che il Ranger Lee fra un po’ manderà una squadra di ricerca!» Strinsi la morsa con ferocia, strattonandolo. «Sta lontano da lei! Edgar...bada!». Lui, mi sputò la sua in faccia, divincolandosi con forza pari alla mia. «Non tirare la corda Somerset. Si spezza! E, tranquillo, la odio Miss “Senzacuore”! E solo perché…l’amavo in un'altra vita, non la chiamo col suo vero nome!» Fui più veloce di lui, che schivò niente male comunque, ma accusò lo stesso, il mio gancio destro: Gli spaccai il labbro. Lui, per tutta risposta, rise beffardo, schernendo me e la mia reazione, e sparì subito dopo verso il parcheggio. «Ragiona con la parte alta del corpo Tony! Almeno tu!» mi rimproverò una voce astiosa. «Zitta Reb!» sibilai, mentre mi giravo verso chi aveva fatto la volgare battuta, furioso con mia sorella. Stava ando il segno ed era stranissimo per lei, ma
quando la vidi, dilatai gli occhi. Non fissava me, ma Edgar, che si affrettava verso la sua Mini per inseguire Sam, che, testardamente, si era avviata a piedi per la strada di terra battuta. Ero preoccupato per Isy sola con lui, ma in quest’attimo fissavo Rebecca, e, quello che vidi, spazzò via per un istante tutto il resto: aveva gli occhi pieni di lacrime, che non erano ancora potute rotolare giù, e adesso offuscavano l’indaco profondo dei suoi occhi. In un gesto istintivo e protettivo insieme l’attirai a me. «Vieni qui...sorellina», lei era seppellita nel mio abbraccio mentre cantilenavo: «No, Rebecca, non Edgar...» lei, con un risolino mesto, incollato al mio petto, disse: «Non ho sempre detto che sei il ragazzo più bello della scuola? E poi Edgar non è uguale a te. Per niente!». Feci anche io una risatina per spezzare la tensione. «Direi!». Lei mi diede una gomitata nelle costole e io ribattei sogghignando amaramente: «Come la metti, la metti...la mia faccia fa faville! Non è così?! Dovrebbero riconoscermi le Royalties a questo punto!». Rebecca rise, senza divertimento, proprio come me. La baciai sulla testa. «Mi sa che io e te, siamo sulla stessa barca sorella». Lei mi fissò allarmata. «Tony non puoi...!». Era ora di dirle la verità: «Non amo Pat, il bimbo non è mio, lo faccio per andare avanti, e anche lei. Solo una facciata Rebecca!». «Tony, non buttare la tua vita, per una come Sam Lee. No!». «Reb, tu non sai tutto, è complicato, e so la verità sul comportamento di Samantha solo da poche ore... ma voglio lottare, almeno finché potrò farlo». «Anch’io». Reb aveva capito. Una Somerset fatta e finita.
«In bocca al lupo» dissi. «In bocca al lupo» mi rispose, e poi, all’unisono, sospirammo e sputammo in un grugnito liberatorio: «Crepi!» scoppiammo a ridere e Rebecca mi ricordò: «Tony togliti quel pigiama, o meglio...» indicò i calzoni troppo larghi che mi cadevano quasi dalle anche, «parte del pigiama! E raccatta l’altro pezzo!» Fece scorrere lo sguardo sulla giacca mancante, lasciata cadere sul pavimento da Sam mentre la baciavo. «Se zia Eveline ti scopre...ci caccia via! E...Winter Harbor inizia a piacermi sai?!» Sorrisi a metà, mentre obbedivo. «C’entra qualcosa un tizio con il mio sorriso, suppongo!» La prendevo in giro per sdrammatizzare. «Supponi bene» detto ciò sparì ad aspettarmi vicino al SUV. «Tony? Hai una bella riga sullo sportello destro» mi gridò da fuori. Lo immaginavo. Scoppiai a ridere, Isy era una tigre dopotutto, e, a quanto sembrava, dotata di artigli affilati. L’avevo fatta arrabbiare sul serio; ergo teneva veramente a me... attento cugino! Quando mi misi al volante l’euforia era sparita, nel frattempo, mi ero reso conto che io me ne stavo a sogghignare, e Edgar era con lei. Sbattei con stizza lo sportello, Reb scosse la testa. Ero proprio andato e se n’era accorta pure lei. «A proposito, ma che diavolo ci facevate tu e Edgar qui?!». All’improvviso, un pensiero molto diverso ed ammantato da un altro tipo di gelosia protettiva, mi colse, e, fissai Reb serio, inquisitore. Lei ridacchiò un: «Strategia Tony, e, non devo dirlo a te, non è la madre di tutte le vittorie la strategia?». «Reb, sta attenta...non darmi un altro motivo per ammazzare il mio finto
gemellino!» Io di rimando ringhiavo. Reb sospirò piano, tranquilla, in viso una maschera ironico glaciale che era la nostra specialità, ma che a me non nascondeva affatto la sua profonda emozione. «Oh, non preoccuparti! Non sono stupida fratellino...» le strinsi brevemente la mano che teneva abbandonata in grembo e, lei, si sporse a baciarmi la guancia, segno che sapeva che la comprendevo bene. Innestai la marcia e feci stridere le gomme puntando alla villa, la direzione opposta di Edgar e Samantha, intendevo lasciare Reb e seguirli, naturalmente. Ero pazzo di gelosia e, dopo le ultime ore ate con lei, infinitamente di più. La sua pelle era mia, il suo respiro mi apparteneva. Scoprii nei minuti successivi che non tolleravo dividerla con nessuno, ero costretto a coabitare nel suo cuore ma...avrei risolto quel problema, si sarebbe presto resa conto che amava solo me. Alla fine di questo pensiero però la mia sicurezza si sgretolò. Il ragazzo diciottenne fece capolino nel soldato imperturbabile e... per una frazione di secondo la strada davanti a me si offuscò. Una mano dolce mi scompigliò i capelli. «Tony...», sorrisi a Rebecca mentre tentavo di non farmi tremare il labbro inferiore, e poi, il secondo successivo, ripresi il controllo delle mie emozioni, almeno esteriormente. «Ti va di andare a prendere un caffè Reb? Forse, ne ho bisogno». «Okay, Anthony!» la sua voce appariva gaia, ma sapevo che cercava di calmare me. «Ti voglio bene Rebecca». «Anch’io testone, lo sai! Ma voglio la panna nel caffè! E doppia!» mi schiaffeggiò la nuca per sottolineare il suo desiderio imperioso.
«La linea?» Risi finalmente un po’ più rilassato. «Sono perfetta e lo sai!». «Lo so sì! Povero me! Vicino a te devo sempre fare il cane da guardia!». Stavo appena assaporando un momento allegro, che durò poco, perché il mio telefono vibrò e non arrivammo mai in caffetteria.
4 Ballerine
Samantha
“E’ successo, e questa volta, non puoi non prenderne atto seriamente!” Beh, quasi, successo! Mi ripetevo nella testa questo pensiero fisso, mentre con rabbia rigavo la portiera di Tony con un sasso raccattato vicino alla ruota. “Ma...lo odio! Lo odio!” mi ribattevo da sola mentre sentivo stridere la pietra contro la vernice. Ma appena mi fermai la stessa voce interna mi disse: “Dio quanto lo ami Sam!” Per un attimo mi sentii diversa, in pace con me stessa, fissavo la pietra affilata la mia improvvisata arma di vendetta- senza vederla. «Sto ammettendo che...» mormorai, poi scossi la testa, alzai lo sguardo e vidi Edgar quasi alla porta del cottage per uscire, era di profilo non ancora completamente girato, discuteva animatamente ma non sentivo bene le parole, o meglio, mi sforzavo di non coglierle -sapevo che probabilmente erano insulti per me- un attimo, e lo fissai negli occhi, mi restituì lo sguardo, era una fiamma d’oro piena di odio, poi fu strattonato da Tony, io mi voltai e presi a correre per il sentiero. Che dicevi? Brutta Bastarda?! Ah sì, avevi capito! “Hahahahah” mi scherniva impietosa la coscienza. Sei ancora al punto di partenza! Solo che adesso sai “benissimo” com’è stare con Tony, ti serve la controprova no?! Mi ficcai il pugno in bocca per tacitare la vocina maliziosa e cattiva nella mente.
Ma non era desiderio quello che mi invase, era nausea, gli occhi mi si riempirono di lacrime e iniziai a correre. Neanche mi resi conto, sconvolta com’ero, che il mio stomaco era profetico: forse dovevo ascoltare il mio corpo non la mia testa. Ma come al solito non ci capii niente. E come avrei potuto? Avevo la carne marchiata dalle carezze di Tony; il cuore che sanguinava colpevole per le sue parole dure, e la testa piena di due volti sovrapposti che erano così identici e così diversi! E, nelle orecchie, la voce di Steve...No! Di Edgar! Che quest’ultime, traditrici, avevano colto d’improvviso: «Accompagno io Samy!» Perché mi chiamava così?, ero scappata prima di sentire il resto. Non sarei salita in macchina con lui! Strinsi il sasso, che avevo ancora in mano, come un vessillo di ribellione, continuando a camminare spedita. Piuttosto gli fracassavo il parabrezza! “Samy! Samy!” Odiavo quel nomignolo e il modo in cui mi struggeva di nostalgia per Steven! Oh! Se solo non mi fosse venuto in mente, di dire a Tony di sussurrarmelo! Stupida! Sei una demente! Perché non gli hai detto la verità? Tu volevi ti chiamasse così in quel preciso momento per “paura” e, non, per avere una certezza! Il tuo stesso corpo in quell’attimo era la certezza! E il fatto di non volere niente altro che Tony ti ha terrorizzata, perché sei troppo a... Un stridio di pneumatici, la mini di Carlton mi superò, e si mise di traverso davanti a me. «Sali Samy!» Edgar aveva spalancato lo sportello del eggero e mi intimava di entrare in macchina. Mi squadrava furioso come poco prima, ma adesso aveva i capelli spettinati e un labbro sanguinante, come Tony la mattina del suo ritorno. ...abituata a volerli entrambi. Terminai il pensiero precedente con un sospiro triste.
Che qualcuno mi aiuti! Sembrava proprio fosse così: li volevo tutti e due, non c’era altra spiegazione... forse. Reagendo a questa conclusione, mi ritrovai ad urlare dando voce al pensiero ribelle: «Oh! Ma basta! Basta!» scagliai la pietra ancora stretta dentro il pugno contro la vettura, a casaccio. Aggirai la macchina e, con un grugnito stizzito, proseguii sul sentiero come una forsennata, incespicando con le ballerine sui ciottoli. Guadai in su: il sole era caldo e verticale, doveva essere più o meno mezzogiorno. Se era esatto, avevo, più o meno un paio d’ore, prima che mio padre rientrasse. Dovevo pur riuscire a tornare a casa! In fondo ero nella proprietà dei Carlton, e sapevo che più o meno si trovava ad una decina di chilometri da casa mia...ce l’avrei fatta se non mi perdevo nel bosco! Adesso la prospettiva del maniaco era meno spaventosa. Tutto! Ma non volevo entrare nell’auto di Edgar e scoprire che le mie poche certezze andavano in fumo...ero fifona? Sì, lo ammettevo! Nella mia mente si stava facendo strada la ragione, la mia collera con Tony era solo gelosia feroce e risentimento. Maledizione! Mi andava a baciare così davanti al cugino e sua sorella! Mezzo nudo, con me che stringo in mano l’altro pezzo del pigiama che manca a lui! E senza alcun diritto di farlo per giunta! Dato che tutti sanno che è un futuro marito e padre! Bella reputazione mi sono fatta! Ma c’era dell’altro, e più importante: mi aveva anche sussurrato per l’ennesima volta che mi amava e Dio come mi scaldava ogni fibra del corpo quella frase. E adesso? Adesso non volevo che il fantasma di Steve -alias suo cugino- si mettesse in mezzo a quella sensazione.
Forse con Tony una speranza c’era, doveva essere solo lui. Non mentiva su Pat. Lo sentivo. Ma eccomi di nuovo a incrociarmi con Edgar, maledettissimamente uguale a Tony, e in qualche modo, a Steve: un mix micidiale a cui non volevo pensare nè cedere. Eccola la vocina: “Eh, Sam?...dilla la terza cosa che non vuoi? Dilla! Se ne hai coraggio!” «Non voglio che Edgar mi giudichi con il disprezzo che gli leggo nello sguardo, fa troppo male!» Qualcosa mi afferrò il polso, era una mano che mi aveva artigliato. Ma furono le parole a ferirmi, non la morsa poco gentile delle dita. «Ah, No?! Beh è quello che meriti! E adesso sali in macchina!». Avevo pensato l’ultima frase ad alta voce, senza accorgermene. Merda. Mi girai a fronteggiarlo, mi pizzicavano gli occhi, con il dorso della mano me li sfregai, senza riguardo, furente con me stessa. «Ricevuto! Lasciami Carlton. Posso andare da sola! Nessuno ti ha chiesto di sacrificarti per me!» Lui mi strattonò, indietro, verso la sua auto abbandonata con le portiere spalancate, evitando, però, di guardarmi. ma scorsi lo stesso un lampo di dolore nel suo sguardo. Credetti di sbagliare, e, comunque, ero furiosa, non poteva obbligarmi a salire sulla sua auto! Piantai i piedi, e, a causa della forza contraria, mi sbilanciai e persi una ballerina finendo con il piede su di un sasso aguzzo. «Ahi!» lanciai un gridolino e “Bam!” Tutto cambiò in un istante. Edgar che, era quantomeno rude nel costringermi a seguirlo, -per non parlare della cattiveria del suo tono- si girò e cambiò volto, espressione, essenza, e per un attimo: vidi davvero Steven!
«Che c’è Samy? Ti sei fatta male?! Dove Piccola?». I suoi occhi avvolgenti e mobili mi scrutavano preoccupati, il ciuffo bruno della frangia spettinata li ombreggiava, e se, socchiudevo le palpebre e sfumavo i contorni restava Steve -non i tratti così uguali a quelli di Tony- solo il mio amico con la sua voce ansiosa di quando mi sbucciavo un ginocchio giocando con lui. Solo infinita dolcezza mentre sfruttava la presa al polso per tirarmi al suo fianco, permettendomi di sostenermi. Allibita, non avevo ancora risposto così ritrovai la parola: «Nn-no, ho solo perso la scarpa! Devo aver appoggiato il piede su un sasso tagliente e...». Frastornata, dal cambiamento e dall’indubbia incoerenza delle mie percezioni (Edgar non era certamente il mio ragazzo scomparso) mi esaminai la pianta del piede. Più per darmi un tono che per altro, mi chinai per lo scopo, ma lui, mi prevenne afferrando delicatamente la caviglia, mentre io, saltellando nella scarpetta superstite, mi appoggiavo alla sua schiena con la mano. «Maledizione!» Imprecò con stizza. «Stai sanguinando Sam!» esclamò poi preoccupato. Nello stesso istante, anche lui, mi prese in braccio. Noo! Come Steve... come Tony! Non volevo avere l’ennesimo déjà-vu e tormentarmi con i sensi di colpa sbagliati! Mi divincolai dibattendomi: sgusciavo dalle sue braccia cercando di tornare a terra. «Samy, ferma! Non puoi camminare!» sbuffava lui tentando di tenermi saldamente. «Sì! posso invece! Lasciami! Mi serve solo la mia scarpa!», mentre protestavo per convincerlo, continuavo a contorcermi e, tanto feci, che alla fine lo sbilanciai e finimmo a terra. Caddi sul suo corpo per lo più, e, quando mi puntellai su un gomito, mi ritrovai a fissarlo. Era spettinato con parecchie foglie marce sulla testa. La sua camicia bianca era impolverata e il giubbino tutto storto per miei dimenamenti addosso a
lui. Scoppiai a ridere e Edgar rise con me. L’ilarità distese i suoi tratti. Adesso sembrava così dolce e giocoso! Sam no! Ma mentre mi intimavo di non permettere a me stessa di far vacillare le mie decisioni. Lui mi fissò intensamente per poi attirarmi -incurante del labbro che doveva dolergli- in un bacio a cui non risposi. Volevo farlo inizialmente: era il primo bacio che mi dava Edgar, sapevo che ero attratta da lui come da Tony, o almeno credevo. Erano così uguali! Ma quando mi baciò sentii qualcosa di molto diverso. Sentii -e non me l’aspettavo- la stessa sensazione che avevo con suo cugino, e non parlavo di desiderio o amore, ma ricordo...io ricordavo i suoi baci! Ed erano quelli di Steve! Quindi, dopo il contatto delle sue labbra, scioccata, non risposi lasciandomi andare, ma, piuttosto, il bacio mi morì trasformato in un singhiozzo. Non riuscivo a sopportare di più. Tutto identico a quel pomeriggio alla spiaggia: in terra abbracciati, le stesse labbra morbide, la stessa bocca. Gli occhi di miele e il profumo della sua pelle calda. Scossi la testa, mi alzai e iniziai un pianto muto. Stavo delirando per la dolorosa nostalgia. Edgar, fraintese il mio comportamento, nel solo modo in cui poteva. Lasciò che mi staccassi, si mise a sedere e, fissando le punte delle sue sneakers, biascicò: «Okay, dopo tutto hai scelto non è cosi? Hai mentito Samy, almeno a lui. Tu lo ami!» poi alzò la testa e disse d’un fiato: «Ma...sta per sposarsi Sam! Sarà padre, e che diavolo di futuro pensi di avere con mio cugino?» sembrava sconfitto, scuoteva la testa. «Non hai capito un bel niente Edgar... io, non lo amo, almeno non come...vorrei davvero. O forse sì. Sì!». Avevo detto veramente sì?
Pensai in un lampo prima di proseguire fissando Edgar, attirata da i suoi occhi da fantasma impossibile: «Ma non è questo il problema con te» confessai senza potermelo impedire. Si girò con uno sguardo deluso ribattendo: «Non è questo...il problema...con me?! Ah, no? Beh Sam, sei proprio diversa da...come ricordo. Non sei più tu!». Mi voltai di scatto per scrutarlo: «Che vuol dire?». «Niente Samy! Un cazzo di niente vuol dire! Lascia perdere!». Adesso era scattato in piedi, e stizzito, aveva recuperato la mia scarpa solo per gettarmela con malagrazia spolverandosi i pantaloni con rabbiosa intensità, mentre, io, mesta, infilavo la mia ballerina. Mi porse, finalmente, la mano per aiutarmi a tornare in piedi, la schiaffeggiai e tentai di fare da sola, ma lui si chinò, e, stavolta con tetra decisione mi sollevò da terra in braccio. «Non puoi camminare o ti sanguinerà peggio» si giustificò. Io per tutta risposta buttai fuori un respiro secco. Cosa potevo dirgli di più? Che di lui amavo la somiglianza con il mio ‘ex’ morto e con il mio ‘quasi’ vivo? E questo fatto mi faceva soffrire di nostalgia? Avevo combinato abbastanza casini per quel giorno. Se mi malgiudicava era meglio così per lui e per me. Mentre faceva i dieci i fino alla macchina. Ecco affacciarsi l’incubo che volevo evitare un minuto prima. Ma perché: la linea del suo corpo contro il mio fianco mi rimanda ai giochi in acqua con Steve? Chiusi gli occhi. Erano le stesse sensazioni. Due lacrime cariche di dolore mi scesero sulle guance e si tuffarono dal mio viso, una gli bagnò la camicia, a quel punto mi guardò e grugnendo disse: «Maledizione Samy! Smetti di piangere! Ti porto sul sedile della macchina e non ti tocco più! Se vuoi chiamo Tony!».
«Sì, ti prego, io...ho bisogno di... di lui» Ho bisogno di Steven. Che sia vivo. Ma questo non lo dissi. Avevo anche bisogno d’amore, e, se c’era una cosa che sapevo, era che amavo Tony, ma questo sentimento non c’entrava nulla con il mio amico perduto. E volevo aggrapparmi a questo. Volevo smetterla di soffrire così per qualcosa che non esisteva più. Edgar non poteva aiutarmi. Ero attratta da lui, l’altra metà di me lo amava per quel mix destabilizzante a cui non volevo dar credito oltre. Eravamo arrivati alla sua auto, mi aiutò a sedermi sul sedile posteriore, poi tirò fuori il cellulare e compose un numero. «Sì, Reb? Sei con Tony?» attese due secondi prima di proseguire irritato: «Okay Reb, amelo!» e sbuffò mentre precisava mentendo: «Sto bene! Rebecca...non sono strano. Fammi parlare con tuo fratello!». Poi iniziò a bofonchiare: «Tony? Torna al cottage, siamo quasi alla radura a nord», «Samy chiede di te, si è fatta male...» fino a diventare furioso: «Cazzo Tony! Non. Ci. Provare!» Non mi stupii quando Edgar fissò il display con rabbia, probabilmente il cugino aveva riattaccato. Con foga scagliò il cellulare addosso allo sportello chiuso alla mia destra, quello produsse un botto e cadde nell’erba secca spegnendosi; al rumore sordo dell’impatto sulla lamiera avevo sussultato. Edgar grugnì imprecando, e preferì aspettarli dieci i più in là. Andava e veniva come un belva in gabbia, respirando profondamente cercando di calmarsi. Aveva tutte le ragioni di sentirsi così, pensai. Ma stavo facendo il suo bene allontanandolo sempre di più da me. Dopo cinque minuti sentimmo le gomme del SUV nero Jeep che derapavano a pochi metri dalla Mini, lo sportello si aprì, e Tony, correndo, mi fu davanti in un attimo. E io che feci? Beh continuai a frignare muta come una deficiente! Ma il mio era sollievo. Volevo solo che mi stringesse fra le braccia e scacciasse tutta la malinconia.
Era tardi, Ted mi avrebbe cercata se non rincasavo, e lui, probabilmente, doveva andare dalla sua fidanzata, ma volevo solo che mi portasse lontano dal cugino. Dal senso di perdita che non sopportavo più. «Isy! Cosa è successo? Puoi camminare? E’ stato Edgar?!» Nell’ultima domanda il suo tono era glaciale, quanto lo era stato sollecito nelle prime due. Rabbrividii. Controllato e letale una lama di spada, così mi affrettai a precisare: «No, no! Mi si è tolta la scarpa e appoggiando il piede mi sono tagliata. Adesso provo a camminare...». Mi asciugai gli occhi e tentai di muovermi, la pianta bruciava come l’inferno, emisi un gemito di dolore saltellando istintivamente sull’altra. Tony pronto mi sostenne. Da dietro l’auto si udì ringhiare: «Le sanguina! Impediscile di camminare, idiota!» Non mi girai a incenerire Edgar, ma Tony sì, e l’apostrofò con un sibilo cupo: «So, come prendermi cura di lei, Io! Cugino! Ho permesso che l’accompagnassi, e la ritrovo ferita!» Come risposta ottenne un grugnito che sembrava un ruggito da belva feroce. «E’ stato un incidente. Demente!» sbottò Edgar. Mi allarmai. «Smettetela...» gemetti. Non volevo vederli prendersi a pugni, ancora. Il labbro spaccato del cugino faceva il paio con le nocche arrossate che non mi erano sfuggite notando la mano di Tony. E’ tutta colpa mia! Per fortuna, Tony, almeno, parve reagire alla mia ansia. «Ce la sbrighiamo dopo Edgar!». «Contaci, Edgar!». Strano sentire Carlton, chiamare Tony: “Edgar” con quel tono di intenzione calcato sulla parola, quasi fosse solo il suo nome e non anche il proprio. Poi Tony si rigirò verso di me, ignorando, gli strepiti muti del cugino al suo indirizzo.
«Okay, ti porto io Isy! Dovevi dirmelo che sanguinava, testona!» Mi carezzò uno zigomo con una dolcezza che mi travolse, e mi ritrovai in braccio ad un ragazzo, per l’ennesima volta in pochi minuti, ma stavolta gli cinsi il collo e chiusi gli occhi, grata. «Scusa se ti ho fatto tornare, poi, ti spiego». «Tutto Okay, sono qui con te, dove altro potrei essere? Amore? Ci penso io adesso!», mi baciò la testa e disse poi: «beh, a questo punto, credo non importi più» Mi guardò con i suoi pezzi vellutati di giada e mi arresi all’emozione. «Samantha?» non attese risposta continuando: « “Scusa se ti chiamo amore” è quello che sei per me» mi disse con intensa schiettezza. «Lo so» risposi con semplicità. Lui sorrise e poi mi adagiò sul sedile vicino al suo chiudendo poi la portiera, mentre Reb, fulminandomi, si allontanava raggiungendo Edgar: lo immaginai ancora di spalle. Non mi aveva salutato e io non lo biasimai. Mi toccai le labbra, potevo ancora sentire la bocca di Steven, ma ero solo una pazza. Fissai Tony che aveva preso posto davanti al volante: «Mi dispiace per lo sportello, ero fuori di me temo» lui, per tutta risposta, sorrise per niente arrabbiato, anzi, quasi compiaciuto, poi mise in moto e partì. Ma, la sua mano, mi coprì il ginocchio e rimase lì, carezzandolo distrattamente, mentre guidava per portarci fuori dalle stradine di campagna della tenuta dei Carlton. Insistenti brividi nascevano da quel contatto propagandosi per tutto il mio corpo, non li respingevo. Avevo sempre detto a me stessa che, se non lo avessi baciato, vinta dall’attrazione, avrei amato solo Steven. Era stata la più grossa menzogna che mi fossi mai raccontata. Risentii le parole di Tony di tanto tempo prima: “Tu gliel’hai detto che lo ami? …Tecnicamente, ami anche me Isy...” Mi girai verso di lui. Era assorto nella strada e mi stava dicendo, in tono colloquiale, che probabilmente non era troppo tardi, e con un po’ di fortuna, mio padre Ted, era ancora a pesca con questa bella giornata. Non lo ascoltavo. Posai la mano sulla
sua, che, stringeva ancora il mio ginocchio nudo, tormentandomi deliziosamente, quanto inconsapevolmente. Sfiorai la cicatrice irregolare, che dal dorso, si tuffava dentro il polsino della camicia azzurra. Lui sussultò esclamando: «E’ brutta. Eh?! Mio zio dice che potrei toglierla...». Un'altra lacrima: più greve, gonfia, e infinitamente più dolorosa delle precedenti, rotolò giù in un attimo dai miei occhi, bagnandogli la pelle: ero chinata sulle sue dita. «Samantha, che hai? Ma... ti fa cosi male?! Se vuoi, ti porto al pronto soccorso amore!» mi scrutava preoccupato come il cugino, e gli occhi erano gli stessi: medesima espressione, taglio identico. La somiglianza era incredibile. Ma questi erano quelli verdi e abbaglianti di Tony. E non era solo Steve il ragazzo scomparso che mi mancava. Io ero morta di dolore anche per Tony: così bello, magnetico, strappato da me che, lo avevo allontanato per vigliaccheria, e neanche ero stata capace di capire che lo amavo da morire. La mattina del suo ritorno, persa nei miei egoismi e drammi, non mi ero resa conto, abbastanza, profondamente, del sollievo. Del fatto che un autentico miracolo era avvenuto, e che io, l’avevo calpestato quel miracolo, piena solo di me stessa. E ora ne pagavo le conseguenze. Sorrisi fra le lacrime rispondendogli emozionatissima: «Oh sì! Mi fa male! Ma non il piede, è...», deglutii a fatica prima di proseguire: «Scusa...Tony. Scusami. Scusami... scusami!». Adesso avevo perso completamente il controllo e preso a carezzargli febbrilmente, le guance, le mani. Ero impazzita? No. Tentavo d’istinto di fargli capire una cosa. Lui strabuzzò gli occhi sorpreso dalla mia reazione, accostò al ciglio della strada per prendermi il viso, e rendersi conto di cosa mi accadeva, tempestandomi di domande: «Ma di cosa Isy? Io non capisco! Cos’è successo?!» Deglutì pesantemente prima di proseguire: «C’entra Edgar?!». Poi, però, mi mollò senza
attendere risposta, cambiando radicalmente espressione: di nuovo il gelo. Guardava dritto davanti a se una realtà che non era questa, sembrando una sorta di guerriero vendicatore. La furia gli scintillava nello sguardo, eppure la voce era mortalmente controllata e tagliente: «Stavolta lo uccido...» si girò verso di me. «Ti ha toccata? Non ne ha più nessun diritto!». Lo fissai quasi terrorizzata, prima di esplodere: «No! Beh sì, mi ha baciata, ma...» non riuscii a finire. Lui cominciò a girare lo sterzo quasi volesse staccarlo dal cruscotto. Le gomme stridettero e si immise sulla provinciale a folle velocità. «Ti lascio a casa Isy, ci sentiamo dopo. Adesso ho da fare!» mi informò conciso. Posai una mano sul suo braccio teso mentre stritolava il volante. Merda! Perché ero così deficiente?! Non mi spiegavo mai! E sì che parlavo inglese, in teoria! Gridai per prevaricare la sua gelida furia, pregando che bastasse. «Fammi spiegare Tony! Volevo solo dire: “Scusa! Avevi ragione!” Quel pomeriggio al parco ti amavo! Per quello non ho detto subito d’istinto “ti amo” a Steve! E ti amo adesso! E non sai cosa significa per me il fatto che sei vivo! Io non sono neanche riuscita a dirtelo quando sei riapparso, a dimostrartelo come avrei voluto!». Tony ridusse la velocità e mi scrutò. «Alleluya! Un punto a me!» La voce non era per niente esultante, ma piuttosto, torva, e, proseguì subito: «Ti ha rubato un altro bacio vero? Dimmelo!». Che vuol dire “Rubato”? Avevo capito che stava parlando di Edgar, ma non analizzai, più di tanto, la strana frase, mi premeva fargli capire il punto. «Sì, Okay! Ma non è come pensi...Dio! Mi piace anche lui! E lo sai maledizione! Certo, non come te, e, comunque te l’ho già detto...». Tony diede una rapida occhiata allo specchietto, decelerò ancora e...inchiodò! In mezzo a Winter Harbor Evenue! Le cinture si tesero respingendoci sul sedile, mentre, un ciclista dietro a noi, urlò un’imprecazione e sfilò via fuggendo dalle macchine che arrivavano strombazzando impazzite.
Il ragazzo, perfettamente imperturbabile, dei miei sogni ati, mollò volante e pedali stritolandomi in un bacio febbrile e apionato. Wow. Mi piacque non poco. Poi si staccò per urlarmi in faccia: «Hai detto: “Non come te” Isy?!» rideva felice come, forse, non lo avevo mai visto. «Tony lasciami spiegare...» cercai di iniziare, ansimando per l’apnea del bacio, ma Edgar Anthony Somerset non mi ascoltava affatto. Riavviando il motore con un gran sorriso, mentre mi chiedeva tutto soddisfatto: «Dammi una percentuale Samantha! Oppure mi presento davanti a tuo padre e gli dico che hai ato la notte con me!». Non fa sul serio vero? «Toonyy non scherzare su questo! Sei fidanzato e padre, in teoria! Lo sa tutta la città!». «Dammi la percentuale Isy, subito!». «Toonyy, è un discorso lungo...». «Nuumeroo, voglio il numero!». «Tu sei fuori di testa!». «Sì amore! Numeri Isy! Sono abituato a pianificare, e, le cifre nella strategia contano!». «Strategia?!». Adesso, strabuzzavo io gli occhi. «Certo! Non mi accontenterò mai di una vittoria a metà! Punto al cento per mille! Tu sei solo mia amore. Devi solo capirlo!» Altro sorriso sornione. Scossi la testa rassegnata: era proprio andato! «Beh, allora prenditi il tuo cento per mille, se la vuoi vedere così! Ma solo perché...come dicevi, non sei un ghostbuster!» asserii sorridendo. Volevo buttarla in risate, era tutto insensato: lui con le sue preziose percentuali, e io con i miei tormenti. Ma la spiegazione nascondeva i miei dubbi, e mi tremò un poco la voce. «Mmmh miglioro...due ore fa ero al cinquanta per cento, adesso al cento per mille...» ma l’euforia nel suo tono era evaporata come elio da un palloncino
aperto. Aveva capito. Ma io volevo spiegarmi: «E’ stato bruttissimo Tony! Il bacio di Edgar non l’ho corrisposto. Eppure...okay! Ti somiglia!». Ma che cavolo dico?! Tony strinse la mascella continuando a guidare. «Prosegui, stanotte ti ho chiesto massima sincerità su di lui!». Era calmo ma troppo controllato per esserlo davvero, cominciavo a conoscerlo. «Okay, beh, era la prima volta che lo baciavo in effetti e...». «La prima?! Credevo che al ballo...?» Tony era tesissimo, adesso dalle narici sbuffava un po’. «No, mi baciò sul collo e basta. Io credevo che in camera mia tu fossi lui!» adesso arrossii, e Tony bofonchiò irritato: «Questo lo so già!» Le cose si mettevano male, ma proseguii imperterrita. Aveva ragione, dovevo essere sincera, e poi lo volevo nel più profondo di me stessa. Basta menzogne o mezze verità: non con Tony. Mai più. «Sono rimasta sconvolta...baciarlo mi ha ricordato Steve. No! Era proprio come se fosse lui!». «E...»Tony buttò fuori l’aria in un colpo secco, e, quasi tossì la lettera che tremolava fuori dalle labbra ridotte a una fessura: il suo tono adesso era estremamente incerto. «…E mi manca Tony! Come mi mancavi tu quando ti credevo morto. E’ un dolore lancinante. Ci hai preso in pieno gettandomi addosso le tue accuse. Ma l’attrazione per tuo cugino è un sentimento falso che non voglio provare più!» Deglutii pesantemente, e, cercai, di stringere la sua mano in una muta preghiera. Doveva credermi!
Ma quando vidi che, non accennava a mollare la presa spasmodica sul volante, desistei. Spossata, feci scivolare via le parole dal peso che avevo nel cuore: «Steve è morto, tu sei vivo, prima vi amavo entrambi, adesso ci sei tu! Tu hai il cento per mille Tony! Andrò avanti. Ma tuo cugino Edgar...devo stare lontana da lui! E’ destabilizzante!» Evitando il suo sguardo avevo parlato a macchinetta, concludendo poi, la sparata, con infantile stizza fissandomi le mani che torcevo in grembo agitata. Mi rispose dopo un lungo attimo: «Ho capito... Bene, bella vittoria no?!» Aveva un tono amarissimo intriso di sofferenza, non potevo sentirlo così. In panico mi girai a scrutarlo, farfugliando isterica: «Non hai bisogno di vincere Tony! L’hai già fatto! Da sempre lo capisci?! Steve si fece avanti e mi resi conto di volere anche lui pensando che fossi tu la parte più superficiale e mendace dei miei sentimenti! Ti trattai così per quello. Quando ho deciso di scegliere lui, non volevo affrontare la menzogna che mi raccontavo, perché gli volevo molto bene e mi corrispondeva! Mi disse di scegliere, e lì per lì ho scelto con la testa, e non con il cuore, o meglio, non con tutto il cuore...metà già ti apparteneva!». «E, siamo come prima!» Sbottò torvo. Parcheggiò davanti al vialetto di casa mia, guardava fisso davanti a se, sembrava spento. Mi animai di ansia gridando ancora più forte, non sopportando di ferirlo. Io volevo iniziare la mia vita con Tony! Lui era il mio solo miracolo. Il miracolo avverato. Volevo poterlo amare, finalmente, senza pensare più a nient’altro che a lui. Edgar era solo l’eco di due rimpianti. Dovevo farglielo capire! Mi sporsi artigliandogli le spalle e costringendolo a girarsi: «No! Ti voglio maledizione! Come devo dirtelo Tony?! Steve è morto! Edgar è solo il tuo e il suo fantasma! L’ho scoperto oggi quando mi ha baciata. Tu sei reale!», deglutii spaventata. «Tu hai il cento per mille...» ripetevo soffocata la sua frase come una nenia capace di calmare entrambi.
Ma aveva ancora quell’espressione vuota, non reagiva, e crollai vinta dalla sofferenza di vederlo così. Iniziai a frignare come una stupida poppante. Dovevo esprimermi meglio, impedirgli di fraintendere a causa delle mie puerili insicurezze. Continuai a blaterare fra le lacrime: «Sei esistito solo tu nel mio cuore, dal primo momento che ti vidi. Ho sempre desiderato che mi amassi, ma ero così insicura! Chiesi a Steve di aiutarmi con le strategie per sedurti, e mi accorsi improvvisamente che il mio migliore amico era anche un ragazzo affascinante. E poi lui mi ha baciata! E Steve è stato tutto per me: un amico, la famiglia, e poi un fidanzato che mi adorava...ma non potevo smettere di volerti dal più profondo di me stessa. E ti amo adesso, Tony!» Più che continuare a ripetermi, straparlavo, farfugliando a me stessa, a lui, completamente terrorizzata dal pensiero di averlo deluso. Ancora. Sentivo in qualche modo che lo stavo perdendo: scivolava silenziosamente via come fumo tra le dita. E poi Tony mi abbracciò. Cercai di imprimere la forza del suo abbraccio nella memoria di ogni singola cellula; tatto, olfatto, udito e vista, non sopportavo di staccarmi da quel contatto vitale. Che mi sta succedendo? Non è un addio! «Lo so Isy, ho capito adesso, come l’ho fatto allora. Ma è complicato e...» la voce gli si spezzò. «E... cosa?! Hai mentito?! Vuoi rimanere con Pat?» nuovamente gelosa, mi aggrappavo alle sue spalle. «No, non è per questo, ho bisogno di te come l’aria nei polmoni... ma non posso combattere un’ombra Isy. Non ora. Ci sono troppe cose che non sai... se fosse solo mio cugino, potrei tentare, ma...» di nuovo la voce gli morì fra le labbra. Riscossa dalle sue argomentazioni insensate, mi asciugai le lacrime con stizza e mi divincolai. «E’! Solo. Tuo. cugino! Ma ci senti? L’ho ripetuto mille volte! Amo Edgar perché ti somiglia! E tu adesso sei qui! Amo Edgar perché somiglia a lui, e Steve è morto! Non tornerà! Quindi amo solo teeee! Fine della storia! Ti voglio come non mai!». I suoi occhi mobili, disperati, mi fissarono mentre irrompeva accorato: «E io voglio stare con te! Ma non così...». Mi terrorizzai ribattendogli ansiosamente: «Non posso perderti un'altra volta
Tony, non farmi questo!». Lacrime ribelli mi rigavano il viso di nuovo, il naso gocciolava mentre mi arrivava la sua risposta: «Non potresti mai perdermi Isy!». Lo disse con ancora il mio volto fra le mani incurante che fossi grondante e orribile. Lo amavo da morire, non potevo rischiare. Cedetti al panico insistendo: «Stanotte non ti ho detto tutto sulla mia richiesta di chiamarmi “Samy”! Io...». Mi interruppe bruscamente, senza replica. «Basta, Samantha!» un sospiro disperato gli usciva dalla bocca. Si ripeté anche lui quasi parlando a se stesso: «Ti prego. Basta!». Prese fiato e, disse con forza, risoluto: «Soffro. Anche. Io. Non posso sentire di più. Vieni, adesso, ti aiuto a scendere dalla macchina». Tirai su col naso ripetutamente, e la rabbia mi prese ancora, l’adrenalina dell’irritazione teneva a freno la disperazione. Era un incubo che mi stesse respingendo così, ma stava accadendo davvero. Pochi istanti dopo mi stava aiutando a saltellare sul portico, gli dissi di prendere la chiave nascosta sotto lo zerbino. Mentre aprivo l’uscio, con mani malferme, mi voltai e gli dissi decisa: «Non rinuncerò Tony! Non rinuncerò mai a te!». «Neanche io Isy...a te. Ma adesso devo andare». Gli afferrai i lembi del colletto della sua perfetta camicia, la stessa che gli avevo sfilato, languidamente, durante i preliminari di un momento intimo struggente che, ero riuscita a rovinare, come tutto il resto della mia vita sentimentale. Quelle sensazioni, tanto vive anche adesso, da rendermi il corpo un ammasso incoerente di desiderio, non potevano essere svilite diventando un banale ricordo. Gridai rabbiosa: «E adesso...? Noi due?» l’essenza di me stessa si ribellava a questo destino. «Noi due siamo una magnifica bugia: una bolla di sapone che si è rotta oggi». «Tooony! No!» negai stridula, tutta la mia determinazione volò via, ma cercai di trattenerlo, stringendo, convulsamente le dita intorno al cotone, attirandolo a me con uno strattone.
Lasciò che i nostri occhi distassero solo pochi millimetri: lo sguardo mobile a scrutarmi l’anima. «Isy, aspetterò, sposato, non sposato, padre, o non padre, sai che ti aspetterò sempre. Ma ripeto: credevo di farcela, poter combattere, vincere persino, ma contro un un vero fantasma non è possibile!». «Taci! Ti amo!» gli urlai in faccia, attirandolo poi in un bacio disperato, ma girò il viso di lato cosicchè le mie labbra si posarono solo sulla sua guancia. Sentii i muscoli muoversi e accarezzarle, mentre mi rispondeva. «Non sai quanto vorrei che bastasse...». Detto ciò si scostò, facendomi, sentire subito defraudata del suo contatto, mi rubava un diritto che sentivo di possedere: il diritto della mia pelle di averlo contro di se. Accompagnandomi sul divano, con l’espressione, di chi non vuol più parlare nè ascoltare. Rimase immobile lontano da me. Attese che chiamassi mio padre per informarlo del mio piede. Cortesemente mi chiese se mi serviva aiuto con la medicazione. Scossi la testa, torva, mentre la disperazione ricompariva a imperlarmi gli occhi gonfi. Volsi il viso, per non farmi vedere in quello stato, almeno stavolta. Lo prese per un congedo definitivo: uscì silenziosamente dal salotto e si chiuse piano la porta di casa mia alle spalle. Quando sentii il tonfo smorzato dell’uscio che sbatteva, fui scossa da un lungo tremito e singhiozzai, senza ritegno, ancora per un bel po’. Poi mi alzai, avviandomi saltellando, a rimettere insieme i cocci dell'incubo, in cui si era trasformata l'alba fantastica che avevo trascorso con lui. Avevo deciso di essere sua, e scalando, le vette sconosciute dei nostri corpi lo stavo divenendo, e poi stupidamente avevo rotto l’incantesimo. Ma, in quell’istante del mio pensiero, reagii con sorprendente determinazione alle mie solite elucubrazioni depressive. Lo avrei riconquistato, sapevo che mi voleva tanto quanto lo volevo io. Dovevo provargli la forza devastante dei nostri sentimenti. Sarei stata alla larga da Edgar e da ciò che rappresentava: la menzogna. Ricordando l’amore di Steve come un tesoro prezioso archiviato in un angolo del cuore. Mi resi conto che, in mezzo, alle tante parole che avevo usato per farlo desistere, non aveva voluto ascoltare, proprio, la verità sulla faccenda insensata di farmi
chiamare col nomignolo che usava lui. Ero stata una tale codarda! In quel particolare momento, mi ero vergognata di spiegare bene al mio partner proprio tutto sull’intenso desiderio per lui che stavo provando, per un puerile, quanto tardivo pudore. E, come al solito, avevo peggiorato la situazione. «Sono stata un disastro in questa -quasi- prima volta» mi presi in giro ad alta voce. Conseguentemente, però, mi scappò un sorrisino ironico, che diventò presto dolcemente malizioso. Il mio corpo, e il suo, mi urlavano una vittoria annunciata, fra le nebbie rosse dei miei ricordi. Rincuorata da questa consapevolezza riuscii a ritrovare finalmente un po’ di calma. Mio padre, poco dopo, mi sorprese in condizioni accettabili. Senza sospettare nulla, se non una banale disavventura con le mie stramaledette ballerine.
5 Vacanze Romane
Jason
«Sì, Colonnello Nardelli» l’istinto fu di tirare su il braccio, nel mio impeccabile saluto militare, ma lo domai. Non lo ero più: un soldato. Mossi lievemente il piede e, mi concessi solo una posa più rilassata, mentre continuavo: «Nessun problema: hangar numero 4», un cenno breve con il capo e stavo già uscendo dall’ufficio, la mano quasi sulla maniglia. Nardelli, con il suo spiccato accento italoamericano, mi apostrofò da dietro la spalla. «Mi saluti suo padre, capit...volevo dire, Signor Somerset!». «Presenterò! Non dubiti!» mi girai sorridendo brevemente, con uno scintillio di scherno nello sguardo, un vezzo che, mi concedevo di indirizzare a un superiore, solo perché adesso ero un civile. Mio padre detestava Nardelli: “Il peggiore ufficiale che ho mai addestrato” diceva sempre se, nel discorso, casualmente si accennava a lui. Ma, tuttavia, non intendeva affatto la sua preparazione, quanto, il suo onore. Il malcapitato, credendosi un irresistibile rappresentante del fascino latino, aveva provato a sorridere fin troppo interessato, a mia madre, durante una visita a casa mia. Ci aveva rimediato: un’occhiata gelida prima, e una mascella fracassata dopo. Superata la porta, mi concessi un sorriso aperto. Povero Nardelli! Non sospettava all’epoca che, le dicerie sulla possessività di mio padre, ma soprattutto, sulla bellezza di mia madre, fossero vere. Ed era
rimasto folgorato da Beth, diventando, spavaldamente imprudente. “Prova a sfiorare con uno sguardo la bella Elisabeth, e guardati le spalle amico, perché sei morto” Questa frase girava ancora, come monito, fra i cadetti dell’Accademia, nonostante papà ne fosse uscito da un bel po’, sia come allievo, che come istruttore. Nardelli, non era stato il primo, che aveva avuto la prova della sua veridicità, a suo tempo. Scacciai i ricordi scatenati dai saluti del colonnello. La mia famiglia mi mancava. Erano tre settimane che ero a Pratica di Mare e già soffrivo di nostalgia. Soprattutto per quel pivello del mio fratellino. Sorridevo ancora, ma, con un’intensità piena di sollievo, che si irradiava dal cuore: adesso palpitava d’affetto, ma due soli mesi fa, era un pezzo di ghiaccio morto che tuttavia sanguinava. Avevo ancora davanti a gli occhi la faccia del sottufficiale Malek, che, appena smontato dal mio caccia, dopo una ricognizione, con il casco ancora in mano, mi aveva raggiunto, e detto, di contattare casa urgentemente. Conoscevo la procedura, e in quel momento un ghiaccio oscuro aveva pietrificato i fluidi del mio corpo. Ma avevo annuito e, senza correre, mi ero diretto alla costruzione in mattoni cotti dal sole che, all'aeroporto militare internazionale di Bagdad, fungeva da Torre di Controllo. Jeson Somerset era un’ufficiale imperturbabile, affidabile, preciso, non lasciava mai che, i sentimenti personali, offuscassero i suoi comportamenti quando indossava la divisa. Ero stato allevato così, al pari dei miei fratelli. Il decoro militare innanzitutto. Peccato che fosse una facciata, per ognuno di noi. Mio padre amava visceralmente mia madre, e, ci adorava, in un modo che sentivamo scaldarci dentro.
Rebecca, era un’insospettabile romantica, dietro i suoi modi sicuri. Mia madre, faceva della sua amabilità, e presunta fragilità, una virtù invidiabile, ma era una belva nel difendere il marito e i figli. E il mio fratellino? Edgar...lui era un inguaribile sentimentale, che, si sforzava di somigliare a nostro padre, peraltro riuscendoci benissimo, dato che avevano un carattere pressoché identico come l’aspetto. Io ero un sanguigno, collerico, imbrigliato dalla disciplina militare, che, amava immensamente tutti loro, e provava un legame fin troppo esclusivo: se soffrivano, soffrivo, se erano felici mi sentivo in pace, e se gli succedeva qualcosa, provavo tutto sulla mia pelle. Quella sera “era morto mio fratello” ed ero morto anch’io. La maschera del Capitano Somerset si era sgretolata, ero diventato una furia: attaccato il telefono non c’era rimasto molto di quell’ufficio, e, c’erano voluti tre colleghi nerboruti, per riuscire ad aver ragione della mia disperazione distruttiva, ma era solo me stesso quello che stavo tentando di annientare, era solo il mio dolore, perché non concepivo che il mio fratellino non ci fosse più, non concepivo che anche la mia famiglia dovesse affrontare quel tormento, disarmante, dirompente. Deglutii, pesantemente, tornando alla realtà, massaggiandomi distrattamente le nocche della mano destra, una linea sottile e frastagliata le percorreva, era rosata, mentre il resto della mia pelle chiara, era già ambrata da una leggera abbronzatura, frutto del sole italiano. Avevo fracassato a pugni i vetri delle finestre quella notte, e neanche mi ero reso conto dei tagli, mentre soffrivo per il mio cuore strappato dal petto dall’indicibile dolore. Tremai impercettibilmente, mentre, percorrevo il corridoio, cosicchè respirai razionalizzando. Jason, Edgar è vivo, calmati. In un gesto meccanico portai la mano in tasca estraendo il cellulare. Toccai lo schermo uscendo nel sole del cortile. Affrettandomi verso la jeep stavo facendo
segno alla recluta che faceva d’autista di aprirmi lo sportello -una vecchia abitudine da ufficiale- Dieci squilli. Una voce vigile e tesa -invece del tono impastato di sonno che mi aspettavo«Jas?...ciao fratellone! Come stai? Che succede? Fortuna che mi trovi sveglio», conoscevo quel tono. Recita perfetta. «Dacci un taglio Edgar, che hai? Da voi è notte fonda, e non sembra che dormi...». «Jeson! Dacci un taglio tu, sto bene!». «Mmh Okay, diciamo che adesso me lo faccio bastare, ho un volo fra 10 minuti». «Non massacrare quel povero pivello» Edgar ridacchiò, ma potevo sentire la falsità della sua ironia. «Eddy, che cazzo hai? Sputa...» mi interruppe subito. «Niente Jas! Senti, puoi farmi un favore?». «Certo fratellino». «Mi chiami Tony come tutti, una buona volta?!». Adesso aveva perso la maschera: era palesemente irritato e conoscevo troppo Edgar per illudermi, anche solo per un secondo, che ce l’avesse veramente con me. «Tornate a casa! Tu e Reb, Edgar! A Dallas! E questo è. Il tuo nome!» attaccai contrariato, sbuffavo l’irritazione dal naso, ma ero già in vista dell’hangar. La mia rabbia si concentrò sul volto del ragazzo che non era mio fratello, e ne aveva usurpato il nome e la faccia. Ero puerile? Non mi interessava. Il comportamento di zio Charles -la sua insana idea di dare a un altro i lineamenti del nipote e addirittura il “suo” nome- aveva sconvolto mia madre, seppur inizialmente, e non glielo avrei perdonato. Mai. Nè a lui e neanche a quello scherzo della chirurgia che adesso i miei fratelli chiamavano cugino!
Ero presente quando Reb ci aveva mostrato la sua foto. Io: avevo sorretto Beth mentre sveniva. Io: avevo chiamato il dottore con ansia divorante. Io: avevo dovuto dire a mio padre, rientrato poco dopo, che si era sentita male di nuovo, per poi vederlo crollare in ginocchio con la testa fra le mani, maledicendo se stesso e il proprio lavoro -che un tempo amava- che gli aveva strappato suo figlio minore distruggendo, con il dolore lacerante della perdita, tutta la sua famiglia prima che se stesso. Era la prima crisi dei miei cari dopo due settimane inerti ma almeno meno angosciose. E avevo odiato visceralmente lo zio e il suo fenomeno da baraccone! E adesso che Edgar Carlton, era ufficialmente il nostro caro cuginetto, non faceva differenza. Non per me! Non sapevo cosa succedeva a Winter Harbor, ma conoscevo mio fratello, e la sua voce non mi piaceva, se prima ero solo protettivo con lui, adesso ero possessivo. E, cazzo! Il mostriciattolo di plastica era morto se infastidiva la mia famiglia! Grugnii infilandomi il casco dicendo sbrigativo al pilota: «Procedura standard, niente evoluzioni, o parcheggio il mio piede sul tuo culo recluta! E non credere che non lo farei! Sono un civile ora, ma il tuo superiore era un mio sottoposto nei caschi blu e ho piena copertura, intesi?!». «Sì, Signore!» «Bravo bambino, adesso manovra con garbo questa bellezza e andremo d’accordo! Ti servono i miei crediti se vuoi il brevetto avanzato!». «Lo so. Signore». «Signor Somerset, idiota, sono un consulente non il tuo superiore!» «Sì. Signor Somerset».
Feci una risata sciolta. Okay, mi ero sfogato abbastanza. «Ras, vero?». «Sì. Signor Somerset». «Il tuo nome di battaglia, Ras?». L’avevo letto sul casco, ma volevo chiacchierare per spezzare la tensione che avevo creato, trasformarla in fiducia, e fargli dare il massimo. «Killer. Signore!». Risi di più. «Puoi chiamarmi: Vampire!». «Ricevuto! Vampire».
Amber
«Dio, Matthew! Smettila di fissare il tuo Iphone! E goditi il “mauritozzou coun la penna!”» «Amber, hai un pessimo accento sorella». Mi scappò un gemito di disappunto. «E’ vero...eh? Si sente troppo?» adesso ero in panico. «Be’ sì... somiglia a quel doppiaggio cretino di noi americani in quei film italiani in lingua originale che ogni tanto mi trascini a vedere». «Matthew, come faccio? Ho il colloquio fra mezz’ora! Sai che l’italiano è un requisito di esclusione dal corso!»
Puro panico. La montagna di muscoli che era il ragazzo vicino a me fece spallucce e mi omaggiò di un sorriso rassicurante, con la coda dell’occhio vidi sospirare la cameriera che posava i cappuccini sul tavolino all’aperto di quel lussuoso Bar a via Aldrovandi a Roma. «Tranquilla, non potranno far caso all’accento no?! Sei americana dopotutto, e parli comunque l’italiano!» Un po' di sollievo ad alleviarlo. «Lo so... ma ci tengo Matt, l’ “Accademia di Costume e Moda” è stata sempre il mio sogno...ci pensi? Amber Carlton Couture!». La mia aria entusiasta a condire il tutto. «Si realizzerà! Almeno il tuo...». Cambiai espressione, rispetto a quella sognante che avevo poco prima, persa nella mia immaginazione carrieristica. Adesso lo fissavo dolcemente. Strinsi la mano enorme del mio fratellone sulla tovaglia di broccato color porpora. «Matthew...». «Be’... Reb non ti ha chiamato stamattina... sarà in giro con Eddy». Si strinse nelle spalle cercando di essere naturale. «Di notte? Matthew, sii serio!». «Reb dorme adesso, mi chiamerà stasera per sapere come è andata». Lui perse la sua aria rilassata sbottando: «Rebecca non dorme bene da una settimana Amb! E lo sai anche tu!». «Matt...» lo blandii di nuovo. Che potevo dire di più? Mio fratello non era
stupido e notava tutte le sfumature nell’umore di nostra cugina, come io, del resto, che, quando vedevo Jas, notavo le sue. Ma, non l’avevo visto di recente, e mi mancava da morire! Noi fratelli Taker-Carlton, avevamo la maledizione dell’amore impossibile per i nostri “non-cugini” Somerset, e non era affatto romantico. Solo tragico. «Non avercela con Eddy, però, okay? Sai che ti vuole bene». Matt, si animò tutto. «Con lui? Nah! Cosa c’entra il mio fratellino? Reb è una complicazione! La amo, ma è un rompicapo! Eddy non c’entra nulla!». Sbuffò e riprese la sua maschera sorniona osservando il cielo. «E’ proprio azzurro eh? Come gli occhi di Rebecca, ne andrebbe pazza di questo colore». Mi fissò intensamente per un attimo, poi proseguì. «Ero convinto ci accompagnasse: adora lo shopping, e, questi posti». «Tutta colpa di quella stronza di Samantha! Sta facendo impazzire tutti con le sue lagne vittimistiche! La strozzerei!» Sbuffai come una belva, innervosita. «Samantha Lee...non capisco che ci trovino, carina okay, ma le “castane indecise” non mi dicono granché», ridacchiò Matthew. Gli sferrai un calcio da sotto il tavolo, la mi gamba esile, e più corta della sua, raggiunse a malapena il suo poderoso stinco. Matt rise di gusto. «Presenti escluse sorellina! E poi tu sei più bionda!». «Ah be’! Dicevo io! Troglodita!» Scrutai il viso aperto di mio fratello e la sua rude bellezza: un moro dagl’occhi di ghiaccio grigio e i lineamenti volitivi che facevano il paio con un corpo possente che lui aveva ulteriormente scolpito con lo sport. Quale? Lotta libera. Che altro? Mi scappò un sorriso, ma teso, non riuscivo a rilassarmi.
Afferrai il manico della tazza e ingollai il cappuccino come se, stessi vuotando un shottino di liquore durante una scommessa, mi andò tutto di traverso e tossii. Matthew ridacchiò, si protese verso di me per togliermi la tazza di mano che ondeggiava, paurosamente, durante i miei singulti. «Attenta, che ti sporchi, e poi chi le sente le tue di lagne? La Lee non è la sola a cui piace fare la scena». «Matt, non mi offendere» sputai secca. «Sono già abbastanza fuori di me stamattina». «Okay, Okay, vieni Amb, andiamo a stendere i “maungia-spaughetti!”». «Zitto Matt! Ti sentono!». Lui rise più forte, una risata greve ma anche contagiosa: il mio fratellone sprizzava gioia di vivere da tutti i pori, nonostante nel reparto cuore sanguinasse in silenzio. Matthew aveva un carattere gioviale, e una forza d’animo invidiabile. Rebecca era proprio una sciocca, anche se potevo capire il suo interesse per Eddy: il mio dolce, complicato, nuovo fratello. Sospirai. Cominciavo a odiare l’idea che aveva avuto Charles. Tony Somerset! L’arma di distruzione di massa del cuore delle ragazzine di Dallas! E mio padre la replicava? Adesso che il dolore della tragedia era annegato nel sollievo, erano grossi guai per tutti le conseguenze del suo gesto. Anche perché, Eddy, era un amore già di suo, con quel suo sguardo tenero, se non fossi stata così presa da Jason, sarei stata inebetita quanto Reb. Anche se, il lottatore qui presente, tutt’altro tipo di bellezza maschile, non era certo da meno. Ma Rebecca Somerset era cresciuta con lui che la proteggeva come un altro fratello ogni volta che giocavano insieme; lo considerava di famiglia, non vedeva Matt come un ragazzo da poter amare. E lui, cresciuto adorandola, soffriva perfettamente in silenzio senza dare traccia
del sentimento profondo che nutriva per il suo “angelo biondo”. Fui strappata alle mie riflessioni, l’energumeno davanti a me ribatteva sempre più divertito: «Sì?! Bene, che si facciano pure sotto! Mi servirebbe una scazzottata per sfogare lo stress!». Eravamo in piedi adesso, aggirai il tavolinetto tondo per sferrargli una gomitata. «Zitto zoticone! Poi ci lamentiamo se sembriamo rozzi agli Italiani!». «Va a pagare, la cameriera ne sarà felice... ti aspetto qui!». Matthew rise ed entrò. Sperai assurdamente che, la cameriera moretta e sciapa, si trasformasse magicamente in Claudia Shiffer e inebetisse mio fratello. Chiusi gli occhi e lo desiderai intensamente, poi li aprii e scoppiai a ridere, vedendo il mio fratellone che usciva con un altro maritozzo in equilibrio precario nella mano. «Ah...vedo che ti sei lasciato tentare dopotutto! E la cameriera? Gli hai chiesto il numero?». «Uh! Gulp. Chi?!» Fece lui tra un boccone e l’altro. «La tipetta sorridente! La cameerieera!». «Ah, neanche l’ho guardata Amb! Odio le more!». Scoppiai a ridere. Decisamente, non ero dotata di poteri paranormali.
Il colloquio andò bene. Quando uscii sotto sole accecante, mi scoprii ad offrirgli il viso sospirando. «Aspettami Roma, sto arrivando!» dissi ad alta voce in inglese mentre dietro a me usciva una segretaria -notata all’interno dell’ufficio iscrizioni- mi guardava, affilava lo sguardo, e si affrettava a scomparire su per il marciapiede ticchettando, spedita, nelle sue scarpe di Guess made in China.
Scossi la testa con un sorriso. Maledetta globalizzazione! Se fossi riuscita a impormi come stilista avrei prodotto accessori fatti a mano da artigiani Toscani, mi ripromisi sorridendo delle mie idee grandiose, finalmente libera dall’ansia che mi aveva attanagliato per tutta la mattina. «Mi mancava quel sorriso sorellina!» mi arrivò una manata sulla spalla che mi sbilanciò. Matt era un materialone! «Sì, Okay! Che si fa? Festeggiamo?». Decisi di attaccare subito con i miei propositi, lo facevo sempre quando ero eccitata. «Bene! Dove ti porto? Miss “futura Valentino”?». «Che domande! Al mare!» Feci un sorriso birichino a Matthew, e lui scosse la testa. «E poi ero io, quello che non doveva guardare l’Iphone!» sospirò ridacchiando: «Fammi indovinare...vuoi andare a Pratica di Mare?». Matthew aveva sempre saputo la vera ragione per cui avevo scelto proprio quei particolari giorni per sostenere i colloqui preliminari a Roma. Jas stava tenendo dei corsi speciali come consulente civile alla base militare Nato sulla costa romana. «Sai, che è improbabile che lo incontriamo, e, non sarebbe neanche contento, se lo chiamassimo», perseguì in un tono meno cupo, quasi a smorzare il senso sgradevole delle ultime parole proseguendo: «Ma non resisti giusto?» condì la sentenza con un occhiolino. «No», risposi io con un sorriso, scuotendo la chioma perfettamente liscia dei mei capelli: opera di un certo “Coppola” a Via Del Corso. «Allora andiamo, ma se provi a intristirti adesso che hai quel bel sorriso, ti
sculaccio!». Gli lanciai un’occhiata gelida. «Devi solo provarci e ti mordo!». «Ah, allora scappo, hai dei dentini da furetto aguzzi, sai?» Scoppiai a ridere alla sua battuta. Volevo solo godermela un po’ sotto al cielo in cui Jason stava volando. Che male c’era? Erano settimane che non lo vedevo e anche se ero l’unica Carlton a cui rivolgeva -educatamente almeno- i saluti, sapevo di non avere alcuna possibilità. E, nella peggiore delle ipotesi, quando l’inevitabile tristezza, mi avrebbe presa, sarei andata a far shopping all’outlet li vicino. Amber Carlton aveva sempre un piano B per non deprimersi troppo. In quello, io, e il mio fratellone, eravamo simili, per quanto, non fossimo fisicamente molto accomunabili. Io avevo preso da mamma lui da papà. In comune avevamo una forza d’animo che poteva farci sembrare superficiali ma, chi ci conosceva a fondo, sapeva bene che era solo una buona forma di difesa. Sospirai scacciando le tristezze, allacciai il mio cavaliere e braccetto e ci dirigemmo, sorridenti e spediti, verso il parcheggio dei Taxi.
Jason
Le tempie mi pulsavano e non era usuale per me. Slacciai le cinghie del casco con un colpo secco, togliendomelo di scatto e affrettandomi verso la Jeep che mi attendeva a bordo pista. «Signor Somerset? Ha finito?» fece l’autista come per una conferma. «Sì, per oggi, sì» aprii lo sportello e salii.
«All’ufficio?». «No Perretti. Grazie, mi porti ai miei alloggi per favore». «Perfetto». Pochi minuti e avrei potuto finalmente infilarmi sotto una doccia bollente. Ero teso, la conversazione con Edgar mi rimbalzava in testa, anche se non lo volevo. Dio, non riuscivo ancora a capire la ragione logica -quella emotiva di Tony la intuivo- per cui i miei fratelli minori avevano dovuto trasferirsi a Winter Harbor per finire l’ultimo anno di liceo. Addirittura ospiti del geniale Frankenstein Junior! Pensai con stizza. Ma naturalmente di spiegazioni -molto logiche- non ne avevano date, nè a me, nè ai miei, ma i nostri genitori erano talmente ebbri di gioia per il ritorno di Tony, che avrebbero approvato qualunque suo desiderio, e Reb aveva voluto seguirlo per non lasciarlo solo. Qualunque capriccio...a parte, certo, proseguire l’Accademia. Era incredibile come, in meno di un anno, la carriera militare fosse ata da ragione di vita a spauracchio per noi Somerset. Me in primis. Era stata devastante la sofferenza che avevamo subito e sopportato in quei mesi. Commisurata solo all’intensa gioia e, all’altrettanto doloroso sollievo, del ritorno di mio fratello. Un miracolo che non aveva nome nel nostro cuore, solo un’intensità inenarrabile. Non ne volevamo sapere più delle Forze Armate. Certo, ero ancora un istruttore, ma non avrei più aggiunto rischio al rischio. Non per codardia, ma perché: la sola idea che i miei soffrissero ancora -per causa mia stavolta- quello che avevano ato, mi era intollerabile.
Non che approvassero, chissà quanto, che avessi continuato ai margini del mio vecchio lavoro con sostanzialmente una buona percentuale di rischio, ma era infinitamente minore di quello militare, e su questo avevano dovuto cedere. Come anche la mia preoccupazione per le loro ansie. Ero un pilota della Marina, era nel mio DNA, e non sarei mai riuscito a staccarmene completamente. Il “Generale” -non riuscivo a non chiamarlo così- anche lui aveva rifiutato: le scuse e il reintegro dopo il ritorno di Edgar. Divenendo poi, come me, un prezioso consulente civile del Pentagono.
Come previsto, la doccia mi rilassò, e sdraiato sul letto mi assopii un po’. Non seppi quanto effettivamente dormii in quello stato di semi incoscienza, fino a quando il telefono squillò. Cercai a tentoni il mio cellulare tastando il comodino con la mano nervosa. Avevo la testa annebbiata, mi schiarii la voce prima di guardare il display per non sembrare assonnato a un eventuale interlocutore. Notato il chiamante mi allarmai. Edgar! Ma che diavolo? Non era tipo da richiamare subito dopo la nostra ultima conversazione, non, se non c’era un validissimo motivo. «Pronto, Ed?» Efficiente e all’erta. «Jas, c’è un problema». Diretto. «Okay, ti ascolto». Deciso. Era incredibile come parlassimo in codice, molto più con i toni di voce che non
con le parole quando dovevamo confrontarci con i problemi. Era utilissimo, riuscivamo sempre a mettere in moto le decisioni più giuste. «Ho chiamato io, perché so che a me non dirai di no». «Ed, parla!» «Amber e Matt sono a Roma per i colloqui studenteschi di nostra cugina». «Lo sapevo, mamma me l’ha detto». «Okay. Matt è nei guai, ci ha chiamato Amber da Pomezia, sono al comando dei Carabinieri». «Guai, seri?». «Fastidiosi per lo più: una rissa in cui Matthew naturalmente ha avuto la meglio, l’altro è ammaccato, ma non grave, solo che è il figlio di un colonnello della base dove stai tu, e naturalmente vuole farla pagare a Matt». Ed sibilò dal disgusto per quella vigliaccheria, e proseguì: «Ma Amber è in panico, ed anche Reb». «Sai il nome del colonnello?». «Sì, una vecchia conoscenza: Nardelli», Ed grugnì stizzito prima di proseguire: «Probabilmente i geni non mentono e quel cretino ha infastidito nostra cugina, e, conosci Matt...». Un improvviso guizzo di rabbia mi prese, era intenso, viscerale. Sì, capivo il verso irritato di Edgar, e tutta via c’era dell’altro, ma la mia efficienza mi strappò dalle mie riflessioni più istintive, e proseguii efficiente: «Confermo, me ne occupo io». «Grazie Jason». «Non ringraziarmi, e, sì, fratellino, hai ragione, lo faccio solo perché me lo chiedi tu, ma presto il bonus ansia scadrà e ritornerò in me. Attento! Potrai pure essere padre, e sposarti a breve, ma sei un pivellino e mi dovresti dare retta!» Scossi la testa, tutta la situazione -fidanzamento riparatore- era una farsa bella e
buona. L’avevo smascherata subito, ma i miei se l’erano bevuta. Speravo solo che Edgar tornasse in se prima di andare fino in fondo. Lui e il suo onore al contrario! Per votarsi come un martire a una ragazza che lo aveva respinto, andava in aiuto di un'altra in difficoltà. Non che fossi autorizzato a sapere certe informazioni, semplicemente, avevo fatto due più due dal poco che intuivo. Tony era partito, sconvolto, per l’Accademia. A causa di un rifiuto sentimentale. Poi era tornato nella città dove la ragazza in questione viveva, e dopo, ecco comparire Patricia. Certo non ci voleva un'analista del ministero della difesa per trarne le somme. E lo avevano fatto anche i miei supponevo, anche se non avevano dato a vederlo. Sapevano quanto me che, con Edgar Anthony, opporsi a muso duro erano tutte energie sprecate. Doveva arrivare alla verità, sbagliare o correggere il tiro da solo. Mi era simpatica Pat, come a tutti, ma speravo che al dunque, si mettesse una mano sulla coscienza e lo respingesse. Io non potevo fare niente, il fratellino minore adorava fare l’eroe, come mio padre, e su questo punto non accettava consigli da nessuno. Ma ultimamente era inquieto, più del solito, lo sentivo adesso, come nella precedente telefonata, e la vicinanza di Edgar Carlton, a lui e Reb, non mi piaceva. La sua risatina gutturale mi fece tornare alla realtà. «Lo so» disse, poi proseguì: «Ma non me la racconti, ti conosco bene Big Brother!» sospirò secco adesso: «Infondo, non serviva convincerti, non se si
tratta della famiglia». «I Carlton se lo devono riguadagnare quello status!» «Smettila Jas! Il tuo orgoglio non vale, non per Amber...o Matthew» aggiunse troppo in fretta. Che cosa voleva intendere con quel tono di intenzione nel nome di nostra cugina? Non ci badai e risposi come al solito pragmatico: «Okay, tranquillizza Reb e zia Eveline, appena risolta vi chiamo». «Okay, Vampire» Edgar ridacchiò più rilassato. «Oh, ma sta zitto fratellino!» riattaccai sogghignando. Poi riacciuffai per un attimo il pensiero dubbioso di poco prima che fece il paio con una strana sensazione di rabbia profonda all’immagine del viscido Nardelli Junior che ci provava con la piccola Amb. La tenera e bellissima Amber. Scattai come una molla tirata al limite e rilasciata di botto. In cinque minuti ero pronto all’azione, con la strana voglia, di non indagarne i meno ovvi motivi.
Edgar Anthony
Mi rigiravo la matita fra le mani guardando torvo Brooke vicino a me, nel tentativo, vano, di farla desistere dal lanciarmi sguardi ammiccanti che avevano solo il potere di innervosirmi. Io! E la mia stramaledetta idea di sedermi a questo banco quando volevo far soffrire Samantha!
O meglio, speravo inconsciamente di ingelosirla. La bella pensata mi si era grottescamente ritorta contro. Ero rimasto intrappolato. Adesso la Salt, mi teneva il posto ad ogni lezione comune, e nessuno me ne lasciava un altro libero, solo Amber, ma mia cugina non c’era. Cercai di concentrarmi sulla dissertazione del professore, scacciando l'irritazione. Il professor Triber insisteva a calcare sulla parte più noiosa della spiegazione: invertebrati. Non ne potevo più! Sebbene, la molliccia situazione del corpo di quegli animaletti, in questo momento mi somigliasse per certi versi, e, fosse agli antipodi con me, per certi altri. Vibrazione. Nella mia tasca destra il telefono si fece sentire, lo tirai fuori di scatto grato della distrazione, era un messaggio di Reb. Non alzai lo sguardo verso il suo banco, non volevo vedere Edgar. «Tony, ho sentito Amber, resisti sta per tornare!». Il messaggio finiva con delle faccine ridacchianti, mia sorella si era accorta della mia insofferenza per la sgradita compagnia. Era ora! Da quando mio fratello aveva risolto la questione Matt, la trasferta di Amber a Roma si era allungata di un paio di giorni. Adducendo come scusa altri colloqui in istituti d’arte. E Jas per coincidenza -certamente- aveva smesso di chiamarmi tanto spesso. Sapevo che c’era sotto qualcosa e sorrisi: un ghigno ultimamente raro sulle mie labbra. Mio fratello era un libro aperto per me, avevo sempre intuito il suo interesse per la cara cuginetta, prima di lui stesso. E poi, quello di Amber per lui, l’avevo già confermato, adesso che vivevamo a villa Carlton e potevo coglierne i segnali in mia cugina. Almeno c’era un lieto fine per qualcuno, forse. Per un millesimo di secondo accarezzai l’idea di fare squadra con Jas -qualora
fosse venuto a Winter Harbor- contro Edgar, ma la scartai disgustato di me stesso. Allearmi con mio fratello sfruttando la sua antipatia persistente per l’usurpatore del mio viso, non era la soluzione. La soluzione, che mi annienti, o meno, è Edgar stesso. Ma non vuole ascoltarmi! Grugnii irritato dall'impotenza di quel pensiero, riprendendo il filo delle mie elucubrazioni. Sapevo del risentimento di mio fratello per Edgar, ed ero conscio del fatto che se si fosse accorto che, Reb stava nutrendo dei sentimenti per lui, questa rabbia si sarebbe acuita. Ma sarebbe stato un problema da affrontare, se, e quando, si fosse presentato. Adesso i miei occhi inquieti vagavano per l’aula come attratti da una calamita ancora non abbastanza vicina per inchiodarli addosso a se. Poi eccoli fissarsi alla sua nuca lasciata nuda dall’alta coda di cavallo. Sembrava attenta, ma era tesa. Le spalle rigide tremavano a ogni tono più alto del professore. Chiusi per un attimo le palpebre e risentii le mie labbra sfiorare quella pelle morbida fra le trame dei capelli, ora tirate verso l’altro dal fermaglio di nastro rosso. Deglutii emozionato, strizzai gli occhi, e fissai, riaprendoli, la matita tra le mie dita che, adesso, aveva smesso di tormentare la formica con il suo insistente tiptap. Colto da un proposito insensato, ma pressante, estrassi un foglio dal mio zaino e iniziai a scrivere. Brooke allungò il collo curiosa, io mi sporsi verso il bordo occludendole la vista col busto e il braccio. E iniziai a tradurre il cuore in parole. I sentimenti in prove che, non avrebbero dovuto esistere, se non dentro di me.
6 Paura d'Amare
Edgar Anthony
Riuscii a bloccare Edgar negli spogliatoi, si stava infilando la camicia con un colpo secco delle spalle dopo la doccia. Mi parai davanti a lui. «Dobbiamo parlare cugino» Il mio tono secco non prevedeva un “no” come risposta. «Io credo di no, Somerset!» lui, al contrario di me, faceva del suo autocontrollo una maschera troppo blanda per essere reale. Non era difficile immaginare che, dietro i modi cortesi tipici dei Carlton, ci fosse un ragazzo che in realtà non era del temperamento dei suoi famigliari acquisiti. Sapevo poco di Steven Moore, in effetti solo nome e cognome, ma doveva essere stato, ed era, un ragazzo ionale e collerico. Ma avevo intravisto barlumi di profonda bontà nel periodo della nostra alleanza anti Sam; nei giorni in cui, le nostre due famiglie, sembravano davvero una sola. Era magnifico con chiunque del clan ne avesse bisogno. Poteva soffrire, e sapevo che stava accadendo, ma aveva sempre un moto d’affetto da regalare ad ognuno di loro se giudicava che ne avessero bisogno. Edgar Carlton, mi aveva rubato molto di più della faccia e del nome in un furto non voluto. Ma Steven Moore, era e rimaneva, un gran bravo ragazzo.
La mia rabbia guizzò potente, per rendermi freddo e determinato piuttosto che comprensivo. Chi mi stava di fronte era il mio rivale, poteva decidere della mia felicità o tormento. Tormento. Chiusi un attimo gli occhi, rividi la pelle nuda di Sam, il mio tocco delicato per farla fremere. No, senza di lei non sarei stato più lo stesso ma un pallido riflesso. Istinto di sopravvivenza: furia, distruzione. Sì, devastazione! Questa sentivo di dover infliggere, prima che la stessa annientasse me. Il cuore e le viscere volevano far scomparire Edgar: l’usurpatore col mio nome, l’ombra nei sentimenti di Isy. Deglutii pesantemente tornando lucido. L’istinto era reale, mi diceva che era solo mia e, di difendere, questa verità. La ragione era altrettanto presente, e mi portava la tremenda realtà: non funzionava così. La scia sulla pelle lasciata dalle nostre reciproche carezze non era un marchio di possesso come gridava l’anima. No. La verità aveva ancora l’ultima parola in questa battaglia e adesso doveva venire a galla. «Smettila Edgar Okay? La storia è giunta al capolinea. Tu. Devi. Dirle. Chi sei!». Il mio rivale mi lanciò un’occhiata penetrante abbottonandosi dal basso la camicia bianca lentamente. Le narici dilatate, la bocca leggermente socchiusa, tradivano la furia trattenuta, ma ammirai lo stesso il suo controllo. Niente male
per un novellino. Ma questa benevolenza mentale non m’impedì di assumere un atteggiamento ancora più duro. Proteso in avanti invadevo il suo spazio e lo esasperavo per fargli perdere la sua calma apparente, destabilizzarlo e farlo agire. Non attesi per molto perché sbottò: «Tony, dacci un taglio e goditi la tua amante bastardo! Siete degni l’uno dell’altra!» Mi fulminò con uno sguardo eloquente per condire bene il tutto. Stava abboccando adesso era il momento di insistere. Non mi preoccupai minimamente degli epiteti contro di me, ma sentire insultare Samantha accendeva una furia che in ato Steven Moore aveva solo assaggiato. Ma adesso tutta quell’energia dovevo gestirla usarla a mio vantaggio. Mi controllai, a stento, ma ce la feci, o forse no. Afferrai il mio cuginetto per il colletto perfettamente inamidato, e quasi, strappandolo dal suo collo, gli sibilai sul naso: «Sei un idiota! Lei ti ama! E devi dirle chi sei! Tu la voi come me, dalle la possibilità di scegliere!». Edgar, fulminio mi restituì il favore, agguantò la mia di camicia, -diversa solo nel colore grigio azzurro- sputandomi sul muso la sua protesta: «Per farle scegliere te? So la verità! Sam non è chi credevo. Steve Moore è morto. Io sono Edgar Carlton adesso! Che ti piaccia oppure no. Edgar!». Con una spinta rabbiosa scacciò le mie mani, ma io non avevo intenzione di mollare. Ci ritrovammo stretti in un corpo a corpo, ma sebbene ci fossimo guardati dall’urlare, non eravamo soli. Mister Jamison, l’allenatore di lotta libera, venne a dividerci. Era una montagna al pari di Matthew, che, infatti, era il suo allievo preferito. «Wow! Ragazzi! Adesso basta!» Due braccia enormi si frapposero fa di noi, fulminammo insieme il nerboruto professore: ghiaccio e fuoco traarono il
suo viso, lui strinse gli occhi. «Fiuuui! Bella grinta! Okay, siete in squadra!» si grattò brevemente la testa dietro la nuca per poi proseguire, fra l’autoritario e il divertito, con un tono che però non ammetteva repliche. «Ma per ora, cercate di smetterla! E fuori di qui!». Sbuffammo un respiro irritato, quasi all’unisono, e, scartando ognuno per lato, la figura imponente dell’uomo, uscimmo grugnendo dalla palestra. Si udì uno scoppio di risa, incitazioni e applausi, e con la coda dell’occhio, vidi Jamison inchinarsi al suo scarno pubblico di studenti intenti a cambiarsi. Sarebbe stato comico, se non fosse stato estremamente irritante. Ma, mentre uscivo nel sole del campus, notai Sam, che dal prato si dirigeva dentro il corridoio delle aule, guizzai lo sguardo su Edgar, e vidi che aveva affrettato il o in quella direzione. Lo stomaco mi si contorse dalla gelosia, ma dovevo imporgli di calmarsi. Rallentai quel tanto che bastò per farmi superare dalla sua falcata nervosa, lanciandogli un’occhiata che era tutt’altro che incoraggiante. Potevo tenermi buono a colpi di forza di volontà, ma i miei occhi non mentivano altrettanto bene. Edgar mi restituì lo sguardo minaccioso. Ringhiai voltandomi di scatto. Fanculo all’autocontrollo! Cominciai a camminare, ma dopo due i pesanti e carichi d’ira, la cadenza delle mie gambe divenne trotto e poi corsa sfrenata, mi fermai solo quando il campus non fu che una macchia indistinta dietro di me. Ma perché anche l’orizzonte era così offuscato? Perché avevo in bocca il gusto del sale che si mischiava ai respiri mozzi? Perché la milza non doleva per la corsa, ma lo stomaco sì?
E quel dolore sordo si irradiava al petto e mi soffocava con una specie di vuoto che rosicchiava tutto? Come fosse un parassita mi stava annientando. Arrivato a uno spiazzo deserto, fra la luce che, solamente a tratti, filtrava dal folto degli alberi, ruggii gridando al nulla nebuloso la mia disperazione; tutta quella che non avrei mai esternato davanti a nessuno, ma che avrebbe abitato in me per sempre. «Dillo Tony! Confessa!» Ordinai roco a me stesso una volta che il gemito soffocato ebbe perso l’eco. «Ho paura» ammisi nel silenzio rotto solo dal frullare d'ali di qualche uccello spaventato.
Edgar
Rabbia. Maledizione! Volevo battermi di nuovo con Tony, cancellare la determinazione da quello sguardo di ghiaccio, dare un colpo di spugna, pesante come i miei cazzotti, alle sue convinzioni! Cosa voleva da me? Era stata sua cazzo! Non potevo neanche immaginare la natura dei loro rapporti. Le sue spiegazioni da damerino del cavolo quando li avevamo sorpresi quella mattina, non mi incantavano! Era mezzo nudo! E lei stringeva in mano il pezzo di pigiama che mancava a lui! Non ero un cretino e sapevo che avevano dormito insieme. L’intera notte o pochi minuti, che importava? Mi imponevo di non pensarci, ma in me strisciava la consapevolezza che fra loro non poteva esserci stato il nulla. Non, dopo quel bacio da spettacolo gratuito, a
cui avevo assistito imbarazzato quanto Reb. E dopo? Dopo lei su di me: così fragile. La mia Samy...un uccellino sul mio petto. Avevo chiuso gli occhi e rivisto un flash: la spiaggia, noi due abbracciati sulla ghiaia fine. Labbra che si cercavano, dita febbrili felici di intrecciarsi ai capelli dell’altro, sorrisi dentro le rispettive bocche. Accantonata la rabbia, la voglia di rivivere, il regalo di quel ricordo appena ritrovato, era stata più forte di tutto. E invece, lei aveva pianto sulle mie labbra. Disperazione, tristezza, disgusto forse. Niente amore, tenerezza, desiderio, o semplice felicità, solo sofferenza: la sua, la mia. Mi ero sentito sporco. Sporco per aver preteso quel bacio e il primo di tanto tempo prima. Sì adesso ricordavo: non era stato Tony il primo a usurpare le sue labbra e credere che fossero per lui. Anzi, lui non le aveva rubato baci, nè allora, nè adesso, ma io sì. E l’avevo rifatto in quell’istante, ma, la mia punizione non era stata un semplice schiaffo, come in ato, era stata la sua repulsione: una sensazione tremenda. Samy: la ragazza dei miei ricordi frammentari non esisteva più. Io stesso non ero più Steven Moore. Il nostro amore era finito, spezzato, mutato, oppure una semplice menzogna. Che importanza avevano i dettagli? I fatti contavano. E poi lei aveva distrutto anche la consapevolezza struggente di amare comunque la ragazza cresciuta con me, che mi aveva abbagliato con tutto quello che solo io sapevo di lei. Ricordavo questo del nostro rapporto: il legame. Lei: la nuova Sam. Questa ragazza che non conoscevo che forse era stata solo
una brava attrice, aveva distrutto pezzetto dopo pezzetto, ogni piccolo flash back, che avevo ricostruito faticosamente nella testa, per avere un quadro più chiaro della mia vita ata con Samy. Vicino a me nell’erba c’era stata una ragazza egoista che amava Tony, che desiderava lui, ma, tuttavia, voleva anche me in qualche modo contorto. E si dannava, perché la coscienza che possedeva anche lei dopotutto, non la faceva andare fino in fondo, seducendomi senza rimpianti. Era stato tremendo provare tutto quel disgusto, quella rabbia, e, ritrovarmi impotente a guardarla, ad amarla lo stesso come un demente: uno stupido insensato folle a cui un sortilegio cattivo aveva tolto il libero arbitrio. E poi attraverso la stoffa sentire sulla pelle le sue lacrime, vere, per lui. No, non mentiva, almeno non quando lo guardava. Davanti agli occhi indagatori mio malgrado, l’aveva fissato come solo chi ami intensamente puoi vedere. Odio, avrei voluto annientarlo e pestargli la faccia che non potevo strapparmi dal viso. Quindi, lei mentiva a se stessa, quando lo stesso guizzo d’amore il suo sguardo l’aveva posandosi su di me. Certo le piacevo, ero uguale a lui, mi dissi con amarezza. Ma baciarmi non era la stessa cosa. Neanche se cedeva a qualche suo oscuro giochetto, oppure immaginava che fossi Tony. Doveva smettere di prendere in giro, se stessa, me, e lui. Detestavo quel bastardo, ma solo per... invidia. Ma sì, che se la prendesse pure... degni l’uno dell’altra! Forse. Quella mattina dopo averli visti andar via era stata confusione e dolore. Ricordavo le lacrime che pungevano gli occhi mentre provavo a non darlo a
vedere. Reb, era stata lì, ore, a sopportare i mie silenzi frammisti a sfoghi confusi. Avrebbe potuto certamente commentare, mentre riversavo su di lei alternanze di noncurante disprezzo per la Lee prima, e disperazione per la mia piccola e tenera Samy, dopo. Non l’aveva fatto, vicina come uno spirito affine che aveva sperimentato nell’anima, la sofferenza. Rebecca. C’era. Semplicemente era presente. E, alla fine, posando lo sguardo inquieto sull’aspetto magnifico della mia amica più cara, mi ero calmato. Lei, dalla notte del ritorno di Tony, sapeva chi ero in realtà, era stato difficile nasconderlo a Amber quando ci ammazzavamo, e dopo la verità era dilagata come un fiume straripante nella famiglia Carlton. Ma Rebecca, era l’unica altra Somerset, a sapere del mio ato intrecciato, con l’ossessione di suo fratello. Risi amaro a quella parola, mentre il sole inondava il mio viso all’uscita della palestra. Ossessione, era anche la mia, ma avevo giurato a me stesso di farmela are, e, dire a Samantha la verità, non rientrava in quel piano. Tony, dopo l’incontro al cottage, era diventato strano: invece di godersi il suo harem (la faccenda che non avesse ancora lasciato la fidanzata faceva alquanto schifo) si era trincerato in un mutismo e un umore pessimi e, sebbene non palesasse in pubblico la sua relazione con Sam, io sentivo che c’era sempre qualcosa fra di loro. Lei a scuola ignorava me, ma lanciava a lui sguardi infuocati che avrebbero incenerito al pari di un lanciafiamme, e non era solo rabbia, era frustrazione, e sapevo bene di cosa si trattava. C’era la sua gemella nel mio sguardo su di lei. Ogni occhiata lanciata a lui era un paletto affondato nel mio cuore, ma non ero un vampiro, non morivo, e mi odiavo perché ogni volta l’amavo ancora. Quindi: quando Tony, per la prima volta, mi aveva affrontato dicendomi di dire la verità a Sam, gli avevo riso in faccia troncando lì il discorso.
E adesso eccolo che ci riprovava, e stavolta non era riuscito a mascherare, coi suoi modi controllati da soldatino, la rabbia. Ma era assurdo il suo comportamento. Ciò che asseriva. Sam mi amava? Chi, amava? Me? (mezzo Tony, mezzo Steve) Ah! No amava Steve! E bene?! Diglielo no?! Questo diceva Tony: diglielo! No! Che Somerset si fottesse il cervello e fosse un pazzo: affari suoi. Samy: la mia Samantha. Viveva solo nei miei pochi ricordi. Un tesoro custodito gelosamente nella mia anima che mi leniva il tormento di amarla con un soffio di dolcezza inconsistente come un fantasma, torturandomi il cuore perché era trasparente, inafferrabile, viveva solo dentro me. Ma mi bastava. Volevo almeno questo. Era mio. Il ricordo nessuno poteva strapparmelo dalle viscere. Non avrei permesso che la realtà: quella in cui Samy era solo una mia fantasia, forse da sempre una menzogna. Mi privasse di questo. Era la droga da cui non volevo disintossicarmi. La Isy di Tony era la verità che avrebbe spazzato via l’oblio di quella droga. Beh, non ci stavo, non sarebbe servito a niente. Lei era diversa dalla ragazza dei miei pochi ricordi: amava Tony e si divertiva se la sofferenza che leggevo in lei si poteva chiamare svago- con se stessa, me, e lui. Beh, io mi ero tirato fuori da questo gioco al massacro una volta per tutte. Lui diceva che amava Steven, che le mancava. Non lo credevo, e poi, io adesso ero Edgar Carlton. Lei vedeva Tony in me: non ero tanto stupido da non fare i
conti con questo. Non amava più il suo amico di sempre, non questa Sam egoista e incoerente che prima mi strappava il cuore e ci giocava a pingpong, poi accettava di avere una relazione con Tony -fidanzato e padre- e dopo ancora si lasciava baciare da me, per poi ritrarsi frignando non per la coscienza ma per altri suoi motivi. Io non le avrei mai detto la verità. Era perfettamente inutile farlo con un’estranea. Tony era inebetito, e, a suon di pugni, se necessario, gli avrei rimesso la testa sulle spalle se voleva. Fine della storia! Sì....Ma adesso, brutto imbecille! Eccoti all’aperto a respirare aria pulita, a cercare di razionalizzare, tenendoti stretto qualche dolce fantasma per prendere a calci in culo la realtà. Ma adesso che la stai vedendo entrare nel corridoio delle aule, c’è solo lei nel tuo campo visivo, e le parole assurde di tuo cugino ti stanno rimbalzando in testa trovando varchi nella carne del cervello insinuandovisi, penetrando a forza nel corpo che brucia di desiderio per la ragazza che stringevi fra le onde, sulla sabbia, nell’erba. Il tuo corpo traditore si è ricordato come è dolce e tormentoso insieme stare a contatto con lei. “Ti ama, dille la verità” La frase di Tony continua a cozzare nella testa, esce e riesce dalle pareti della mente e del cuore. Ti ama, ti ama, ti ama, ti ama. E se...fosse davvero così? Mi giro verso Edgar, lo fulmino: “E’ ancora mia” dice il mio sguardo possessivo, e lui mi restituisce l’occhiata incenerente come se, adesso non dovessi puntare la sua ragazza, attraverso il prato, neppure sfiorarla con la vista. Eppure è stato lui a volerlo.
Mi volto, che vada all’inferno Somerset e le sue incoerenze! Mi metto a correre per raggiungerla, e, non sento, che alle mie spalle qualcuno sta scappando nella direzione opposta, lontano da lei. Ero arrivato in corridoio, in tempo per bloccarla vicino agli armadietti, eravamo soli, in quell’intermezzo tra una lezione e l’altra, in cui tutti stranamente avevano trovato già la direzione giusta. La direzione giusta... Tony aveva ragione, eppure non ci riuscivo. Se! Tony aveva ragione! E chi poteva dirlo? Ecco ripiombarmi addosso tutti i dubbi! Senza ancora avere il coraggio, di sfiorarle la spalla palesando la mia presenza mentre armeggiava col suo armadietto, già mi ritraevo. La mano che avrebbe dovuto toccarla adesso era saldata alla mia nuca, mentre compivo un mezzo giro su me stesso silenzioso come un ladro che si da alla fuga. Senza volerlo sbuffai fuori la mia frustrazione. Lei si voltò, e per un secondo incontrai i suoi occhi: le iridi cangianti sorrisero come un tempo al suo amico Steve. Ma il lampo sorpreso svanì nel suo sguardo sostituito da uno di dolore, e poi un altro di livore. Sì, risentimento. Mi ero avvicinato -senza coscienza del mio gesto- al suo viso, lei abbassò gli occhi e mi voltò le spalle. Sapevo che avrei dovuto insistere, parlarle, eppure non potevo. Sulle labbra avevo ancora il sapore del suo disgusto. Nelle orecchie mi
aleggiavano ancora i disturbi fastidiosi delle le sue parole ambigue. Somerset sbagliava di grosso! E poi eccola girarsi lei e fronteggiarmi ancora. Ritrassi la mano imbarazzato. Avevo allungato il braccio, di nuovo, quasi a cercare un contatto ad annullare l’abisso d’incomprensione tra di noi. Cambiai idea, ma era tardi, già fondeva il suo sguardo sfuggente nel mio: fui in tempo per riconoscere la sua espressione di fastidio mista ad attrazione. Aveva repulsione di me? O semplicemente giocava al gatto col topo? Comunque non mi regalava quell’occhiata per le ragioni che diceva mio cugino. Forse lui lo amava, ma l'aveva inebetito. Sragionava! Adesso vedevo chi era la ragazza che mi stava di fronte, e non avrei permesso a me stesso di scordarmene ancora. «Che vuoi Edgar?» mi apostrofò secca già con il piede proteso in avanti pronto a scattare per permetterle di scappare. «Niente Lee...Tony! Tony ti cerca, è nel campus vicino alla palestra!». Ma sì, che vivessero “felici e contenti” all’inferno! Sam spalancò gli occhi, mi fissò ancora una frazione di secondo poi scosse la testa, questo gesto stizzito produsse uno sguardo determinato che sbocciò, subito dopo, in un sorriso speranzoso. «Ti ha detto lui di...di chiamarmi?» domandò visibilmente emozionata. Non ressi: solo rabbia annegava ogni altra emozione. «No! Ma va da lui!» Ringhiai in malo modo urlandole in faccia. Lei, spaventata dal mio tono feroce, fece un balzo indietro finendo schiacciata contro l’armadietto, ma a quel punto mi ero già allontanato desiderando solo scappare dalla ragazza reale per annegarmi nella menzogna della mia Samy.
Per la prima volta dopo quasi un anno, la testa cominciò a pulsare: conoscevo quel dolore sordo. Dovevo uscire dall’edificio. Una volta fuori tentai di respirare a fondo ma l’aria rimaneva incastrata in gola, perché, il solo movimento che occorreva per espellerla dal naso, causava fitte sempre maggiori. Strizzai gli occhi e riuscii a prendere il cellulare in tasca ma già mi tremavano le mani. Lo fissai impotente: batteria scarica. Tentai di camminare per attraversare il parcheggio, poche miglia e sarei stato all’ospedale: mio padre era di turno e sapeva cosa fare. Ogni o rimbombava nel cranio. Il viso adesso era un unico ammasso informe, tenuto insieme da lingue di tormento strette come lacci e guizzanti come fiamme che colpivano e si ritraevano. Stavano diventando più impietose e più forti ogni minuto che ava. Vedevo la Mini anche se non potevo metterla bene a fuoco: stentavo a tenere le palpebre bene aperte. Dovevo impormi di farlo altrimenti non sarei riuscito a muovermi prima che fosse troppo tardi. Quando il nervo trigemino consumò la mia coscienza, annegandola nel dolore e nel buio, non ero ancora arrivato allo sportello.
7 Nell'Ombra
Patricia
Era un mattinata grigia, dannatamente fredda per essere quasi estate. Dio! Non mi sarei mai abituata a questi climi malsani! Men che meno adesso che il mio corpo mi sembrava così incoerente. Accidenti a Rob! Non mi veniva proprio di chiamarlo Tony o peggio Edgar! L’avrei confuso col cugino identico che, a dirla tutta, mi metteva un po' di soggezione. Il mio bel fidanzato si era scordato l’appuntamento per l'ecografia. Ancora. Sospirai stizzita. Pat la sai bene “la vera” ragione! La sapevo esattamente infatti, ma non per questo diminuiva il fastidio, anzi, aumentava. Forse dovevo dare il taglio che, lui si rifiutava di infliggere, alla nostra storia di facciata. Si erano ribaltati i ruoli da un giorno a l’altro: all’inizio ero stata io la debole, troppo sconvolta dal lutto, dalla gravidanza, dal senso di colpa per le mie azioni ignobili ai suoi danni. Avevo accolto, questa idea assurda del fidanzamento-matrimonio di convenienza, come una possibilità di riscatto, di normalità; la stessa che mi era negata e avevo visto scivolarmi via di dosso.
Prima il dolore per mio padre, a cui mi ero rifiutata di dare spiegazioni, scomparso improvvisamente e prematuramente portato via da un attacco di cuore, di cui, mi sentivo tremendamente in colpa avendolo ferito con il mio comportamento. Poi Mick: volatilizzato dalla mia vita come un fantasma mai esistito veramente che, però, mi lasciava un eredità pesantissima e incredibilmente dolce. L’unico mio appiglio alla realtà: Charlotte. Ero uno straccio ben nascosto in un involucro duro e fragile, quando -senza poterne fare a meno- ero venuta a cercare Tony con la scusa della sua eredità. Lui era un ragazzo ferito e sembrava il mio gemello: fuori il nulla freddo, dentro il tutto doloroso come un inferno. E quindi, con tali presupposti, la sua proposta sembrava stranamente sensata, sia per me che per lui, e avevo ceduto. Credevo di essere io quella messa più male. Adesso non più, sentivo che le cose erano cambiate, e in peggio, ma non per me. Una fitta in tutto il corpo, un malessere improvviso. Non mi facevano bene certi pensieri, ero emotivamente instabile. Sono incinta grossa e che cavolo! Girai lo sterzo con foga, entrando nel parcheggio della Winter Harbor High e adocchiando da lontano il SUV del mio fidanzato. Alla destra del veicolo un posto libero e alla sua sinistra l’utilitaria di lusso di suo cugino. E poi lo vidi. Giaceva a terra vicino allo sportello della mini di Carlton, e nella luce grigia, con gli occhi chiusi per l’incoscienza, mi parve Rob. Il respiro mi si mozzo in gola, il cuore accelerò bruscamente, mille immagini che erano nella mia testa ribalzarono impazzite. Rob in acqua, bruciato, dilaniato. Rob che urlava. Rob che mi salvava la vita fra le onde.
Edgar Anthony Somerset che davanti a parenti e amici prometteva di sposarmi baciando la mia mano e accarezzando la mia pancia in un gesto tenero di profondo affetto. Fermai la mia Focus, dove mi trovavo, facendola slittare, slacciai la cintura e mi precipitai fuori il più velocemente possibile: una mano alla pancia, l’altra già alla bocca per soffocare un gemito. Ma ora dovevo snebbiare la mente e essere forte. A lui serviva questo. Quando arrivai vicino al suo corpo accasciato a terra, pronta ad abbassarmi per capire la situazione e chiamare aiuto, mi accorsi dell’errore. I capelli neri di Edgar Carlton ricadevano inerti sulla sua fronte. Egoisticamente il mio cuore sussultò di sollievo, ma fu un attimo, ripresi il controllo, mi inginocchiai lo stesso accanto a lui andogli una mano tremante sulla fronte. Strizzò brevemente gli occhi e poi li aprì: erano pieni di doloroso tormento. Doveva soffrire parecchio, mi mise a fuoco e poi soffiò a stento: «la testa... puoi chiamar...chiam... mio pp...Charl» richiuse le palpebre per deglutire come se, il semplice gesto, gli costasse tutta l’energia che gli ci era voluta per rinvenire. Gli toccai di nuovo la fronte. Dios mio! Così inerme era proprio Rob! La mia carezza si fece dolce sulla sua pelle contratta: rughe solcavano lo spazio fra le sopracciglia. Tentai d’istinto di spianarle con un tocco lenitivo. «Sì, Edgar, stai calmo ora». Non mi lasciò finire, riaprì gli occhi di scatto, e, con un'insospettata forza, si issò a sedere appoggiando la schiena alla portiera, ne fui sollevata, perlomeno sembrava reagire. Mi fissò cercando di sembrare risoluto adesso, ma non mi incantava, stava soffrendo orribilmente, mi parve davvero il gemello del mio fidanzato anche nella stoica caparbietà, riportandomi ancora ricordi lontani. Poi mi apostrofò: «Scus...scusa, Pat, ti ho spavent...spaventato? Tu com...come
stai? Il bamb... bambino? Non stare qui... chinata sull’asfalto!». «Zitto. Ragazzino! Sono incinta, non malata! Quello ridotto male sei tu mi pare!» Gli sorrisi beffarda e risoluta insieme mentre mi alzavo con un colpo di reni che mi costò una smorfia. Edgar protestò ancora: «Pat...», e io lo zittii con una mano protesa a confutare la sua aria preoccupata. Il moribondo faceva lo zietto apprensivo! Puah! «Fermo lì, tu!» Avevo il tasto preimpostato sul numero reperibile del mio quasi zio. Due squilli. Bene non stava operando, qualche colpo di fortuna l’avevo anche io! «Sì? Patricia, problemi?» Mi rispose deciso. «Io no. Tuo figlio Edgar è svenuto e sembra parecchio sofferente: in questo momento è cosciente e dice che devo dirti che è la sua testa». «Dove siete?!» teso come una corda ma apparentemente calmo: Charles Carlton non mi poteva tuttavia nascondere la sua preoccupazione. «Nel parcheggio della scuola». «Tu come stai? Ansia...contrazioni?». «Beh, mi sono presa uno spavento, ma è tutto okay adesso che tuo figlio ha gli occhi aperti e si fa riconoscere» parlavo sufficientemente ironica per fargli capire di non pensare a me. «Non lo far alzare o parlare -è peggio-, sono lì in pochi minuti!». «Ricevuto Dottore! Se alita lo stendo, sono abbastanza grossa adesso!» Mi permisi di ridacchiare per rassicurare Charles. Se suo padre veniva senza ambulanza, sapeva qual era la reale situazione. Fra le labbra mi uscì circospetto un sospiro di sollievo; rilassai le spalle e
l’addome: Charlotte scalciò piano e la smorfia ironica si fece dolce mentre mi carezzavo la pancia. «Grazie Pat. Davv...vero» disse debolmente Edgar. «Ah, semplice interesse, il padrino mi occorre tutto intero!» poi ripresi ancora al telefono: «Fai in fretta, Doc», «Sì», dopo la sua sillaba compunta il nulla. Ero di spalle al “cognatino”, mentre riattaccavo la chiamata mi arrivò un sussurro: «Pad... padrino?» «Certo! Sei o non sei la copia del padre?! E adesso zitto! Mostro!». Lui fece un debole sorriso. E richiuse con sforzo gli occhi. Il mio respiro di sollievo in quel momento fu più evidente, come la gioia che mi scaldò portandomi la consapevolezza che in realtà apprezzavo il cugino di Rob, e, il senso di fastidio provato nei suoi confronti era solo semplice imbarazzo per il loro essere così simili. Adesso che ero stata così vicino a lui, notavo la diversità lampante che a un’occhiata meno attenta sfuggiva. Certo, a meno che di ritrovarselo steso nel proprio campo visivo. Dio! Cuginetto gemello, non farmi più certi scherzi! Non finii il pensiero, un grido soffocato si levò a pochi i da me. Un turbinio di tacchi nervosi spazzò l’asfalto, e poi Rebecca Somerset si gettò letteralmente ai piedi di Edgar. Lo carezzava con mani febbrili e incerte insieme mentre lui si sforzava di rassicurarla; quando il ragazzo provò ad aprire bocca lo incenerii con uno sguardo. «Deve stare zitto Reb: tuo zio sta arrivando, dice di non farlo alzare». Rebecca scoppiò in un pianto muto, così strano per l’immagine che avevo di lei che smisi di parlare un attimo e poi osservai il malato. La fissava anch’egli stralunato e preoccupato: col massimo dell’espressività che gli consentiva il dolore.
«Né, agitare!» terminai allora, secca mio malgrado. Uh?! Strana scoperta...la gravidanza mi rendeva protettiva persino con la controfigura. Carlton, redivivo, mi lanciò un’occhiataccia e levò una mano a carezzare la testolina perfettamente acconciata in lunghissime onde della sorella di Rob. Lei invece la scoccò a lui, si asciugò rabbiosamente gli occhi con il dorso delle mani, e sputò in faccia al cugino con calcolata freddezza: «Ha ragione! Scusami! E adesso non azzardarti a respirare!». Lui sorrise: una smorfietta tremula che non arrivava allo sguardo a causa del tormento, ma che altrimenti sarebbe dolcemente uscita dai suoi occhi caldi. Rebecca lo fissò e compresi che lo amava. Scossi la testa sorridendo, girandomi a guardare verso un rumore di i frettolosi attutiti dalle suole in gomma. Finalmente posai lo sguardo sull’originale che ci aveva raggiunto. Adesso mancava solo il Dottore: l’ospite d’onore a questo bel pic-nic. «Che diavolo è successo?!». Rob parlava concitato, ma non mi era sfuggito nè il suo aspetto, nè la sua espressione. Sì, Robinson, che diavolo ti è successo?! Adesso una fitta d’ansia raggiunse Charlotte, scalciò in malo modo e... mi fece male. Il, seppur lieve, dolore, produsse malessere. Avvertii una contrazione sull’addome e le ginocchia cedettero, mi piegai in due come un orso sgraziato. «Pat!» tre voci in un coro perfetto, e tre figure intorno a me. Sì, tre! Perché il moribondo mi parve avesse ritrovato la forza di Sansone. Messosi in piedi con un movimento frettoloso, mi sovrastò come gli altri con un’espressione preoccupata. Tutti e due i ragazzi, uno per parte, mi sostenevano
adesso. Me, che non ero svenuta! Uomini orgogliosi del cavolo! L’attimo dopo mi sentii già meglio, e mi divincolai stizzita. Girando la testa come in una partita di tennis apostrofai entrambi in un tono senza replica: «Sto bene e non sono io l’invalida! Charlotte s’è fatta semplicemente sentire!» detto questo mi bloccai fissando Rob: «Tu, piuttosto, sembri stravolto! Adesso pensa a tuo cugino! E’ lui che è svenuto!» e ripresi fulminando Edgar: «E tu, ragazzino...dovevi restare giù come ha detto tuo padre!». «Pat...» di nuovo il numero del coro, ma stavolta era un sospiro rassegnato. Conoscevo ampiamente quella reazione del prossimo rivolta a me, e non mi smontava minimamente. Edgar si appoggiò -con un singulto di dolore- al suo stramaledetto sportello, ma adesso era in piedi. Rob mi cinse la vita, fissandoci preoccupato. Il solito perfetto paladino. Gratificante quanto insopportabile. Rebecca si incollò al fianco di suo cugino scrutandolo in un modo ansioso che non riusciva più a dissimulare. Sentii un lieve fruscio. Notai con la coda dell’occhio che Rob si stava girando. Nessuno di noi, a parte lui, sentì la presenza nascosta dall’ombra della scalinata poco distante. Io fissai direttamente la fonte del rumore di pneumatici appena inchiodati nel parcheggio. Charles Carlton ci raggiungeva già a grandi i.
Samantha
i pesanti come macigni, angoscia soffocante come nebbia liquida, non riuscivo più a ragionare, volevo solo che stesse bene. Riuscivo a concentrarmi solo su questo, mentre, uscendo dalla porta, convinta di andare a cercare Tony per scrollarmi di dosso lo sgomento che, non volevo provare, per la reazione incomprensibile di Edgar, non avevo visto quest’ultimo crollare e accasciarsi a terra vicino alla sua auto. Un attimo e la realtà così come la conoscevo era franata sulla mia testa greve d’angoscia. Ansia divorante: no. Non poteva succedere ancora! Io non sopportavo l’idea di perdere di nuovo un ragazzo. Quel ragazzo che era un mistero e tormento, ma che faceva inesorabilmente parte di me. Anche se non ne sapevo esattamente il perché. Ero lontana, nascosta dalla sua visuale, mi preoccupavo ancora di questo anche se era una marionetta senza fili, adagiata a terra, inerte. Stavo per spiccare una corsa disperata per raggiungerlo e poi un auto, rossa e squillante, nell’immobilità angosciosa di quell’attimo, aveva derapato davanti a lui coprendolo alla mia vista. Ne era scesa una ragazza mora, affascinante anche nella sua condizione di mamma in attesa. Non poteva che essere Patricia. Mi ero bloccata: o meglio avevo arrestato il moto angosciato aggirando l’ostacolo muovendomi più circospetta ma pronta a scattare di nuovo. E poi l’avevo visto muoversi e dopo mettersi a sedere. Il mio respiro ansante s’era fatto più regolare, un sollievo profondo aveva albergato in me. Poi avevo notato qualcosa scintillare fra le dita della ragazza: un telefono portato all’orecchio. Edgar era salvo, o almeno lo stavano già aiutando: mi sentii inadeguata e inutile. Cosa potevo fare? Mi aveva trattato malissimo, e forse era ancora la conseguenza, giusta, dei miei comportamenti imperdonabili nei suoi confronti.
Le gambe e il cuore mi dicevano di proseguire, di andare ad aiutare, sincerarmi dell’accaduto e del suo stato. Edgar mi sembrava, al pari di Tony, una roccia, e le rocce non svenivano. Ecco di nuovo la fitta dolorosa al cuore, volevo solo che non fosse nulla di serio E poi mi resi conto che qualcun’altro scendeva di corsa le scale la cui ombra, adesso, celava la mia presenza. Rebecca stava gridando un lamento che proveniva da un antro scuro d’angoscia correndo ai piedi del cugino. Protetta dal mio nascondiglio vidi tutto: lei si gettava a terra davanti a lui esaminandolo con febbrile preoccupazione. Vidi Edgar alzare una mano e sfiorarle il capo. Vidi un sorriso forzato ma dolcemente rassicurante uscirgli dalla bocca. Vidi che l’amava. Ma non fu l’unica vista che mi ferì, non nel modo peggiore. Un rumore, altri i. Misteriosamente attratta, mi girai verso la collinetta del parco che dava sul parcheggio. Tony stava uscendo dal folto degli alberi e mi vide, guizzando uno sguardo strano su di me: quasi disperato. Il cuore si fermò, credetti davvero che non battesse stremato dall’ansia e l’emozione, e invece mi martellò un colpo sordo e straziante in petto. Feci un o, lui anche, ci fissammo come due magneti polarizzati per congiungersi, e poi la voce di Pat lo fece voltare, sgranò gli occhi vedendo l’incredibile scena e i suoi protagonisti, con un’ultima occhiata carica d’emozione lanciata nel profondo del mio sguardo, si mise a correre verso tutti loro. Quando, un minuto dopo, sussultai vedendo Patricia piegarsi in un moto di malessere, non fu il suo stato a riempirmi di dolore, poiché, il secondo dopo, la
sua espressione tradiva solo del fastidio. A stritolarmi il cuore fu il braccio di Tony intorno alla sua vita, l’espressione terrorizzata del suo sguardo al malore di lei. Lo scatto dello stesso Edgar che, pur visibilmente provato, si era alzato per aiutare anche lui la ragazza. A stritolarmi il cuore fu la consapevolezza che stavo perdendo veramente tutto, e forse, anche il rispetto profondo per me stessa. Perché dentro, la sofferenza mi strizzava e contorceva, ma non ero più disposta a rinunciare facendo la cosa più giusta per il prossimo. No, ero solo disposta a combattere, per me, e per i miei sentimenti, che volevo fossero chiari e non mendaci. Feci un o avanti, e poi un altro, ero quasi fuori il cono d’ombra. Spezzai, sotto le suole facendo rumore, qualche ago di pino volato sull’asfalto. Tony si girò come se avesse una premonizione, non credevo potesse sentirmi, e invece lo fece. Si ò una mano nei capelli con fare preoccupato, mi lanciò un’occhiata incerta, e vidi che il padre di Edgar usciva da una berlina nera e si dirigeva a grandi i -borsa alla mano- verso di loro. Annuii, ma gli occhi mi si riempirono di lacrime amare e traditrici. Tony le vide, e il suo sguardo mi disse ciò che non volevo vedere, era duro, con quel fondo di sofferenza che conoscevo bene, mi raccontava che aveva frainteso tutto, e io non potevo spiegarmi, lui stesso me lo impediva. Mi voltai in silenzio e sparii di nuovo nell’ombra, ficcandomi un pugno in bocca soffocando un singhiozzo. Pregando perché non mi vedesse. Pregando di essere vista. Pregando di non impazzire.
Edgar Anthony
Non ero molto fiero di me, anzi giù la maschera, ero meschino, il più becero fra i vili egoisti. Perché adesso che zio Charles era arrivato intervenendo sull’emergenza. Io avevo lo sguardo perso nell’indagare le ombre che celavano Sam a pochi metri dal nostro gruppetto pervaso d’ansia, sollievo e nervosismo. In me questo significava solamente che adesso non c’era spazio che per lei, che, comunque, come una presenza dittatoriale ma amata, ammantava sempre tutto nel il mio essere, non permettendo che qualsiasi altra cosa, seppur importante e impellente, le togliesse mai quella supremazia. Samantha era un tatuaggio nell’anima. Lo avevo pensato seduto nel gazebo delle rose ad immaginarmi la nostra intimità senza conoscerla, e adesso che l’avevo provata il disegno inciso nella carne del cuore e nell’etereo dello spirito era a colori vividissimi. Impossibile tentare di nasconderlo seppur a me stesso. Potevo quasi scomparire riaffiorando faticosamente dall’incubo patito in quel bosco. Eppure, posato lo sguardo su di lei, il mio petto e il mio cuore erano di nuovo solidi: pronti a ricevere almeno una carezza, un contatto. Perché i suoi occhi me lo chiedevano quel contatto. Lo imploravano come i miei. Per un magnifico secondo la bolla fragile e liscia di quella mattina, era lì intorno a noi. Per un magnifico secondo, mancavano solo pochi i e lei sarebbe stata fra le mie braccia, senza che avessi la minima intenzione di respingerla. Non più. Per un secondo lei aveva scelto consapevolmente me. Lo sentivo. E poi avevo visto, richiamato dalla voce di Pat, l’immagine terrificante e assurda della realtà nel parcheggio.
Edgar a terra, Rebecca in lacrime, e la mia fidanzata, innanzi a loro come qualcuno che veglia. Lei, vulnerabile e incinta. Era stato troppo lo sgomento, la sorpresa, e soprattutto l’ansia per Edgar. Sì, il mio carnefice: colui che odiavo. In quell’attimo seppi senza ombra di dubbio che mi era entrato dentro come un fratello non voluto, che però si impone lo stesso perché, è pur sempre, parte di te. Non lo vorresti, lo respingi, eppure senti un’affinità che neanche ti stai a spiegare, c’è tuo malgrado, e ti infastidisce persino...ma esiste. Edgar c’è, e adesso è a terra. Lancio a Samantha un ultima occhiata, ne va del mio istinto è impossibile rinunciarci. E corro ad aiutare. Che diamine è successo? Lui è cosciente, ma si nota che neanche può alzarsi. Lo stesso ragazzo che non sono riuscito ad atterrare definitivamente, in un feroce scontro corpo a corpo. Reb sembra disperata, anche se poi, mentre mi avvicino, mi rendo conto che tenta di essere razionale come normalmente è nel suo carattere. E Pat...? Che ci fa lei in quel contesto? L’ecografia! Cavolo! Me ne sono scordato ancora! Ma non ho tempo di rammaricarmi, e sono vicino a loro, mi sbrigo a chiedere concitato una spiegazione, ma la mia fidanzata mi fulmina, devo avere il volto stravolto che fatalmente indossavo già prima di notarli, e a lei non sfugge.
Non a Patricia Coldwater. Ma è questo che paradossalmente l’allarma di più, lo leggo nel suo sguardo ed eccola gemere e accasciarsi. Dio! No! In un attimo, siamo tutti e tre intorno a lei, Edgar compreso, che dimostra così di soffrire ma riuscire comunque a preoccuparsi di più per gli altri che per se stesso. Un punto al nuovo fratello. E al rivale. Un punto di sollievo alla mia angoscia per la sua salute. E’ tosto. Qualunque cosa sia successa la sta gestendo. L’ansia per Pat si dissolve, in parte, nello sguardo sarcastico e repentino che ci lancia come un dardo subito dopo il malore, raddrizzando la schiena, e, dopo, nelle rassicurazioni di zio Charles. Ma io, adesso, come dicevo sono un egoista: perché non vedo altro che un ombra indistinta che si sta allontanando tremante per fondersi, con le altre più scure, fino a diventare invisibile per tutti ma mai per me. Chiudo gli occhi e la perdita diventa reale e di ghiaccio nello stomaco, un fastidio fisico mi ricorda che adesso è lontana. Le parole che mio zio dice a suo figlio mi riecheggiano nelle orecchie, riportandomi alla realtà. «Edgar…sapevamo che poteva accadere di nuovo...ancora qualche mese e questo pericolo dovrebbe cessare, ma... figliolo, è successo qualcosa? Lo stress emotivo può innescar...». Mio zio parlando gli aveva circondato le spalle con un braccio, protettivo. Edgar si divincolò seccamente, interrompendolo, per poi scusarsi con lo sguardo piantato sul viso di suo padre. «Non è successo niente papà…la colpa è mia» deglutì frettoloso proseguendo
per chiarire: «Non portavo più la morfina con me, dato che non mi era più accaduto, se l’avessi avuta avrei evitato tutto questo» si girò a guardare con un’occhiata dolente Pat, Reb e...me, ma questa, sfiorandomi si trasformò in un lampo di rabbia da orgoglio ferito. Non potei trattenere un mezzo sorriso. Il mio gemello finto, mi somigliava troppo anche su altri fronti. Avrei reagito allo stesso modo, pensai con un moto di solidarietà. Lui si voltò ancora più stizzito, e io, però, in quell’attimo realizzai: non le aveva detto niente. E forse era successo anche qualcos’altro che ignoravo. Si fuse sollievo e rabbia dentro me, perché gli occhi amorevoli della ragazza che adoravo non erano del tutto consapevoli come in quell’attimo d’attrazione l’uno verso l’altra avevo percepito fossero. L’istinto mi aveva imposto di fermarla nel momento che, osservandola furtivo, avevo notato la sua intenzione di intervenire per essere d’aiuto. Avevo fatto in modo di dissuaderla con un’occhiata: il suo eventuale coinvolgimento nella scena portava con se troppe complicazioni in una situazione in cui si imponeva raziocinio. Specie nell’attimo in cui arrivava la cavalleria rappresentata da mio zio. Ma era solo per quello? O... non avevo semplicemente voluto che assistesse in qualche modo Edgar? No, non avevo voluto, perché l'attimo dopo aveva gli occhi pieni di lacrime d’ansia per lui e io ero morto dentro pensando di essermi sbagliato temendo che, dopotutto, avesse scelto Steve a dispetto di tutto quello che avevo appena potuto interpretare dal suo sguardo incatenato al mio. Ero un crogiuolo di riflessioni irrazionali e contrapposte. E lei adesso era sparita inghiottita dal buio, mentre io stringevo ancora con fare
protettivo, chi avrei dovuto giurare di amare e rispettare per tutta la mia esistenza. Fui di nuovo strappato alle mie elucubrazioni da un rumore: un colpo lieve e sordo. Rebecca aveva tirato un pugno finto alla spalla di Edgar. «Dio, cugino! Sei un testone!» e poi rivolta a nostro zio. «Lo tengo d’occhio io! Starà più attento e non si ribellerà... mi deve un bello spavento!». «Okay, okay!» Ed alzò le mani agitandole in segno di resa davanti a mia sorella e fece il primo vero sorriso, segno che la testa non gli doleva più intensamente e la morfina iniettatagli per endovena faceva effetto. Possibile che, quell’idiota non notasse, la reazione dirompente che produceva la sua espressione su mia sorella? No, non lo vedeva, anche se dall’esterno era palese, e notai altro, un guizzo nei suoi occhi, qualcosa di incerto attraversò il suo sguardo fisso sul volto fintamente severo di Rebecca. Un dubbio? A focalizzare mi riportò la voce di mio zio. «Okay ragazzi! Edgar e Pat: in macchina con me. Tony e Reb: voi seguiteci. Andiamo all’ospedale per gli accertamenti del caso. Subito!» sibilò imperioso l’ultima parola e ci muovemmo tutti, ubbidienti. Mentre mi apprestavo a partire con mia sorella vicino, che, adesso lontana da altri sguardi, tormentava inquieta il bordo della sua giacca, pensai che la menzogna e la verità avevano un confine netto e labile al tempo stesso, e stavano stringendo il cerchio a stritolare tutti noi. Cosa avrebbe comportato questo non lo potevo immaginare, ma solo, forse, temere.
8 Le parole che non ti ho detto
Edgar
Il giorno dopo la mia ricaduta, in questa ennesima giornata grigia che annunciava un acquazzone, me ne stavo seduto in macchina. Avrei avuto ginnastica, ma gli allenamenti di lotta a cui il nuovo allenatore voleva sottopormi o meglio, sottoporci, non mi andavano a genio. Non oggi. Tony era dentro a farsi strapazzare da Matthew come riscaldamento. Io, con la scusa del malore di ieri, mi ero defilato, mio cugino mi aveva guardato di traverso intuendo la menzogna, ma a me interessava poco. Avevo ancora rabbia dentro per il comportamento di Sam. Risentimento per l’amnesia che ancora ammantava a sprazzi gran parte del mio ato. Biasimo per Tony che si ostinava a tenere in piedi quella farsa di fidanzamento quando era palese -adesso se ne sarebbe accorto pure un ceco- quanto sbavasse sulla mia Samy. Scossi violentemente la testa e diedi un pugno potente sul volante, le nocche mi fecero male ma non abbastanza, mi sembrava di voler sfogare tutta l’energia repressa che c’era in me. Non era solo gelosia, invidia o fastidio, era una confusione tra sentimenti, sensazioni, giudizi e realtà che si confondevano tutti nel bisogno di rompere qualcosa: fosse anche -di nuovo- la mia testa. Tutto per far uscire quel dubbio. Era come se mi costringessi ancora a provare qualcosa, qualcosa per la ragazza che non avevo più da prima dell’incidente. Mi balenarono, a quel pensiero, i suoi occhi ricolmi di speranza quando mi aveva chiesto di Tony e, affondarono una lama nel mio orgoglio oltre che nel
cuore. Non era quello lo sguardo che avrei voluto vedere nella fidanzata che amavo un tempo, e non era quello che anche adesso desideravo. Avevo perso definitivamente la mia vecchia vita, era dissolta nelle nebbie della memoria, nei tratti somatici scomparsi dal mio viso. Io avevo bisogno di Samy che mi amava per me stesso: Steven, l’amico cresciuto con lei divenuto il suo ragazzo. Risi amaramente ai miei pensieri muti. Volevo che lei mi ricordasse quando neanche io sapevo farlo. Tony poteva aver ragione, dirle la verità sarebbe stata un opzione logica, ma la ragione mi diceva anche che, una simile idea, avrebbe aiutato le mie insicurezze solo se lei mi avesse amato ancora. E se Tony era un libro aperto: Sam lo era altrettanto. Samantha Lee era pazza per mio cugino. Non c’erano più bugie, cattiverie, o veli pietosi sulla mia vista a cui appellarmi. Era chiaro, cristallino come un vetro finemente molato. Un vetro spesso come la barriera che ormai mi separava da lei. Chiusi le palpebre e rividi l’intera mattinata e, la lezione di letteratura inglese che non volevo ricordare. La voce del professor Barnard che, petulante, aveva percorso l’aria carica di elettricità della stanza. «Oggi, faremo una lettura da Romeo e Giulietta. Mi aspetto: sentimento, intonazione e interpretazione. Sceglierò due interpreti, e il resto della classe, dovrà, a lettura conclusa, fare un saggio di tre pagine sulle sue impressioni, mentre gli oratori esprimeranno le loro idee verbalmente attraverso le domande che voi gli porrete».
Un brivido di paura mi aveva scosso violento, non avrei retto a una situazione simile con lei se fossimo stati prescelti. Poi le parole del professore erano state raggelanti. «Bene Signori, i due interpreti saranno quelli che hanno i voti più alti nello scritto, in modo che la loro esposizione orale, al posto del compito, non infici la loro media». Il professore di mezz’età aveva chinato il capo sul registro, e la sua calvizie incipiente aveva brillato sotto il neon come una superficie lucida; sarebbe stato divertente per Steven scherzarci -un milione di anni prima- col vicino di banco. Adesso per me era solo una vista senza senso, in attesa di un verdetto che conoscevo e mi riempiva di fastidio. Il dito scorreva sui nostri nomi a cui vicino era segnato il voto, lo stesso si fermò e l’uomo rialzò lo sguardo. Cercò me, arricciò il naso, sbuffò, e poi mi traò per fermarsi due banchi più indietro. «Signor Somerset? Venga, lei sarà il nostro Romeo». Tutti si erano girarti verso Tony, non io. Io guardavo fisso davanti a me, furente, i due leggii predisposti accanto alla cattedra. Mi ero ritrovato a pregare che la stramaledetta dedizione allo studio di Samy fosse crollata senza che me ne accorgessi. Nel frattempo Tony si era alzato lentamente fra i mormorii e i gridolini di qualche oca, mentre Brooke, dal loro banco, applaudiva come una stupida. Sfilò fino a armi vicino, i nostri sguardi s’incrociarono, nel mio c’era furore, nel suo una sorta di freddezza composta in cui vidi un lampo di imbarazzo...oppure dolore? No, non potevo crederci, sapevo che, anche lui, come me, sospettava che il nome della sua partner in quel compito fosse Sam, ma non poteva provare dolore per
questo, semmai trionfo. Piacere ad infierire davanti al mio sguardo che non poteva scappare. Ero in prima fila. Stavo per capitolare, pronto a soffocare un grugnito al nome di Sam, quando il professore parlò: «Bene Signor Somerset, si accomodi al leggio». Il professore si carezzò la fronte divenuta un tutt’uno col suo capo. «Ora... la Signorina Somerset dovrebbe affiancarlo». Reb? Che c’entra Reb? Elaboravo in fretta sconcertato che non avesse detto il nome di Sam. «Ma...essendo sua sorella, non aiuterebbe la concentrazione e l’immedesimazione giusta per l’interpretazione e i giudizi, quindi avremo due coppie, che si alterneranno». Rebecca spostò la sedia pronta comunque ad alzarsi, ma un gesto del professore la prevenne. «Signorina Somerset, può attendere al banco, adesso ascolteremo la signorina Lee». Gli occhi vividi e neri del professore scartarono tutto a sinistra, dove nell’ultimo banco prima della porta sedeva Sam vicino ad Ania Beck . Lei sussultò, la sedia fece un gran rumore e qualcuno ridacchiò, il mio cuore invece non sobbalzò...era quasi fermo, quasi morto. Sopportare l’emozione aveva reso la rabbia un panico strisciante, e quasi paralizzante, continuavo a fissare Tony, e vidi che lui non mi guardava aveva già incatenato lo sguardo con il suo. Samy si alzò ed esitante raggiunse il leggio, nei suoi occhi un misto di frustrazione gioia e rabbia. Nei suoi occhi: la paura. Una paura che stranamente riconobbi e la mia stupida memoria mi giocò un tiro inaspettato.
Ero al telefono, nella cucina della fattoria. Era successo forse un paio di anni prima, risentii la voce agitatissima di Samy, e ricordai che mi fece sorridere e riempire d’affetto.
“Steve, non capisci...hanno scelto me per una competizione di matematica. Sarò un vero disastro!” “Calma Samy, te la caverai benone, sei una secchiona!”. “Steve! Non capisci?! Mi tremeranno le gambe, avrò le mani sudate e il gessetto mi si scioglierà in mano...e...e...”. “Sei brava Samy, non succederà” “Sarò brava, ma patetica, e non vorrei davvero, non con lui che...” “Lui chi?” avevo ridacchiato, non capendo. “Intendo, loro... emm, la classe che mi guarda”. “Okay Samy, ecco il piano: tu fa finta che sono lì davanti, e sono l’unico che ti prende in giro. Ci sono solo io che rido così forte da far scomparire tutti: perché sto scherzando Sam, e sai che in realtà ti ammiro ragazza! Tu pensa questo come in: “Mezzogiorno di fuoco”, il deserto e io, e, andrà tutto bene”. “Steve! Non funzionerà, di fronte avrò venti persone!”. “Funziona! Perché l’ho testato Sam! Portati in tasca la tua pallottola di Ted, quella che abbiamo rubato a dieci anni per giocare ai cowboys, stringila forte e scaricherai tutta l’energia negativa, io ho fatto così con la mia, e pensavo che tu eri lì e tifavi per me. Cavolo! Ho ato così l’interrogazione di letteratura inglese -una palla- che di solito mi costava una C... fidati, Samy!”.
Il flash era sparito, adesso avevo perso la compostezza, ansimavo. Sam e Edgar stavano prendendo la pagina indicata dal professor Barnard. Poi il professore spiegò e io raggelai. «Il brano è preso dalla dichiarazione d’amore». Perfetto! Volevo prendere per il collo il mite professore. Ma fui distratto da un cigolio secco, mi girai, Rebecca aveva tirato in fuori la sedia con uno scatto, sedeva sul bordo e sembrava quasi pronta a scappare, era uno strano comportamento per la mia imperturbabile amica. Lei non era Samy: sempre pronta ad emozionarsi e aver sfiducia in se e nelle proprie capacità, come ricordavo ora. Reb, era una prima donna, sicura e decisa. Ma allora perché sembrava nervosa? Affilai lo sguardo, sconcertato, e tornai a guardare quello spettacolo grottesco che si beffava di me. Adesso Barnard stava facendo sistemare i leggii uno di fronte all’altro. Erano pesanti e, Tony si era offerto di fare da solo, mentre un agitata Sam lo seguiva con gli occhi. Non si era voltata neanche una volta dalla mia parte malgrado fossi a pochi metri da lei. «Bene, Signorina Lee, inizi a pagina otto capoverso quattro: Giulietta». Sam si schiarì la voce, poi lesse a mente, e sussultò con le spalle alzando gli occhi, e fissando Tony, con improvvisa risolutezza dietro l’imbarazzo. Sfogliai rapido il mio testo di riferimento, e per la seconda volta, il sangue nelle vene si trasformò in ghiaccio, l’attimo dopo ribolliva come lava rabbiosa. Sam nel frattempo attaccava. «Chi ha guidato i tuoi i a scoprire questo luogo?». La voce le tremava un po’ ed era flebile, il professore la interruppe. «Miss Lee, più energia! A voce più alta! E’ un testo teatrale: Giulietta è sorpresa, emozionata, ma felice!».
Lo ammazzo. Giuro che lo aspetto sul retro del campus, e fa una brutta fine! Steve mordeva il freno di tutta la mia composta razionalità. Non era colpa di Barnard, ma a me serviva un capro espiatorio. Non potevo assistere anche a questo, non dopo aver capito che non c’era più nulla in cui sperare. Poi Sam fece una cosa: si ficcò la mano in tasca. Portava un paio di Jeans sbiaditi sul davanti, a vita bassa, che naturalmente le stavano molto bene, mi imposi di non pensare a questo e continuai ad osservarla, sembrava stringesse qualcosa in mano nella tasca e, la morsa delle sue dita, si fece urgente, quasi spasmodica. Le nocche contratte disegnavano seducenti pieghe nella stoffa, sul suo inguine. Strizzai gli occhi per non vedere, controllando il desiderio sul nascere, e ricacciando indietro ricordi di sensazioni, che, in quel momento, avrei voluto fossero ancora celati, completamente, dalla mia amnesia. Quando li riaprii Tony mi fissava, ed era...furioso! Aveva uno sguardo metallico e terrificante come uno strato di affilatissima lamina di giada. Maledizione, non può comportarsi così! Io stesso non posso comportarmi così! Me lo ripeto, ma istintivamente rispondo strafottente allo sguardo, non abbasso gli occhi ma li pianto in faccia a lui, attenti, vigili, quasi indifferenti. Sto imparando il suo stesso gioco: mi piace. Non voglio sappia quanto mi costa stare qui ad assistere a tutto questo. E Sam riattacca: adesso più forte e quasi bellicosa verso Tony. «Chi ha guidato i tuoi i a scoprire questo luogo?».
Lui, adesso è di nuovo concentrato su di lei, la fissa negli occhi. «Amore, il quale mi ha spinto a cercarlo: egli mi ha prestato il suo consiglio, ed io gli ho prestato gli occhi. Io non sono un pilota: ma se tu fossi lontana da me, quanto la deserta spiaggia che è bagnata dal più lontano mare, per una merce preziosa come te mi avventurerei sopra una nave». Me ne rendo conto solo io? Ogni parola è una spina nel fianco per me, ed è così perché: è vera. Somerset è il solito perfetto ragazzo, uno di quelli che ti irritano a morte perché sai che non lo coglierai mai in fallo. Mettigli a fare qualsiasi cosa, e, ti ritrovi un professionista che ti fa sentire un inetto. Ma non è questo adesso il caso. Lui è così bravo e vero, perché non mente, non recita, non deve svolgere un compito, anche se per lui sarebbe semplice da portare a termine. In questo momento Tony è perfetto perché è se stesso, è vero. Questo si sente: pervade l’aria, è palpabile. Questo non puoi invidiarlo, o schernirlo o combatterlo. Non puoi fronteggiare l’essere, ma solo il fare. Potrei ammazzarlo di botte ma non cambierebbe la realtà: lui l’ama molto, e molto profondamente. Come me quando credevo che ancora potesse essere mia. Come la rievoco nei miei pensieri impossibili. Il professore si schiarisce la gola, è imbarazzato, e non gli do torto, la classe è ammutolita: non solo per il tono ma per lo sguardo che lui le ha rivolto per tutto il monologo. Era come conoscesse le parole a memoria, nonostante a tratti abbassasse le palpebre per leggere.
Dietro a me la Salt e le sue amiche bisbigliano piano. No, non me ne sono accorto solo io. E una fitta mi fa rendere conto che è ancora peggio, perché il mio giudizio non è falsato dalla gelosia, è solo la dolorosa realtà. E fisso lei: voglio vedere la sua reazione e questo non può consolarmi. Lei è arrossita: e se magari è comprensibile, e alquanto grottesco per me, data la sua prossima battuta, vedo oltre a questo vedendo l’unica cosa che non avrei mai voluto vedere. Voglio accecarmi con i miei stessi pugni, adesso vorrei svenire di nuovo, perché, negli occhi grigi così caldi di Sam io vedo quelli di Tony. Hanno lo stesso sguardo e io mi volto a fissare la finestra, spezzo la matita fra le dita, mi sento una forza immensa, chiamo a raccolta il coraggio a darmi sostegno, per ammettere a me stesso ciò che devo: è finita davvero. Il legno che cede fra le mani, attira l’attenzione del professore che si gira e mi lancia un’occhiataccia. «Attenti! Per favore! Miss Lee, continui». So la prossima battuta, e non voglio sentirla, mi serve tempo, un sostegno, qualcosa che non mi faccia naufragare. Ho paura. Paura che la mente mi mandi altri ricordi. Paura di non riuscire a dimenticare, perché è questo che devo fare: dimenticare. Mi serve aiuto e, non so come, mi ritrovo a vagare lo sguardo per l’aula, e, finire col fissare brevemente Reb; lei mi restituisce l’occhiata che dice: “Sono qui” annuisco e sento quasi il pizzicore delle lacrime, inorridisco e deglutisco per ricacciarle indietro. Il sostegno di Rebecca, come un ponte si protende invisibile verso di me e io
voglio attraversarlo e crollare miseramente, perché so che lei mi capirebbe: custode delle mie emozioni. L’imperturbabile Rebecca è l’opposto che mi completa quando tutto va a rotoli, è un sostegno fidato. Mi fido di lei. Non mi tradirebbe mai. Ogni mia parola detta o inespressa rimane tra noi. Sposto lo sguardo e fisso Samy: colei che ora è solo un dolore sordo. Lei inizia a parlare: «Tu sai che la maschera della notte mi cela il volto, altrimenti un rossore verginale colorirebbe la mia guancia, per ciò che mi hai sentito dire stanotte. Io vorrei ben volentieri serbare le convenienze; volentieri vorrei poter rinnegare quello che ho detto: ma ormai addio cerimonie! Mi ami tu? So già che dirai “sì”, ed io ti prenderò in parola; ma se tu giuri, tu puoi ingannarmi: agli spergiuri degli amanti dicono che Giove sorrida. O gentile Romeo, se mi ami dichiaralo lealmente; se poi credi che io mi sia lasciata vincere troppo presto, aggrotterò le ciglia e farò la cattiva, e dirò di no, così tu potrai supplicarmi; ma altrimenti non saprò dirti di no per tutto il mondo. E' vero, bel Montecchi, io son troppo innamorata e perciò la mia condotta potrebbe sembrarti leggera. Ma credimi, gentil cavaliere, alla prova io sarò più sincera di quelle che sanno meglio di me l'arte della modestia. Tuttavia sarei stata più riservata, lo devo riconoscere, se tu, prima che io me n'accorgessi, non avessi sorpreso l'ardente confessione del mio amore: perdonami dunque e non imputare la mia facile resa a leggerezza di questo amore, che l'oscurità della notte ti ha svelato così». Il volto arrossato dà credibilità al monologo, gli occhi emozionati, fanno da cornice, ma il tono non è una recita, come non lo era prima per lui. Io non mi fido più di Samy. Non più. Il professor Barnard sorride compiaciuto e interrompe. La classe, in cui aleggia un brusio a metà fra l’incredulo, l’ammirato e il sarcastico, applaude. Le mie mani battono secche le une contro le altre, anche secondi dopo che gli altri hanno finito. Ho ripreso il controllo.
Edgar è in me più di Steve, adesso. Per la prima volta Sam mi fissa, leggo incertezza e forse un rimpianto mesto, quasi dolce, ma l’attimo dopo, come sempre viene sostituito da un guizzo di rabbia. Infila di nuovo la mano in tasca, afferra l’oggetto di prima, ma non lo stringe, lo tira fuori e lo osserva un secondo: il palmo aperto. Io lo guardo e la furia esplode incontenibile: fremo, mi aggrappo al banco per arginare il tremito delle mani. Sam ha in mano una pallottola: sotto il neon brilla per un attimo. Richiude il palmo e se la rimette in tasca. Tony osserva la scena: soppesa lei, soppesa me, e so che ha capito. Io, voglio uccidere tutti e due. Lui mi fissa e fa un cenno di diniego con una luce orgogliosa e ferita nello sguardo. Una luce dolorante che ha spezzato quella d’amore che, ancora gli accende gli occhi, quando nota lei dopo di me. Non mi basta, è puerile che lui soffra. Lui ha vinto, e non ora: ma molto, molto tempo fa, quando ancora io non ero in gara, ammesso lo fossi mai stato. Era lui, la componente imbarazzante del pubblico che innervosiva Samy nella sua classe a Dallas, tanto tempo prima, ne ho la concreta certezza. D’improvviso voglio ferirla, così come sono ferito io. Mi beo nell’illusione di riuscirci: fosse anche solo perché le risveglio brutti ricordi. Alzo la mano. «Professor Barnard, posso venire io con Miss Somerset?».
L’uomo tarchiato e rotondetto si gira verso di me, colgo l’occhiataccia di Tony, la ignoro, non guardo Sam. Evito. Il professore mi fissa riflettendo, poi esclama: «Signor Carlton, potrebbe in effetti, per via della media, ma vale lo stesso discorso di prima: vorrei plausibilità e lei...» si interrompe e soppesa il mio aspetto ando da me a Tony. «Non me ne garantisce, e poi Rebecca è sua cugina». Non potevo spiegare, per cui mi espressi abilmente sperando che Reb mi lasciasse fare. «No, professore, questo non è del tutto esatto, lei non è veramente mia cugina» lasciando la frase sospesa, sottintendevo che lei non era la vera sorella di Tony, sapevo che qualcuno aveva già messo in giro questa voce plausibile, che nessuno di noi aveva smentito, poiché faceva al caso della nostra privacy. Chiaramente, tutti credevano che, lui così somigliante a me, potesse essere davvero un mio cugino, quasi gemello. «Sì ho sentito... ma lei comunque somiglia troppo a...» Tagliai corto le proteste del professore. «Suvvia! Mister Barnard, può vedere che siamo diversi! Vorrei lanciare una sfida a mio cugino!» «Questo è indubbio» disse Tony in tono glaciale, ritornato vicino a Brooke. Sentii la sedia di Sam strusciare sul linoleum e lei sedersi, ma la ignorai, senza vederla. Il professore parve un po’ divertito dalla situazione, poi sbuffò e fissò Rebecca che, proprio oggi, non mi sedeva accanto ma vicino a Backy Star: una delle oche amiche di Brooke. Al suo solito posto mi ero ritrovato Mark Nibbs, che memore dei nostri trascorsi mi guardava in cagnesco. Distratto come sempre, era stato lui che aveva sbagliato banco quella mattina. «Se per la Signorina Somerset va bene...» disse infine Barnard capitolando.
Fissai Reb con una preghiera nello sguardo, e lei con una luce irritata negli occhi, chinò il capo verso il docente in segno di assenso, e poi si alzò, e io feci lo stesso. Adesso eravamo l’una di fronte all’altro e io potevo fissare Sam oltre la figura di Rebecca, ed era ciò che volevo. Volevo vendetta: infastidirla se non ingelosirla. Avrebbe rivisto gli occhi di Steve, e sentito la sua voce, parlare d’amore a un'altra, e forse si sarebbe sentita in colpa per aver ingannato il suo amico di infanzia. Forse: se dentro di lei c’era ancora un po’ della mia Samy. «Perfetto allora! Sempre pagina otto, ma capoverso due: Romeo. Prego, Signor Carlton». Mi schiarii la voce e, lasciai trapelare mentre leggevo, quei sentimenti che dovevo sconfiggere per sempre. «Essa parla. Oh, parla ancora, angelo sfolgorante! poiché tu sei così luminosa a questa notte, mentre sei lassù sopra il mio capo come potrebbe esserlo un alato messaggero del cielo agli occhi stupiti dei mortali, che nell'alzarsi non mostra che il bianco, mentre varca le pigre nubi e veleggia nel grembo dell'aria». Alzai gli occhi alla fine della battuta volendo saggiare la reazione di Sam, ma...non riuscii ad andare oltre la barriera del viso di Reb. Lei mi guardava intensamente, mi...mi scrutava. Aveva un aspetto altero, quasi imibile, ma io la conoscevo bene, e sapevo riconoscere l’emozione celata da quello stupido autocontrollo alla Somerset, che avevo imparato a smascherare. E adesso in fondo a quei zaffiri profondi c’era del dolore. Ebbi una fitta allo stomaco molto potente. Qualcosa mi morse dall’interno, o forse solo mi picchiettò come un battito
intermittente. Battei gli occhi e ritornai in me. Reb adesso chinava il capo e iniziava a leggere, e io potevo fissare Sam, ma non lo feci. Invece seguii il movimento del viso di Rebecca, e prima che potesse attaccare, le sussurrai: «Scusa, sono un demente». «Sei un idiota. Sì» mi confermò lei in un soffio impercepibile ma duro come un comando militare, e poi attaccò: «Oh Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre; e rifiuta il tuo nome: o, se non vuoi, legati solo in giuramento all'amor mio, ed io non sarò più una Capuleti». Reb era brava, dannatamente e irritantemente brava, come forse ogni membro della sua famiglia. Eppure non c’era la freddezza della perfezione nel suo stile, c’era un velo di rabbia, un accenno di ironia, e soprattutto, un fondo di emozione sincera che riaccese quello strano borbottio nelle mie viscere. Mi distrassi e, arono, due tre secondi muti in un’attesa imbarazzata, prima che potessi leggere la mia seconda battuta. Mi diedi dello stupido e questo accentuò il tono incerto e confuso delle parole, regalandogli anche un tono ironico: «Starò ancora ad ascoltare, o rispondo a questo che ha detto?». Un brusio divertito animò la classe, il professor Barnard la zittì, il mio proposito era stato quello di ruggire con scherno queste parole, fissando Sam, dopo. Ma era tutto scivolato via, e stavo invece recitando un'altra parte: non la vendetta, ma l’incertezza. Una confusa, emozionata incertezza, che faceva a botte col dolore, e con l’ironia che non riuscivo a tramutare in scherno ma solo in... Malizia? Scossi la testa, confuso da quella parola non voluta scappata fuori dai miei pensieri e questo forse accentuò la recitazione di quella frase appena conclusa
del testo di Romeo. Ma non ebbi tempo di pensare, Rebecca, che aveva dipinto sul viso perfetto un sorrisetto, riprese a recitare lanciandomi uno sguardo strano: «Il tuo nome soltanto è mio nemico: tu sei sempre tu stesso, anche senza essere un Montecchi. Che significa "Montecchi"? Nulla: non una mano, non un piede, non un braccio, non la faccia, né un'altra parte qualunque del corpo di un uomo. Oh, mettiti un altro nome! Che cosa c'è in un nome? Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un'altra parola avrebbe lo stesso odore soave; così Romeo, se non si chiamasse più Romeo, conserverebbe quella preziosa perfezione, che egli possiede anche senza quel nome. Romeo, rinunzia al tuo nome, e per esso, che non è parte di te, prenditi tutta me stessa.» Avevo ascoltato ogni parola, e questa, mi era frullata in testa, con altri significati che non afferravo appieno. L’unica cosa che sentivo era di nuovo quell’emozione forte a cui non davo nome. Mi dicevo che, con le mie piccole vendette, ferivo me per primo, e non Sam come avrei voluto; ed era la seconda volta che coinvolgevo Rebecca in questo gioco al massacro. Ma ora, al banale senso di colpa, legato alla consapevolezza di essere infantile, si aggiungeva questo piccolo mostriciattolo che mi mordeva dentro e rosicchiava tutto, nell’attimo stesso che osservavo gli occhi blu scorrere le righe e la bocca atteggiarsi in un tremito emozionato per interpretare il testo. Ma a colpirmi nelle viscere -come una saetta nel grigio di un temporale improvviso- furono i luccichii che colsi nelle sue iridi chiare quando pronunciò l’ultima frase: «Romeo, rinunzia al tuo nome, e per esso, che non è parte di te, prenditi tutta me stessa» Lei non la lesse solamente: me la sbatté in faccia quella battuta. Quasi con rabbia: una rabbia celata dietro gli occhi lucidi che parlavano però di insicurezza. Come i miei che vedevo riflessi nei suoi, adesso estremamente luminosi perché inaspettatamente umidi. Mi ero mai accorto di quanto Rebecca fosse straordinariamente bella? No... forse non così consapevolmente, prima di allora.
Allungai una mano d’istinto verso il suo viso. Io non so cos’era che mi prese, ma volevo consolarla, o solo, forse, semplicemente toccarla. D’improvviso, il desiderio sensuale di prima che ero riuscito a soffocare sul nascere, riapparve in modo molto più inaspettato e violento, non un riflesso per un ricordo, ma un ondata di calore per un mistero da bramare, e non era per Samy. Era per Rebecca. Ne fui scioccato, e riuscii a malapena a non esserne travolto. Ritrassi la mano ancor prima che avanzasse oltre il libro, in quell’attimo sospeso me la ai nei capelli, poi gli applausi della classe scrosciarono ancora: questa volta per noi due.
Tornai alla realtà dell’abitacolo della macchina, ciò che era successo alle mie emozioni era irreale, frutto della mia inquietudine. Il dolore della rassegnazione giocava strani scherzi. A pranzo Sam non si era vista, e avevo sentito per caso Ania dire a Brooke, che l’assistente della Signora Casper l’aveva requisita come aiuto in archivio. Non avevo toccato cibo a mensa cincischiando appena, quello che avevo messo a forza sul vassoio. Ero chiuso in un mutismo torvo, e lo stesso valeva per Tony di fronte a me che, scrutava sua sorella, con una curiosa aria di rimprovero. Rebecca mangiava composta la sua insalata, evitando gli sguardi di tutti e due, e parlando con Matthew che non se la smetteva di farle battute divertenti per il solo gusto di vederla ridere forse. Forse aveva solo intuito che era nervosa e voleva farla rilassare. Forse era solo un pagliaccio!
Mi sorpresi del tono strano di quell’appellativo nella mia testa. Comunque Reb, non rideva di gusto, piuttosto sorrideva mesta, con dolcezza e gratitudine a mio fratello. Volevo parlare con lei, confidarmi. Ricacciavo indietro l’inquietudine e sentivo il bisogno della sua comprensione, del suo affetto. Del semplice puro, rassicurante affetto fraterno. Qualcosa che dicesse: “sei a casa e qui avrai sempre chi ti comprenderà e sosterrà”. Ma a quel pensiero continuavo a sovrapporre il volto di mia sorella a mia cugina, e non c’era Amber, ma Reb vicino a me. Tutto appariva assurdo in quei momenti, e mi dissi una volta di più che ero solo sconvolto. Dopo la mensa avevo disertato ginnastica e adesso -come non avrei mai voluto ma facevo- me ne stavo a rimuginare. Chiusi gli occhi perso fra i volti affastellati uno su l’altro nella mia testa: Il mio nello specchietto retrovisore. Quello di Tony che le dichiarava amore eterno dietro la maschera di Romeo. Quello di Sam che faceva lo stesso, e di Rebecca che la imitava rivolgendosi a me. Sospirai per allentare la tensione, una mano d’istinto andò allo sportello del vano nel cruscotto per controllare se avevo preso con me la morfina. Ma non mi doleva la testa, mi doleva il cuore. E poi cos’era quel calore? Non se ne era andato dalle gambe e aveva albergato ai margini delle mie vene mentre ero seduto al tavolo della mensa. Aumentava e diminuiva a ritmo della voce di Rebecca.
Mi rifiutavo di considerarlo desiderio sensuale. Era inquietudine o imbarazzo: solo quello. Ma allora doveva esserlo anche quello provato per Sam mentre la osservavo con la mano in tasca e sapevo che quello era desiderio. oppure... mero rimpianto? Non potei continuare la riflessione perché dei colpi sordi e potenti al finestrino mi riscossero. Sam era oltre il vetro. Si scagliò contro la portiera tempestando di pugni il riquadro trasparente. La mini aveva dei cristalli doppi che limitavano i suoni esterni, lei gridava ma non sentivo tutto. Ma quando spinsi la leva dello sportello per uscire dall’abitacolo sbigottito da quella veemenza incontrollabile, mi arrivò un pugno sul naso. Ci aveva messo tutta se stessa in quel colpo e centrò il bersaglio, non lo ruppe, ma mi fece quasi sanguinare. Nell’attimo che stavo per dirle: “Sei impazzita?!” lei si teneva le nocche doloranti e mi gridava: «Sei un bastardo Steve!» Ero sotto shock ma mi ripresi. Neanche le chiesi come lo sapeva. «Sali in macchina». «No!». «Samy. Maledizione! Sali!». Improvvisamente, e incredibilmente, ero uno strano non me, freddo e calcolato. Reagivo alla sua estrema aggressività con la calma, e poi ricordai...che era sempre stato così fin da bambini.
Ricordai...tutto. Flash: Sam e io a sei anni...otto...undici... Sam e io a quattordici... Sam quel pomeriggio sul portico... Sam sul tronco... Sam in mare...Sam fra le mie braccia. Sentii la mia voce: “Ma se ci tieni a toglierti il dubbio...incontralo pure, però io non so se riuscirò a starmene a guardare, a questo punto devi fare una scelta” E lei che rispondeva: “Beh... fino a qualche ora fa un appuntamento con Somerset era il mio sogno, ma da qualche minuto, anzi... diciamo mezz’ora, ho scoperto che il mio exmigliore amico è altrettanto attraente, con una differenza, lo amo anche io da sempre, almeno penso dato che sono un po’ frastornata di miele e baci e non mi è affatto dispiaciuto, quindi credo che non ci sia partita fra le due cose, devo focalizzare, un conto è l’illusione di un ragazzo che non conosco, un conto è la realtà...” E poi ancora, una delle tante -troppe- telefonate in quei mesi lontani. “Samy, ti amo, ti voglio, cosa c’è da riflettere su questo? Esisti solo tu per me, lo capisci? Non riesco a stare senza di te, fammi venire!” “Steven, ci siamo messi insieme troppo in fretta, ti amo lo sai, ma voglio che sia una cosa seria, un po’ di distanza ci farà bene, ci rafforzerà, la prossima estate...” “Sam! Sono cazzate! Ti sei messa con lui?! E non ce la fai a dirmelo?! Fallo maledizione! Così è peggio! Impazzisco sapendoti lì...anzi no, non dirmi niente, vengo e lo smonto! Fine della storia! Non ci credo Sam! Tu...tu mi ami, io...io ti conosco! E’ lui, e io lo ammazzo, giuro che lo faccio!” “No...No! Steve! Lui non c’è, è partito per l’Accademia ricordi? Non...non c’è!
Io...è meglio così, per ora, io devo riflettere, ti amo lo sai, lo hai detto tu stesso, ma...ma ecco...lo ripeto: è successo troppo in fretta, e forse non ero pronta, e...ma, ti...ti amo Steve!” Le sue parole erano chiare, come se le stesse pronunciando in quel momento che fissavo le sue labbra fremere per la rabbia. Erano uscite intatte dalla nebbia che le aveva avvolte fino ad allora, e ne uscì anche la furia. Amber aveva ragione. Io ricordavo. Lo strano me gestì anche la furiosa disillusione. «Ho detto. Sali in macchina!». Il mio tono era talmente cupo che vidi un guizzo di paura nei suoi occhi, che tuttavia non mi intenerì. Mi spostai per lasciarla are mentre mi sfregavo il naso dolorante imprecando. Lei come un automa salì, lo feci anche io, e per un lungo attimo -in cui ci guardammo diritto negli occhi- rimasi a fissarla non vedendo altro che una bugiarda.
Samantha
Ero quasi inebetita mentre obbedivo a...a Edgar. No...a Steven. Ero oltre. Oltre la furia. Oltre la gioia.
Oltre la ragione. Volevo solo gridargli in faccia tutto questo e poi riflettei. Io adesso potevo farlo perché lui c'era. Lo fissai e vacillai. Era vivo, e io non sapevo nè come e nè perché, e sebbene la prima reazione era stata quella di ucciderlo per tutte le sue menzogne sulla sua identità, e fossi scioccata da quanto non potevo credere e che non aveva alcun senso; fissandolo negli occhi -e non nel volto che non gli apparteneva e che non comprendevo come potesse avere- rividi autenticamente Steve. Era quasi un anno che non lo vedevo se non nel dolore dei ricordi. Era vivo! Alzai una mano per carezzargli una guancia in un moto irrefrenabile d’affetto; ma quegli occhi caldi che conoscevo più bene dei miei mi traarono come una scure, e la sua mano schiaffeggiò la mia a mezz’aria, prima che potessi solo sfiorarlo. «Samy. Esci di qui e dalla mia vita. Per sempre. Da adesso!». Non aspettò che replicassi, spalancò la portiera del guidatore, fece il giro e aprì la mia. Io fissavo il vuoto davanti a me, aprivo e chiudevo le labbra come chi è senz’aria, e mille puntini luminosi si sovrapponevano all’immagine del parabrezza. «Esci di qui!». Steven sibilava furioso esortandomi da fuori con un gesto imperioso, reggendo spazientito lo sportello mentre mi stava letteralmente cacciando via. Si era capovolto tutto. L’avrei ucciso. Pensavo attraversando il parcheggio per affrontarlo.
L’avrei rimesso nella tomba dove doveva essere! Mi aveva lasciato all’oscuro a soffrire la sua mancanza. Mi aveva visto tentare il suicidio per lui...per Tony. Mi aveva ingannato, e... adesso? Adesso trattava me così?! Una vocina interiore però mi sibilò: “Per Tony...Tony con la sua faccia...Tony adesso suo cugino”. Tony che mi diceva non sai tutto. Oddio! Steven sapeva! E questo, condito dalle mie becere menzogne -che io stessa gli avevo sbattuto in faccia per allontanarlo- faceva di me il carnefice piuttosto che la vittima. Eppure mi sentivo scoperta, indifesa. Io la ragazza delusa che l’aveva colpito al viso un attimo prima. Il senso di colpa morse le viscere, ma anche la mia rabbia. Quando il secondo piede fu a terra, fuori dall’abitacolo della Mini, alzai il mento con aria di sfida: «Perché non me lo hai detto?». La sua voce arrivò tagliente: «Per la stessa tua ragione: forse mi conveniva così! E adesso vattene!». Lo fissai mentre parlava: non un fremito, un incrinatura nella voce. Quello non era Steven. Quello era Edgar Carlton e mi odiava, e non potevo dargli torto forse, o forse sì. Mi issai in piedi e fatti due i, mi voltai per dirgli: «Non so cosa tu possa credere di sapere, ma non sai tutto e, comunque, questo non ti giustifica». Lui rise brevemente e una luce dolente -che mi sciolse il cuore- accese il suo sguardo.
«Ricordi Samy? Da bambini? Quando dicevamo la stessa cosa nello medesimo momento, e poi scoppiavamo a ridere? Beh succede ancora, perché mi hai rubato le parole di bocca amica mia! Vale anche per me!» si girò e salì in macchina. Le sue gomme stridettero sull’asfalto mentre usciva a tutta velocità dal parcheggio del campus. Io fissai il vuoto lasciato dalla vettura e poi iniziai a correre. La vista risultava offuscata dalla lacrime che mi asciugavo, con stizza, sfregando a farmi male il dorso delle mani sulle palpebre. Continuavo a pestare l’asfalto veloce in direzione della palestra. Adesso dovevo sapere tutto.
9 Amore e Orgoglio
Edgar Anthony L’allenatore Jamison gongolava per il suo protetto mentre mio cugino Matt mi stava massacrando: una presa dopo l’altra, un tonfo dopo l’altro. La schiena scricchiolava, sotto il mio peso sommato al suo, quando mi costringeva a terra ora con un gomito piantato nel mio torace, ora con un ginocchio sopra il mio addome. Non stavo dando il meglio di me. Ne ero cosciente. Certo non pretendevo di essere potente come Matthew, ma sicuramente ero agile e forte. Eppure non m’interessava, sentivo un agitazione costante crescere: un presagio di ombre. Eppure... Eppure avevo vissuto un momento intenso, bellissimo. Era stato come dichiararmi un'altra volta. Era stato come gridare al mondo che io l’amavo la recita di Romeo e Giulietta di quella mattina. All’inizio, forse, ero stato spavaldo, quasi sbruffone: in quel momento avevo amato la sensazione di potenza che mi davano i suoi occhi innamorati e incerti su di me. In quel momento mi ero battuto il petto come il più animalesco dei gorilla di fronte al mio rivale. Ma adesso? Adesso, ero inquieto. La situazione in cui ero e, che avevo contribuito a creare, era fitta e complessa come un labirinto e ne avevo paura. Paura di non riuscire a uscirne, di non sfuggire al Minotauro: il mostro che
temevo. La mia angoscia che aveva un solo nome: la perdita. La perdita delle mie speranze. La perdita delle mie certezze. La perdita delle mie sensazioni vibranti sotto pelle, relegate solo a struggente ricordo e non più ad attesa. La perdita di Samantha. D’un tratto volevo essere sopraffatto dai colpi dolorosi del mio avversario. Volevo che mi malmenassero facendomi comprendere, col dolore fisico il mio errore, quasi fossi un bambino educato con brutalità. Non dovevo credere neanche per un attimo di aver vinto, e di essere in diritto ancora- di poter carezzare la sua carne setosa. Incendiare il mio corpo insieme al suo solo per poter essere l’artefice del fuoco che ci consumava e spegnerlo all’unisono con lei. No, non dovevo crederlo con l’arroganza che sentivo in me. Non era la verità. Quindi una sberla d’educazione, per aver creduto di poter trasgredire e farla franca, me la meritavo proprio tutta. Grugnii mentre Matt mi bloccava la clavicola con il suo avambraccio e io, in risposta, sollevavo la coscia per accavallarmi alla sua gamba spostare il peso e atterrarlo. Ruggii di ribellione ai miei stessi sensati pensieri. No! Io l’amavo. La desideravo. Era mia. Io...dovevo lottare ancora. Un movimento fluido, preciso, sbilanciai mio cugino: cadde sul tappeto e mi
riscoprii da vinto a vincitore. Poi la sentii. La sua voce: «Tony dobbiamo parlare!». Mi voltai, Matthew reagii prontamente alla mia distrazione costringendomi a ruotare, per ritrovandomi poco dopo il suo ginocchio in gola. Adesso se la rideva. «Ehi cugino! Non male l’ultima presa, ma manchi di concentrazione bello!» Jamison tuonò: «Signorina Lee! E’ pregata di andarsene! Potrà parlare al signor Somerset dopo l’allenamento, e questo è tutto!». Guardai nella sua direzione, era arrabbiata ma anche sconvolta. Si dondolava da un piede all’altro fra l’incerto e l’urgente. Fissava il professore alternativamente sempre più nervosa. «Signor Jamison, io... è urgente!». «Lasciami bestione!» diedi a Matthew una spinta con furia: lui sorpreso si sbilanciò e mollò la presa. Ero già in piedi e scendevo dal tappeto. La faccia di Isy non mi piaceva per niente. «Che c’è Sam? Cos’è successo?» lei non mi rispose subito. Jamison, dopo qualche secondo, sospirò irritato. «Okay, okay! Oggi finiamo dieci minuti prima! Alle docce Signori!» soffiò nel fischietto, e anche gli altri che si allenavano intorno a noi smisero dirigendosi stancamente agli spogliatoi. «Ringraziate la Signorina qui presente! Comunque!». L’allenatore ghignò indicando scortesemente Samantha: in risposta gli altri fischiarono un grazie ridendo e ammiccando. Avrebbero detto anche di più, se non li avessi omaggiati della mia peggiore occhiataccia assassina. Presi svelto Sam per mano, ansioso di trascinarla nel retro sul campetto esterno
di Basket. Era deserto, e appena fermati le avvolsi il viso nei miei palmi, preoccupato. «Parla Isy!». Lei mi guardava furente, ma anche triste, sembrava indecisa se scoppiare a piangere o darmi una sberla. Scelse la prima, grosse lacrime scivolarono giù dopo aver luccicato per un istante nei suoi occhi arrabbiati, e poi si divincolò, forse per caricare il braccio per la seconda. La fermai. Le mie dita: un ceppo da tortura morbido intorno al suo polso. Ma abbastanza solido da prevaricarla. L’attirai a me, con una mano alla nuca la costrinsi a poggiare la guancia alla mia maglietta sudata. Ero un cretino, ma certi aspetti contavano poco, non in quel momento comunque. Non sapevo come, nè perché, ma sentivo che era giusto fare così. Avevo capito. Non era difficile comprendere ciò che poteva sconvolgerla a tal punto: Edgar aveva parlato. Declamare con lei il nostro amore aveva agito su di lui meglio delle minacce e delle suppliche. La gelosia era un arma devastante. La stessa che mi mordeva le viscere in quel momento. «Sai tutto... non è così?» Adesso le mie dita imperiose erano ate dalla nuca al mento, che le tirai su per fissarla negli occhi che non avevano smesso di straripare. «Mi hai ingannato anche tu, lo avete fatto tutti... perché?». Proseguì il discorso senza attendere risposta: «E soprattutto la domanda è: come diavolo è possibile?! Impazzisco Tony. Davvero!». Come te lo dico amore, che ho una dannata paura di perderti pronunciando qualsiasi suono o parola?
Come te lo dico amore che morirei? Come te lo dico che -Dio mi aiuti- preferirei essere morto nelle acque dell’incidente, ma non vivere una vita all’ombra del tuo amore per un altro? Come te lo dico amore mio? Dissi solo: «Vieni, Isy». La presi per mano e la trascinai sui gradoni degli spalti di cemento, prima che potesse protestare. Aspettai che si sedesse e poi le ingiunsi calmo, glaciale: «Aspettami un attimo, mi cambio e sono da te, ti dirò quello che so» lei aprì la bocca di scatto, forse per mandarmi a quel paese, ma dovette richiuderla perché ero già in moto. Mi girai repentino, in un balzo avevo rifatto a scendere i tre gradini e correvo. Correvo contro le mie lacrime che sapevo di poter nascondere sotto il getto della doccia.
Samantha
Era incredibile come tutto scorreva in circolo vorticando e assorbendo ogni razionalità e sensatezza: come se il mio presente fosse stato permeato da una vena di follia in moto perpetuo e infinito. Non aveva nessun senso che Steven fosse vivo con il volto di Tony, il suo nome, e persino il cognome di suo zio. Non aveva nessun senso che non avesse voluto ascoltarmi, neanche per spiegargli le mie bugie: come se avesse anche altro per cui odiarmi. Sì, erano motivi per cui il suo comportamento poteva essere giustificato, eppure sentivo che c’era anche altro: qualcosa che minava la fiducia derivante dal nostro rapporto di amicizia, che avrebbe dovuto per forza fargli almeno sentire le mie
giustificazioni, che avrebbe dovuto imporgli delle domande verso il mio comportamento assurdo. Dio! Gli avevo sbattuto in faccia -quando credevo fosse solo Edgar CarltonChe non lo avevo mai amato sapendo di mentirgli. Ed era una bugia grossolana che Steve avrebbe smascherato. Sì, Steven, l’avrebbe fatto: mi conosceva da sempre, era... Tutto per me...anche l’amore. Doveva esserlo: era naturale come respirare. Su questa convinzione avevo basato i miei sensi di colpa dopo il bacio a Tony. Steven era l’amore. Edgar Anthony solo un attrazione: una forte stordente ubriacatura. Edgar...Edgar Carlton! Steve col volto della mia ossessione: uno sballo potente. Non un ubriacatura: un paradosso. Adesso capivo l’attrazione per lui, il mio cuore all'inizio spezzato in due metà identiche fino a quella bellissima mattina in cui mi ero svegliata con Tony al mio fianco. No, mentre correvo verso la palestra scuotevo la testa, non ero lucida, erano successe troppe cose per capire qualcosa in modo concreto. Steve sapeva qualcosa di più di quello che poteva raccontargli il mio assurdo comportamento o le informazioni in possesso di Tony, mi portava rancore e non era affatto da lui. Non con me. Qualcuno l’aveva fuorviato non aveva la mia versione dei fatti: l’unica che era la verità. E Tony doveva spiegarmi cos’era successo. In che modo assurdo la realtà si poteva essere trasformata in questo mondo parallelo in cui il mio amico
d’infanzia si era tramutato da non-morto nel sosia della mia ossessione. La mia ossessione... Arrivata dentro alla palestra fui attirata dai tonfi sordi dei ragazzi che lottavano nei quattro tappeti adibiti a ring. Ma solo uno di questi calamitò la mia attenzione. Matthew Carlton, il fratello di Amber e di Steve -strizzai gli occhi per non soccombere all’assurdo di quel pensiero- il capitano della squadra di lotta, nonché il più possente ragazzo della scuola, stava massacrando Tony in prese e atterraggi continui. Per una frazione di secondo, non esistette più nulla di tutto quel pasticcio che mi faceva soffrire, per un attimo, in cui il tempo e lo spazio si dilatò in modo inquietante, esisteva solo la paura per Tony. Avevo le ali ai piedi: in un soffio fui davanti a loro e quasi gridai per spingerlo a fermarsi parlando con me. Non notai che nel frattempo lui, in uno scatto rabbioso, aveva reso la pariglia al suo avversario. Mi resi ridicola con il mio tono alterato e ottenni la completa attenzione del Coach, ma quando Tony mi afferrò la mano e mi trascinò fuori, la curiosa sensazione che il tempo fosse fermò tornò, e lui fece ciò che gli riusciva bene, e non doveva: mi scompigliò tutti i pensieri razionali avvolgendomi il viso nelle sue carezze. Dio! Volevo accusarlo e baciarlo. Volevo che mi consolasse. Volevo... Non so cosa volessi in realtà: ero una mistura segreta di emozioni che solo quei suoi occhi verdi sembravano conoscere, più di quelli dorati che avrebbero dovuto comprendermi. E non aveva alcun senso per me. Gli argini si ruppero: le mie putride lacrime piene di infantile debolezza presero a tradirmi, mi infuriai con me stessa e volli sfogarmi con lui. Lui che, al pari di Steve, mi aveva mentito tenendo segreti oscuri che mi riguardavano da vicino, omissioni che avevano condizionato i miei
comportamenti, le mie scelte, che mi avevano cambiato la vita e il destino. Lui che sentivo troppo parte di me: un troppo da far male. Un troppo da combattere e ferire, da annientare prima che mi annientasse. Caricai uno schiaffo, ma mi fermò come sapeva fare solo lui: un misto di forza, prevaricazione e tenerezza, a cui una poveraccia come me non sapeva resistere. Non ha il minimo senso che adesso mi stringa al suo petto e io pianga tutta la mia frustrazione e questo fosse la sola cosa che volessi da lui in quest’attimo eterno. Non ha il minimo senso che adesso non riesca neanche a protestare quando mi molla qui ad aspettarlo per una spiegazione che ho il diritto di avere subito. Non ha il minimo senso che il profumo del suo corpo appiccicatosi a me, strisciando si insinui nelle vene calde riuscendo a sovvertire i miei sensi sconvolgendomi. Non ha il minimo senso che io pensi a tutto questo adesso. No. Non ha nessun senso, o forse sono solo troppo ceca. Mi prendo il capo fra le mani e mi dico che è solo colpa mia: della mia inadeguatezza verso questi sentimenti troppo forti. Ho paura di non riuscire a capire la verità. Cosa c’è adesso di autenticamente vero ai confini della realtà in cui mi trovo? Pensa, Sam! Scomponi i fatti: pensa al presente! Un piccolo movimento brontola in me: lo stomaco si contrae, guizzano immagini, ricordi dolorosi, un senso di vuoto lancinante. Un capannello di studenti abbronzati, gradini di marmo freddo. Il vento sibila fra i miei capelli sulle gradinate, un altro vento li alza nei mei ricordi. L’attimo prima di tuffarmi nel vuoto sentivo Steve chiamarmi, girandomi scorgendo Tony scuotevo la testa furiosa con le mie allucinazioni. Presto sarò con voi: l’unico pensiero del
momento. Perdita: vuoto perennemente incolore. Alzo il mento di scatto, nel presente il sole è alto e mi colpisce il viso, non sono sott’acqua con una speranza. Sono viva e loro non sono morti: nessuno dei due. Il tremolio interno si trasforma in comando automatico: fa alzare gli angoli della bocca e prorompo in un sorriso che si trasforma in una risata lenta, via via più ilare ma accompagnata dai singulti di un ennesimo pianto che ha rotto gli argini. Sono vivi e sono di nuovo parte della mia vita. Il grigio del nulla della perdita si è dissolto, un dolore subdolo, strisciante si è volatilizzato nel mio essere. Grazie. Davvero.
Tony ricomparve davanti a me mentre sorridevo ancora fra le lacrime, ma il mio viso fece incupire il suo. Quelle foreste fresche uscite dal fascio luminoso del suo sguardo parlavano di forze trattenute, di sofferenza. Sapevo che non era il comportamento più razionale ma, in simili momenti, non era questa la particolarità più spiccata di me, quindi gli buttai le braccia al collo, stringendolo in un abbraccio di sollievo, istintivo, come le mie parole: «Tony! Io non so come nè perché, ma è vivo! Lo siete tutti e due! Conta davvero solo questo!». Lui rispose riluttante all’abbraccio, ma mi carezzò i capelli dolcemente, mentre i miei singhiozzi misti a risate si spezzavano fra le pieghe della sua camicia azzurra: avevo bagnato anche quella, ma non riuscii a pensare a quel dettaglio insignificante mentre le sue parole mi spiazzavano. «Lo ami vero?».
Edgar Anthony
Doveva essere il giorno in cui in un modo o nell'altro si sarebbero risolte le cose. Era un giorno strano: c'era dolore, come avrebbe dovuto esserci, ma c'era anche speranza, e invece, a frantumarla trasformandola in un brivido gelido che mi accapponava la pelle, arrivò la sua risposta alla mia domanda secca costata tutto il mio autocontrollo.
Samantha
Risposi automaticamente d’istinto. «Certo». «Bene, credo che fra noi sia tutto». Mi raddrizzai di scatto. Aspetta! Io non intendevo dire...Oh sì? Scossi la testa furiosa mentre lui scioglieva l’abbraccio, e io non volevo saperne aggrappandomi alla sua vita. Non poteva farmi certe domande a bruciapelo! Non con questa tempesta nelle mie emozioni mandate sull’ottovolante dalle rivelazioni su Steven! «Aspetta Tony! Questo non significa che io lo ami in quel modo! Oh almeno adesso non lo so! Sono confusa dal sollievo che provo sapendolo vivo, ma una cosa la so per certo: io ti amo davvero Tony, su questo confusa non lo sono mai stata, non dalla “nostra mattina!». Gli tiravo i lembi della camicia guardandolo in viso. Era come guardare il David di Michelangelo: duro, distante.
Giada granitica, non più profondi e misteriosi boschi: il suo sguardo glaciale mi fissava senza vedermi. Un brivido mi percorse. Staccai le dita dalla stoffa in trance, nello stesso istante lui si voltò e mi riscossi protestando: «Aspetta! Dobbiamo parlare! Mi devi una spiegazione!». «Sì, lo so, ma...fa male Isy. Dammi tempo, ti chiamo okay?». Non si era girato. Non voleva guardarmi. «Non puoi mollarmi qui così! Non adesso Tony!». Gli ero girata attorno per sputargli in faccia il mio disappunto. Non poteva sempre farsi il suo film su di me e scappare! Io potevo essere confusa, ma dovevamo parlare, e poi lo amavo, qualsiasi cosa provassi per Steve, lo adoravo e... Mi morirono i pensieri nella testa, le altre parole sulle labbra, la rabbia nei miei occhi. Perché alzato il viso per fissarlo, vidi il suo. Edgar Anthony Somerset stava piangendo, in un modo agghiacciante. Le lacrime rotolavano giù per le guance scolpite, addensandosi copiose a coprire e riflettere il colore freddo delle iridi, che, adesso, risultava cupo come la tana di un alligatore. Si tuffavano dal mento al suolo, ma il viso era quasi imibile: un angolo del labbro superiore tremolava un po’ come se una forza assurda, gli stesse imponendo di stare fermo ma al controllo rigoroso della mente sfuggisse la sua emozione. Quel labbro parlava di lui e io volevo solo baciarlo. Feci un o, voltò il viso. «Sei contenta Samantha? Mi hai tolto tutto, anche il mio orgoglio: non c’è più niente in me da estirpare ora». No, io non lo amavo: non come meritava. Ero stanca di farlo soffrire. Mi si
strappava la carne in piccoli pezzi. Era troppo. Io mi sentivo sicura: in quest’attimo avrei detto che non amavo Steven neanche un briciolo dell’amore ionale che credevo di provare un tempo. Ormai sapevo bene di essermi raccontata una menzogna, troppo attirata dal concetto di unire l’amore fraterno alla ione per riuscire a vedere chiaramente al di là di questo. Ma l’amore vero aveva avuto sempre un altro volto. Il bellissimo viso di Tony. Ma allora perché ennesime menzogne insensate sarebbero uscite dalla mia bocca in questo momento? Perché Steve non era più lui. Era Edgar Carlton pericolosamente simile a Tony non solo nell’aspetto ma anche nei modi. Se il mio corpo mi avesse tradito e avessi provato qualcosa anche per lui? Quell’attrazione, con simili presupposti, sarebbe stata una menzogna come quella per il vecchio Steven? I sentimenti che provavo in questo momento mi accecavano con la loro profondità, non sopportavo di vedere Tony ancora spaccato a metà per la felicità che lo amassi e la tragedia che non fosse abbastanza. Sei una demente! Non ami Edgar Carlton! Non ami Steve Moore! No, ma lui gli somiglia troppo, e io adesso non sono stabile, devo capire, sapere, risolvere i malintesi, poi potrò stare con Tony, non ora, ma solo quando sarò certa che suo cugino mi sia indifferente davvero. Io non mi fido proprio perché il mio desiderio di Tony mi consuma. Sbattei gli occhi per scacciare il mio dissidio interno e dar voce all’ennesima becera bugia. Preparai le insulse spiegazioni mendaci e poi parlai in fretta: «Hai ragione Tony, io non volevo...» mi morirono le parole. Non ci riuscii malgrado tutti i film che ero riuscita a farmi. Al diavolo! E’ da dementi! Io amavo Tony da far male dal primo momento che avevo posato lo sguardo su di lui!
Mi ci buttai addosso repentina: tipo un qualche animaletto bellicoso che voleva azzannarlo alla gola. Confidavo nel fatto che non mi avrebbe respinto. Ne fu sorpreso, in effetti, perché stava reagendo al tono delle mie parole tornando a guardarmi iroso. Mi si ritrovò allacciata al collo, il mio peso lo sbilanciò e dovette appoggiarsi con una mano ai gradoni di cemento, flesse le ginocchia d’istinto finendoci seduto con me sopra che gli tempestavo di baci il collo, le labbra, le guance salate di lacrime. «Isy, che diavolo fai?». «Ti amo. Ti amo! Ti Amooo! Solo e sempre te! Da sempre!». Tony spalancò gli occhi, poi aprì la bocca in cui io mi tuffai.
Edgar Anthony
La stavo mangiando, assaporando lentamente. Dio! Ero pazzo di felicità! Eppure dovevo razionalizzare. Samantha non era una sciocca, non si smette di amare una persona così di botto, non dopo aver scoperto che è viva. E poi Steve è diverso… Non riuscivo a ragionare, Isy mi stava sbottonando i primi bottoni della camicia. Non volevo ragionare. Ma dovevo. Era sotto shock, sapevo cosa avevo visto e sentito. Era pazza di sollievo e felicità per Steven e...non aveva chiarito con lui, forse, anzi adesso sospettavo che fosse tutto più ingarbugliato di quel che credessi. No, non era pensabile questa improvvisa fermezza nei suoi sentimenti per me.
A meno che... Maledizione, no! Quando la sua mano mi carezzò il petto e la mia incurante dei bei ragionamenti, aveva già sfilato la camicetta a quadri dal suo jeans denudandole la schiena accarezzandola, finalmente capii. Desiderava me più di lui. Lui adesso con il mio viso! La scostai con uno strattone tenendole le braccia e costringendola ad alzarsi dalle mie gambe. Mi rimisi in piedi anch’io. «Isy, sei sconvolta, non è vero...questo!» indicai noi due: ansanti, rossi della ione che ci ribolliva dentro. «O meglio, questa chimica sì, ma non il tuo amore solo per me: non confonderlo con il sesso! So che mi desideri ma non voglio solo quello». Scossi il capo nervosamente sbottando: «Non ho mai voluto solo quello...» sospirando continuai la mia sparata senza darle il modo di ribattere. «Tu desideri anche lui perché somiglia a me: lo ami, l’hai sempre amato. Perché adesso sei certa del contrario? Sei sotto shock! Cosa è successo con lui?». Ansimavo, era assurda la piega presa degli eventi: stavo per lasciarla andare, avevo seppellito l’orgoglio sotto la sferzata del dolore troppo forte, ingestibile. Invece lei prima di sferrarmi il colpo di grazia si buttava su di me. Mi amava: solo me! Il suo corpo mi voleva: solo me! Ero un tipo intelligente, pragmatico: diffidavo dell’imponderabile, del mistero, di un attimo di certezza. La certezza veniva dalla conoscenza. L’hai amata a prima vista non è stato ponderabile questo sei un cretino Tony.
Credile! Il mio cuore, la pancia: facevano a botte con la mente. Ma io resistevo. Dovevo. Lei dopo il mio sproloquio scoppiò a ridere: un riso quasi isterico. Era piegata in due e si batteva il palmo della mano destra sulla coscia. Ecco, lo shock le fa dare di matto. Lo sapevo che era alterata! Ma che diavolo le ha fatto Edgar? In un secondo la presi per le spalle e la raddrizzai, i suoi occhi ridevano ancora. Prese a tracciare con un dito il contorno dei miei, dolce, carezzevole, tremendamente sexy. «Ho sempre creduto che i tuoi occhi -parlo del taglio- mi piero perché a parte il colore erano uguali a quelli di Steve, così famigliari, stupendi. E invece è sempre stato il contrario!». Dio! Ma che diceva? Straparlava, resistei all’ondata d’urto del desiderio che mi spingeva ad agire piuttosto che parlare deglutendo pesantemente per umettare la gola secca. «Samantha, ascoltami! Non sei lucida! Edgar ti ha detto tutto? Cosa è successo?» Lei ignorandomi continuò a seguire il profilo del naso col polpastrello. «No, l’ho scoperto in archivio all’ora di pranzo e poi l’ho affrontato, ma mi detesta: mi odia in modo profondo, e probabilmente c’è più di quel che so ora. E’ per questo che ti ho chiesto spiegazioni, a parte -ovviamente- capirci qualcosa del perché il mio migliore amico e ex ragazzo fosse tornato dalla tomba, col tuo nome di battesimo e anche la tua faccia!» lasciò cadere il dito, adesso i suoi occhi avevano un lampo di tristezza, poi mi fissarono e sorrisero di nuovo. Un sorriso di profondo sollievo... Ero esterrefatto! «Lo vedi? Tu non sai niente ancora! E poi la rabbia di Edgar...se non vi chiarirete come potrai sapere qualcosa di certo sui sentimenti per me? E poi adesso -come se non bastasse- lui mi somiglia troppo!» Grugnii immaginando quegli occhi maliziosi che stavo fissando sfiorare i tratti di lui
seppure attratti dalla mia somiglianza. Che pasticcio! Ma Sam scoppiò di nuovo a ridere, più forte, prima di rimbrottarmi scherzosamente: «Sai amore? Siamo davvero troppo uguali noi due a volte!». Detto ciò cercò di issarsi sulla punta dei piedi per baciarmi, mi ritrassi infastidito. Mi aveva chiamato amore! Il calore della speranza e dell’emozione mi avviluppò il cuore, fremetti, ma ero troppo incredulo e mi costrinsi a razionalizzare. «Sam smettila!». «Smettila tu! Testone orgoglioso e ottuso! Questo film me lo sono fatto minuti fa nella testa, e ci ho quasi creduto. Poi è svanito! Ti amo da sempre: c’ho messo una vita a capirlo. Ho ferito tutti e due voi, e me stessa per questo. Ma vederti piangere...be’ è stato troppo! Sono arrivata in fondo all’abisso per risalire e star per commettere gli stessi stupidi errori! Poi ti ho guardato di nuovo, ma davvero stavolta! Ho scollegato il cervello e fatto decidere il cuore e l’istinto, e quello non mi ha mai mentito, mai!». Aveva parlato lentamente, sicura, quasi le credevo, eppure proprio l’ultima frase mi raggelò, frizzando quel momento. Il suo corpo non mentiva, e Steve adesso era uguale a me, non poteva decidere ora. «Mi somiglia troppo, Isy! Tu devi parlare con lui, risolvere i malintesi prima di sapere se ami veramente solo me», in risposta, lei sbuffò un suono plateale, irritato. «Quale parte del tuo cervello è bacata Tony?! Dimmelo! Che la evito! Questa stupida discussione è anche uno stramaledetto Déjà-vu!» Grugnì stizzita gridando: «Basta! Ti dico che ci ho pensato a questa eventualità: e stavo per mandare a monte il rapporto con te! Ti stavo lasciando! Ma sai perché deficiente?! Perché ti amavo talmente tanto che la sola idea di cedere un domani
al fascino troppo uguale al tuo del mio ex migliore amico mi riduceva uno straccio! Non potevo neppure concepire di farti soffrire ancora!». Guardai dolce la mia piccola arrabbiatissima Isy, e, sebbene il mio cuore sanguinasse per quelle conferme dei miei cupi pensieri, non potevo davvero che amarla tremendamente. Quindi ribattei deciso: «Giusto! Devi sapere se può accadere, e non lo sai Isy! Io me la cavo, meglio la sincerità che credere che non mi ami adesso. Grazie per avermelo detto amore». La scrutavo intenerito e, come lei non voleva ferirmi, io impazzivo per il dubbio che accadesse. Ma Dio! Mi amava! In questo istante magnifico davvero solo me! Inspirai assaporando il momento e desiderando che il tempo si fermasse. Mi ero avvicinato di nuovo e l’avevo abbracciata, ma lei si divincolò. «Sei un deficiente Tony! Maledizione! Ma ci senti? Non ho finito: ti sembra che sia andata infondo al mio piano?». «No... ma sei confusa Samantha, e poi sei corretta non volevi mentirmi». «Esatto: ma solo a metà! Perché stavo mentendo a me stessa con quel proposito insensato di rinunciare. Ho alzato il viso e visto te. Sei scolpito dentro di me: tu Tony! Non Edgar. Non Steven! So la differenza! Era li, era palese, ma c’è voluta la volontà ferrea di perderti -un insulto per il mio cuore- ad aprirmi gli occhi! Non c’è pericolo di cedere al tuo fascino in qualcun altro che ho amato... perché tu sei tu, e non sarai mai lui, che sia Steve o Edgar. Tu sei tu, e io amo solo te. Punto! Fine della storia!». «L’hai amato... lo ami ora, non credo tu possa scordare quei sentimenti in un lampo, sei ancora sotto scioccata per quello che hai appena scoperto» le carezzai lo zigomo condiscendente, affettuoso. Fremevo decidendo se crederle, abbracciarla, fare l’amore con lei, o fuggire via lontano a leccarmi le ferite in silenzio. Ero in un panico da assurdo, non cedevo all’irrazionalità.
Avvolse la mia mano nella sua costringendola a non lasciare il suo viso mentre proseguiva con dolcemente: «Non amavo Steve come pensavo un tempo, l’ho capito da un po’, te lo dissi in macchina, ed è vero più che mai. Steven è tornato, è vivo, e non cambio idea. Fu esattamente il contrario di ciò che ho sempre creduto: la parte mendace del mio sentimento ionale, era lui, è sempre stata lui». «Sì, Samantha! Mi desideri di più! E credi che non lo sappia?! Lo so! Vincerei! Ero deciso a combattere e adesso so che vincerei contro di lui a mani basse, non è più un fantasma tra noi due, ma dopo? La mia vittoria beffardamente è la mia condanna, ci ha pensato mio zio a scrivere questa sentenza! Tu adesso a caldo pensi questo, ma dopo? Quando lui sarà rinsavito e ti amerà ancora? Quando ricorderai quanto ti amava? Quanto lo ricambiavi? Ti ha salvato la vita Sam! E’ un ragazzo eccezionale e adesso ha la mia faccia! Vincendo questa battaglia con il desiderio che hai per me, gli consegno la vittoria un domani. Potrebbe accadere, e io non so vivere nell’attesa di quel momento...io non posso lo capisci?!» Le parlavo a un centimetro dalla faccia, avevo lasciato cadere la mano, lei mandava lampi dagli occhi, poi si fecero determinati. «Chi è che ha dei dubbi adesso? Non io: la protagonista di questa tragica commedia -nella tua testa- sul mio futuro. Parli di me Tony...ma stai blaterando delle tue insicurezze!». Spostò di nuovo le dita sul mio viso, ma adesso si aggrappò con forza ai miei zigomi. «Io so la verità, e per una volta in vita mia non ho dubbi, nemmeno uno! Ti amo. Solo te. Ti voglio. Solo te. Ma evidentemente non mi credi. Forse tu: Edgar Anthony. Non mi ami abbastanza per farlo!». Dopo queste parole dure prese fiato e mi soffiò sul naso con stizza: «Quindi okay, sei libero. Ti amo Tony, ma è l’ultima volta che ti prego di ascoltarmi. L’ipoteca sul nostro futuro la stai mettendo tu!». La sua presa scivolò sul mio mento che, strattonò scuotendolo con rabbioso scherno, per poi mollarlo. Io ero impietrito. Samantha subito dopo scese in un singolo balzo i gradini e poi corse via per non farmi vedere le sue lacrime.
Un rivolo di sudore freddo, greve di terrore, mi colò giù per il solco della schiena. Se aveva ragione, avevo buttato via il nostro amore e non potevo incolparne che me stesso e il mio stupido orgoglio.
10 Amore e Guerra
Edgar
Questo sabato mattina mi ero alzato stanco, nervoso. La sera prima a cena c’eravamo riuniti attorno al lungo tavolo ovale del soggiorno, in un atmosfera tesa. Charles e Eveline cercavano di mantenere l'aria serena ripetendo i stessi discorsi e i stessi gesti pacati di ogni sera, ma la tensione si sarebbe potuta tagliare col coltello. Io ero trincerato in un mutismo torvo, e così anche Tony. Reb non faceva che fissarci alternativamente e scuotere la testa, Amber anche, sebbene inframmezzasse le sue occhiate preoccupate con starnuti e colpi di tosse: il suo fastidioso raffreddore era ancora lì a torturarla, eredità scomoda del suo viaggio in Italia. Matthew cercava di essere il solito Matt, con le battute scherzose e quel modo goliardico di rispondere a qualsiasi domanda o conversazione, ma non era uno stupido, e sentiva che l’umore di tutti era pessimo; alla fine il nostro silenzio imbarazzato aveva zittito anche lui e poi...c’era: Jason Somerset. Era più grande di Tony, e sapevo che mi detestava. Ogni suo gesto, parola o sbuffo d’aria dalle narici dilatate per l’irritazione, lo tradivano. Ma era perfetto, educatissimo, cortese. Era il solito Somerset controllatissimo del cavolo! Le sue somiglianze con i fratelli comprendevano certamente anche l’aspetto fisico, era impeccabile, quasi aristocratico, di una bellezza più discreta, aveva i capelli ramati e gli occhi di Reb ed era leggermente più basso di Tony.
Amber stravedeva per lui non c’erano dubbi. Lo sapevo già ma adesso ne avevo la conferma, gli occhi di lei se potevano finivano sempre la loro corsa incastrandosi nel suo sguardo, e il suo viso si illuminava di un rossore che con la sua influenza non c’entrava un bel nulla. Mi sentivo protettivo con lei, il fatto che Jason mi mal sopportasse senza ragione apparente, me lo faceva sentire ostile, e anche io per reazione lo ero nei suoi riguardi. Volevo che mia sorella avesse il meglio e non sapevo affatto se Somerset lo rappresentasse. Mi ero ritrovato, quindi, a fulminarlo con occhiate dure ogni volta che le si rivolgeva. Dentro di me ero stanco di stare buono, di controllare la mia natura ionaria dopo che, poche ore prima, avevo recuperato la memoria, perdendo, paradossalmente, nello stesso tempo ogni appiglio col ato; l’unico tassello vivo che mi legava ad esso: il mio amore per Sam. Era dissolto tramutandosi in odio. Mio padre Ciack era morto, non avevo altri parenti, di lui mi restavano i ricordi ritrovati e il dolore sordo della perdita che, grazie a loro, premeva sul cuore, e ci sarebbe rimasto per sempre, sopito ma presente. La vita di Steven Moore era scomparsa. Mi restava ciò che ero: Edgar Carlton. E la mia nuova famiglia che amavo. Mi aggrappavo a questo con le unghie e con i denti. Finito di cenare avevo aiutato mia madre a sparecchiare e rassettare, costringendo, con le mie occhiate brusche, chiunque a desistere da qualsiasi intenzione di fare lo stesso. Avevo bisogno di normalità, intimità; del calore famigliare dei gesti semplici, veri. Un qualcosa di rassicurante, sincero. Mentre caricavo la lavastoviglie, e mia madre riponeva gli utensili puliti che ne avevamo estratto, la sua voce dolce si era fatta largo in me: «Edgar, amore. Sai che con me puoi parlare di tutto. Qualcosa non va, lo sento». «Nulla mamma, non... preoccuparti». «Edgar...» si era avvicinata poggiandomi la mano delicata sulla spalla.
«So che non sono veramente tua madre...ma io ti voglio bene come un figlio, non è una frase fatta, questo lo sai, vero?». Alle sue parole sincere mi ero girato e le avevo deposto un bacio sulla guancia liscia. «Certo che lo so, Eveline». «Mamma amore! Mamma...sai che ci tengo!», mi aveva sorriso. Un sorriso talmente dolce! «Sai...», iniziai esitando un po', «mia madre è morta che avevo cinque anni, si chiamava Sarah, la ricordo pochissimo, ma aveva il tuo stesso sorriso e il tono della tua voce...so che mi ami mamma. Grazie di tutto, davvero». La fissavo nei suoi occhi grigi chiari -così simili a quelli di Amber- che si velarono un po’, sciolse gli indugi e con impeto mi abbracciò. «Oh, Edgar! Ma certo che ti amo tesoro! E come non potrei? Sei unico amore! Ma ricordi ora? L’hai detto a papà?!». Parlava soffocata dalla stoffa della mia camicia, mi aveva stretto in un abbraccio in cui la sovrastavo, era così minuta rispetto a me! «No...è successo nel pomeriggio, ricordo tutto adesso». Lei si era scostata di botto, stringendomi le spalle risoluta, fissandomi indagatrice. «Tutto? Come ti senti? La testa...». Io avevo sciolto il contatto con garbo, continuando a parlare e riprendendo la mansione pratica di prima, per darmi un tono e non permetterle di capire il mio turbamento. «Mi sento bene, nessun fastidio mamma...» le assicurai con voce neutra. Mentivo, almeno per quanto riguardava il mio cuore pieno di delusione. «Edgar...» alzai lo sguardo, lei mi scrutava ancora il viso, in cui, una ruga
contratta fra le sopracciglia, sapevo che spiccava. «Sta' tranquilla Eveline» alzai il mento e le sorrisi, chiudendo lo sportello dell’elettrodomestico avviando il ciclo di lavaggio, lei mi restituì il sorriso, più serena. «Però adesso va da tuo padre e spiegagli tutto, intesi? Deve sapere questo cambiamento». «Quale cambiamento?» Charles con un sorriso aperto e un fare sciolto era entrato in cucina pronto a rapire sua moglie come faceva ogni venerdì sera per portarla a Birch Harbor al cinema. In camicia informale arrotolata sulle maniche, Jeans slavati e stivaletti di pelle, mio padre sembrava un ragazzo non un’ultraquarantenne, ma d’altronde neanche sua moglie: bellissima e giovane, lo sembrava. Era davvero la famiglia perfetta, ma la bellezza più sfolgorante i Carlton la nascondevano nel cuore. E forse questa si irradiava magicamente anche all’esterno. Eveline esitò un attimo, Charles le cinse la vita baciandole la tempia, io parlai per primo: «Ho recuperato la memoria Charles. Completamente credo». Lui assunse subito un espressione diversa, efficiente, si staccò dalla moglie e si fece difronte a me, le mani esperte già mi cingevano il viso, e il pollice mi abbassava la palpebra inferiore destra delicato per permettergli di scrutarmi la pupilla. «Quando figliolo? Dolore? Capogiri?». «Sto bene, un attimo di stordimento e una certa emozione, un momento di tachicardia, ma per il resto nulla di eclatante. E’ successo oggi pomeriggio, sul presto». «Bene» mi lasciò il viso e la sua mano si trasferì alla spalla insieme all’altra che fece lo stesso, mi scosse e mi abbracciò ripetendo: «Bene...sono felice per te, davvero Edgar, ti voglio bene figliolo!». Sciolsi l’abbraccio, cercando di non apparire brusco.
«Lo so, Charles, lo so». «Non dite nulla agli altri...vorrei poterlo fare io». «Ma certo Edgar» risposero quasi in coro annuendo. «Perfetto allora, andate o perderete il film. Buona serata!» senza attendere alcuna risposta mi ero già girato salendo frettolosamente le scale di servizio che dalla cucina portavano al secondo piano, con l’intenzione di andare dritto in camera mia, loro due, interdetti, non avevano replicato. Mentre salivo con la coda dell’occhio li avevo visti baciarsi con sollievo. Forse non erano i miei veri genitori, ma mi amavano, questo era fuor di dubbio, e io li ricambiavo, sebbene, per mio padre adottivo nutrissi anche un moto di risentimento. Una piccola parte di me ancora lo incolpava di tutto il pasticcio che era diventata la mia vita sentimentale, da quando lui, mi aveva imposto, ignaro, il viso di suo nipote. All’imbocco del corridoio delle stanze da letto avevo incontrato Tony. Sembrava mi aspettasse. Le mani sui fianchi: la solita postura da soldatino impettito. La odiavo. «Cosa è successo con Samantha? Era sconvolta Edgar! Mi ha detto che adesso sa di te , ma che diavolo le hai fatto?! Perché non vi siete spiegati?!» si era avvicinato, parlava piano ma i suoi occhi erano tutt’altro che amichevoli. Non è la serata adatta Somerset! «Non le ho fatto niente Tony! Togliti di torno!» gli sputai sul viso, ostentando una furia trattenuta che già era pronta ad esplodere. «Nient’affatto Edgar! E adesso rispondi!» Tony mi aveva afferrato per il colletto, una mossa decisamente sbagliata. Mi divincolai bruscamente spingendolo indietro, adesso ci fronteggiavamo
sbuffando dalle narici come due tori bellicosi. «Vuoi una risposta Somerset? Beh eccotela!» grugnii compiendo mezzo giro con il viso solo per tornare a fissarlo furente. «Tieniti stretta la tua ragazza! Ma sta attento...ricordo tutto ora! E Sam Lee non è la persona che ho sempre creduto di conoscere. A Dallas, mentre io e te morivamo per lei, ingannava tutti e due! E’ un egoista mendace persino con se stessa. Ti distruggerà come ha distrutto me!». Avevo sputato le parole come se mi bruciassero in bocca, con rabbia, tutta quella che sentivo crescere. Ma Tony non reagì affatto come mi aspettavo. «Sei un demente Edgar! E tu saresti quello che la conosce da sempre? Da quando eravate piccoli? Il migliore amico. Il sostegno. Il confidente! Il ragazzo per cui lei mi ha respinto qui a Winter Harbor la mattina dopo che si era messa con te! Sei un bambino Steven! Si parlo a te! Steve Moore! So che non hai la nostra età, hai appena diciassette anni, e li dimostri proprio tutti!». Non proseguì: gli sferrai un pugno alla bocca, lui quasi non si mosse, non schivò, si deterse il sangue del labbro spaccato con il dorso della mano e mi guardò con scherno. Sembrava il dejà vou di quella mattina al cottage, ma adesso i ruoli erano invertiti. Il suo mezzo sorriso diceva che confermavo solo le sue ipotesi. Rabbioso, per la sua supponenza, stavo caricando un altro colpo quando mi sentii afferrare alle spalle: Matthew mi tirava indietro, e Jason Somerset era comparso fra me e Tony. Più lontano, alle spalle del ex Marine, Amber e Reb assistevano con aria sconvolta. «Calmati Eddy! Sei impazzito fratellino?!» Matt continuava a tenermi. «Che succede qui Edgar?!» Jason guardava il fratello con stizza ma anche preoccupazione.
«Niente Jas, stavamo parlando, non intrometterti!» Tony sibilava. «Edgar! Dio! Stai sanguinando! Ti sembra parlare?!» il maggiore dei Somerset scuoteva il mio rivale per le spalle indagando teso il suo volto, poi la bocca gli si atteggiò in una piega dura e, mollato Tony, mi si rivolse con un ira glaciale: «E tu!...Carlton! Vedi di darti una calmata?!». «Ci penso io a mio fratello, Jason!» Matthew non gradiva il tono con cui il cugino mi aveva apostrofato. Io mi divincolai, furioso, dalla stretta di Matt che ancora mi serrava la clavicola, e fissai i due Somerset con odio. «Sono calmo! E’ una faccenda privata fra me e Tony, non siete statati invitati mi sembra!» «Ha ragione...» Tony mi fissava beffardo, carezzandosi lieve la mascella e il mento con aria di scherno. Mi sfidava. «Basta!» Amber gridava adesso, corse ad abbracciarmi, a frapporsi fra me e i due fratelli con le lacrime agli occhi. «Non sopporto più vedervi litigare!». «Amber...» Jas sussurrò appena il suo nome con una tenerezza estrema negli occhi, poi lo sguardo gli divenne ancora più duro, implacabile, mentre mi fulminava. «Bene! Adesso dateci un taglio netto! E tu!» Fissò Tony. «Vieni con me! Dobbiamo parlare noi due!». Strattonò Tony fino alle scale, mentre Amber continuava a piangere silenziosa sul mio petto, e io le carezzavo il capo per calmarla. Non lasciai con lo sguardo il mio rivale finché non scomparì alla vista, poi sussurrai a mia sorella: «Tranquilla Amb, so che ti ho spaventato, mi spiace sorellina, davvero». «Dovete smetterla di litigare per lei» la sorella di Tony si era avvicinata e mi
scrutava. Mio fratello si era spostato. Adesso aveva poggiato una mano sulla spalla di Rebecca protettivo. «Tranquilla Reb, lo catechizzo io, questa testa calda, a costo di stargli sempre addosso!». «Hanno ragione Eddy, smettetela! Sempre a picchiarvi...non è giusto, non è colpa vostra ma di Sam! Perché non ve la scordate? Tony ha Pat, tu...» Amber, che si era scostata un poco da me, scosse la testa come per trattenersi dal rivelare oltre, mi parve strano e comunque proseguì: «Tu sei un ragazzo eccezionale che merita di più!» «Amber, più che scordarla adesso la ricordo. Ricordo tutto in effetti, e so cosa mi ha fatto, non preoccuparti sorellina» non fu l’adorabile peste nelle mie braccia che mi rispose, anche se mi guardava sorpresa e preoccupata, ma Rebecca. «Ma la ami lo stesso, tanto da fare il deficiente proprio come mio fratello, non è così?!». La bella Somerset con la sua voce di ghiaccio mi traava. «Reb...lascia perdere», Matt la blandiva con una dolcezza mista ad amarezza nella voce profonda, un tono che non gli conoscevo: somigliava a...il tipo di voce che avrei usato io con Sam se avessi -quel fatidico pomeriggio al mareparlato con lei per dirle quanto era sciocca a considerarsi indesiderata, invece, di decidere d'impulso di farmi avanti e baciarla io per primo. D’improvviso la verità lampante mi accecò: Matt amava Reb di quell’amore che un tempo provavo io per Sam, un misto di affetto e ione, ma forse senza il mio egoismo; ma se Matthew Carlton, in questa visione di consapevolezza improvvisa, impersonava in qualche modo me: Steve. E Rebecca: Samantha. Allora io dovevo essere...Tony! Quindi secondo questa equazione Reb mi amava! No, era impossibile! Battei le palpebre e tornai alla realtà.
Rebecca Somerset aspettava una mia risposta, mi scrutava con la sua aria sicura e fiera. No, non somigliava per nulla alla mia amica Samy di un anno prima, la mia fragile, indecisa, compagna d’infanzia. Rebecca era di un'altra pasta. Una pasta forte e determinata. Cosa potevo risponderle? Amavo Sam? Certo che sì, non potevo girare un interruttore e smettere di amare per quanto quell’amore fosse odio...ma di che tipo di amore l’amavo? Adesso, la consapevolezza inaspettata dell’interesse di Rebecca per me, di quello di mio fratello per lei, mi spiazzava. Ero in qualche modo scioccato. Risposi d’istinto: «La odio Reb». «E’ solo un altro modo di amarla» lei sospirò, poi si girò verso Matt e gli sorrise grata del suo sostegno muto e affettuoso. Mio fratello dissimulò l’emozione per quel sorriso, in uno suo, largo come la sua faccia e profondo come la sua bonaria ironia. «Bene ragazzi! Che ne dite di andare a dormire? Per stasera abbiamo avuto abbastanza svago! E tutto senza pagare il biglietto!». Lui prese la mano di Amber e la tirò via da me. Ma lei protestò: «Davvero ricordi tutto Eddy? Da quando? Stai bene?» sebbene nell’ultimo minuto fosse stata muta, adesso mi incalzava con le sue domande a macchinetta, tipiche di lei. «Sì, piccola, solo da oggi pomeriggio, ma sto bene tranquilla! Ha ragione Matt, va’ a dormire, lo farò anch'io» le lasciai la mano che avevo preso fra le mie per rassicurarla. Lei mi sorrise e si lasciò trascinare via da Matthew. Le loro stanze erano dietro la curva che disegnava il corridoio quindi sparirono dietro di essa. Rebecca invece non si era mossa, mi fissava. «Davvero stai bene? La tua testa...?» Mi domandò anche lei.
«Sono a posto Reb ma... forse, dobbiamo parlare». «Di cosa Eddy?» Mi fissava, ad un tratto maliziosa nel tono come nello sguardo. Dio! Ma perché adesso ho questi piragna nello stomaco? «Mio fratello stravede per te, spero che tu lo sappia!». Perché mi costava così tanto dirle quelle ovvietà? E soprattutto perché diavolo lo stavo facendo? Volevo dirle di scordarmi che, ero un pessimo partito, al momento troppo incasinato io, troppo ingarbugliata tutta la storia della mia vita. Ero disposto a ferirla, se necessario, con un rifiuto netto. Rebecca Somerset, meritava davvero di più di questo ammasso di sentimenti contrastanti che ero diventato, ma, proprio per quello, l’avevo presa larga nell'esprimermi iniziando da Matt, e non sapevo nemmeno perché di preciso. «Sciocchezze! Io e Matthew siamo cresciuti insieme, siamo molto legati questo sì, ma ci consideriamo fratelli: migliori amici. Un po’ come...tu dicevi di...Sam, da quello che ricord-avi...», Rebecca improvvisamente parve sorprendersi, perdersi nelle sue riflessioni, si ò una mano alla bocca, sfiorò il labbro inferiore con le dita incerte, poi proseguì soffocata: «Oh, ma se è come tu e lei... No! Non il mio Matty! Non può essere!». Io le risposi serio: «Credo proprio che sia lo stesso Rebecca» ma lei non sapeva il doppio senso di quella frase, quello che una specie di strano fluido incandescente mi urlava nel corpo da dieci secondi, gli stessi che ci erano voluti per assaporare il suo gesto inconsapevolmente sexy che mi aveva torturato i sensi. Non potevo più mentire a me stesso: la desideravo in modo devastante, profondo. Un sentimento forte che non avevo la forza di indagare in questo istante. Ero combattuto e sopraffatto da troppe consapevolezze, troppe emozioni, troppe rivelazioni. «Andiamo a dormire Reb!» detto ciò -incurante della sua espressione interdettascivolai scartandola e, badando bene, a non sfiorare neanche la stoffa della sua
vestaglia color azzurro cielo: lo stesso dei suoi occhi. Scossi la testa e quasi corsi lungo il corridoio, sbattendomi, poi, la porta della mia stanza alle spalle.
Riaprii gli occhi, tornando alla realtà, dopo una serata del genere era normale che mi sentissi così agitato questa mattina. Quasi volevo scappare di casa. Poi udii le grida di Amber. E... Sam? Erano gli strepiti di Samantha? Quelli? Quelle urla soffocate e rabbiose mi riscossero. Stavo scendendo la scala che portava all’ingresso, il mio incedere cambiò di colpo: da esitante che era stato prima, a corsa sfrenata dopo. Scesi i gradini a due a due. Fuori dalla porta spalancata dell’ingresso mia sorella e la mia ex gridavano, si insultavano, ma la cosa più terrificante era che stavano lottando e, senza esclusione di colpi, sembrava. Dilatai gli occhi, ero scioccato e un filino, -dovevo ammetterlo- divertito dalla scena. Sembravano due gatte imbufalite: si tiravano i capelli ridotti a criniere incolte ormai. Si afferravano in un corpo a corpo in cui a turno aveva la meglio l’una e poi l’altra, ma quando entrambe si graffiarono con violenza le braccia, acquistai lucidità e corsi a dividerle. Alle mie spalle un grido imperioso me lo impedì: «Prendi Amber! Penso io a Sam!». Tony era arrivato sul piazzale derapando con la mia Mini. Aveva spalancato lo sportello gettandosi fuori, e già stava per afferrare Sam. «Non mi toccare Tony! La sistemo io a questa stronza!».
La mia tenera amica di un tempo parlava senza vedere nè me nè lui, concentratissima sul viso di mia sorella. «Stronza a chi?! Bastarda?!» Amber gridava più feroce che mai. Sam per reazione grugniva e già si scagliava di nuovo addosso all’avversaria, che l’aveva appena sbilanciata con una spinta. Non riuscì a raggiungerla: Tony l’aveva presa per la vita. «Smettila Isy!» le tuonava nell’orecchio, ma lei niente: scalciava come un puledro. «Lasciami» gridava. Mi ritrovai a desiderare che mandasse a segno un bella pedata all’inguine del mio “rivale” ma poi razionalizzai. «Piantala Amber!» feci eco a Tony nel gesto e nel tono: fra le mie mani l’esile figura di mia sorella, ancora in pigiama, che, più che piccola, adesso mi sembrava implacabile. “Niente male come picchiatrice” pensai sorpreso e orgoglioso. «Lasciami Eddy! Le serve una lezione a questa gatta morta! Una volta per tutte!». Anche Amber si dibatteva per liberarsi dalla mia presa. «Che diamine succede qui?! Amber!» Restammo tutti impietriti: Charles era uscito dalla porta di casa spalancata. Aveva indosso i Jeans della sera prima e una maglietta nera. Capii che era sceso a precipizio anche lui sentendo le grida. Mio padre stava soppesando la scena frizzata sotto i suoi occhi: io e Tony che mollavamo le due ragazze agitate e ansanti che, sebbene intimidite, non avevano smesso di guardarsi in cagnesco. «Ma tu chi...? Sam! Samantha Lee giusto?» fece papà perplesso, ma non attese risposta dalla teenager arruffata di fronte a lui e, cambio tono ed espressione, divenendo un adulto risoluto e autoritario: «Calmatevi! Entrate in casa! Quei graffi vanno medicati subito, è un ordine!». Il suo tono non ammetteva repliche. Le due belve, in cui si erano trasformate le ragazze, incassarono la testa nelle spalle e abbassarono il mento seguendo mio padre badando, però, a non sfiorarsi entrando, ma lanciandosi reciprocamente
delle occhiatacce di fuoco. Io e Tony scuotevamo la testa e ci fissavamo anche noi mentre chiudevamo la piccola processione. Lui aveva una luce preoccupata, ma -malgrado tutto- un po’ divertita negli occhi, e io sapevo che in quell’attimo gli somigliavo davvero parecchio. La situazione stava diventando grottesca.
Samantha
[Due ore prima]
Il telefono trillava, il camlo suonava, dentro di me silenzio assoluto. Ero al limite, non avrei tollerato di più. Ma era la verità? Poteva esserlo? Finiva tutto così? Era troppo semplice e mendace! La vocina interna si prendeva gioco di me e io impazzivo. C'è un limite al dolore e la frustrazione che una ragazza può sopportare e io avevo paura di aver superato quella soglia. Per fortuna Ted era a pesca e non sentiva quel concerto di pugni sulla porta, di trilli impazziti del mio cellulare. «Isy, apri dannazione! Dobbiamo parlare!». Parlare...parlare? Parlare! Ero stufa marcia di discutere con Tony! Non mi amava abbastanza da credere nei
miei sentimenti. Non l’avrei pregato mai più di farlo! Faceva troppo male essere respinta ogni volta. La rabbia morse lo sconforto e gridai da dietro la porta di casa sprangata: «Vattene! Tu e il tuo orgoglio di merda! E’ finita Tony! Finitaa! L’hai voluto tu! Non io! Sposati la tua finta fidanzata! E sparisci dalla mia vita Somerset!». «Isy, ti scongiuro amore...io non volevo ferirti! Devi pur saperlo questo! Devi sentirlo maledizione!». Altri colpi, sordi di frustrazione, dati con il palmo della mano al legno del portone d’ingresso. Non volevo sentire più niente! Adesso la rabbia lasciò il freno, non poteva starsene a chiamarmi “amore” con quella voce incrinata d’angoscia. Non poteva... Non doveva! Le lacrime ruppero gli argini. Piangevo: di nuovo. Sconfitta mi accasciai sul pavimento, dopo che aver fatto scivolare le spalle alla porta verso il basso. Sempre di più. Una volta seduta sulle piastrelle fredde mi coprii il viso con le mani. «Vattene Edgar, comunque ti chiami, o chiunque tu sia per me, ti scongiuro vattene! Vattene dalla mia testa! Vattene dal cuore! Non ce la faccio più capisci?!». Tirai su col naso mentre mi ribellavo attaccandolo: «Perché mi odiate tanto eh? Ho sbagliato, lo so, ma tu che dici di amarmi come ti amo io, non senti quanto tengo a te! Lui che era la mia famiglia mi detesta come se non mi conoscesse più! Non mi resta niente...vattene Tony! Perché mi torturi ancora? Va’ via!». «Isy...» aveva la voce rotta, ma il resto lo gridò con rabbia: «Ti amo invece! Talmente tanto che ti ferisco e non vorrei! Maledizione, morirei per non farlo,
ma fatalmente lo faccio lo stesso! Mi detesto per questo Isy! Ma nessuno ti odia, e men che meno Steven! Lui...lui sa solo la verità dei suoi ricordi, e quello che gli hanno detto le ragazze... è confuso. Ma ti ama. Io so che ti ama!». Sferrò altri due colpi sordi, poi sentii un fruscio contro la parete dell’uscio, stava mettendosi seduto anche lui spalle alla sottile barriera che ci divideva, poi riprese a parlare, soffocato: «Non ci credo! Lo faccio ancora... ti metto sulla sua strada! Non devo, non dovrei...lo so bene che non dovrei, ma è perché ti amo troppo! Lo capisci Isy?! Sto facendo un casino...ma ti adoro maledizione! Non pensare il contrario. Non è così!» Sentii un colpo sordo sferrato alla barriera tra di noi prima che riprendesse a parlare: «Samantha, amore mio, non è così...» Adesso la sua voce somigliava a un bisbiglio che si affievoliva. Tony era un deficiente: un deficiente che non mi capiva, ma mi amava molto, questo lo sapevo. Non volevo tuttavia che mi rifiutasse, che -come faceva anche ora- svalutasse i miei sentimenti convinto di dovermi salvare da me stessa. Non era così, ed ero stanca di cercare di farglielo capire. Aveva ragione, mi amava troppo e, io lo ricambiavo troppo. Questo sentimento evidentemente era autodistruttivo per tutti e due. Dovevamo crescere o tutto sarebbe sfuggito via dalle nostre mani scottandocele. Ma, mentre mi dicevo tutto ciò, stavo elaborando anche il resto: la via per far aprire gli occhi a Tony, non ava da me ma da Steven, dovevo chiarirmi con lui, questo era l’unico punto, su cui, il ragazzo che amavo disperatamente, aveva pienamente ragione. Anche se lui credeva, a torto, che dovessi chiarire con il mio ex amico di infanzia dei sentimenti diversi dall’affetto fraterno. Ma Steve mi odiava e non voleva più vedermi. Una parola, nel discorso di Tony, adesso rimbalzava in cerca di attenzione nella mia testa. Mi asciugai con stizza le lacrime.
«Le ragazze? Quali ragazze?» gli chiesi. Tony sospirò rassegnato prima di rispondere: «Amber e Reb, loro sanno dei tuoi intenti a Dallas: in quei mesi in cui tentavi di dimenticarmi tenendo alla larga Steven. Ti confidavi con Marge e lei ha parlato con loro, o meglio con Reb che ha riferito ad Amber. Quando Edgar ti ha salvata, Amber, non conoscendo la tua versione, ha frainteso il tuo comportamento -soffriva molto, mi credeva morto, non sapeva che Edgar fosse Steve- l’ha messo in guardia su di te, raccontandogli cosa avevi fatto al tuo fidanzato, il nostro bacio al parco...il fatto che tenevi legato a distanza lui, pensando a me pur avendomi respinto». Ero frastornata dalla rivelazione, ma capii. «Suppongo che il mio comportamento con te e Edgar dopo che sei tornato, non abbia che suffragato le loro ipotesi!» Grugnii. Mi ero cacciata in un circolo vizioso di bugie ed omissioni, e la colpa era mia! Ma forse anche di qualcun altro: non avevano il diritto di giudicare senza sapere. Ma tu avresti fatto lo stesso, tutto ti accusava. Che idiota sono stata! Al diavolo la coscienza! Quelle due mi devono almeno una spiegazione! Ma, adesso, uno strano languore mi tormentava il cuore se riflettevo su un punto. «Anche tu avevi quella versione dei fatti, suppongo, perché quando ti ho confessato tutto all’alba di quella mattina, tu mi hai creduto subito?». «Ti amo. Ti credo. Non mi serve altro Isy». «Oh, Tony!». Mi ero sporta verso la maniglia e in un soffio avevo aperto la porta, lui era caduto addosso a me e io addosso a lui. Ci baciavamo fra le mie lacrime e le sue. Ma mi staccai. «Menti però, non credi che ti ami abbastanza». «Isy... io» scattai in piedi pronta a richiudere la porta.
Tony mise un piede in mezzo, io la sbattei con rabbia contro la sua scarpa. Dio! Ero furiosa! Avevo ceduto di nuovo per essere respinta ancora. Dovevo proteggermi da me stessa e lasciarlo fuori dal mio spazio: se vi entrava era la fine. «Tony va via! Hai ragione tu! Devo chiarirmi con Edgar, poi potrò decidere!» mentivo e sapevo di ferirlo, ma come potevo allontanarlo sennò? Volevo che mi comprendesse: che capisse che era parte indissolubile di me. Ma finché non lo avesse recepito appieno: rappresentava anche un tormento che non sopportavo più. Avrebbe fatto bene anche a lui...era quello che voleva...no?! Riflettendo su questo stavo ancora tentando di chiuderlo fuori da casa mia, e da me stessa. Ma lui gridò soffocato con un tono talmente arrochito dalla rabbia e dal desiderio che mi fece fremere. «Al diavolo! Sono un'imbecille! Ma so che stai mentendo Samantha! Ricorda che sei mia!». Adesso, sfruttando la mia sorpresa, aveva spalancato la porta con una mano e con l’altra mi afferrava alla nuca per baciarmi. E certamente io non protestavo. In pochi minuti la porta era chiusa alle nostre spalle ed eravamo avvinghiati sul divano. Finalmente. Fra un bacio di fuoco e l’altro mi confermò che avevo vinto: mi credeva sul serio questa volta. Il suo telefono squillò quando cercavo di far capire a Tony che Ted sarebbe tornato solo dopopranzo. Stava per spegnerlo quando notò il numero.
«E’ Pat: meglio che risponda...». «Sì, meglio che rispondi! Fidanzatino, paparino!» ringhiavo. Tony mi baciò le labbra serrate prima di protestare: «Mi vuoi lasciar finire una frase? “Meglio che risponda” perché voglio incontrarla e dirle che l’accordo è rotto: la mia vita appartiene ad un’altra». «Carino ed epico, ma non sei perdonato! Proprio ora fai il coerente? Se mi amavi la dovevi lasciar perdere dall’altra mattina! Punto!» le mie braccia si chio a proteggere me stessa, lo fissai stizzita. «Isy non era così semplice» protestò ancora lui tentando di abbracciarmi mentre ancora il cellulare trillava fra le sue mani. «lo è invece! E te lo dimostro!» afferrai il suo telefono e in un guizzo scesi dal divano inciampando nelle pantofole che mi ero sfilata scalciandole via, ma nonostante questo riuscii ad allontanarmi mentre Tony mi inseguiva irritato. Il telefono continuava a canticchiare. Steve mi aveva insegnato come fare... Una volta fuori dalla portata di Tony risposi. «Pronto? Sì! E’ il telefono di Edgar Anthony... no! E’ occupato al momento... Ah? Chi sono? Samantha: la sua vera fidanzata!». Lo dissi con un sorriso cattivo ma soddisfatto, e non me ne pentii, anche perché sapevo che Patricia non amava Tony. Su questo argomento lui era stato abbastanza chiaro: ma intuivo che la ragazza decisa che avevo intravisto al parcheggio e aveva soccorso Edgar, non poteva essere del tutto indifferente al suo fascino. E... sì, giù la maschera! Ero gelosa: adesso capivo il gesto di Steven. Adesso affilavo le unghie per difendere ciò che provavo, ma nello stesso istante
di questa auto-rivelazione, me ne scioccai, accettando di are il ricevitore a Tony, che, mi fissava, scuotendo la testa nervoso e chiedendo in un gesto stizzito che gli restituissi il suo cellulare. Glielo porsi arrendevole. Ma lui aveva uno sguardo che celava ironia e forse... sollievo?. Quello che non riuscivo a provare adesso per la mia coscienza. Steve quel pomeriggio estivo mi amava veramente e io l’avevo ripagato con un sentimento mendace. Certo non volutamente: non me ne ero resa conto allora, ma questa era comunque la verità. «Sì...Pat, scusami, non avrei voluto che lo sapessi così. Okay...capisco... vi raggiungo subito. No è tutto apposto Pat! Non preoccuparti...stai bene?...Sì, ma certo, lo so! Sarò lì fra breve!». Chiuse la comunicazione con un “tap” nervoso dell’indice affusolato, e mi si fece incontro con aria fintamente torva. Stavo imparando a conoscerlo. E stavo imparando a perdermi nella sensualità dei suoi gesti. «Sei una peste Isy! Pat è incinta! Dio Santo! Cosa credevi di fare?!». «Non ti ama, non potevo sconvolgerla...Oh no?». Mi prese il viso fra le mani, improvvisamente privo di tutta la sua stizza e colmo di dolcezza. «Peste! Sei una piaga Samantha! Ma ti amo!» mi baciò il naso come prova. «Devo andare...Rebecca e Jason erano con Pat: sono all’incontro di lotta di Matthew. I miei fratelli hanno sentito la tua performance e gli devo una spiegazione», si ravviò la frangia in un gesto automatico di sfogo, proseguendo: «La devo a tutti prima che prendano i forconi e ci tocchi scappare» scoppiò in una breve risata storta, e il mio cuore mancò un battito o forse anche due. Irresistibile. Avevo quel pensiero che mi rimbalzava dentro come un istrice pungolandomi la
carne. E poi mi abbracciò: «Non sai quanto vorrei che non fosse squillato il cellulare...torno in un lampo, lo prometto!». Sospirai sulla sua maglietta bianca, il pullover e la camicia giacevano scomposti sul pavimento. «Hai ragione...sono stata sciocca, ma questo mi ha fatto rendere conto di una cosa, devo assolutamente parlare con Steve. Tony! Vado a villa Carlton» presi fiato, e coraggio per proseguire, dopo aver visto affilarsi il suo sguardo alle mie ultime parole. «Tony... Io non so se lui mi ami ancora, ma so quanto mi ha amato, e sono stata tremenda! Io non volevo -tu lo sai- ma l’ho fatto lo stesso e gli devo la verità!». Gli occhi verdi di lui si incupirono diventando vetro di bottiglia, una luce fredda li rendeva duri. Sapevo che stava combattendo la gelosia: lo sapevo perché avrei reagito nello stesso modo. Scossi la testa, frustrata dalla consapevolezza di farlo soffrire. «A volte vorrei scomparire: essere mai nata. Ho combinato un pasticcio! E voi due ne patite per me». Lui si riprese, batté le palpebre, mi baciò la fronte e si staccò un poco. Dio! Come lo odiavo quando si atteggiava a perfetto paternalista affettuoso e iperprotettivo! Ma decisamente lo amavo anche per questo: per il suo meraviglioso modo di comprendere, di proteggermi. «Okay, ti raggiungo a casa dello zio allora, faccio subito Isy», mi assicurò sollecito. Ma un secondo dopo tutta quella sicurezza svanì come nebbia, e restò Tony: un ragazzo sensibile che mi amava tanto da averne paura. Si ò di nuovo le dita nei capelli ma queste si intrecciarono con l’altra mano alla nuca in un gesto agitato e impotente prima di parlare: «Ti prometto che vi
lascerò spazio per chiarirvi, ma non chiedermi di stare lontano da te. Io non ci riesco». Sbuffò irritato dal proprio fallito autocontrollo, poi riprese: «Io... non ci credo ancora che...». Non lo lasciai finire, mi lanciai addosso a lui, sembravo un tralcio d’edera desiderosa solo di avvilupparmi su di lui. Era di una dolcezza disarmante mascherata da imperturbabilità. Un mix devastante per il mio di autocontrollo. «Credici».
Ci eravamo separati di malavoglia, dopo altri momenti carichi d'amore e sollievo per entrambi. Arrivata a casa Carlton avevo suonato all'ingresso principale e mi aveva aperto Amber. La cugina di Tony, appena resasi conto che ero io, era partita con gli insulti taglienti senza quasi farmi aprir bocca; che avesse le sue ragioni per quel comportamento villano era indubbio: come lo era che in buona parte erano sbagliate. E non si poteva permettere, in ogni caso, di apostrofarmi in quel modo. Sembrava impazzita. Riuscii a capire dai suoi sproloqui che la sera prima Tony e Edgar avevano litigato e ricondussi a quello il taglio che lui aveva sotto al labbro inferiore. Non gli avevo chiesto niente in merito mentre ci baciavamo, erano successe troppe cose quella mattina. E troppo in fretta. Adesso, sua cugina, mi stava sbattendo in faccia l’accaduto come se io fossi l’unica responsabile di tutto, e forse lo ero anche, ma all’ennesimo: “Miss Stronzetta, indecisa e viziata”. Con cui intercalava la sua sfuriata. La presi per i capelli. Iniziammo a picchiarci e ci davo dentro tanto quanto lei. Dopo un po’ che ci scalmanavamo sul portico, Edgar ci sorprese, stava per dividerci ma era arrivato Tony afferrandomi alla vita.
Adesso, davanti al Dottor Carlton che mi medicava i graffi di Amber sulle braccia, volevo sotterrarmi. Bel modo di presentarmi alla famiglia del mio nuovissimo ragazzo: “Ehi gente! Sono la nuova ragazza di vostro nipote! Che scarica per me, quindi, la puerpera fidanzata ufficiale, che voi non sapete che è fasulla. Ah scordavo! Sono anche la ex che ha spezzato il cuore a vostro figlio adottivo: che poi nessuno si degna ancora di dirmi come cavolo fa a esserlo! Comunque piacere mio di conoscervi! Per gradire vi ho pure smontato la figlia isterica!” Sì, decisamente una bella presentazione. Tenni gli occhi bassi tutto il tempo. Dietro la schiena del dottore, una specie di muro umano formato dai due ragazzi che rappresentavano tutto il mio mondo, ma solo uno di loro possedeva il mio cuore. Alzai gli occhi e il fascio verde di quelli del suo proprietario mi imprigionò. Non volendo forse tradii troppo i miei sentimenti da quello sguardo per Tony, perché l’altro: l’amico che avevo amato e ferito. Mi fulminò girandosi e uscendo dalla stanza a o di carica. Nel frattempo il dottor Carlton aveva finito; io feci un o per inseguire Steven dopo aver lanciato un’occhiata incerta a Tony, ma la Signora Carlton mi fermò. «E adesso ragazze, con calma, vi chiarirete. Vi lasciamo sole, ma sarò di là» indicò, allungando il collo, la sala attigua alla cucina dove eravamo, non c’erano porte che separassero i due ambienti. «E se alzate i toni...o mi arriva all’orecchio una sola parolaccia...» si girò verso la figlia che sbuffava, «tu, signorina! Rimani in punizione per un mese!» poi guardò me, «e tu! Miss Lee. Questa è l’ultima possibilità che ti concederò, dopo chiamerò tuo padre». «Zia Eveline...» Tony provò a intercedere, ma la zia con fare irritato lo fulminò e lo strattonò per una spalla ingiungendogli muta, con lo sguardo, di precederla fuori dalla cucina. Charles seguì sua moglie gelandoci con uno cipiglio autoritario, perfetto per i suoi occhi che incutevano soggezione. Rabbrividii.
Be’ ormai era chiaro che il momento della verità iniziava da adesso. Provai a guardare Amber, mi fissava con odio. Non sarebbe stata affatto una eggiata, anche perché anch’io pretendevo la mia bella fetta di spiegazioni.
11 La Congiura
Edgar
Forse Steve, il ragazzo che faticavo a ricordare di essere stato, avrebbe saputo come fronteggiare tutto questo con un sorriso sulle labbra; guardarne i lati, se non positivi, meno distruttivi. Adesso era finita: finita davvero. Mi sentivo sofferente, deluso, svuotato, ma nello stesso tempo anche strano. In attesa di qualcosa. Sam era ancora in cucina, avevo colto le parole di mia madre, dure, autoritarie. Faceva bene: quelle due avevano bisogno di autorità, controllo. Sam aveva bisogno di sapere, capire e crescere. Crescere... Lei aveva deciso chi scegliere, questo era un segno che lo stava facendo: stava crescendo. Sapevo che era così, sapevo che era consapevole di amare lui e non me. Lo sentiva, e ora riusciva a rendersene pienamente conto. Quante volte in questo periodo: mesi in cui io e lui eravamo sotto il suo sguardo. Mi sforzavo di coglierne ogni luccichio, espressione. Ogni differenza con cui scrutava uno o l’altro. Ero diventato bravo -fin troppo- a smascherarla. Adesso non potevo più continuare a mentirmi.
Io l’avevo sempre saputo. Sempre: anche quel pomeriggio alla spiaggia. Avevo giocato d’anticipo, mi ero fidato delle sue parole. Volevo fidarmi, ma sapevo -sì, una parte di me ne era stata consapevole- che ero arrivato tardi. Troppo tardi. Tutta l’ansia di baciarla: mangiarle il viso, accarezzarla, farmi rassicurare sul suo amore. Tutta la spavalderia dei miei gesti: del mio cipiglio possessivo con Tony e con suo padre Ted. Le mie fiere parole: “La mia fidanzata!”. il Ranger Lee aveva avuto ragione: certo! Volevo in due ore metterle l’anello al dito, farla mia per la legge, per la carne, per qualsiasi cosa l’avesse legata tanto da non farla scappare. Io già allora: sapevo. Questa faccia che porto rivelava, in questi mesi, come uno specchio incantato la vera lei: le sue espressioni, il baluginio di dolore e di desiderio mentre mi guardava. Il primo riguardava me, il secondo lui. Solo lui. Era un riflesso condizionato, qualcosa che non decideva ma esisteva in lei. Ciò che credeva di amare teneramente e ionalmente di me, non mi appartiene, è appartenuto sempre a chi le aveva realmente rapito il cuore: Tony. Ciò che ero, che sono, lei non lo vorrà mai per se come un amore, non ora, e forse mai. E adesso? Cosa provi Steve?
Me lo chiedo mentre sono sprofondato nei cuscini del divano e guardo torvo il campionato di baseball in tv senza vederlo. Me lo chiedo, quando, mi alzo di scatto e mi siedo al piano, e dalle dita mi esce una melodia triste. Un ombra è dietro di me, getta sui tasti un alone scuro, concludo battendo le dita stizzito e producendo un tono stridulo, definitivo. L’ombra è quella che ho ignorato, e mi ha inghiottito fino ad appiccicarmisi addosso in senso letterale. Non mi volto, non voglio. Forse, semplicemente, non posso. «Vattene, Somerset» riesco ad articolare quasi in un ringhio. «Devi affrontarla» Il suo tono è calmo, risoluto, quasi freddo. Mi giro di scatto, un residuo di scura rabbia -forse solo orgoglio ferito- mi avvampa il viso. Lo sguardo: vedo rosso mentre replico iroso: «Non mi dici che mi ama adesso?! Eh?! E’ cambiato qualcosa da ieri sera cugino…vero? Dillo!». «Sì, ma dovete spiegarvi, Edgar, lei ti vuole bene e so che lo sai» adesso però ha un’incertezza impercettibile nella voce. Oramai lo smaschero con facilità. Se si tratta di lei: è un pazzo orgoglioso peggiore di me. Se si tratta di lei: ciò che mi dice lo violenta, ma lo fa. Cazzo, lo fa lo stesso! Lo fisso: vorrei incenerirlo con lo sguardo. Non sto usando un eufemismo: mentre lo penso mi figuro lo sguardo al laser di Superman e il mucchietto di ceneri del suo corpo. Lo faccio a posta ad immaginare tutto questo: perché so che sono infantile come questa bellicosa fantasia.
Crescere significa soffrire: e io la sto vivendo adesso questa verità. Sono vuoto: pieno di me stesso. Di nient’altro che me stesso. Rabbia, delusione, frustrazione, rimpianto, e rimane cosa? Solo Steve... Se l’amo -se l’amavo- dovrebbe esserci anche lei nelle mie viscere, o solo lei. Invece ogni centimetro di me stesso è saturo del mio io, di ciò che voglio, ho perso, e rimpiango. Non sono un martire che vuole immolarsi, so che non è solo colpa mia. Ma adesso, devo capire che l’ho persa, è inutile recriminare. Se l’amo, -e so che l'ho amata tanto- dovrei poter essere altruista, ricostruire ciò che è rimasto, i ricordi, l’appartenenza, l’amicizia. Alzo lo sguardo: Samy è dietro di lui, davanti a me, mi fissa con un espressione triste ma risoluta. E’ cresciuta, devo farlo anch’io. Chiudo la porta: un capitolo di me è finito, sono vuoto, ma più calmo. Respiro e Edgar Carlton schiaccia definitivamente Steven Moore. Tony coglie il mio sguardo e si volta, la vede. La mano destra gli trema un po’, guarda lei poi me e dice: «Vi lascio soli». Ho parecchia strada da fare per maturare e, il dolore della crescita, delle scelte più giuste, non erà, sarà solo più intenso ma dissimulabile. Almeno per un: “Dannato Somerset di ghiaccio bollente” come dimostra di essere lui. «Non ci vorrà molto cugino» gli lancio un assist e non so perché. Mi alzo dal panchetto e, per farlo, sporgo un braccio quasi per aggrapparmi a lui istintivamente.
Sono impazzito? No, lui è un famigliare, oltre che il mio stupido quasi gemello -o meglio io il suo- e per quanto spesso non lo voglia: è vero che ormai sono un Carlton. L’istinto a volte è potente più della ragione. Ma Tony si è voltato senza notare la mia debolezza e già sta uscendo, a o militare, dalla porta finestra del salone. Alla destra del pianoforte a coda, seminascosta da una Kenthia gigante, c’è la porta del piccolo studio di Eveline. Neanche parlo, le faccio un cenno, e, in tre i, fatta scattare la maniglia, già la invito a precedermi dentro. Lei lo fa, mi a vicino, è arruffata: con i jeans sporchi della polvere del portico, il maglioncino sgualcito. Ed ha un profumo talmente buono! Terra, pelle, e aroma agrumato, mi ricorda gli anni precedenti: le lotte giocose nei boschi, le caccie al tesoro, le esplorazioni in cerca d’avventure in una natura solo per noi. Mi ricorda semplicemente la mia amica Samy. Chiudo la porta e sorrido. Lei è immersa nella luce accecante dello studiolo da pittore quasi completamente vetrato. I suoi capelli castano dorato scintillano come fiamme fredde. E’ di spalle, si guarda intorno nervosa, poi si volta, e pianta gli occhi nei miei: vede me, Steven. Lo so -adesso che sa chi ama- vede solo me. Lo sento. E io, dopo tanto tempo vedo Samy: la mia sorellina, la mia amica, la mia famiglia.
Colei che nell’infanzia non amavo come adesso, ma che era ugualmente importante per me. Allargo il sorriso, apro un po’ di più la bocca: è la mia solita smorfia divertita alla Steve, non il sorriso misurato e affascinante alla Edgar Carlton che ormai è un mio altro tratto distintivo. La frase esce da sola: libera, noncurante, istintiva. Sono veramente solo io che parlo: «Ehi Samy! Ve le siete date eh? Comunque tieni ancora la guardia troppo bassa, secchiona!» e la mia piccola, dolce e buffa amica, lo sa. Sa che sono semplicemente Steve. Spalanca gli occhi, mi fissa un altro secondo, e vola nelle mie braccia, stritolandomi nel suo peggior e miglior abbraccio da orso. E’ lei. Sono io, e fa male. Ma sono cresciuto.
Edgar Anthony
Un tonfo sordo, un altro, altri tre in sequenza, e poi un altro, e un altro, e un altro ancora: «Tump-tump-tump». Il sacco fissato al soffitto oscillava sotto i miei colpi, e le nocche si stavano spaccando: presto avrebbero sanguinato. Sapevo che avrei dovuto mettere i guantoni. Ma non è che avessi previsto di prendere a pugni il sacco di Matthew in garage! Ero finito a vagare per il giardino, e poi, dato che era chiaro che ero un leone in gabbia, mi ero deciso a sfogarmi. Erano insieme soli: stavano parlando ed era ciò che volevo, ma non per questo mi piaceva. Ero geloso, possessivo, furioso: in una parola, come sempre, ero innamorato perso di lei.
E il fatto che finalmente stessimo insieme non cambiava la realtà: l’amplificava piuttosto. Ero uno stupido ragazzino insicuro: lo mascheravo bene, ma lo ero lo stesso. Perché adesso che era nel mio cuore, e al mio fianco, non avrei potuto, saputo, perderla. Non più. Mai più. Un dolore al petto, alle viscere, un pugno più forte al sacco. No, non potevo neanche pensarci. La porta del garage si aprì alle mie spalle, io non vi badai e continuai a pestare le nocche. La luce, che filtrava dai lucernai alti sulle pareti, danzava sul pavimento in penombra, sul mio viso, su di me. Mi muovevo al ritmo di quei raggi, intermittenti, schermati dai rami degli alberi mossi dal vento che, spirava, dalla porta spalancata dietro di me. «Ah, sei qui! Lo immaginavo!». Matthew -tornato dalla gara- aveva un tono greve e canzonatorio; neanche lo considerai continuando, senza voltarmi, l’allenamento. «Missione di ricerca compiuta! E...Lee? Ti consiglio di allenarti anche tu ragazza, mia sorella è piccola, ma tosta! Guardati le spalle tesoro!» Matthew rise sornione. Io invece ero saltato come una molla, interrompendomi, e girandomi di scatto. Samantha era vicino a lui, titubante, ma con un espressione felice nello sguardo. Felice di incontrare finalmente il mio. Rispose a Matthew senza smettere di fissarmi. «Grazie Matthew, lo ricorderò».
«Di nulla, Lee!». «Sam, si chiama Sam!» Dissi io, un filino freddo, a mio cugino, continuando però a vedere solo lei. Avevo due vulcani negli occhi e non c’entravano con l’irritazione per il modo sarcastico con cui lui le si era rivolto. «Sì...mah sì, certo!... addio colombelle!» Matthew rideva senza raccogliere, mentre, chiudeva la porta del garage, andandosene. Quando entrambi sentimmo il tonfo del ferro che veniva sbattuto, reagimmo come a un segnale prestabilito. In un secondo eravamo nelle braccia dell’altro. Una manciata di minuti dopo, lunghi come secoli di piacere, mi costrinsi a riemergere dall’oblio dei sensi. «Isy, dobbiamo uscire di qui...sennò non rispondo di me. Senti amore...credi che Ania ti possa coprire per due notti?». So che esageravo: ma adoravo esagerare. «Che?». Lei riemerse dal mio abbraccio stretto e i baci apionati, alzando il mento. «Non…non credo Tony...» sospirò frustrata riabbassando il capo e inspirando il misto di pelle e fragranza maschile dalle pieghe della mia maglietta. Naturalmente per allenarmi mi ero liberato -di nuovo- di camicia e pullover. Di certo, aveva capito, cosa intendevo. Poi raddrizzò la testa di scatto. «Ma... ho un idea! Devo andare a casa! Devo telefonare da lì a mio padre che è a pesca! Meno male che Amber mi deve delle scuse concrete! Vieni andiamo a cercarla!». Si era trasformata: un eccitazione nuova e determinata nello sguardo; in un minuto già mi strattonava fuori, mentre, per la seconda volta quella mattina,
raccattavo in tutta fretta parte dei miei vestiti dal pavimento. Sono in Paradiso.
Samantha
«Papà... è un occasione unica per visitare la Duke University! Non sei tu quello che vuole che studi là?», «Ho capito Sam...ma partire mentre sono fuori casa, così...», «Pa-paaà! Ho diciotto anni, e sono una studentessa modello ora, no? Sarò con Amber Carlton e paga tutto il servizio orientamento del college, c’è un posto vacante dell’ultimo minuto e hanno pensato a me! Dammi un po’ di corda Ted!». «Lei è lì con te? Fammici parlare!» ai il ricevitore a una Amber imbronciata che, mi fece cenno di tagliarmi la gola, ma, tuttavia, lo prese. «Sì? Buongiorno Ranger Lee. Sì...stavamo per partire e mia cugina Rebecca ha deciso di rinunciarvi all’ultimo minuto...sì infatti...ho pensato a Sam. So che la Duke le interessa... sì, tutto pagato, e... sì, certo, la giustificazione e i crediti sostitutivi per l’assenza alle lezioni. Sì, Signor Lee, in tutto sono due notti e tre giorni…». «D’accordo, grazie!» Amber mi tese il ricevitore, papà proseguì concitato: «Sam, va bene tesoro, siamo d’accordo, ma adesso chiamo casa Carlton». «Okay, grazie papà, ci vediamo quando torno. Il pullman parte fra un’ora, è inutile che ti scapicolli qui». «Okay, ciao amore, divertiti, e spero che sia interessante, meriti il meglio e, se vuoi, so che lo avrai». Lo avrò il meglio: l’unica ragione per cui “per sempre” voglio vivere. Sì, lo avrò. Attaccai il ricevitore, un brivido caldo mi percorse la schiena.
«Pronta per partire, Amber?» ridevo un po’ diabolica, mentre soppesavo la bella sorella di Edgar. Tony mi stringeva la mano libera con le dita ancorate alle mie. La sensazione serpeggiante nelle vene, che quel gesto mi procurava, era bollente come lava. Amber sbuffò: «Non credevo che dartele mi sarebbe costato tanto, anche se adesso so che ho esagerato nei miei giudizi. Ma con questo, siamo pari Samantha!». «Certo Amb! E Grazie!» adesso lasciai la mano di Tony e abbracciai una sorpresa Amber con le lacrime agli occhi. In quel momento, più che diabolica, scoppiavo di felicità. Tutto grazie a chi mi aveva insultato, picchiato, e mal giudicato: ma, dal suo punto di vista, con qualche buona ragione a dirla tutta. Stavo per scappare con il mio ragazzo: quasi settantadue ore completamente nostre. Un brivido d’emozione partì dalla schiena e mi si diffuse addosso. Sua cugina sciolse l’abbraccio e mi fissò, me e poi lui, parlandogli a bassa voce con convinzione: «Con questo, niente più liti per lei fra te e mio fratello! Me lo prometti Edgar Anthony?» «Niente più liti, è tutto chiarito. Grazie Amber!». L’abbracciò anche Tony. Lei fu molto più spontanea nello stringersi a lui. Si vedeva quanto tenesse al cugino, e a Edgar. Edgar, strano chiamarlo così, dopo le ultime ore in cui avevo veramente rivisto un po’ del mio fidato Steve: l’amico di sempre. Ma sapevo che ormai quello era il suo nome e dovevo abituarmici. Steve aveva perso una famiglia e, ne aveva trovata un’altra che lo amava molto. Questo mi rasserenava facendomi vedere, l’incredibile evoluzione della sua vita,
come qualcosa di positivo. «Okay, vado a fare la borsa, vi strozzerei! Meno male che Jas è tornato a Dallas dopo l’incontro di Matt, sennò col cavolo che mi avreste convinto!». Io annuii, e presi il ricevitore del telefono di nuovo, componendo il numero di casa Carlton che, segretamente, conoscevo a memoria da parecchi mesi. «Pronto, sì? Ciao Rebecca, sì...sono Sam, tutto fatto, mi i tua zia? Sì... grazie» almeno la sorella di Tony -con cui avevo avuto solo un brevissimo scambio di battute formali senza potermi chiarire, mentre cercavo Tony e mi ero imbattuta in Matthew- fu cortese. Anche se, ero talmente concentrata, su cosa dire e, come mentire, che neanche l’ascoltai veramente. E poi ci aveva, concretamente aiutato nel piano, proponendo la cosa del tour davanti alla Signora Carlton a Amber e me, come se fosse stata una sua idea. Appena la madre di Amber mi rispose, iniziai la mia parte. Ma proprio come con Rebecca, ilo suo dialogo telefonico era come se non mi entrasse in testa; ero tesa e concentrata nella mia recita. «Signora Carlton, mio padre ha accettato, parto con Amber se è ancora d’accordo. Anche io credo che ci faccia bene socializzare un po’...va bene, so che avviserebbe mio padre in quel caso...certo signora! Amber è qui, gliela o, sì...certamente!» avevo cercato di essere calma, convincente, ma fremevo; porsi il ricevitore alla figlia. Lei lo prese, facendo mille gesti di diniego, fino al secondo prima di stringerlo fra le dita. «Mamma, sì! Okay...Okay! Se le torco un capello, o la provoco, mi tagli la Gold Card, Sì!...sai benissimo che questo mi terrorizza! Ubbidirò!». Dopo l’ultima parola gridata al limite della frustrazione, sbuffò e riattaccò, quasi lanciandomi il ricevitore; poi, senza aggiungere altro, girò sui tacchi, uscì dal salotto, dalla porta d’ingresso, e il minuto dopo sentimmo l’Alfa Mito rossa, rombare e partire a razzo in uno stridio irritato di gomme eco dell’umore di Amber.
Tuttavia quel minuto era stato anche silenzioso, così silenzioso e carico di promesse che potevi quasi vederlo, sentirlo non come un’inconsistente frazione di tempo: una convenzione. Ma come un qualcosa di vivo, fluido, sensuale, che si percepiva nettamente nel punto in cui il mio sguardo si incontrava col suo a metà in quello spazio palpabile, in quella dimensione eccitante e silenziosa. In quel minuto ero immobile come lui, ma i nostri cuori rombavano. Mi girai di scatto, e già correvo di sopra, perché sennò non avrei preparato nessun bagaglio, avrei solo fatto ciò che il tuono nel petto scandiva col suo ritmo: facendomene pensare un altro lieve, veloce, frenetico, ma forse solo... dolce. Terribilmente dolce. Scuotevo la testa per non pensare e cercare di concentrarmi sul da farsi. E poi eccola l’ondata di fifa: e se fossi stata un disastro? Ti scongiuro! Nooo. Non voglio rovinare tutto! La mia determinazione, la forza, la scaltrezza; stava tutto scemando e rimaneva la mia solita codardia. Grugnii e, con un impeto di rabbia, aprii il cassetto della biancheria cercando un regalo, della mia amica di Dallas Carla Moreno, che non avevo ancora mai indossato.
Edgar Anthony
Sapevo cosa fare: ci avevo riflettuto ogni istante durante quei minuti in cui il piano di Sam prendeva forma e il mio anche. Il piano nella testa che avevo da quasi due anni: sotto il gazebo nel giardino dei miei mentre la chiamavo la prima volta, al parco sotto l’albero mentre le davo il primo bacio, in mezzo al fuoco e all’acqua scura inconsapevole di avere un'altra possibilità di vita, sulle rocce a tirare sassi nella laguna mentre neanche riuscivo
a ricordarla, nel capanno quando, mi costringevo a provare qualcosa di più, per le carezze che mi infliggeva Pat. Scossi la testa a questi ultimi ricordi che non avevano mai avuto senso e ora inutili. C’era solo un tocco nella mia testa, nella memoria della mia pelle: l’alba del primo giorno in cui ero rinato. La verità negata, quella mattina, che già me l’urlava. Eppure...Adesso era meglio. Adesso non avevo più dubbi, paure. Adesso il tempo, lo spazio, e la nostra dimensione fatta di sentimenti e sensi, era solo per noi. E io sapevo ciò che dovevo fare. Lo sapevo da sempre. Tirai fuori il mio Iphone ringraziando mentalmente di avere uno smartphone e una carta di credito; poi, dopo qualche minuto di navigazione web, chiamai mio padre. «Pronto? Ciao Generale!» mi mancava, lo sentivo ogni sera, come la mamma, ma mi mancava lo stesso. «Tony, ragazzo! Cos’è successo? Non è la solita ora!» Il suo tono era tranquillo, ma sapevo che nascondeva un’ansia, che adesso, non riusciva a sopire del tutto, se si rivolgeva a me. «Nulla...papà, volevo solo sapere se avevi il numero del giudice Phillips: il tuo compagno di college di New York». «Certo, perché figliolo? Sei nei guai?» la sua voce adesso era inquisitoria, indagatrice, ma il guizzo d’emozione faceva capolino fra le sillabe. La mia famiglia era cambiata, nei mie riguardi, poi, in modo irreversibile. Ebbi uno spasmo di dolore fisico, sapendo bene dentro quanto avessero sofferto, ma mi ripresi per rispondere tranquillo: «No, papà, ma mi occorre lo stesso» sicuro e diretto: il ritratto della determinazione e della fiducia.
«Ti mando un messaggio con tutti i recapiti, Edgar», efficiente, perfetto, e... mio padre. «Generale?...» non aspettai risposta. «Ti voglio bene papà, davvero». Adesso l’incrinatura lieve era anche nella mia voce, ma solo lui l’avrebbe colta, e volevo fosse così. «Lo so da sempre Edgar. Da sempre» ribadì, attaccando. Scacciai la malinconia e ripensai a lui, al mio nome, il suo, e quello di mio nonno: non solo significava patria, coraggio e forza. Significava anche onore e dedizione, e come loro, quello vero, autentico, era sempre stato riservato a chi ci completava. Il bip del messaggio, mi fece sapere, dove e come ottenere ciò che mi serviva per realizzare il piano che rappresentava tutto il mio mondo.
12 Innamorati Cronici
Edgar Anthony
«Ci vediamo alla stazione di servizio di Sand Cove...non farmi spettare, sennò sperono il bus e ti rapisco, Isy». La baciai lieve sulle labbra e sentii montarmi il desiderio, allora le carezzai una guancia che stava arrossendo, due occhi di cupo ghiaccio bollente mi chiedevano di non staccare il contatto, e non era quello che volevo fare, ma dovevo. «Sarò lì» farfugliò ansante, era troppo il desiderio nel suo sguardo, mi chiamava come una calamita; svelto mi girai, scendendo con un salto agile dalla banchina di cemento mentre l’autista apriva le porte per far salire i eggeri. Restai lì, a fissare Sam e Amber che montavano sul pulman, tenendomi a distanza di sicurezza. Quindici minuti: poi secondo il programma si sarebbero fermati per il pieno e Sam avrebbe finto un imprevisto, dicendo che tornava a casa. Aveva diciotto anni, l’autista, poteva essere sollevato dall’obbligo di trasmettere subito l’informazione alla compagnia organizzatrice, se, la eggera, firmava il modulo di interruzione volontaria del tour. Il piano era preparato, e gli ingranaggi oliati, sarebbe andato tutto liscio, anche il mio proposito. In un ora, con il mio SUV, e l’autostrada per Bar Harbor, potevamo già essere sull’aereo che ci portava a New York e che avevo prenotato online. Il giudice Phillips, a cui avevo mandato una mail, mi aveva risposto che rimaneva in tribunale fino alle diciotto. Per i miei scopi, la norma nello stato di New York prevedeva ventiquattro ore:
con il consenso dei genitori o la maggiore età. E il caso sussisteva. L’amicizia decennale con mio padre del funzionario, poteva ridurre di molto quest’attesa, e, stando alla risposta cortese di questi, di fatto l’aveva già ridotta. Saremmo arrivati in città alle quindici, avevo tre ore per convincere la mia Isy. Innestai il cambio, e le gomme stridettero sull’asfalto. Il calore che mi rosicchiava il ventre stava facendomi “male” sapevo di poterla convincere, ma sapevo anche che lei poteva fare di me ciò che voleva. Eppure desideravo che non mi fermasse, le avrei lasciato una scappatoia formale: una proposta ridicola solo a pensarla. Ma che speravo dissie i suoi eventuali dinieghi. Le avrei prospettato un patto anacronistico e ipocrita, se avesse titubato spaventata dall’enormità della cosa, buttandola li come un gioco temporaneo. Doveva funzionare. L'avrei convinta: perché di formale, in questa storia, per me non c’era un bel niente. Questo proposito lo volevo dal profondo di me stesso, che fosse per sempre, o solo per un giorno, in questo esatto momento non m’interessava, per sempre lo era nel mio cuore. Un tatuaggio serpeggiante fatto con la punta di un pugnale affondato nella carne. Io la volevo per la legge, oltre che per me stesso. Io dovevo gridare al mondo che era solo mia. Io...io...io...mi sentivo molto egoista mentre affondavo il pedale e non vedevo l’ora di avvistare le insegne della Shell. Io...mi sentivo profondamente legato a lei; l’unico modo di amarla era prometterle un eternità con me, donarle me stesso completamente, e c’era un solo modo per dare un suggello formale a quest’intento, che, accettasse di mantenerlo anche in seguito, oppure no.
L’importante era il legame, quello non l’avrebbe sciolto nessuno. Eravamo dell’altro e il mondo doveva saperlo. Noi, dovevamo saperlo, prima di esserlo veramente. Veramente... Altro fuoco nelle viscere. Dannazione Tony! Così non va! Dio! Ma che mi prende?! Mi prende che la voglio come non mai! Sterzai e parcheggiai in attesa del pullman che aveva rispettato più di me i limiti di velocità. Un minuto, e eccolo entrare in stazione per rifornirsi. Sussultai. Io, Tony l’imperturbabile: addestrato fin dalla nascita all’autocontrollo, uscito vivo dalle lamiere di un elicottero in fiamme, trasalivo vedendo uno stupido autobus. Afferrai rabbiosamente la maniglia della portiera, quasi volendola staccare, scesi dal SUV, sbattei lo sportello, e cominciai a eggiare su e giù, fino a quando, vinto, non appoggiai il sedere al cofano e i palmi sulle cosce a trattenere il mio peso. Ecco il verginello nervoso alla vigilia del grande salto. Potevo essere...come diceva sempre Reb? Sì...“Il più bel ragazzo della scuola” (mia sorella esagerava) e un tipo che sembrava al prossimo uno stronzo arrogante: “Sottuttoio” super controllato e saccente. Forse lo ero un po’, per chi non mi conosceva a fondo, ma adesso ero, e rimanevo, solo un ragazzino inesperto che era innamorato pazzo e distrutto dal desiderio. Ecco chi ero! Ma perché non sono andato a letto con Pat? Maledizione! Un po’ di esperienza mi avrebbe fatto comodo!
Ma che cavolo penso?! Tony ritorna in te! Solo questa mattina sul suo divano, e l’altra nel letto del cottage, me ne disinteressavo bellamente di certi puerili dubbi. E allora perché pensarci proprio adesso? Un crogiolo d’emozione incoerente: ecco cos’ero. Una mano calda, materializzatasi dal nulla, si posò sopra la mia sul cofano, ma senza fermarsi risalì il polso e l’avambraccio nudo, fino alle maniche arrotolate della camicia, -le cicatrici delle bruciature sfiorate mi diedero scosse elettrichela bloccai con l’altra mano. Un mezzo giro, suole da basket che frusciavano nell’erba incolta della piazzola appartata: Isy era già nella mia bocca. Era già dentro di me.
Samantha
Iniziai ad annaspare, e nel dire annaspare, intendevo proprio a soffrire per mancanza d’aria, mi puntellai sulle sue spalle, ricurve su di me, mettendo un po’ di distanza, stavo rabbrividendo e non sentivo freddo, ma piuttosto andavo a fuoco. «Okay, la fuga è iniziata...adesso vuoi dirmi dove si va?» «A Central Park, mi piacciono le eggiate in carrozza». « Che?!». Strabuzzai gli occhi ma non riuscii a dire altro, un certo soldatino efficiente già mi trascinava nella sua macchina.
Edgar
«Tim, dammi una birra!». Il barista: un ragazzo alto, con l’aria sfrontata, il naso aquilino, corti capelli neri e due spalle da lottatore che conoscevo da quando avevamo due anni; mi guardò di traverso. «Io ti conosco, sei uno dei cugini fighetti, quelli identici -il figlio del Dottore mi pare- non hai ventun anni bellezza!». «Certo che no! Ho la tua età! Stronzo! Mi hai fracassato la bici nel fosso di Greison Creck, e poi hai dato la colpa a Terry! Sì lo sapevo! Sono Steve. Deficiente! Beviamo birra da quando avevamo tredici anni! Mammina!». Tim spalancò gli occhi, perché non solo lo stavo fissando col mio solito sguardo, ma avevo anche parlato con lo slang tipico dei teppistelli di Sand Cove, e la mia voce non era cambiata. «Ma che diavolo?! Steven! Sei morto cazzo! Tu chi sei?! Un reincarnato?!» aveva strabuzzato gli occhi, poi, affilato lo sguardo scostandosi repentino dal bancone, scappando dalla mia vicinanza. Ridicolo! «Buh! Dio Santo Tim! Non fartela addosso ora! Sono vivo deficiente! Mi ero maciullato i connotati e il dottor Frankenstein mi ha dato questa faccia da culo, non me la sono scelta, stanne certo amico! E adesso arriva ’sta cazzo di birra?!» avevo intercalato la mia sfuriata con pugni irosi al piano del bancone. «Okay, okay!» Tim tremava ancora, ma mi lanciò una lattina, io feci schioccare il sigillo e versai il liquido chiaro nel boccale che mi aveva messo davanti. «Gluck-gluck-gluck». Speravo che quel rumore replicato nella mia gola mi fe dimenticare ciò che ero venuto a sapere da Reb quando ero rientrato a casa. I due piccioncini erano fuggiti insieme: due giorni da soli. E i Carlton-Somerset li avevano coperti! Buttai giù veloce il primo sorso.
“Sai che vorrei rapirti? Magari stasera potremmo andare al faro, Caleb, il custode, mi deve un favore”. Il secondo, pesantemente. “Per ora mi vorrei asciugare…” Il terzo, giù come una cascata. “Intanto ti aiuto con queste labbra bagnate”. “Giù le mani da mia figlia Steven Moore!”. Il quarto e ultimo ingozzandomi. Tossii: mi asciugai la bocca col dorso della mano, e grugnii sbattendo il fondo del boccale al marmo del bancone. «Ancora, Timmy!».
Rebecca
Era da un ora che ogni cinque minuti controllavo l’orologio. Stavo lavorando alla tesina d’informatica applicata che mi ero scelta come test supplementare per i crediti in vista del college. Normalmente scrivere codice mi rilassava: schemi prefissati, sequenze logiche. Inizio – svolgimento – fine: tutto era rassicurantemente programmato, non si poteva uscire dallo schema. Oh certo, qualche bug poteva esserci: una variabile del tipo errato, un punto e virgola dimenticato. Errori di percorso, ma mai rottura degli schemi.
Un programma non impazziva veramente, al massimo “looppava” o sputava insensatezze. Ma da un codice, che ridava, una maschera di immissione dati statistici, non poteva uscire un videogioco. Un videogioco! Battei il palmo sulla tastiera con stizza, il debag si arrestò con un bip: avevo beccato il tasto esc. Era la mia vita ad essere diventata uno stramaledetto videogioco! Mi presi il viso fra le mani. Ero in camera mia, sbattei giù lo schermo del portatile. Mi alzai e andai al guardaroba: ero in tuta da ginnastica, perché, dopo aver dato una mano al piano di mio fratello, ero andata a farmi una corsa. Mi sentivo irrequieta, sollevata, ma irrequieta. Sam non costituiva più una minaccia per Edgar, e di fatto, ora, era parte della mia famiglia. Oh, niente storie! Conoscevo Tony: tempo qualche mese e l’avrebbe pure sposata, ne era capacissimo. I miei erano burro nelle sue dita, se avesse deciso di sposare un aliena a tre teste, avrebbero organizzato un ricevimento e invitato gli esperti dell’ “Area 51”. Non avevano battuto ciglio con Pat, e, si vedeva lontano un miglio, che fingeva per gratitudine, e non avrebbero certo dissentito con Sam. Bastava osservarlo per cinque secondi mentre la guardava: mio fratello adorava letteralmente quella ragazza. Edgar era pazzo di lei... Ma che caspita ha questa Samantha?! In me si agitavano due forze diametralmente opposte, ma intense tutt’e due.
Ero gelosa di mio fratello come poteva esserlo una sorella legatissima e ancora provata dal dolore di averlo creduto morto. Ero pazza di gelosia insana per il ragazzo che, sebbene oggettivamente fosse un quasi suo gemello, di mio fratello Tony non aveva niente! Un nome imposto e qualche tratto somatico: solo questo lo legava a lui. Ma io conoscevo Anthony: ogni azione-reazione, ogni sentimento ben dissimulato, ogni modo di rapportarsi con l’esterno. Amavo profondamente il mio fratellino e lo comprendevo molto bene. Edgar no. Edgar mi spiazzava. Non mi piaceva essere incerta. Io non titubavo mai. Avevo sempre il quadro chiaro: raccoglievo input, li elaboravo, e lo schema era servito. Mai imprevisti. Tutto calcolato. Edgar, rompeva la logica. Avrei dovuto amarlo come Tony. Come un famigliare. L’unica volta che l’avevo scambiato per mio fratello era stato quando non sapevo che esistesse, alla spiaggia: con le palpebre abbassate e i capelli bagnati sdraiato a tracciare disegni sulla battigia. Uno shock, per me, il suo aspetto in quel momento, ma appena, aveva alzato lo sguardo, mi aveva ringhiato contro un ragazzo completamente diverso; per questo ero fuggita via singhiozzando, non perché gli somigliasse tanto, ma perché non era Tony. E soffrivo tremendamente. Per un interminabile secondo avevo assurdamente pensato che il mare mi avesse restituito mio fratello: la mia famiglia. Per un secondo avevo perso la razionalità a favore della pazzia, del rimpianto, del dolore che mi dilaniava il cuore facendolo a pezzi. Edgar rompeva la logica. Edgar rompeva le mie difese.
Quel ragazzo rabbioso e sconosciuto mi aveva inseguito e, con una pazienza strana, mi aveva ascoltato. Non dissimulava ciò che sentiva o almeno non vi riusciva. I suoi occhi d’ambra erano troppo istintivi, indifesi, sinceri; un giochetto per un’arguta come me smascherarli. Era cresciuto piano un sentimento. Edgar rompeva il gelo del dolore. E poi rabbia, sconcerto, livore. Impazzivo a vederlo correrle dietro come un cagnolino, e con lui, mio fratello, che soffriva come un cane bastonato. Adesso...Tony era finalmente felice. Edgar no. E io come mi sentivo? Non lo sapevo. Accidenti Rebecca non ti riconosco! Non mi piaceva l’incertezza: io ero un tipo decisionista, razionale, logica come i computer che mi piacevano tanto. Dopo la corsa, avevo intercettato Eddy all’ingresso, non a caso, tenevo d’occhio l’entrata alla proprietà. Non doveva vedere gli zii prima di me, avrebbe mandato all’aria la copertura della missione. Sorrisi. L’abitudine alle metafore militari, non era per niente ata, anche adesso che nessuno di noi Somerset aspirava più ad una simile vita. In un anno il mondo come lo conoscevamo era diventato un videogioco. Un videogioco caotico e imprevedibile che aveva sostituito il dramma straziante. Chiusi gli occhi, mi si contrasse lo stomaco. Li riaprii: non mi faceva bene ricordare.
Ero entrata in cucina, col o stanco, che aveva preso il posto del mio solito marciare decisa verso la tavola del pranzo, ma ero rimasta sulla soglia, impietrita, fissando la scena davanti a me. La stanza era ancora deserta e piena solo del profumo di lasagne. Mamma stava apparecchiando per cinque: preparava il quinto coperto al posto che era da sempre stato di Tony, con cura, sistemando tovaglietta, tovagliolo e posate. Ma arrivata al piatto, era rimasta a metà. Era ata una settimana dalla fine delle ricerche. «Gli piace così tanto la mia pasta al forno...» mia madre parlava tristemente a se stessa, quasi a giustificare i suoi assurdi gesti. «Mamma...» avevo appena sussurrato ma lei si era girata con uno sguardo di ghiaccio. «Che ci fai qui Reb?! Non ho chiamato ancora per il pranzo!» Mi ringhiava contro e, nel farlo, aveva scagliato il piatto a terra: i cocci si erano sparsi dappertutto. «Non serve a niente, maledizione!» Gridava ancora fra se e se, ma la voce le usciva arrochita di disperazione, non sembrava più Elisabeth: no. Assolutamente no. Senza badare più a me, si era messa a raccogliere i cocci accovacciata sui talloni, ma poi era scivolata seduta: la testa fra le mani e i singhiozzi muti trattenuti dalla bocca chiusa. «Rebecca! Va a chiamare papà! E' nello studio!», «vieni mamma, ti aiuto io!». Ero corsa fuori mentre Jason entrava come una furia e la rimetteva in piedi per le spalle, una lacrima gli rotolava silenziosa sul volto: Jeson Somerset “iceman” come lo chiamavano ironicamente i sottoposti- piangeva suo malgrado. Un ora dopo eravamo al "Dallas Dune Lodge" perfetti e composti nei nostri abiti curati e le facce imibili.
In pubblico la maschera che indossavamo non si era ancora sgretolata: funzionava ancora. E a tutti noi serviva un pretesto per avere qualche minuto senza rischiare di impazzire. Mia madre da quella domenica non aveva più cucinato lasagne. Adesso invece sapevo che era di nuovo il piatto preferito del week end di casa Somerset.
Sorrisi di sollievo, mentre i miei occhi piangevano al ricordo doloroso appena rivissuto. Mi asciugai sotto al naso col dorso della mano dandomi della stupida. Era tutto finito. Spalancai le porte dell’armadio. Edgar non era rientrato, dopo essere scappato con un grugnito alla notizia della fuga di Tony e Sam. Le gomme della sua mini: dentro cui si era scaraventato non appena avevo finito di informarlo. Avevano lasciato un centimetro di pneumatico sul vialetto. I maschi e il loro orgoglio ferito! Pensavo questo per non dirmi: “il loro cuore spezzato” A occhio e croce forse sapevo dove trovarlo, e quel demente poteva pure essere, tanto pazzo, da provare a tornare a casa con la sua macchina, e dovevo impedirglielo. Un'altra fitta brutta: gelo terrificante. Mi era rimasta una cicatrice profonda, non tolleravo certi pensieri cupi, neanche come immaginazione. Reb razionalizza: torna in te.
Non lo ero in me, e non lo sarei stata mai più. Edgar, Tony, Jason, i miei, gli zii, Matty e Amber: tutti pezzi di ghiaccio pronti a graffiarmi a sangue il ventre, scendere sopra la razionalità, come un manto oscuro, se solo provavo a immaginare che gli accadesse qualcosa. Avevo un solco nell’anima e ci sarebbe rimasto per sempre.
Edgar
Al quarto boccale colmo mi sentivo le gambe pesanti e la testa leggera. Ma ero ancora troppo in me. “Lo sai che ti voglio bene, vero Steve? Non mi importa cosa sembra, non volevo ferirti, ho sbagliato perché credevo sinceramente di amarti, io davvero credevo che il sentimento per te fosse quello vero...”. “L’ho capito Samy. L’ho capito prima di te: è okay, anche io ho le mie colpe, dovevo giocare meno sporco, non travolgerti con i miei sentimenti, sfruttando il nostro legame: il fatto che ci vogliamo bene, che siamo una famiglia da sempre”. “C’è speranza per la nostra amicizia?”. A quel punto si era sciolta dall’abbraccio. “Non lo so Samy, davvero, adesso non lo so”. “Hai ragione, non avrei dovuto chiedertelo, scusami Steven”. E, senza aggiungere altro, era uscita dalla porta dello studio di Eveline, chiedendosela piano dietro le spalle. Aveva sprangato un uscio su un pezzo del mio cuore. Sarebbe rimasto lì per sempre, ma non avrebbe rivisto più la luce. Un altro sorso ambrato che mi scivolava in gola, scossi la testa tristemente.
No, non ero affatto pronto a mutilarmi il petto: come un amputato mi aggrappavo ad un arto fantasma. Tim fischiò sonoramente strappandomi alle mie elucubrazioni, era un sibilo eloquente. Mi girai e fu il mio turno di strabuzzare gli occhi: Rebecca Somerset era entrata nel bar. Ma da dove cavolo aveva preso quel vestito?! Mi alzai di scatto, ignorando il fatto che il locale girava e le gambe non rispondevano a dovere. Mi ancorai con le dita al bordo dello sgabello. Finalmente più stabile e, pronto a dar battaglia, mi chiesi e mi risposi rabbioso: «Ma sei impazzita? Certo che lo sei! Se vieni in un bar conciata così!». Per tutta risposta mi ribattè avvicinandosi minacciosa e tremendamente sexy: «Meno di te, che, immagino, vorresti anche guidare, ridotto in questo modo!».
13 La Decisione
[Ventiquattro ore dopo – Canada, Cascate del Niagara]
Edgar Anthony
«Signori volete che vi scatti una foto davanti alle cascate?». Il fotografo del gruppo di escursione indugiava con lo sguardo su di noi: due ragazzetti con le mani allacciate, in cui, spiccavano, rese lucenti dall’acqua, le due fedi d’oro giallo. Aveva interrotto il discorso che stavamo facendo, lo ignorai bellamente proseguendo la conversazione. Quello scosse la testa e desistette, bofonchiando sottovoce con una risatina: «Questi due ragazzini si sono pure sposati. Bah! Nel 2012. Pazzesco!» Nessuno dei due badò alle parole del tizio, anche se le avevamo sentite. Eravamo concentrati a discutere, di una certa opzione, che adesso, a cose fatte, rappresentava il futuro. Il futuro è adesso. Sapevo la mia opinione in merito, ma avevo promesso che la decisione sul destino di questa pazzia sarebbe stata sua. «La scelta è tua...ma una mia preferenza Isy, io l'avrei». Certo che l'avevo: l'unica possibile per me.
Samantha
Era completamente impazzito, andato, cercai con lo sguardo, intorno, una specie di sostegno: qualcuno che ascoltandoci gli urlasse in faccia la sua idiozia. Magari il tizio che non credeva ai suoi occhi scoprendo la follia che avevamo commesso. Naturalmente, in quel momento, tutti i presenti erano concentrati e ammutoliti per qualcos'altro, lo spettacolo non eravamo solo noi; eppure facevo fatica a non considerarmi splendente, e al centro dell'attenzione, come su di un palco illuminato. Ero talmente felice che credevo di avere un aura lucente di gioia. No, a scintillare, in verità, erano solo i milioni di gocce d'acqua sui nostri corpi allacciati. «Sai quale è: l’unica che potrei fare».
Edgar Anthony
Le risposi senza parole, sigillandole le labbra, imperlate di goccioline iridescenti, con un bacio esigente. Certo che lo sapevo. Chiudemmo gli occhi e, fui certo, che stavamo rivivendo intensamente le ultime ventiquattro ore: tutto era iniziato atterrati al Kennedy...
14 Angolo di Paradiso
Edgar Anthony
«Allacciare le cinture, riportare gli schienali in posizione eretta, fra dieci minuti atterreremo all’aeroporto Kennedy di New York . Grazie per aver volato con la Trans World Airlines». Mentre armeggiavo con la leva del sedile, e sbirciavo Sam che faceva lo stesso, (si era allungata verso di me poggiandomi il capo sulla spalla, e io non avevo tolto la mano dal suo ginocchio, neanche un attimo, tanto che adesso mi bruciava il palmo) una goccia di sudore mi scese lungo la tempia, subito asciugata dal getto dell’aria condizionata della cabina. Ecco di nuovo l’ondata di panico mista ad ansia: non solo da prestazione. Cosa mi risponderà? Mi riderà...in faccia? Misto sarcasmo e stupore: “No, non se ne parla! Stiamo insieme da meno di dieci ore... mi vuoi che? Sposare? Ehi, ho solo diciotto anni! Chi ha mai pesato al matrimonio?!”. Sarcasmo e cinismo: “Ehi Tony è sesso, stiamo insieme, mica serve una fede al dito!”. Imbarazzo e incredulità: “Tony...ti amo okay, ma nel futuro come posso saperlo? Ho diciotto anni...tu diciannove!”. Quest’ultima ipotesi mi frigge il cuore. Sta calmo, stupido!
Giuro che ci provavo, ma adesso i miei propositi: il piano (dentro al piano) mi scottavano in testa come una bomba incendiaria, non riuscivo a ragionare. Le ore di volo erano servite a ripensarci e a darmi del pazzo quel tanto che, perso nelle mie decisioni e nell’assurda percezione del nostro reciproco sentimento, non ero riuscito a darmi subito. Sto delirando. Ma cosa credevo di fare? Non è roba soprannaturale epica che va tanto di moda adesso fra le ragazze. Siamo giovani, con una storia un po’ sui generis alle spalle, questo è vero, ma siamo solo due ragazzi normali. Io mi sento legato a lei in modo più che sovrannaturale ma...questo sono io, e lei? Tony sei un pazzo presuntuoso...lei non capirà i tuoi deliri! Questo ping-pong era andato avanti in una porzione della mia testa, in un'altra, più istintiva, non facevo che sfiorarla ricambiando le sue carezze furtive. Non facevo che resistere al desiderio cocente. Non facevo che galleggiare in una bolla di felicità, assurda, che dovevo impormi di ricondurre, sui binari della realtà. Sì, ero solo un ragazzo, e avevo sentimenti e ormoni, sparati a mille nella testa e nel corpo, ben impacchettati in una fredda compostezza da soldato che era il mio retaggio famigliare. Dio! Aiutava essere un Somerset! Ma lo sentivi anche strozzarti come un giogo alla gola, a volte. Era una di queste volte. «Okay, Sam, siamo arrivati...prenderemo un taxi per Central Park, sai la famosa eggiata che ti dicevo?». “Andiamo a letto Isy, voglio sentire la tua pelle contro la mia, mi manca come il
respiro” «Tony...ma sei sicuro? Tutto questo per un giro in carrozza...New York! Ti ho lasciato fare, ma sembra una tale follia...e poi hai pagato tutto tu!» “Pazzia questa? Pazzia è cosa voglio per noi”. «L’idea è stata mia, e mie le spese, me lo posso permettere, e poi la mia educazione mi impone di essere cavaliere, tu non conosci la rigida disciplina di un Somerset...siamo all’antica temo!». “Non mi posso permettere di deluderti, questo mi manderebbe si a “gambe all’aria” col cuore però!”. «Se all’antica vuol dire cortese e romantico ci sto! Ma niente donna con la coda, non è il mio genere!». “Staresti così bene... con solo foglie addosso!” Smettila animale! Così dicendo, la mia ragazza, senza sospettare nulla, della guerra che mi si agitava in testa e nel corpo, mi schioccò, un bacio sulla guancia, mentre stavamo camminando nel tunnel mobile fuori dall’aereo. Girai il viso repentinamente, in modo che il bacetto, si trasformasse in un mio assalto alla sua bocca. «Beh...tu mi fai scordare che dovrei essere cortese...Isy», le parlavo roco sulle labbra, mi spinse via tutta rossa: era uno spettacolo mozzafiato la sua timidezza. «E tu mi fai ricordare, troppo, un certo motivo scatenante di questa gita...». La scrutai, non mi piaceva, la nota di panico del suo tono mortalmente imbarazzato. Le misi le mani sulle spalle. Eravamo nel salone degli arrivi domestici in mezzo alla folla: un isola sulle cui coste sfilavano centinaia di visitatori. Ma il brusio assordante: era silenzio. Il moto vorticoso intorno: quieta calma. Non esisteva niente altro che noi due. «Ehi... amore! Era solo un idea, chiaro? Siamo qui, per essere noi due soli, e,
goderci un po’ di pace, dopo i tremila casini che ci sono voluti per arrivare a stare insieme. Che, questo includa o meno qualcosa di nuovo, non conta. Lo scopo è stare insieme...io e te e il mondo fuori Isy!» “E’ la verità...e tu mandrillo a cuccia!” Non finii di parlare perché mi interruppe: «Vuoi baciarmi stupido?!» Era già edera intorno al mio collo. «Agli ordini Signora!».
Samantha
Me ne andavo in giro come Cenerentola in un cocchio. Beh quasi almeno. Ero in jeans e golfino, e ai piedi avevo le All Star, la carrozza bianca era solo un calessino da nolo che puzzava di sigaretta, il cocchiere non era in livrea, ma in giubbotto jeans e cappellino da baseball, e c’era una folla assurda in Central Park, e, molto poco romanticamente, il cavallo defecava e peggio: faceva pipì ogni due per tre con uno scroscio tipo cascata. Davvero poco romantico! Eppure bastava girare lo sguardo, incontrare, due pozze verdi brillanti, guardarti come se fossi un’opera d’arte preziosissima, e, Cenerentola era una poveraccia, che t’allacciava le scarpe da basket. Chiusi gli occhi e riavvolsi la pellicola del film.
Era il primo giorno di scuola a Dallas, quasi tre anni prima.
Dannazione ma dov’è il libro di se? Sbattevo e riaprivo lo sportello dell’armadietto per controllare e ricontrollare, inframmezzando, il tutto, con una bella rovistata nel mio zainetto, ma, del testo cercato a tentoni, neanche l’ombra. Alla fine, sconfitta, avevo guardato l’orologio. “Oh merda! Sono in ritardo!” avevo strillato ad alta voce e, in un movimento unico, ero riuscita a chiudere l’armadietto, prendere la borsa, e schizzare via. Ma un secondo dopo, eccomi col sedere sul pavimento. Mi ero scontrata con una biondina piccolina, decisamente carina, decisamente dall’aria angelica, che invece mi aveva riversato contro cattiverie e insulti tutt’altro che celestiali. Stavo lì che, ancora inebetita con la bocca aperta, non mi ero rimessa neanche in piedi, poi, riscuotendomi, avevo chiuso la bocca, guardato male quella specie di mostriciattolo travestito da angelo, e, lasciato, che la sua volgarità nuocesse a lei sola, sottolineando, con i miei monosillabi sprezzanti, il suo sfogo fuori luogo. Nel mentre il mio zaino si era rovesciato a terra, e, beffardo, eccolo lì: il libro di se introvabile, sulla punta del piede di qualcuno. Ed ecco quel qualcuno raccoglierlo, venire verso di me, e guardarmi negli occhi. Lo riconobbi subito, e certo non poteva andare diversamente. Edgar Anthony Somerset: caposquadra di decatlon scolastico, capitano della squadra di baseball, e sogno impossibile di mezza (tutta) la popolazione femminile della scuola. E io che, adesso ero abbastanza cresciuta da accorgermene, ero rimasta ipnotizzata dalla sua improvvisa vicinanza, due fari verdi scrutavano i miei occhi e, una mano forte, mi porgeva il mio libro, «ti è caduto questo Samantha...non curarti di Janet, è un’isterica» aveva terminato di parlare, con quel commento alla ragazzina di fronte a me, e un’occhiataccia al vetriolo, al cherubino malefico sbuffante che era. Lei, per tutta risposta, aveva alzato il mento con sdegno girando sui tacchi e sparendo, finalmente, in aula di economia domestica.
Sfiorandolo, per riprendere il mio testo dalle sue dita, un brivido caldo mi era risalito su per la schiena, e, da quel giorno, ogni suo sguardo nella mia direzione era diventato una scossa elettrica, e, ogni notte, inesorabilmente avevo preso a sognarlo.
“Io ti amo Isy, da un anno, da quando sei inciampata addosso a quella Janet sopportando con dignità e coraggio le sue scariche urticanti di insulti, con un’occhiata l’hai tramortita più di quanto non cercasse di fare lei con le sue parolacce” questo mi aveva detto il sogno di ragazzo, dei miei ricordi, confessandomi di amarmi.
Riaprii di scatto gli occhi chiusi a ricordare il bacio fortuito al parco: adesso senza colpa e con tutto il sensuale ricordo a far da contorno all’immagine vibrante nella testa. «A che stai pensando Isy? » velluto di giada: occhi e parole. Devo scendere da questa stupida carrozza! «Qual è la prossima tappa? Sono un po’...stanca». Vorrei andare a letto, certo che sì... «Avevo pensato...un giro al lago». «Tony... N.Y. è bellissima ma... vorrei stare sola, con te». Grande, ce l’ho fatta! L’ho detto! Sento le guance come se fossero state arrostite sul grill, ma va bene... l’ho detto! «Isy, devo parlarti di una cosa...» il velluto era diventato tremulo voile, esitante, lieve, indeciso. Edgar Anthony imbarazzato? Rabbrividii di paura.
Ecco, lo sapevo, è stato un bel sogno e basta! Non mi vuole, non mi ama più...non vuole stare con me. L’ho perso, ammesso che fosse stato mai mio...Sei una stupida! Tony può avere tutto, e tu sei solo Sam! Un altro film nella testa sparato a mille all’ora, ma questo era un Triller in cui ti si mozzava il respiro.
Edgar Anthony
Un coniglietto atterrito scrutava il mio sguardo. Dio Samantha non guardarmi così! Non ho idea di cosa pensi, sento che ha paura, e mi spiace se ha frainteso le mie parole, e Tony: il cortese ragazzo d’oro sta lì, lì, per affrettarsi a spiegare, per dissipare ogni equivoco. Ma Edgar... si Edgar! Cavolo è il mio nome! Lui vuole prendere a pedate il culo di questo insulso vetturino, scaraventarlo nella polvere del viale, e guidare questo trabiccolo e i suoi puzzolenti cavalli fino al più vicino hotel, lasciarlo in mezzo alla strada e, trascinarla su, per una rampa di scale, prenderla in braccio, varcare una soglia, e poi, molte altre, fino a che l’oblio non prenderà tutti e due, e dopo non preoccuparsi affatto del resto...perché la sua espressione da coniglietto spaurito risveglia il predatore che è in me. Decido per una via di mezzo. Siamo seduti vicini, l’attiro contro abbastanza rude, lei spalanca gli occhi, io la bacio talmente violento che le lascio le labbra gonfie e rosse. L’ho assaggiata, risucchiata, esplorata la sua bocca. E non le ho chiesto il permesso. Con una mano stringo ciocche di capelli che le ho scompigliato sull’orecchio, sposto la labbra e le mangio zigomo e quest’ultimo soffiandoci dentro: «Okay, è ora di scendere, perché Isy ti devo parlare sul serio, e non pensare che ti lascerò scappare stavolta Samantha! Ti ho presa. Sei mia!».
Ansimava ancora, mentre, balbettando confusa dalla mia irruenza, mi rispondeva: «Ok...Okay...non vado da nessuna parte!». Anzi, ansimavamo insieme. I nostri toraci si scontravano a ritmo e, il tocco del suo, morbido e avvolgente com’era, mi stava definitivamente facendo perdere il controllo. Carezzala. Lo ripresi alla fine: a stento però. Mi staccai, attirai l’attenzione del tizio che aveva l'ipod nelle orecchie, pagai quello schifo di corsa in calesse e scendemmo nel sole del pomeriggio inoltrato. C’era poco tempo. Fortunatamente non avevo scelto il punto in cui smontare tanto a caso: conoscevo Central Park, ed era da cinque minuti che sapevo dove far fermare la carrozza. Presi Isy per mano e ci inoltrammo per i viali verso il lago. Prima di arrivare al pontile delle barche a nolo notai un piccolo boschetto: un po’ arretrato svettava in cima ad una collinetta e, conducendo su questa, vi serpeggiava nell’erba un sentierino di ghiaia bianca che spiccava nel verde dell’erba curata. Sperai, con tutto me stesso, di trovare deserto l’angolo che avevo scelto, c’era un mucchio di gente in giro, e tante coppie. Quando, due alberi, in cima al declivio che avevamo scalato, rivelarono l’entrata ad una piccolissima radura con un salice e una panchina vuota, buttai fuori un sospiro di sollievo. Perfetto. Era tutto come me lo aveva descritto Jason. In quel particolare posto non c’ero mai stato fisicamente, ma l’avevo -diciamo così- visto nei ricordi vividi raccontati da mio fratello. Quattro anni prima per le vacanze eravamo a N.Y. City: era la città di origine di mio padre.
L’appartamento di famiglia in Medison Avenue era ancora là, con i suoi stanzoni vuoti e la vista mozzafiato della terrazza sul parco e la skyline. Ma non ci avrei portato Isy, volevo un posto nostro, niente summa di ricordi, doveva essercene soltanto uno. Il ricordo unico di noi due. Jas aveva, probabilmente, scovato la radura dopo qualche perlustrazione, ipotizzai conoscendo la sua attitudine alla strategia, e, avrebbe voluto condurvici Maggie: la ragazza che, all’epoca in cui era solo un sergente maggiore, era il suo superiore. Questa, dopo una relazione breve, in cui Jason aveva creduto che si arrivasse a qualcosa di serio, si era rivelata per ciò che era, una cinica ragazza per cui l’amore si riduceva al solo sesso, e così Jas l’aveva lasciata, fortunatamente con pochi rimpianti. La radura probabilmente era rimasta nei ricordi di mio fratello come un sogno e, un giorno di quell’estate, me ne aveva accennato. Stavamo eggiando con i miei genitori e Reb per il viale che portava allo specchio d’acqua. Papà voleva affittare una barca: Beth amava il lago. «Edgar...vedi là su?» Jas mi aveva indicato la collinetta. «Dentro il boschetto c’è un piccolo spiazzo con una panchina sotto un salice piangente...sembra l’illustrazione di una fiaba». «Come lo sai?» «l’ho scovata quando cercavo un posto per proporre una cosa a una ragazza». «Maggie?» avevo fatto un sorrisino storto, non mi piaceva quella tipa vista un paio di volte in caserma da Jason. «Sì, ma non è andata...Maggie non fa per me, cucciolo!» Dicendo così mi aveva scompigliato i capelli. «Non sono un cucciolo, Jas! Ho quattordici anni, sono alto già come te, e ti ho battuto due volte nel corpo a corpo!» Mi ero divincolato dal suo gesto affettuoso,
odiavo essere trattato da ragazzino. «Mmh presuntuoso. Sei sicuro che non ti abbia lasciato vincere?!» Mi sorrideva sornione in faccia e io sbottai: «Ce la porterò io una ragazza lassù. E sarà mille volte meglio di quella Maggie!» «Ma certo! Non dubito che sarà così Eddy!». Jas aveva riso forte, ma le parole erano suonate serie, mi aveva abbracciato smontando la mia bellicosità adolescenziale, e poi, era andato a comprare gli hot-dog, da portarci dietro nella nostra barca, mamma e papà ne affittavano sempre una solo per loro...
Ritornai al presente. Adesso li capivo eccome... Arrivati alla panchina Isy mi fissò interdetta, e la tirai facendole capire che volevo sedermi. Ma lei sciolse le dita nelle mie e corse ad addossarsi al tronco del salice.
Samantha
«Okay...dejà vou, che mi devi dire Tony? Comincio a conoscerti...già sono nervosa, non uscirtene adesso con altre dichiarazioni! Quella d’amore me l’hai fatta, e ti giuro che non reggo qualcosa di altro tipo adesso!». Dio! Ma perché era sempre così imprevedibile e nello stesso tempo uguale a se stesso? Avevo capito, c’era qualcosa di molto importante se aveva messo su quel teatrino: tutto mi riportava a quel pomeriggio dietro casa mia, e, dato che le cose belle me le aveva già dette, tornò un guizzo di paura, ma lo ricacciai.
Sei una sciocca. Il suo bacio sulla carrozza mi aveva detto che, poteva crollare il mondo, scoppiare il sole, potevo farmi una videoteca nella testa, ma il ragazzo di fronte a me mi amava, o meglio: bramava. E conoscendo un pochino Tony...beh, questo, doveva andare di pari o con un vulcano di sentimenti. Allora cos’aveva in mente? Non mi aveva risposto, era di spalle e si stava dirigendo a sedersi, ma strisciava i piedi nell’erba, il o era stranamente pesante, saettai lo sguardo al suo mento: era curvato verso il basso e capii. Sì, ormai lo conoscevo. L’avevo ferito. Cavolo! Ma cosa ho detto?! Niente! Mi montò la rabbia, alimentata da un milione di ormoni in subbuglio risvegliati da quel bacio alla Cenerentola. Le ali ai piedi: ecco cosa avevo. Correvo verso quella stramaledetta panchina dove si era seduto di spalle a me. Mi accovacciai davanti alle sue ginocchia, e lo presi per le spalle scuotendolo malamente: sapevo di avere le fiamme della furia negli occhi. «Cavolo Tony! Che hai capito?!» scuotevo la testa proseguendo irritata: «Non mi va di badare alle tue tare mentali! Io ti voglio, tu mi vuoi, siamo insieme, che c’è? Testone?!». Lo fissavo e il suo viso era sempre chinato, poi lentamente le palpebre si alzarono e gli occhi incontrarono i miei: erano così delusi! Tristi che... Dio, non guardarmi così! Un cane bastonato: il soldatino perfetto, un cucciolo indifeso! Che... mi smuoveva nel profondo dell’anima. Due lacrimoni mi rotolarono giù, avevo perso tutta la mia bellicosità.
Gli afferrai il viso attirandolo verso di me, ma lui abbrancò i miei avambracci tirandoli giù.
Edgar Anthony
Cosa provavo non lo raccontavo nemmeno più a me stesso. Ero disilluso, ciò che sapevo essere la verità, ma tentavo di nascondermi, mi aveva preso e disincantato. Non dubitavo di Isy lei mi amava tanto, lo sapevo e l’amavo anch’io. Vivevamo in un mondo reale dove -grazie a Dio- c’eravamo trovati. Ma quella piccola parte di me, catapultata nei sogni e in tutti quei valori, spesso anacronistici, di cui avevo respirato l’aria fin da bambino, fantasticava il suo momento: che se ne fregasse della realtà ed entrasse nell’onirico in grado di tramutare il cinico presente. Io avevo, per mero destino, la possibilità di trasformare l’ordinario in straordinario e donarlo ai miei sogni. Ma non erano anche i suoi, e, quella parte di me, quel desiderio, doveva fare i conti con questo. Ci stavo male, ma mi sarebbe ata, era un falso problema solo mio. La realtà era straordinaria comunque. Eravamo in due, questo contava. Eppure, mentre lei mi denudava dei miei rimpianti attirandomi a se. Beh, non ce l’avevo fatta. Edgar Anthony era questo: un misto fra razionalità e sentimento e, non mi andava di indossare la mia maschera imperturbabile proprio adesso. Unirsi non era un fatto solo fisico, e io ero già dentro di lei, e non riuscivo più a nascondermi. Ma sapevo che dovevo provarci. La realtà è la realtà. La fantasia: la fantasia.
«Scusa Sam, non piangere amore, hai ragione sono un cretino, e, mi a, okay? Dammi un minuto». Mi alzai ficcando le mani in tasca e incontrai qualcosa di solido. L’astuccio. Mentre lei si preparava per il viaggio ero ato da casa per dire agli zii che dovevo partire con Pat a causa di certi documenti da firmare per l’eredità di Peter, e, avevo preso l’anello di fidanzamento di Beth. Mia madre ne aveva fatto fare una copia quando era nato Jas, e poi un'altra, quando ero nato io. Lei non poteva separarsene, ma voleva, che portassimo con noi tutto l’amore di nostro padre, e che fossimo pronti a donarlo a chi avremmo amato. Mia madre era sempre stata una romantica, e lo era tutt’ora. E io le somigliavo fin troppo. Lo avevo con me a Winter Harbor perché sarebbe dovuto essere di Pat, ma non ero riuscito a darglielo, una menzogna non poteva portare quel sigillo, e così, all’epoca, le avevo comperato un altro anello. Adesso premeva contro le mie dita, e, nello stesso tempo, il piccolo involucro piatto di alluminio nella tasca posteriore dei Jeans, quasi avesse preso vita: bruciava la mia pelle. Ricordandomi la sua presenza e il suo compito. Razionalità, realtà, maturità, contro: sogno, pazzia e immaginazione. Vinceva la realtà, ed era giusto così. Anche se noi due, per me, eravamo fuori dagli schemi di questo mondo, e avevo cercato di lottare perché li prevaricassimo in qualche modo, con coscienza, ma anche con irrealtà. Irrealtà. Lei, non doveva saperlo, ciò che ero tanto pazzo da sperare. Aprii gli occhi che avevo chiuso scuotendo la testa a questi pensieri. Ero
finalmente sveglio. Mi girai, era rimasta interdetta davanti a me. E poi mi spiazzò: «Cos’hai in mano?» proruppe improvvisamente in un gridolino strozzato. Stringevo ancora l’astuccio dell’anello nella tasca davanti dei pantaloni, e il gesto si notava attraverso la stoffa. Spalancai gli occhi, tirai fuori la mano con la scatolina, e svelto l’alzai sopra la testa, agitandola come un sospettato che si stava discolpando. Demenziale! Ma in quel momento non c’era comicità nel mio mortale imbarazzo. «Ehi! Che pensi?! No...io, cazzo! Ma che dico?! No! ...no, no...no! Non facevo niente! E’ solo questa! Vedi?! Avevo in tasca questa!». Mostrai meglio il contenuto del mio palmo porgendoglielo agitato. Lei ridacchiò della mia aria completamente ridicola, ma solo per un attimo. «Veramente, proprio quello che vedo, sospettavo...non dirmi che è... Oh Mio Dio!». Si era portata una mano alla bocca...alla gola, sembrava soffocasse. Mi si avvicinò, piantò quelle iridi grigio argento come laghi di montagna, nel mio sguardo, e mi accusò: «Tony che ci fai con un astuccio da anello in tasca?!». Voltagabbana era il mio secondo nome, pensai, perché, ero ato nello spazio di un secondo da deluso romanticone a cacciatore di nuovo. Aveva una tale luce negli occhi mentre pronunciava la sua accusa! E io...ancora un po’ scaltro, ed esperto di azioni e reazioni, lo ero. Sempre che, lasciassi filtrare la ragione, in mezzo agli ormoni e ai sentimenti impazziti a causa sua. Samantha era sorpresa, ma emozionata.
Forse... Attacca Somerset! «Suppongo...quello che ci farebbe ogni uomo che ti ama alla follia Isy! E vorrei essere il primo e, l’ultimo, a farlo!». Adesso la stringevo contro il mio petto: una stretta talmente serrata che le mozzava l’aria nei polmoni, e, difatti, ansimava con me, perché, l’ossigeno mancava anche nei miei, ma era solo un effetto trascurabile, non l’avrei mollata di un centimetro. Non ora. «Sei...sei impossibile Tony! E’ questa la dichiarazione? Ma sei pazzo?!» scuoteva furiosa la chioma mimando un diniego. «E poi...insomma...io non è, che ti chiedo questo per ...insomma...non ti ricatterei mai così!». Adesso il volto era fermo, e i grandi occhi da coniglietto mi scrutavano sinceri. Mi spiazzò di nuovo: si sente in colpa? Crede che mi stia costringendo a un gesto che non voglio credendo così di compiacerla? Pazza, adorabile pazza. Le baciai il naso, eravamo così serrati che bastò chinarmi un po’ per incontrarlo: morbido e avvolto nelle mie labbra. «Ricattarmi? Ehi amore...ma che dici? L’idea è mia soltanto, e non c’entra in realtà con te, ma con me ti voglio agli occhi del mondo, anche se fosse per un solo giorno. Che ti voglio in tutti i sensi possibili e immaginabili in questo giorno, indipendentemente, da ciò che faremo o meno. Ma se lo vuoi, annulliamo tutto prima di tornare...sarà una parentesi che non diremo a nessuno...se veramente lo desideri». «Ma che dici?! Oooggiii?! Tu mi vuoi...spos...Oddio! Sposare Oggi?! Ma sei uscito di testa?!» Di nuovo il dolce e ribelle scuotimento di capo, la lasciavo parlare, mi godevo tremendamente il momento. «Ma...ma... poi come è poss...possibile?! I documenti, e tutto il resto?!».
«Mmmh le conoscenze di mio padre aiutano, ho organizzato tutto, se vuoi, è fattibile amore, e dopo la decisione sarà tua, lo possiamo annullare oppure no» sottolineai il no con un bacio, o meglio un morso dolce e lento alle sue labbra aperte in una ‘o’ di sorpresa. «Smettila! Sragiono così!». «Mi sa che l’idea è proprio questa in effetti: farti smettere di pensare amore!». Ah che liberazione! Il Tony fifone pieno di sensi di colpa era sparito, restava il predatore. Restava Edgar. Bella mossa soldato! Ora ti riconosco! Ero tronfio e soddisfatto come un gattone col topino fra le zampe. Quel topino mi guardava con un desiderio, un incredulità e un amore da farmi sentire un Dio. Vieni da me...piccolo coniglietto. Un altro contatto: le mie labbra che le sfiorano le palpebre, che le costringo a chiudere, la fronte, le guance, le labbra... Stringo di più la stretta sulla sua schiena, incrocio le mani: in una c’è ancora la mia promessa fatta di sostanza tangibile, ma nella mia carne che freme c’è quella fatta “della materia di cui sono fatti i sogni” ed è una sostanza indistruttibile. «Che rispondi Isy?» parlavo dentro la sua bocca. «Sei...pazzo e io...beh mi hai scoperta! Io amo i folli!» lei rispondeva nella mia. Cademmo in ginocchio senza accorgercene, forse le gambe, molli di desiderio, avevano ceduto a tutt’e due. Quando Sam, fece per rialzarsi, io non la seguii, aprii l’astuccio e glielo porsi, ma lei mi piantò addosso uno sguardo, tormentato, grato, dolce e...e...non so che altra miriade di sentimenti vorticosi luccicassero in quel mercurio liquido
bollente; ma, mi strappò l'astuccio di mano, e con l’altra, mi artigliò il ciuffo della frangia con forza mentre mi costringeva ad alzare il viso e mi baciava. Adesso la predatrice era lei. Mi ero alzato...e il resto di ciò che potevo ricordare era una nebbia rossa in cui si erano confuse risate, baci, corse in taxi. Ed eccoci arrivati di fronte al Giudice Phillips...fuori un ragazzo educato e composto, dentro stessa confusione indistinta. Poche formalità, tante pacche sulle spalle, qualche occhiata maliziosa, ma niente battute fuori luogo. Quest’uomo conosceva bene mi padre e, credo immaginasse, fossi simile a lui anche all’interno; e per questo ci aiutò con sollecitudine. Oppure, forse, perché davanti a lui c’erano i ragazzi più emozionati e felici della terra. Strano, credevo di essere più che controllato all'esterno. Ma magari, anche questa volta, mi sbagliavo. «Con i poteri conferitemi dallo stato di New York, vi dichiaro marito e moglie». Nebbia rossa nel cervello come il drappo di un torero. La realtà circostante era sparita dissolta da quelle parole. «Puoi baciare la sp...Dio Santo! Soffocherete! Okay, okay, ragazzi! Fuori di qui prima che vi sbatta fuori! O meglio, dentro, per oltraggio al pudore! E alla corte!». Scoppiammo a ridere mentre ancora eravamo con le bocche occupate. Ci staccammo, gridammo un “grazie” che poteva somigliare nel tono a quello di due bimbi grati a chi gli dava caramelle proibite dai genitori, e scappammo via come il vento. Altro taxi, altra nebbia purpurea. Ma quando dissi alla receptionist dell’Hotel «I signori Somerset, abbiamo una prenotazione. Il bagaglio dovrebbe essere già stato mandato dal kennedy».
La mano di Sam iniziò a tremare nella mia, e la mia nella sua. «Perfetto, attenda... Sì, bene, Signori, avete la suite 04» La donna, da dietro le lenti sottili dei suoi occhiali da riposo, ci scrutava: eravamo giovani per essere una coppia sposata. Immaginavo pensasse che fossimo due ragazzini ricchi, in trasferta nella grande mela per sarsela un po’; ma spalancò gli occhi quando vide le fedi, e, l’anello di mia madre, all’altro anulare di Isy... Samantha, mia moglie. A quel pensiero istintivo, una specie di ondata bollente mi salì su per le gambe, fui grato che, il ragazzo chiamato per accompagnarci all’ultimo piano, si fosse mosso per precederci all’ascensore. Tutto l’hotel era stato costruito ristrutturando una porzione di un vecchio grattacelo nell’Upper East Side. Gli arredi erano hi tech con vari tocchi di colore squillante. Ma l’avevo scelto perché aveva una terrazza giardino di cui parte riservata alle suite. Il nostro Eden personale in mezzo alla caotica realtà. Forse non ero sveglio e stavo ancora sognando...ma adesso, finalmente, insieme a lei.
Samantha
Guardavo il mio riflesso nello specchio e mi sentivo ridicola con indosso il famoso regalo che mi ero voluta portare: il babydoll, azzurro cielo, donava alle mie forme una finta aria innocente, scoprendo strategicamente più che coprire. Era lingerie di lusso e, faceva bene il suo lavoro, in modo discreto e provocante insieme. Scrutai la mia pelle e, arrivata alle gambe, benedissi il cielo in una muta preghiera che, il mio essere chiara di incarnato, si fosse tramutato -nel caso dei peli superflui- in una lanuggine quasi inesistente, spazzata via dai pochi colpi di rasoio che mi ero data mentre mi preparavo a partire.
Mi spazzolai i capelli con forza, tentando di vincere il cuore impazzito. Ero decisamente dissociata. Insomma, l’alba ata con Tony allo chalet dei Carlton, aveva lasciato dietro il ricordo dei nostri corpi nudi, e di una certa intimità. Sbuffai per quell’occasione mancata, che, con il suo esito incompiuto, mi rendeva adesso un fascio di nervi. Non avrei dovuto essere così imbarazzata. Lo ero. Un colpo di spugna aveva spazzato via tutto, sembrava esattamente, una vera e propria canonica prima notte, di quelle al buio. Di quelle in cui non sai cosa ti aspetta e hai pudore di mostrarti per la prima volta senza difese. Lo era. Era una prima notte di nozze. Di nozze! Ma si può?! Sto con un matto...io ho sposato un matto! “E’ pazzo! Questo è psicopatico. E io che faccio? Gli rispondo pure! Sono da neuro!” Ricordavo esattamente cosa avevo pensato quando Tony si dichiarava. Sì, sono da ospedale psichiatrico, perché è mio (Finalmente!) Edgar Anthony Somerset è mio, e adesso lo voglio tutto! Spalancai la porta del bagno come una furia, Tony stava alla finestra, in piedi, di spalle, inguainato nei suoi Boxer elasticizzati scuri, le braccia conserte intorno al corpo: sembrava volersi stritolare per bloccarsi da solo e costringersi a stare buono. Questa bella descrizione me l’ero fatta nei secondi che mi ci vollero per abbracciarlo da dietro. Il pizzo della biancheria di seta sul mio seno frusciava contro la sua pelle, e la
mia reagì al contatto e si inebriò della sensazione, del brivido che salì su per il mio corpo. Lui sentì quella carezza, mille bollicine affiorarono per un attimo sulla sua schiena. Sì, decisamente, era tutto nuovo. Sorrisi, lui si girò tenendomi una mano e facendo in modo di non staccare il contatto, cosicché, il movimento, lasciasse una scia di fuoco non solo nella mia carne ma anche nei suoi occhi che fissavo: smeraldi traversati da un fulmine rosso. Mi piacevano. Mi piaceva come mi facevano sentire: nuda. Maledissi la pessima idea di pescare proprio oggi nei falsi pudori. Volevo strapparmi quel velo turchino da fatina sexy e restare solo Samantha davanti a lui. Niente più elucubrazioni mentali. Naturale era esserlo. Naturale doveva essere.
Edgar
«Mi sento abbastanza burattino tirato dai tuoi fili, ma non sono di legno Isy... hai deciso di farmi morire arrostito nel camino di Mangiafuoco Fata Turchina?». Lacerare quel velo color cielo... «Ho deciso di renderti pan per focaccia, Mister Fantastico in calzoncini aderenti!». Mi spiace se ti piacciono perché non li indosserò per molto... «Beh, la festa in maschera è finita...è ora di andare a letto». La presi in braccio, e pochi secondi dopo c’era solo la nostra pelle, e noi due, fra i lenzuoli di seta della notte.
Samantha
Nel mio sonno inquieto fatto di labbra che sfioravano il mio corpo che si raccoglieva e rilasciava dopo il contatto, ripresi coscienza della realtà, avvampando puerilmente. Un dito sveglio, nonostante la stanza fosse immersa nel buio e, dalla porta finestra schermata dalla veneziana, provenisse solo un fioco bagliore, segno che, probabilmente, doveva essere piena notte, si beffava del fatto che dormissi (ed era così fino a poco prima) e tracciava pigri arabeschi sul mio seno destro. Ecco la ragione dei miei sogni e, del mio poco casto, risveglio. Schiaffeggiai quel dito sonoramente, e di fatto colpii, per lo più, il mio seno talmente teso da dolermi. «Ahi!...tutta colpa tua!» sbuffai. Una risatina sommessa nel buio, tremendamente sexy. Il corpo riacciuffò il sogno e mi disse: “forza ragazza agisci!” Non lo vedevo, di fatto ero col capo sul suo torace, le sue braccia circondavano le mie spalle. «Attenta amore...ti fai male!» un tono condiscendente falso come l’aria imperturbabile con cui aveva condito l’esclamazione. Non mi incantava: era teso anche lui. Sembrava essersi tramutato in roccia di lava. Dio bolliva! E bollivo anch’io! «Mah, non senti caldo?». Scalciai via, come una cavallina bizzosa, tutto il lenzuolo, che, scivolò, a
lambirci solo i polpacci e i piedi. Era buio ma un certo chiaroscuro c’era e mi irretiva. Meglio girarsi. Mossa pericolosa oppure no... a secondo dei casi. «Hai ragione Samantha...ho caldo anch’io!» il suo tono non aveva adesso più nulla di dissimulato. Poi ricordai la determinazione di poco prima: avevo ottenuto lo scopo senza neanche rendermi conto di agire. Mentre, un altro corpo si incollava al mio e, faceva sublimare spigoli e curve creando la sinuosità perfetta, chiusi gli occhi, e poi tornai a sognare, bruciavo ancora, ma il suo respiro asciugava e rinfrescava la pelle... almeno fino a quando non l’assaggiava, per poi ricominciare tutto da capo.
Edgar Anthony
«Toc, toc». Maledizione! Ho scordato il cartellino: “do not disturb”!
Samantha
Uh, e adesso?... Eh?... No! Non ti muovere! No, e poi...No!
Edgar Anthony
Dio è matta! Proprio una magnifica paz... e sa cosa voglio! «Toc. Toc. Toc». «La colazione, Signori». «Toc... » «Lascio fuori». Perfetto, almeno non è uno stupido... ero rimasto qui, sì proprio qui.
Samantha
...Niente più distrazioni!
Edgar Anthony
Riemersi una decina di minuti dopo dalla terra del piacere, cercando di collegare qualche neurone annegato nell’appagamento. «Mmmh... Ehi signora Somerset, non hai fame?». Caz... Ma che fa?!
Samantha
«Mmmh, sì...quel “Signora Somerset” fa tanto mia nonna, ma è sorprendentemente sexy detto da te». Era vero, avrei dovuto rabbrividire al senso di quelle parole, adesso che ero, diciamo, più o meno sveglia, e mi ritrovavo sposata! Eppure no! No! Rabbrividivo, perché aveva smesso di toccarmi e adesso sentivo un po’ freddo, e cercavo calore. Stavo barando, rabbrividivo, non per il freddo, ma per la scossa che quelle parole avevano ri in me. Ma, in guerra e in amore tutto è permesso, no?! E poi eccolo qui: il ragazzo che stavo tormentando nella luce accecante del mattino (avevo aperto le veneziane con un fichissimo telecomando!) bicipiti, quadricipiti, tartarughe, labbra piene e rosse dei miei morsi, e... due fari: “verde speranza di ricominciare”. Non me la dava a bere, e non la bevevo, anzi ne approfittavo: poteva cascare il mondo fra un ora, ma mentre ero viva, qui con lui, mi sarei goduto Tony Somerset finché avevo fiato! Eh sì! Ragionamenti poco romantici! Quella porzione del mio cuore era satura, perché in vari flash notturni, insieme al sesso, c’era stato quanto di più appagante e dolce un sentimento potesse dare: frasi e tenere carezze così, mi sarebbero albergate nell'anima per l'eternità. E forse non avrei mai trovato le parole giuste per raccontarle a me stessa. Quindi, dato che quel comparto straripava, continuavo a concedermi di stipare l’altro (ione sfrenata) fino a quando non saremmo crollati. Ero in piena modalità ninfomane.
Okay, okaay! Lo ammetto! Ma gli diedi un'altra occhiata. Dio credo che chiunque mi avrebbe capito! E io mi beavo di far crepare d’invidia qualsiasi ragazza potesse immaginarsi con lui. La mia autostima stava crescendo alimentando il desiderio e viceversa. Insomma, perché stare a rimuginare? Il mio motto da ieri sera è agire!
Edgar Anthony
«Sam dai! Smettila...potrei darti ancora retta, ma... esiste un mondo la fuori...e per il giorno ho altri piani» sì, che ne ero in grado, di darle retta, specie adesso che era partita all’attacco peggio di una pantera, e io poveraccio stavo soccombendo. Era uno sballo potente la mia Isy...ne volevi sempre di più!
Samantha
«Io invece no!» strinsi le cosce intorno a lui. Eh si! Gli ero saltata addosso. Certo che poteva darmi ancora ascolto, e lo fece. Un sorrisino soddisfatto e malizioso m’increspò le labbra prima che smettessi di
pensare.
Edgar Anthony
Alle otto e un quarto il mio Iphone trillava, cercando di ricordarmi che era tardi e dovevamo sbrigarci. Il volo prenotato partiva alle nove e mezza. «Isy... mi ascolti? Ho una sorpresa, e me la stai facendo saltare». «Sorpresa?! Ancora?!» si era alzata su un gomito mentre (meno male! Non sono mica soprannaturale!) mi concedeva due minuti di break, in cui io, me la savo a coccolarla e mandavo a farsi friggere il time out, perché la dolcezza mi attirava come la malizia, ma, insomma, m’imponevo di riposare qualche istante, o davvero mi avrebbero ricoverato. Le riavviai una ciocca arruffata dietro l’orecchio. «Che sarebbe un matrimonio...senza una luna di miele alle cascate del Niagara?». Samantha, alle mie due ultime parole, era schizzata su in ginocchio, sgranando gli occhi mi fissava, la cortina dei lunghi capelli le calava sulle guance attirata dalla gravità. Era al mio lato destro, al mio fianco, e da dove stavo supino... beh la vista era mozzafiato. Bah! Se mi viene un infarto, almeno morirò felice... «Beh, magari prendiamo il volo successivo...vieni qui mogliettina!» così dicendo le afferrai un polso e perse l’appoggio.
Arrivammo a Niagara, con un po’ di ritardo nella tabella di marcia, e, con lo stomaco vuoto, non eravamo riusciti a fare colazione, e la sera prima non
avevamo cenato, ma sospettavo che avessimo poca di quella fame e troppo di un'altra. Ma ero tutto tronfio e pronto a far onore al menù, quando riuscimmo a pranzare prima dell’escursione alle cascate. Di fronte a me c’era una ragazza di diciotto anni, di fronte a lei uno di diciannove, ma nelle mie viscere c’era un amore immortale e, adesso sapevamo, che eravamo una cosa sola in tutti i modi in cui potevano fondersi due cuori, due menti, e, due corpi che si erano ritrovati come i nostri: naufragati nella burrasca ma salvati e uniti per sempre. Le presi la mano sopra il tavolo, lei la ritrasse ridendo imbarazzata. «Okay beh...penserai che sono ninfomane, credo, ma evita di toccarmi Tony, o meglio di guardarmi così, ho una soglia bassa di autocontrollo, ora come ora». «Io penso solo che ti amo Isy». Rialzò il mento, che aveva abbassato per timidezza avvampando, e mi scrutò nell’anima. «Anche io Tony, tanto» adesso fu lei a cercarmi la mano, e la trovò, leggermente tremante, sulla stoffa della tovaglia rossa. Forse non ero mai stato più felice di così, chiusi gli occhi lasciando che, quest’attimo si sedimentasse in me, e divenisse parte integrante di chi volevo essere, e di chi sarei stato per sempre. Per sempre suo, nel bene e nel male. Finché vivremo e anche di più. Adesso, sono tornato al presente, anche se la mente è ammantata dai ricordi troppo vividi. Adesso sotto la cascata di milioni di gocce. Sotto lo sguardo incredulo di quel fotografo. Sotto il suo sguardo di ghiaccio bollente che, prometteva dolcezze alla mia carne, Isy aveva accettato di rimanere mia moglie.
La presi per la vita sollevandola e facendola girare, la gomma degli squallidi impermeabili gialli, che ci avevano costretto ad indossare, gemeva strusciando. Io sentivo solo la sua risata felice e divertita. Terminai il giro facendola scendere a terra di fronte a me, ma solo per imprigionarle il viso e baciarla lentamente, profondamente, con devozione: come una sposa davanti ad un altare. E come invitati a un matrimonio: il piccolo gruppo di escursionisti che aveva assistito ci omaggiò di un applauso e qualche giocoso fischio. Sentii anche il click della reflex del fotografo. Avrei comprato quella foto, e l’avrei conservata nel portafogli: insieme con me, ad un o dal mio cuore, per sempre.
Epilogo
Edgar Anthony
«Isy... sarà un inferno senza di te... dobbiamo stare insieme, sei mia moglie!» Mi guardava con quei suoi occhi dolci e determinati insieme, e nel fondo caldo e avvolgente, lo coglievo un guizzo di dubbio. Se avessi insistito con le proteste... Ma dovevo arrendermi, le avevo promesso che le decisioni sul futuro del nostro matrimonio, sarebbero spettate e a lei, e, io ero estremamente corretto, forse troppo. Se solo avessi previsto il futuro...e gli errori della mia rigidità morale, ma non fu così purtroppo. «Tony... Ted impazzirà... mi serve un po' di tempo, magari fino al diploma, poi glielo diremo... così sarà meno traumatico per lui, infondo sarei andata via comunque per il college. L'ho fatto impazzire di preoccupazione con i miei comportamenti assurdi. E glielo devo Tony». La presi fra le braccia e la baciai sulla sommità del capo, il corpo s’incendiò riconoscendola, volendo fondersi con lei. Ma deglutii, respirai a fondo, e le dissi: «Okay, amore, hai ragione, scusa se ho insistito». Giuro che volevo essere solo dolce e comprensivo, ma l'ondata di calore e desiderio era tremenda, già il mio fisico si ribellava, all'idea di non averla tutta per me, nel buio della notte o nel sole nascente dell'alba. «Però preparati a diventare un abile bugiarda, perché...ci aspettano parecchie fughe: solo per noi due, mogliettina!» adesso la mia voce era un sussurro roco ed urgente.
«Beh... questo era implicito!... Oh, Tony!». Ringraziai di essere nel piazzale antistante villa Carlton, dove poteva arrivare chiunque, sennò sarebbe stata dura inventare subito un’altra credibile menzogna, come anche assecondare i desideri di mia moglie, diversi da quelli che le ardevano in fondo agli occhi e alla carne, che erano troppo uguali ai miei. Com'è che si dice? “Dio li fa e poi li accoppia”. Molto azzeccato! Uno scalpiccio alle nostre spalle: Edgar e Reb avanzavano dal vialetto ancora sorridendo per qualcosa di piacevole che si stavano dicendo, ma appena ci scorsero ammutolirono. Sciolsi l’abbraccio, ma tenni Isy per mano: una mano senza anelli, che odiavo in lei, quanto in me stesso. Adesso, sotto lo sguardo indagatore di mio cugino, volevo più che mai che la nostra unione fosse di dominio pubblico. Volevo rimarcare i miei domini, i miei diritti. Volevo rivendicare la mia donna, la mia compagna...mia moglie! Lei arrossì leggermente, e fu la prima a spezzare il silenzio. «Ciao Stev...Edgar...Reb, sto aspettando Amber: dobbiamo andare a scuola insieme stamattina, sapete... secondo i piani!». «Già, secondo i piani!» Edgar mormorò torvo la sua risposta, quasi a se stesso. Sam sussultò e, il rossore si fece più sulle sue guance, le lasciai la mano, la presi alla vita serrandola contro di me fulminando quel ragazzino. Mi ero sempre sentito più grande di lui, non so se dipendeva veramente dall’età o dalla maturità, o piuttosto dal mio orgoglio, ma in quel momento mi sentii davvero un uomo sposato: uno che, iniziava responsabilmente, la sua vita da adulto indipendente rispetto a lui. E, questo, diede al mio tono, ancora più condiscendenza, nel rispondergli torvo: «Mah smettila cugino!». «Tony...ti prego, non fare così!» Samantha adesso sussurrava agitata, guardandosi intorno mortalmente imbarazzata, ma questo, agì su Edgar più delle
mie parole dure. Riprese a parlare mordendosi un labbro ed evitando di insultarmi, (sapevo che stava lì, lì, per farlo) si rivolse direttamente a lei: «Scusa Samy, volevo dire...bentornata! Aspetta qui che, entro a cercare Amber, e te la mando, mia sorella non è quel che si dice veloce al mattino!». Sam gli rispose, timidamente, ma più sollevata, stringendo di riflesso le mie dita nelle sue: «Gra...grazie Ed-Edgar» ma lui sentito ciò, si girò subito verso Reb: «Vieni in macchina con me? Se Amber va con Sam, probabilmente prenderà la Mito». «Porto io Isy ed Amber!» lo interruppi. Mi era uscito un sibilo secco e perentorio, ma, per una volta, non era per la gelosia di Samantha. Da dove usciva quel tono confidenziale con mia sorella?! Nessuno dei due badò a me. «Certo Eddy» Rebecca gli rispose con uno dei suoi sorrisi migliori: in famiglia chiamavamo quella smorfia “il canto della sirena” perché non si poteva resistere a Rebecca Somerset se ti sorrideva così. Ed infatti osservai, sempre più cupo, Edgar che apriva la bocca come un ebete: per richiuderla, scuotere la testa e riservarle un sorriso storto. E, dovetti ammettere, che mio zio aveva fatto proprio un buon lavoro: ma lo sguardo era quello di Steve Moore, e ricordai che non era stato affatto un brutto ragazzo, tutt’altro. Questo cercai di scordarmelo subito dopo, per non assecondare, l’impulso irrazionale, di picchiare colui che aveva baciato per primo mia moglie. Ma, sorrisi alle ultime due parole che cantavano nella mia testa. Isy era solo mia. Adesso, contro, ogni buon addestramento all’autocontrollo dei Somerset, a Rebecca tremò il labbro inferiore, mentre restituiva il sorriso a Edgar con un po’ d’impaccio.
Ma perfetto! Mi ha inebetito “la regina di ghiaccio”!. Non potevo dire di esserne contentissimo: ero pur sempre molto protettivo con lei. Ma dovevo razionalizzare: che Edgar iniziasse a cedere un pochino al fascino di Reb, era un bene, e non solo per i sentimenti di mia sorella. Doveva dimenticare Sam... doveva starsene alla larga da mia moglie! Ancora, quelle due ultime parole, a sciogliere come nettare nella gola ogni groppo duro da digerire. Rivolsi il mio sguardo a Samantha, senza badare più a niente, e, sebbene parlassi a loro, vedevo solo lei. «Okay...allora io e mia m...Sam, andiamo ad aspettare Amber in macchina». Detto ciò, la presi per mano e la trascinai via, non badando che sia lei, che Reb, a quella “emme” sfuggita dalle mie labbra, erano sussultate. Che ci potevo fare?! Ero strafatto dalla felicità e anche io perdevo l’autocontrollo. Sorrisi a me stesso, e a lei, mentre, già seduto in macchina, zittivo le sue proteste preoccupate con un bacio...insinuando la mani sotto il golfino leggero ad accarezzarle...il solco della schiena, desiderando osare di più, e sapendo di avere tutto il diritto di farlo. Che sensazione stupenda!
Edgar [Circa quattro settimane dopo]
La guardavo, il viso, pieno di ampie chiazze di cerone bianco, cominciava a pizzicarmi, lei me lo carezzava: il copione diceva così, e, chi ero io, per mandare a monte le prove dello spettacolo? Quindi le restituii lo sguardo, abbagliato dai suoi riccioli biondi che, non erano frutto di una parrucca, come avrebbe voluto Miss Janette, la nostra coreografa; no, quei boccoli setosi erano veri come la ragazza stupenda fra le mie braccia: la più sensuale, la più sexy che avessi mai visto, nel suo succinto body di scena in stile retrò. Le mie membra erano già un incendio, e, non mi andava affatto di spegnerlo, cominciai a muovermi a ritmo di quel tango che prometteva ai miei sensi, già distratti da lei, un contatto più diretto. Sì, ballavo: la recita era un Musical. Sorrisi al fatto che Steve, avrebbe abborrito quella roba da femminucce. Le feci fare un giro con il casquè chinandomi a baciarla. Ma la scena prevedeva un bacio? Non lo ricordavo...ma ci stava talmente bene! Scollegai la mente e mi affidai solo all’istinto: all’intenso desiderio che, ormai da qualche tempo, mi invadeva quando Reb decideva di sedurmi, che se ne rendesse conto o meno. La baciai, e ribaciai e, la voce della Janette, che gridava “STOP” era un eco talmente lontano! La testa mi esplose, e dopo tutto, dopo l’abisso e il ritorno, il cielo nuvoloso si squarciò per far filtrare un nuovo intensissimo raggio di sole. Ma, non ebbi un déjà-vu questo era un astro diverso: lo sentivo, lo volevo, mi scaldava urticante di un fuoco mai provato. Qualcosa che non dipendeva dalla conoscenza, la mancanza, o la nostalgia. Qualcosa, nuovo, inaspettato e misterioso come un lampo blu: un fenomeno che non hai mai visto, non esiste, e non puoi aspettarti. Un lampo che vedo in quelle iridi cobalto che mi stregano e, il mio corpo
finalmente riconosce, urlandomi la verità: mi sto innamorando. No, io già amo, Rebecca Somerset! Dovevo solo ammetterlo, per una volta. La mia bocca famelica lo sta ammettendo: no, proprio gridando, sebbene, non ne esca nessun suono. La sua, esitante e arrendevole, sta accettando quell’urlo. Le mie mani stanno salendo, trascinando le sue senza staccare le labbra, mentre, da piegati, torniamo in piedi con un movimento fluido. La regista, non può far altro che salire sul palco, per dividere a forza quel bacio, mentre il resto della troupe lancia fischi e gridolini. Non sento la porta del teatro sbattere seccamente, non sento Mattew, mio fratello, che abbandona la platea. Ma... mi sarei fermato altrimenti? No, non l’avrei fatto: perché Steve è un ionale un po’ egoista, ed è lui che ha letteralmente “mangiato” le labbra di Rebecca.
***
Ringraziamenti
A questo punto di solito si rende omaggio a chi ha contribuito alla realizzazione e pubblicazione dell’opera, nel mio caso essendo un auto pubblicazione che ho curato in tutte le fasi io stessa credo che dovrò saltare questa parte e are a ringraziare chi mi è vicino e mi sostiene sempre e comunque. E poi ciò che rende viva questa storia: voi lettori che amate Beautiful Face Saga. Spero che il mondo intenso e dai sentimenti “estremi” che ho creato sia un regalo per chi non smette mai di sognare, perchè là fuori esiste chi ama così intensamente e penso che ognuno di voi possa incontrarlo.
Grazie di cuore per l'acquisto e il tempo che avete dedicato alla lettura di Beautiful Face - Choice.
Mara B. Gori
Note di Edizione.
Avete letto la #nuovaedizione (Dicembre 2014)
Se avete acquistato o scaricato in promozione questo Ebook da store online ufficiali accreditati, gli aggiornamenti di edizione sono gratuiti ed offrono sempre una nuova e migliorata esperienza di lettura con editing e riscrittura inedita.
Contatti Autore twitter facebook. Blog
Beautiful Face Saga Blog FB-Page Video
Beautiful Face Saga
Beautiful Face, #1 (1 Edizione ebook 2012)
Choice, #2 (1 Edizione ebook 2013)
Forever, #3 (1 Edizione ebook 2014 (I Parte))
Forever, #3 (Previsto 2015 (II Parte))
Altre edizioni:
Beautiful Face Saga (Raccolta 1 Edizione 2014)
Diventa Page Fan
Tieniti aggiornato sulle novità!
Valuta e commenta questo ebook GRAZIE :)