Le Migliori Fiabe Popolari Russe 2x2l2x

Le migiori fiabe popolari russe

A.A.V.V.

G.M. Editore – prima edizione digitale 2015 a cura di David De Angelis

Indice

Il principe e il mostro (Fiaba tradizionale)

La storia meravigliosa di Ivan (Fiaba popolare)

Garullo Citrullo (Fiaba tradizionale)

La città invisibile (Leggenda)

Ricciolo d’oro e Stella d’argento (Fiaba tradizionale)

La lacrima della vita (Leggenda popolare)

Il cavallo del principe Olieg (Riduzione da Alessandro Puskin)

I tre schiaffi (Riduzione da Alessandro Puskin)

Il ciabattino e l’angelo Michele (Riduzione da Leone Tolstoj)

Il giudice saggio (Riduzione da Leone Tolstoj)

Il principe e il mostro

“Il principe Albestre credeva di dover affrontare un solo gigante per liberare la bella prigioniera: e invece si trovò a.combatterne due; e il secondo, che era il più vigliacco, era anche il più pericoloso...”

Come succede sovente nelle antiche storie, c’era un Imperatore che penava e sospirava per il dispiacere di non avere un erede al trono. Tanto lui che la consorte pregavano il Signore di esaudirli, ma gli anni trascorrevano uno dopo l’altro e il figlio desiderato non giungeva. A un certo momento, la reggia sembrò addirittura in lutto strettissimo, tanto era priva di feste, di spettacoli, di lieti visitatori. Finalmente, l’Imperatore apprese che a poca distanza dalla capitale viveva un mago di grandi virtù: lo invitò alla Corte e gli disse:

- O sapiente mago, io non sono riuscito ad appagare il desiderio di un erede al trono. Puoi tu consigliarmi e aiutarmi?

Il mago consultò un grosso libro scuro che aveva portato con sé, poi rispose:

- Non è impossibile, o potente Sovrano. Occorre semplicemente che l’Imperatrice sacrifichi parte delle sue chiome per intrecciare con esse un cestello. In una notte di luna piena, essa dovrà attaccare il cestello al filo di un raggio di luna ; e all’alba successiva troverà la creatura che entrambi aspettate da così lungo tempo.

Quando il mago si fu congedato, l’Imperatore parlò della cosa con la moglie; e

lei disse:

- Sono disposta a tutto, pur di ottenere quello che desideriamo.

E si tagliò le grosse e bellissime trecce, intessé un cestello che pareva di seta, poi, nella prima notte di plenilunio, scese nel parco e appese l’oggetto a un purissimo raggio che dall’alto arrivava diritto sopra una pianta di rose. Figuratevi se dormì quella notte!... Ai primi chiarori dell’alba si precipitò nel parco e vide, dentro il cestello appoggiato fra le rose, un magnifico piccino che agitava le braccia e le gambe. Da allora, le cose mutarono alla Reggia: le sale si animarono di movimento, di risa, di gioconda letizia; l’Imperatore, la consorte, i ministri, i gentiluomini di palazzo, le donne, i paggi, le guardie imperiali, i cuochi, i valletti, i palafrenieri, le cameriste, il personale di fatica, tutti, insomma, non facevano che parlare dell’avvenimento, discutere sulle qualità fisiche del principino, vigilarne i primi i e i primi atteggiamenti.

Il fanciullo venne battezzato col nome di Albestre, a ricordo dell’alba in cui apparve nel mondo; e, crescendo, diventò sempre più bello e intelligente. Inoltre, la sua forza era sovrumana: un nuovo Ercole, benché non fosse un gigante. Ancora bambino, riusciva a stendere al suolo cinque uomini normali; adolescente, fiaccava i tori afferrandoli per le corna; giovinetto, affrontava i leoni e li uccideva soffocandoli con le mani. La fama di un tale fenomeno si diffuse ben presto nei Regni vicini e lontani; e venne un giorno alla Corte un messaggero di un Re dell’Oriente, che parlò in questo modo:

- O grande Signore della steppa, noi ti chiediamo una grazia.

- Per i ricordi di amicizia che mi legano al tuo Sovrano, sono disposto a concederla. Di che cosa si tratta?

- Il mostruoso gigante dalle sette teste è riuscito a rapire la principessa Valana. Nessun cavaliere del Regno ha il coraggio di affrontarlo, conoscendone la forza spaventosa e la ferocia selvaggia. Uno solo potrebbe vincerlo: il tuo figliolo Albestre.

- Mio figlio, infatti, non conosce la sconfitta - rispose l’Imperatore. - Ma deve essere lui a decidere.

Chiamò il giovane e gli raccontò la storia della fanciulla rapita dal mostro.

- Il gigante dalle sette teste? - gridò il principe - Me ne ha parlato il mago Sasi, descrivendomi la sua bestialità... Ho sempre sperato di poterlo incontrare e di misurarmi con lui.

- Ebbene - disse il padre - questo messaggero è venuto a pregarmi da parte del suo Sovrano, affinché io ti conceda di affrontare il mostro.

- Mi riterrò felice, se me lo concederai. esclamò Albestre.

L’Imperatore, fiducioso nella forza del figlio, lo lasciò libero di agire; e Albestre fece subito sellare il fedele cavallo bianco, indossò l’armatura, cinse la pesante spada e prese commiato dalla reggia. Galoppa e galoppa, percorse valli, superò montagne, oltreò campi e foreste, varcò la steppa arida, pernottò nelle città e nei paesi incontrati per via, e finalmente ai suoi occhi apparve la capanna del mago amico, sulla riva di un placido lago. Accanto al focolare, il saggio mago stava consumando un pasto frugale di pane e di cipolle.

- Oh, ragazzo caro! - mormorò - Non avvicinarti troppo, perché la mia pietanza ha un profumo piuttosto attaccaticcio... Quale vento turbinoso ti ha condotto a me dalla tua lontana terra?

- Mago Sasi - rispose il principe - mi ha condotto a te la necessità di un affettuoso consiglio. Io vado cercando il gigante dalle sette teste, che ha rapito la figlia di un Re amico dei miei genitori. Voglio incontrarlo e distruggerlo.

Il mago rifletté un poco.

- Non è facile impresa - disse poi - anche per un fortissimo campione quale tu sei... Neppure io conosco di preciso il luogo in cui si trova il mostro: so appena che abita dentro una enorme caverna che si dirama sotto terra. Comunque, posso indicarti chi è in grado di informarti con esattezza: a sei miglia più a nord c’è la foresta rossa; devi entrarvi, sedere fra le radici dell’albero più grande e chiamare con voce altissima: “Gigante Pardis, ti aspetto!”. Vedrai ben presto venirti incontro una torre di legno, che poggia su quattro enormi zampe d’aquila. Fermala a forza e ordina al gigante di uscire: egli ubbidirà e tu potrai chiedergli la strada per arrivare al mostro dalle sette teste.

Albestre ringraziò con effusione l’amico mago e si rimise in sella. Via a sproni battuto, non impiegò troppo tempo a entrare nella foresta rossa: lì, cerca e cerca, raggiunse un albero mastodontico che sembrava scolpito nel corallo, solitario in una larga radura. Il principe sedette fra le radici sporgenti e chiamò:

- Gigante Pardis, ti aspetto!...

Ed ecco, apparve al margine della radura la enorme torre di legno sostenuta da quattro zampe d’aquila: gli marciò addosso, ma le braccia d’acciaio del giovane la fermarono al punto giusto.

- Esci dalla torre, Pardis! - comandò Albestre.

Si spalancò tosto il portone massiccio e ne venne fuori un omaccione di almeno quattro metri di statura, grosso come un bue.

- Uomo, perché sei venuto a darmi fastidio? - interrogò con aria di sfida.

- Prima di tutto - esclamò il giovane procura di non mettermi le mani addosso: io sono la creatura più forte del mondo.

- Bugiardo: - brontolò Pardis - la creatura più forte del mondo si chiama Albestre, ed è figlio dell’Imperatore.

- Appunto! - disse il giovane - Ed è chi ti sta innanzi. Vuoi toccare i miei muscoli?... Sono d’acciaio. O desideri cimentarti alla lotta?

Il gigante dovette convincersi senza bisogno di provare, perché il suo tono cambiò:

- Oh, prode principe!... E’ per me un immenso onore conoscerti!... Tu sei una gloria degli uomini, il condottiero del nostro popolo!... Che cosa desideri?...

Sono a tua disposizione.

- Io sono alla ricerca del mostro dalle sette teste. Poiché tu ne conosci il rifugio, desidero che mi accompagni colà.

Pardis cominciò a tremare.

- O principe Albestre! - balbettò - Vedi... ti accompagnerei con sollecitudine... con entusiasmo... Ma sulla strada del mostro sta di guardia un drago giallo, che mi è nemico e vuole uccidermi e divorarmi. E’ per questo che io vivo al riparo di una torre di legno di quercia, senza troppo allontanarmi dalla foresta rossa.

- In mia compagnia, puoi stare tranquillo. Sollevò Pardis come un fuscello e lo adagiò fra i rami dell’albero.

- Vedi?... Non temo nessun drago. Ora scendi e cammina davanti al mio cavallo, indicandomi la via: voglio liberare ad ogni costo la principessa Valana, rapita dal mostro.

- Ho paura del drago giallo! - piagnucolò l’omone.

- Senti: ti ho promesso di difenderti. Preferisci forse che ti uccida io?

Quest’ultimo argomento persuase Pardis, che si incamminò a lunghi i. Percorsero l’intero bosco rossastro e infilarono un sentiero sassoso; al suo

termine, trovarono un fiume; seguendone le sponde, arrivarono alle falde di una montagna.

- E’ il Monte delle lacrime - disse Pardis.

- Dobbiamo salire lungo i viottoli fino alla vetta. Sali e sali, sbucarono di colpo sulla gobba del monte, spianata e brulla; e subito il cavallo nitrì a lungo e l’omaccione urlò con voce rotta:

- Là !... Là !... Il drà... il dradrà... il drago giallo!

Il drago, sbucato dall’altra parte, avanzava adagio adagio, snodando a serpentine la lunghissima coda coperta di scaglie e terminante a freccia, e fissando Pardis coi tondi, immensi e crudeli occhi di fiamma. Mentre l’omone si afflosciò come una gelatina, Albestre smontò rapido dal cavallo, snudò la spada e si slanciò contro l’orribile bestia. Il drago spalancò la boccaccia irta di denti aguzzi come pugnali, avventandosi alla propria volta contro il giovane ; ma la spada inesorabile gli si conficcò nella gola, affondando nel corpo fino all’elsa.

- Sei salvo, amico! - disse Albestre. Pardis piombò sulle ginocchia.

- O mio salvatore! - strillò - O mio benefattore!... Mi hai dato fiducia e sicurezza!... Sei grande, sei superbo, sei eccelso, sei...

- Basta! - impose il principe - Le parole non servono affatto. Dimostrami invece la tua riconoscenza, guidandomi al più presto verso la mèta: non vedo l’istante di

trovarmi a tu per tu col mostro dalle sette teste.

Il gigante riprese il cammino e il giovane, rimontando a cavallo, lo seguì. Lungo ancora fu il viaggio: traversarono nuove pianure, valicarono altri monti, si addentrarono in cupe foreste. A un tratto, Pardis si fermò, indicando l’apertura di una caverna alla base di un formidabile cumulo di rocce. Albestre legò il cavallo a un albero, e si inoltrò nell’interno, seguito dal gigante; ma, dopo breve tragitto, si arrestarono davanti a un grande buco circolare.

- Eccoci! - sussurrò la guida. - Per giungere alla dimora sotterranea del mostro, bisogna calarsi in questo abisso.

Alla tenue luce azzurrina che rischiarava la grotta, il giovane osservò che l’abisso era profondo e che le sue pareti non offrivano alcun appiglio.

- Pardis! - esclamò. - Come si può scendere al fondo, senza spezzarsi la schiena?

Il gigante aprì il giubbone e mostrò alla cintola una robusta corda arrotolata in più giri: indi la srotolò e la calò nel buco, stringendone saldamente una estremità.

- Va bene così, mio signore? - chiese.

- Questa corda è il meglio di te stesso! rispose scherzosamente Albestre.

- Puoi calarti in basso senza preoccupazione. Nel mio pugno, la corda è più sicura che avvoltolata intorno a una roccia. Quando avrai ucciso il mostro, non dovrai fare altro che dare uno strappo; e io ti alzerò piano piano.

- Credo che dovrai tirar su due persone: una per volta, s’intende, altrimenti la corda potrebbe spezzarsi.

- Due persone?... Ah, già, è vero!... La principessa!

- Appunto: lei sarà la prima a salire.

- Sta bene, signor mio.

Il giovane si aggrappò alla fune e cominciò coraggiosamente a discendere: man mano che andava in basso, le tenebre infittivano da ogni lato. All’improvviso apparvero alcune piccole luci di vari colori, che presto si moltiplicarono. Meraviglia!... Albes tre poggiò i piedi sopra una specie di firmamento solido, da cui si sprigionavano questi scintillii di stelline... Proprio come se il mondo si fosse capovolto: la terra in alto, lassù, nel buio, e un lembo di cielo di sotto. Un lungo, feroce mormorio risuonò sonoramente e parve centuplicato dagli echi; e all’estremità di quello strano orizzonte apparve il gigante dalle sette teste. Le sette bocche mostruose digrignavano i denti, le sette paia di occhi sembravano schizzare sangue, le sette capigliature erano come rosse torce fiammeggianti. Il mostro piombò sul principe, simile a una catapulta; ma Albestre saltò svelto da un lato e, roteando la spada, staccò tre teste con un solo fendente. Folle di dolore e di rabbia, il mostro tornò alla carica: e ancora tre teste ruzzolarono al suolo. Restava l’ultima; e il giovane dovette lanciarsi all’inseguimento, perché l’altro, per salvare la vita, cercava di fuggire lontano. Ma l’ardore della lotta e la certezza della vittoria diedero ad Albestre le ali ai piedi; e l’ultima testa volò a molti metri di distanza, mentre il corpo del mostro si afflosciava, rimanendo

immobile per sempre come un informe sacco. In un punto di quel magico sotterraneo c’era un usciolino: il giovane lo spalancò con una spallata, e la principessa Valana si fece innanzi, bella come un visione di Paradiso.

- Oh, generoso eroe! - ella disse - Mi hai salvata da una tremenda angoscia, da una schiavitù crudele... Chi sei?

- Lo saprai più tardi, principessa - rispose lui - Adesso dobbiamo affrettarci ad andarcene di qua. Ti condurrò personalmente dal Re tuo padre, che t’invoca disperato.

I due pervennero presto dove il pozzo verticale cominciava la salita nelle tenebre; Albestre legò la corda alla cintura della principessa e diede uno strattone : tosto il gentile fardello si sollevò e scomparve.

Aspetta e aspetta, la corda ridiscese: il principe si aggrappò e venne tratto verso la luce. Egli si sentiva felicissimo; affrettava col pensiero l’istante di rivedere la bella Valana e immaginava la gioia di tutti, all’annunzio della morte del mostro dalle sette teste... All’improvviso, la corda precipitò trascinandolo di nuovo sul fondo dell’abisso. Fu la sua eccezionale costituzione a salvare Albestre: egli giacque stordito, indi si rialzò dolorante e chiamò Pardis a gran voce. Dall’alto, non rispose nessuno. Il gigante aveva progettato il perfido tradimento: cosicché, dopo aver tratta sana e salva dal buco la principessa tirò su il giovane fino a una certa altezza; poi tagliò la fune con un rapido colpo di coltello, convinto che l’altro si sarebbe sfracellato.

- Ahi! - gridò fuggendo - Desolazione, la corda non ha sopportato il peso del mio amico! La ragazza gridò impallidendo:

- Presto!... Cerca un’altra fune!

- Inutile! - rispose lui ipocritamente Non solo non ne troveremo nessuna, ma la caduta avrà ucciso l’amico mio caro... Dobbiamo rassegnarci al destino e fuggire in fretta da questo luogo. Il mostro ha un fratello più forte e più crudele ancora, il quale ci ucciderebbe senza tante cerimonie.

- Io non intendo muovermi! - singhiozzò la fanciulla - Non voglio lasciare chi ha compiuto simile impresa per me!...

- Sciocca! - riprese il gigante - Io ti condurrò da tuo padre, che da troppi giorni soffre a causa tua!... Inoltre, credi che io abbia compiuto imprese minori del mio compagno?... Per amor tuo ho battagliato contro il drago giallo di cui potrai osservare le spoglie durante il nostro ritorno.

- E lui? - disse l’ostinata Valana - E’ stato forse da meno, scendendo nella caverna e uccidendo il mostro?

- Nei miei confronti, sì... Chi ha sorretto la corda, mentre egli scendeva?... Io, e con una mano sola: perché con l’altra combattevo disperatamente contro dieci lupi selvaggi che erano di guardia alla grotta e li facevo fuggire malconci... Ed ora, bando alle chiacchiere!... Andiamo!...

Alzò la principessa fra le braccia, uscì correndo, la posò sulla groppa del cavallo di Albestre e iniziò il viaggio verso la terra del Re d’Oriente. Ma non si avvide di una superba aquila ruotante a larghi cerchi sopra il suo capo; e, pure se l’avesse scorta, non poteva certo sapere che si trattava dell’aquila dagli occhi di diamante, creatura magica a cui non sfugge alcun fatto al mondo. Essa volò fino

alla capanna del mago Sasi e gli narrò la storia delle avventure di Albestre e del tradimento di Pardis.

- Sei sicura che il principe sia vivo? - domandò il mago.

- E’ vivo! - rispose l’aquila dagli occhi di diamante.

- Povero ragazzo!... Saresti capace di calarti in quel buco e di aiutarlo?

- Le mie ali sono molto robuste. Tenterò.

Così, la generosa aquila rifece a volo le miglia e discese nello scuro abisso battendo lentamente le ali. Giunta sul fondo, chiamò:

- Principe Albestre!

Il giovane arrivò di corsa: era intento a cercare qualche possibile via di uscita.

- Siedi tra le mie ali - ordinò lei - e cerca di mantenerti immobile, in perfetto equilibrio. Vengo a nome del mago Sasi e voglio tentare di riportarti alla superfice.

Il giovane ringraziò con effusione e si bilanciò sul dorso dell’aquila, che riuscì a

sollevarsi con un supremo sforzo e a risalire fino all’orlo della voragine.

- Ora - disse - tu puoi cavartela da solo. Farai certamente giustizia del traditore malvagio. Io torno al mio nido fra i picchi.

Il giovane si dissetò a una fonte e riprese la via del ritorno: marciò con pazienza, nutrendosi dei prodotti dei boschi, dormendo sui prati o nelle grotte, e senza altri incontri o battaglie arrivò in pochi giorni alla Reggia orientale, proprio quando nelle sale del meraviglioso palazzo si iniziavano le feste del fidanzamento tra Pardis e la bella Valana. Benché la fanciulla si fosse dimostrata riluttante, il Re padre si era sentito il dovere di concederla a chi l’aveva salvata. Albestre scaraventò a destra e a manca le sentinelle come formiche; appese per la falda dell’abito quattro maggiordomi ad altrettanti lampadari; mise il Gran Ciambellano, che aveva pure osato cercare di fermarlo, sopra un armadio dell’anticamera; e fece il proprio ingresso nel salone del trono. Abbracciata la scena con un colpo d’occhio, fendette l’allegra calca degli invitati, udendo con soddisfazione il grido gioioso della principessa; e, balzato davanti al Pardis, lo afferrò violentemente per i polsi.

- Cane indegno! - scandì nel silenzio della folla sbalordita - Tu mi conosci troppo bene, è vero?... Grida allora la verità, con voce alta e chiara, altrimenti la tua testa terrà compagnia alle sette del mostro!

Al vilissimo gigante le gambe tremavano tanto, che egli dovette cadere sulle ginocchia: e in quella posizione confessò il proprio tradimento e le menzogne narrate alla principessa.

- Grazia, potente principe! - supplicò.

- E grazia sia! - rispose il generoso giovane.

Ma, se la pelle fu salva, Pardis scontò lo stesso le proprie malefatte, perché il Re indignato lo fece imprigionare in una torre senza zampe d’aquila alla base. In quanto ad Albestre i Sovrani lo abbracciarono come vero sposo della raggiante Valana; e la festa riprese più lieta che mai, mentre un messaggero partiva alla volta dell’Impero dei genitori dell’eroe, per raccontare il mirabile esito dell’impresa e per invitarli alle nozze.

La storia meravigliosa di Ivan

“Ivan non era che il figlio di un semplice mercante, ma finì per sposare la figlia di un re: e tutto questo per merito del sale”.

In una città di mare dell’antica Russia viveva un ricco mercante che aveva tre figlioli: il primogenito e il secondo, che si chiamavano Teodoro e Basilio, erano abili nel commercio quanto il genitore; il più giovane, che si chiamava Ivan, era invece un tipo allegro e sognatore, che preferiva scrivere poesie o divertirsi ai balli e nelle taverne Un giorno, però, Ivan si accorse che il padre lo considerava un incapace e decise di dimostrargli il contrario. Poiché i fratelli stavano per partire con due navi cariche di merci verso l’India, egli si presentò al genitore e gli disse:

- Mi sembra che tu abbia dimenticato una terza nave! Il mercante lo guardò con meraviglia e chiese:

- Una terza nave?... E per chi sarebbe?

- Per me!

- Per te? - scattò il vecchio - Per un uomo incapace di trarre mezzo rublo da uno smeraldo?... Ringrazia Iddio, se ti mantengo a vita beata e senza preoccupazioni!

- Padre - replicò - — mi pare che tu sia ingiusto nel giudicarmi, se prima non mi metti alla prova. E io desidero che tu mi dia modo di farti vedere almeno la mia buona volontà.

Insomma, tanto parlò, e con tali accenti, che il padre decise di affidargli un vecchio veliero carico di travi di legno, da sbarcare e vendere in un porto del Sud. Ivan partì, avendo ai propri ordini una piccola ciurma: e, durante i primi giorni di navigazione, le cose filarono lisce come l’olio, perché d’olio sembrava il mare e il cielo si manteneva terso e limpido come un cristallo. Ma la quiete si mutò ad un tratto in un inferno, a causa di una violenta tempesta: il veliero sprofondò fra cavalloni enormi, e solo quando le forze dell’equipaggio stavano per esaurirsi nella tremenda lotta con gli elementi scatenati, un’isola apparve all’orizzonte. Ivan fece dirigere su quella la prua della nave e riuscì a entrare in una insenatura tranquilla e a gettare l’àncora. All’alba successiva, scese in esplorazione: l’isola era selvaggia e silenziosa; non c’era anima viva all’intorno, esclusi i nugoli dei grandi uccelli marini. Al centro di essa si ergeva un monte stranamente candido: il giovane, incuriosito, lo raggiunse... e si accorse che si trattava di un’enorme massa di sale! Ebbe un’ispirazione: radunò l’equipaggio, fece buttare nell’acqua l’intero carico delle travi

E stivò il veliero di tutto il sale che poté fargli entrare nei fianchi. Intanto, era tornata la bonaccia; furono tolte le ancore e via di nuovo verso l’ignoto. Naviga e naviga, dopo qualche tempo il naviglio entrò nel porto di una città sconosciuta. Ivan sbarcò e cominciò a domandare a quanti stavano contrattando merci all’intorno:

- Vi interessa un buon carico di sale?

- Sale? - risposero quelli - che roba è? Mai sentita nominare!

In breve, il giovane constatò che nessuno conosceva il sale e il suo uso. Allora riempì un cartoccio e si presentò direttamente alla Reggia.

- Sono un mercante straniero - disse al maestro di palazzo - e ho bisogno di parlare al Re.

- Il Re sta banchettando - rispose l’altro e non posso disturbarlo.

- Meglio! - esclamò Ivan - Corri da lui, e digli che sono venuto a portargli una cosa che gli renderà i cibi più saporiti.

Poiché la gola è un vizio degli uomini, il Re diede ordine che lo straniero venisse introdotto alla sua presenza: Ivan entrò e, dopo essersi inchinato, restò per un attimo col cuore sospeso: una bellissima fanciulla gli sorrideva gentilmente, seduta accanto al Re.

- Mia figlia e io - disse quest’ultimo siamo curiosi di provare la cosa che rende migliori i cibi. Dov’è?...

Il giovane aprì il cartoccio e ne mostrò il contenuto.

- Straniero! - urlò il Re - Mi prendi a gabbo, con questa polvere bianca?

- Perdona, potentissimo - ribatté Ivan - Non è polvere!... Si chiama “sale”. Ora ne spargerò qualche pizzico sulla carne arrostita nel tuo piatto.

- Sale?... Io chiamo le guardie e...

- Babbo - intervenne la bella principessina. - Lo straniero ti domanda di provare. Io ti consiglierei di tentare l’assaggio.

Il giovane la ringraziò con lo sguardo, poi, accostatosi alla tavola, sparse un pizzico di sale sulla carne e sui contorni. Il Re annusò sospettosamente, e alla fine si decise a trangugiare un boccone.

- Corpo di un cinghiale! - strillò subito dopo - Che sapore gustoso ! Fammi assaggiare la polvere da sola!

- Potentissimo Re - disse Ivan. - Da sola è sgradevole al palato. Devi aggiungerla ai cibi in dosi giuste e proporzionate, per servire allo scopo. - Giovanotto domandò il Re - quanto chiedi per la tua merce?

- Una libbra d’oro e una d’argento, per due libbre di sale.

- E di questo “sale” quanto ne hai?

- Quanto può contenerne il mio veliero.

- Bene!... Lo prendo tutto!

Le cose vennero fatte alla svelta: la ciurma scaricava il sale, gli incaricati del Re lo pesavano a due libbre alla volta, poi pesavano il corrispettivo in oro e in argento. Ben presto il veliero fu sgombro della polvere bianca e altrettanto presto fu pieno dei preziosi metalli. Dopo essersi trattenuto qualche tempo come ospite del Re, insegnandogli i quantitativi di sale da adoperare a seconda dei cibi, Ivan si preparò alla partenza. Allora, la principessa gli chiese:

- Gentile signore, vorresti condurmi a visitare la tua terra? Ho desiderio di compiere un viaggio.

- Volentieri - rispose lui. - Ma tuo padre non ti concederà il permesso.

- Mio padre, invece, è soddisfatto che io venga con te sulla nave, per conoscere qualche cosa dei costumi di altre genti.

Ivan non ebbe più nulla da opporre: la principessa si congedò dal padre, salì a bordo, e il naviglio si staccò dal porto. Nelle lunghe giornate di navigazione, con un mare liscio e azzurro, i due giovani si divertirono a pescare, a cantare canzoni e a parlare della loro vita.

- Principessa, io ti voglio bene - confessò una sera Ivan, mentre contemplavano insieme le stelle.

- Anch’io ti voglio bene - disse lei.

- Vorrai diventare mia moglie?

- Ne sarò felice.

Ivan fuor di sé per la contentezza, fece alcune piroette sul ponte e si arrampicò come una scimmia sui cordami dell’albero maestro. A un tratto si fermò a mezz’aria, scrutò l’orizzonte argenteo e gridò:

- Due navi sulla nostra rotta!

La ciurma si radunò sul ponte. E, quando le navicelle si avvicinarono, ognuno le riconobbe; appartenevano al genitore mercante e i loro capitani erano Teodoro e Basilio.

- I miei fratelli! - esclamò Ivan - Mia cara fidanzata, che straordinaria combinazione!... Fra poco li conoscerai.

Le due navi si affiancarono pian piano al veliero, che era ormai quasi fermo; e, dopo i segnali di riconoscimento, due scialuppe si staccarono dai loro fianchi e Teodoro e Basilio montarono a bordo. Venne allestito un buon pranzetto e Ivan raccontò la storia dei propri buoni affari e del fidanzamento con la principessa. Ma non si avvide delle occhiate d’intesa dei due fratelli maggiori. Verso la mezzanotte, mentre egli accompagnava la fanciulla fino alla soglia della cabina e le augurava il miglior sonno, quei furfanti, accecati dall’invidia e dalla gelosia, stabilirono un orribile piano; infatti, al ritorno del fratello, essi lo invitarono a far due i sul ponte, prima di congedarsi; e, lungo la solitaria parte di prua, lo colpirono all’improvviso sul capo e lo gettarono in mare.

- Ora, a noi due - sussurrò Teodoro. - Tireremo a sorte a chi toccherà l’oro e l’argento e a chi la bella principessa.

- D’accordo - rispose l’altro.

Tirarono a sorte, e la principessa toccò al maggiore.

- Compreremo il silenzio della ciurma col danaro - concluse costui. - E, nei riguardi della mia futura sposina, saprò ben io minacciarla e ridurla alla docilità! Tanto, il suo Ivan non torna più indietro!

Il manigoldo, invece, si sbagliava: il giovane, che in acqua aveva ripreso i sensi, poté aggrapparsi a una trave: e sapete quale?... Proprio a una di quelle travi che erano state scaricate nell’oceano dai suoi uomini, per far posto ai mucchi di sale!... Con centinaia di esse alla deriva, di che cosa dobbiamo meravigliarci?...

Con quel provvidenziale mezzo di soccorso, il naufrago approdò a un isolotto: su quell’isolotto abitava un gigante; quel gigante si chiamava Mamet; e Mamet in quel momento sedeva sopra uno scoglio alto almeno dieci metri, e sprofondava lo stesso nell’acqua fino a metà gamba. Interruppe lo spuntino (stava divorando una balena arrosto), per allungare una mano sul giovane e portarselo all’altezza degli occhi; ma Ivan, profittando della posizione, allargò i polmoni e raccontò per filo e per segno le proprie vicende. Mamet sembrava una torre, ma era di cuore tenero: a udire tali cose, lasciò cadere nell’oceano alcune lacrime che provocarono una temporanea alta marea fuori orario.

- Corpo di mille... No, di centomila... No, di un milione di pescicani fritti! - urlò, spazzando col fiato alcune nuvolette di aggio - Piccolo uomo, ti aiuterò ad avere il giusto compenso delle tue pene!... Quelle canaglie indegne del nome di fratelli avranno ciò che ad essi deve spettare.

Collocò il giovane sopra una spalla e si slanciò di corsa sull’oceano, con tale velocità da sfiorarne appena la superficie coi piedi: così, come se corresse sopra un tappeto. Altro che l’orco dagli stivali delle sette leghe!... Ben presto toccò la riva della città di Ivan, afferrò il giovane, allungò un braccio... E Ivan toccò terra davanti al portone di casa propria.

- Arrivederci! - disse il gigante - Buona fortuna!... Io torno nella mia isola a finire il pranzo.

Ivan lo salutò con la mano; poi, entrò nel palazzo paterno. A buon punto davvero!... In mezzo ad una quantità di invitati, Teodoro brindava al proprio fidanzamento con la principessa.

Simile a tigre, Ivan piombò sul manigoldo e lo afferrò alla gola. Accorsero il padre e Basilio: allora Ivan, in mezzo a tutti, svelò l’atroce gesto dei fratelli.

- Tu menti! - gridò Teodoro con voce rauca - Sei un povero folle!

- No, non mente! - squillò improvvisa una voce femminile.

Era la principessa, che si buttò raggiante di felicità fra le braccia del giovane.

La conclusione?... I due malvagi finirono in ceppi dentro una grigia prigione e vi restarono fino a che non resero l’anima al diavolo; e Ivan e la bella, divenuti presto sposi, camparono a lungo ed ebbero molti bambini, rosei, vispi e birichini.

Garullo citrullo

“Poveretto, era molto sciocco: ma più sciocco ancora era suo padre, che non voleva ammettere di avere un figlio sciocco”.

Questa è una storia che i contadini russi si raccontano nelle sere d’inverno, (che nella grande Russia sono molte e lunghe), standosene accovacciati sulle grandi stufe di terracotta che servono loro da divano e letto. E i ragazzi ascoltano attenti e ridono allegramente al momento buono. C’era una volta, in un villaggio dell’Ucraina, un contadino piuttosto ricco che aveva due figli maschi e una bambina. Il figlio maggiore era un ragazzo sveglio e l’aiutava benissimo nel lavoro dei campi e negli affari con i mercanti, il minore, invece, non si sa perché, era proprio, come suole dirsi, un po’ indietro, tanto da venire da tutti soprannominato “ il citrullo”. “Garullo citrullo”, perché Garullo era il suo nome. La mamma di questo povero figliuolo era donna molto pia, perciò aveva cercato di accettare questa disgrazia con rassegnazione:

- Il Signore portò la croce per amore nostro, marito mio, sa Lui certamente perché ha mandato a noi questo dolore. Comunque, se deve esser questa la nostra croce, cerchiamo di portarla meglio che si può...

E circondava di cure e di affetto quel figliolo mal riuscito alla stessa maniera degli altri due, senza inquietarsi per le stupidaggini che metteva insieme. Il marito, invece, non si voleva rassegnare. Gli pareva assolutamente impossibile che lui, proprio lui, dovesse avere un figlio mezzo scemo. Anzi voleva convincere se stesso e gli altri che Garullo era un ragazzo normale, e pretendeva fe quello che poteva fare il fratello, un po’ meno perché era più giovane, ma giù di lì.

- Moglie mia, ho detto a Garullo che vada da sua nonna a vedere come sta la nostra Katiuscia. (Katiuscia era la bambina, e spesso andava ospite dalla nonna, la quale abitava un miglio lontano).

- Marito mio, non so come si comporterà questo figliolo in giro da solo... Sapete che è semplice...

- Macché semplice, macché semplice! Siete voi che volete farlo semplice, lasciandolo tutto il giorno a giocare coi sassi e basta! Vedrete che, con me, si abituerà a comportarsi come Pietro nostro e tutti gli altri.

- Marito mio, è come se dalla botte del mezzo vino voi pretendeste che uscisse vino fino... Non s’è mai visto succedere né con le buone maniere, né con le cattive.

- Le donne di queste cose non capiscono nulla - rispose il marito; prese fuori dalla cantina del vino e chiamò il ragazzo.

- Garullo, devi andare da tua nonna a chiederle notizie di tua sorella Katiuscia. Le offrirai in dono questo fiasco, e porterai qua ciò che essa ti darà, se ti darà qualche cosa.

E Garullo, tutto contento, se ne andò via fischiettando. Tornò allegro altrettanto, ma non aveva nulla con sé.

- Non ti ha dato niente per noi la nonna, in cambio del fiasco di vino?

- No. Mi ha detto che non capiva bene perché le mandaste un fiasco vuoto...

- Vuoto? E chi aveva bevuto quello che c’era dentro?

- Io, padre. Mi avevate detto di portare alla nonna il fiasco, non il vino...

Il contadino si morse la lingua per non sgridare il figlio, anche perché non voleva mostrare alla moglie che per il momento aveva ragione lei.

- Però la nonna mi aveva dato una cosa, ma l’ho perduta - aggiunse il ragazzo.

- Che cosa ti aveva dato, figliolo?

- Un ago, ma non l’ho più.

- Bisognava che tu l’avessi puntato dentro il berretto... - disse il padre, e la cosa finì lì.

Ma non si diede per vinto, questo contadino, e dopo una settimana richiamò il figlio:

- Vai dalla nonna a vedere come sta Katiuscia, e portale questo fiasco pieno di vino e guarda anche di non perdere quello che ti darà in cambio, se qualche cosa ti darà.

Garullo Citrullo promise di eseguire l’incarico a puntino, e partì. La sua mamma lo guardò allontanarsi con tenerezza accorata. Tornò tutto trionfante.

- La nonna mi ha dato una bellissima cosa, padre, guardate!

E si cavò di testa il berretto con gesto trionfale. Ne uscì un povero cuccioletto piccino piccino, già morto asfissiato per la mancanza d’aria dentro il copricapo del padroncino.

- Poveretto! Che peccato! Ma perché l’avevi messo lì, figlio?

- L’altra volta mi diceste che dovevo mettere l’ago datomi dalla nonna nel berretto...

- Ciò stava bene per l’ago, ma il cagnolino avresti dovuto legarlo con una corda e tirartelo dietro facendo psst, psst, ogni tanto, perché camminasse... - disse il padre cercando di non perdere la pazienza, e la madre accarezzò dolcemente il capo del figlio senza dir nulla.

Ma questo contadino non si diede per vinto ancora, e di lì a una settimana tornò a chiamare il ragazzo.

- Garullo, vai dalla nonna ad abbracciare Katiuscia per noi. Offrile questo fiasco di vino e guarda di portare a casa con garbo quello che ti darà, se qualche cosa ti darà...

E Garullo, via, fischiettando, tutto allegro. Tornò tirandosi dietro una corda.

- Ti ha dato questa corda, la nonna?

- Veramente, padre, c’era attaccato un gran pezzo di lardo, ma benché io me lo sia tirato dietro facendogli ogni tanto psst, psst, i cani della strada me l’hanno mangiato, e ora non c’è più nulla!

- Figliuolo mio, perché non hai pensato a fare a pezzi quel lardo, a metterlo in un sacchetto e poi in spalla?

- Mi avete detto l’altra volta che avrei dovuto legare ciò che la nonna mi avesse regalato con una corda, e tirarmelo dietro facendo psst, psst...

Il padre non disse nulla... Fece finta di non sentire il doloroso sospiro della madre, ma neppure questa volta si diede per vinto.

- Tieni questi fiasco di vino, figliuolo, portalo alla nonna, e vai a combinare il giorno del ritorno di Katiuscia a casa nostra. Se ti darà qualche cosa, portala con giudizio, mi raccomando.

Garullo se ne andò saltarellando per la felicità, e la mamma lo abbracciò stretto stretto. Tornò, povero ragazzo, sudando, sudando, sotto un sacco pesante che portava in spalla.

- Ma che cosa ci hai lì dentro, Garullo?

- Ci ho il vitello che mi ha regalato la nonna. Sono stato bravissimo, padre. L’ho tagliato a pezzi come diceste voi la volta ata, e messo nel sacco.

- Era morto il vitello che ti aveva dato la nonna?

- Macché! Correva, che era una bellezza! Ma per tagliarlo a pezzi e metterlo nel sacco ho dovuto farlo morire, padre.

- Figliuolo, figliuolo, non dovevi fare così! Bisognava legargli una corda al collo, tirarselo dietro e, appena arrivato qui, condurlo nella stalla e dargli del fieno...

Dopo questo fatto per un pezzetto non si parlò più in casa del contadino di mandare il citrullo in giro. Poi, un giorno, il padre lo chiamò di nuovo:

- Garullo, è tempo che tu vada a riprendere tua sorella Katiuscia e la riporti a casa. Darai questo fiasco di vino alla nonna, e stai bene attento di portare con garbo quello che ti darà.

La madre lo guardò allontanarsi con una grande pena in cuore... Ma il ragazzo cantava contento perché era molto felice di ricondurre a casa la sorellina. Invece al ritorno lo videro affacciarsi sull’uscio della cucina solo solo.

- Figlio, ti ha dato nulla la nonna? Dov’è Katiuscia?

- La nonna mi ha dato solo Katiuscia...

- Disgraziato, e dove l’hai messa? - gridò il padre che questa volta si sentiva l’anima piena di spavento.

- Ho fatto come avete detto voi...

Non poté finire; il padre era corso alla stalla dove la povera Katiuscia, legata alla greppia, con la bocca piena di fieno messole dentro a forza dal fratello, piangeva disperatamente. Non disse nulla neppure questa volta il contadino, ma non mandò più il figlio citrullo in giro per commissioni. Aveva probabilmente capito come la ragione stesse dalla parte di sua moglie: ogni botte non può dare altro vino che quello che contiene... E, forse anche, aveva capito la necessità di portare con rassegnazione la propria croce.

La città invisibile

“C’era una volta una fanciulla che si chiamava Fevronia e un principe che si chiamava Vsévolod; e una città di cui i nemici vedevano soltanto l’immagine riflessa nell’acqua del suo lago”.

Kitesh era una bellissima città, poco distante dal lago Svietly-Yar, in Russia, e dalle grandi foreste che sono sulla riva del fiume Volga. Una città ricca, nella quale regnava il principe Youry, buono e saggio, che tutti i sudditi amavano. E con lui amavano anche suo figlio, il principe Vsévolod, bello, giovane, audace, gran cacciatore di orsi nei boschi immensi. Dicevano le comari alle mamme quando nasceva loro un bambino:

- Possa tuo figlio diventare bello e forte come il principe Vsévolod, rassomigliargli quando a, col suo corno d’argento alla cintura!

Ed era il più bell’augurio che si potesse fare ad una mamma nella città di Kitesh.

Un giorno questo giovane principe andò, come era solito, a caccia in un fitto bosco ed inseguì a lungo un orso grandissimo, ma anche velocissimo. E corri, e corri, l’orso andava come il vento, e Vsévolod dietro. Così correndo uscì dalla foresta, ed arrivò in una radura; e l’orso scomparve nella maniera più misteriosa.

Ma non soltanto fu misteriosa la sparizione dell’orso: agli occhi del principe stupefatto apparve una bella fanciulla, anzi bellissima, che cantava intrecciando ghirlande di fiori in mezzo ad un folto gruppo di volpi, scoiattoli, daini, uccelli,

che la stavano ad ascoltare. Come il principe si avvicinò, naturalmente queste bestiole scapparono, ma la fanciulla rimase, benché un poco intimorita.

- Come ti chiami? - le chiese Vsévolod.

- Sono Fevronia - rispose la ragazza - ed abito con mio fratello nel bosco dal quale tu sei uscito.

- Che mestiere fa tuo fratello? lo spaccalegna?

- No, raccoglie il miele delle api.

- E’ molto buono il miele, mi piace, vuoi farmelo assaggiare?

- Certamente. Sentirai, signore, che il nostro è più buono di quanti ne avrai mai gustati. Corse nella sua casetta, e portò per il principe una bella fetta di pane fresco spalmata di ottimo miele ed una più piccola per sé. Mentre mangiavano insieme, la conversazione continuava:

- Come fai ad incantare le bestie del bosco in modo che stiano ferme ad ascoltarti?

- Oh, nessun segreto in questo. Io non ho mai dato loro la caccia, le accolgo come sorelline, ed esse mi amano.

- Anch’io ti amo, bella Fevronia - disse il principe e, levatosi un bellissimo anello, glielo mise al dito anulare. - Vuoi essere mia sposa?

Fevronia era parecchio stupita, ma il giovane cacciatore aveva conquistato già il suo cuore e la sua fiducia, per cui accettò. Vsévolod le baciò la mano.

- Tornerò domani insieme con mio padre, verrò a prenderti per condurti a casa mia. Dillo a tuo fratello.

Così disse il principe, e partì lasciando la fanciulla assai felice e stupefatta. Il suo stupore era dovuto anche al fatto che il pretendente non le aveva neppure detto il suo nome.

Ed ecco che, poco dopo, dal bosco uscirono alcuni gentiluomini tutti affannati ed angustiati:

- Bella ragazza, avete veduto per caso un giovane e bel cacciatore così e così, che portava alla cintura un corno d’argento?

- Certamente, era qui poco fa. Ma perché lo cercate?

- Sia ringraziato il cielo. Temevamo gli fosse accaduta una disgrazia... Egli è il nostro principe Vsévolod, colui che regnerà sulla città di Kitesh quando morirà suo padre Youry. Fevronia rimase a bocca aperta. Aveva capito che il suo futuro sposo era certo un signore, ma non credeva fosse addirittura un principe.

- Forse non tornerà più - pensava, ma l’anello che brillava al suo dito pareva le volesse dire col suo sfolgorio: - Abbi fede, verrà...

Infatti, il giorno dopo, ecco arrivare il principe, col padre ed un lungo splendido seguito di gentiluomini e cavalieri. Fevronia nel suo semplicissimo vestitino di lana a quadretti formava un curioso contrasto con la ricchezza di quel corteo, ma al principe padre piacque moltissimo.

- Approvo la tua scelta, figlio mio, conduciamo ora la sposa alla nostra città.

E Fevronia, dato un addio alla sua umile casetta, salì sopra un bel cavallo bianco e, a fianco di Vsévolod, partì.

- Il nostro popolo verrà ad incontrarti attraverso la grande foresta - le diceva lo sposo ed essa sorrideva.

- Mi sembra già di amare tanto questo nostro popolo e la nostra città!

Ma il buon popolo di Kitesh, nell’andare incontro agli sposi attraverso la foresta, stava facendo dei gran brutti incontri.

Dapprima ecco un suonatore ambulante stranissimo. Mezzo vestito di rosso e mezzo di blu, per il lungo, con una scarpa rossa e una blu, e la rossa dalla parte dove la veste era blu, e la blu dalla parte dove la veste era rossa, e i capelli lunghi riuniti in buffe treccioline, ed un liuto a tracolla. Gesticolava e gridava:

- Ho veduto sulle mura della vostra città una fanciulla bellissima che avanzava piangendo e tenendo nelle mani un libro. Su quel libro, gente di Kitesh, era scritto: “Una grande sventura colpirà Kitesh! Grande, grande!”.

Il buon popolo del principe Youry, spaurito, cercava di scacciare lo strano suonatore che pizzicava qualche accordo sul suo liuto, e ripeteva il suo sogno gridando come un matto. Ed ecco arrivare da sinistra un altro personaggio, brutto come il diavolo:

- Dove ano i piccoli, terribili cavalieri del Gran Khan, non rimane che cenere!

- Un’orda di Tartari feroci viene da Oriente, mette tutta la terra a ferro e fuoco!

- Ma chi sei tu, annunciatore della malora?

- Sono Kuterma, l’ubriacone. Non mi riconoscete? Talvolta gli ubriaconi ne sanno più dei

saggi ed hanno in mano la loro fortuna! - gridava misteriosamente anche questo personaggio, e ritornava a tutta velocità sulla via dell’Oriente.

La popolazione di Kitesh era rimasta senza fiato. Che significavano tutte quelle strane cose? Ed ecco vedevano giungere a spron battuto il corteo nuziale, i principi e la sposa.

- Presto, presto, si corra dentro le mura della città, tutti! Un’orda di Tartari è sulla via, di là dalla foresta! Ce ne ha dato l’avviso un povero fuggiasco!

E tutti ripararono più in fretta che poterono entro le salde mura di Kitesh. Salde, sì, ma difese da una guarnigione di armati che, a confronto delle orde tartare, era un pugno d’uomini, né più, né meno. Si celebrarono le nozze senza festa, e la sposa indossava il suo vestitino di lanetta con la corona d’oro. Ma, malgrado quel povero vestituccio, apparve tanto bella agli occhi di tutti, che ognuno si sentì un po’ sollevato dall’angustia che opprimeva l’intera città. E, mentre nella cattedrale di Kitesh, aveva luogo la funzione dello sposalizio, l’ubriacone Kuterma incontrava i cavalieri feroci del Gran Khan.

- Parla, animale dalla faccia orrenda, dove si trova la città ricca di Kitesh? Presto, indicaci la strada. Kuterma avrebbe potuto dire che non la sapeva. Intricata era la via nella foresta, difficile a trovarsi se non la si conosceva, e Kuterma era nato a Kitesh e avrebbe, tacendo, potuto salvare la sua patria. Ma i Tartari incalzavano: - Parla, e avrai salva la vita!

E l’anima di Kuterma era una povera anima... - Venite, vi condurrò io. - E s’avviò a capo delle orde barbare.

Lo zoccolo dei numerosissimi cavalli faceva tremare la terra. Ben presto lo sentirono da Kitesh, e videro nella luce dell’alba il nembo di polvere che l’armata grandissima levava ando. Tutti, uomini, donne, ragazzi, lavoravano a fortificare le mura... ma che cosa poteva il loro lavoro contro quel flagello che veniva dall’orizzonte? Fevronia, ritta sullo spalto più alto, guardava desolata. S’inginocchiò, ed era curiosa a vedersi col suo vestituccio e la corona d’oro:

- Madonna Santissima, Regina del cielo, fa’ che i Tartari non possano trovare la città ! Compi un miracolo, te ne prego, nascondici ai loro occhi, prendi me se vuoi, ma salva la patria del mio sposo! Era molto buona Fevronia; molto innocente. Le bestiole del bosco l’avevano amata ed avevano ascoltato volentieri il suo canto: la Madonna ascoltò la sua preghiera. La popolazione di Kitesh vide levarsi dalle acque del lago Svietly-Yar una nuvola bianca, densa come una tenda che si frappone fra questa e l’orda tartara in arrivo.

- La Madonna ci copre col suo manto! gridarono le donne, che furono le prime a capire. E tutte corsero in chiesa a ringraziare la Regina del Cielo. Intanto i cavalieri del Gran Khan erano arrivati al lago.

- Dov’è questa città. Ci avevi detto che giunti qua l’avremmo veduta... Ci hai imbrogliati. Parla, ubriacone!

Kuterma era rimasto senza fiato. Non vedeva più la città, ma le sue orecchie erano piene di un suono festoso, grandissimo, di campane.

- E’ qui, è qui, vi dico, non sentite lo scampanio delle sue chiese?

- Tu sogni o ci imbrogli, ubriacone, noi non sentiamo proprio nulla, e meno ancora vediamo. Finiscila, dicci dov’è questa città.

- Ascoltate, ascoltate le campane - badava a rispondere il disgraziato che quello scampanio misterioso e potente rendeva quasi sordo. La città è in quella direzione, è là...

L’aurora tingeva di rosa le cime dei monti e degli alberi, ma la città non si vedeva. Ma ecco, d’un tratto sulle acque del lago apparve Kitesh riflessa con i suoi palazzi stupendi, le cattedrali, le cupole. I Tartari guardavano sbalorditi e sembravano divenuti di pietra. Ed una voce si sentì, tonante:

- Dio è grande!

I cavalieri del Gran Khan ne ebbero abbastanza di tutte quelle cose stupefacenti ed incomprensibili, scapparono a gambe levate, in preda ad un superstizioso terrore. Kuterma, divorato dal rimorso e dal pentimento vedeva, lui solo, la città, e vi correva battendosi il petto:

- Punitemi, punitemi! Sono un traditore oltre che un ubriacone, e merito la morte! - gridava sotto le mura.

Ma in quel. punto si vide una cosa prodigiosa. La veste di Fevronia, la quale era ancora inginocchiata in cima al più alto spalto in preghiera, da rozza lanetta quadrettata che era, si trasformò in stoffa candida luminosissima, come se tessuta di pura luce. Ed abbagliava nel sole. Tutta la popolazione di Kitesh s’inginocchiò, e le guardie aprirono la porta grande perché Kuterma, l’ubriacone traditore, entrasse.

- Kuterma - gli disse allora Fevronia la città è salva, e la gioia è con noi. Il Signore accetta il tuo pentimento, sii lieto anche tu!

- Sii benedetta, pura colomba! - rispose l’ubriacone e s’avviò verso il più povero convento di monaci per chiudervisi, e terminare la vita in preghiera.

Dice la leggenda russa che da quel giorno, la città di Kitesh fu sempre asilo sicuro per tutti gli infelici, e fu benedetta da Dio. La bontà e l’innocenza di Fevronia le avevano acquistata quella benedizione.

Ricciolo d’oro e Stella d’argento

“Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi: va bene. Ma va anche meglio dire che “Iddio aiuta chi si mostra buono e amorevole verso gli animali”. Infatti, senza un certo leprottino, Ricciolo d’Oro e Stella d’Argento....”.

Al tempo dei tempi, quando anche i fiori parlavano, c’erano in un lontano paese un re e una regina madre. Questa regina madre era molto contenta di essere ancora la dama più importante della sua terra, perché il figlio non si era sposato, ed era tanto egoista e insensata da desiderare che non si sposasse mai per rimanere sempre unica e sola sovrana. Ma il giovane re, invece, aveva in animo di prendere moglie e di avere dei bei bambini che, a loro volta, avrebbero regnato un giorno. Non lo diceva con la massa, per il momento, ma stava cercandosi una sposa. Non l’andava a cercare nelle corti straniere, preferiva una del suo paese, ma voleva la più bella e buona che ci fosse. E cerca, cerca, siccome la costanza è sempre premiata, la trovò.

- Madre mia, fra otto giorni mi sposerò disse alla regina - perché ho trovato la moglie che fa per me.

E gliela presentò. Era veramente una bellissima ragazza, con capelli d’oro chiarissimo e luminoso, e occhi che sembravano stelle. Una dolcezza e una bontà, poi, trasparivano da tutto il viso e la bella persona, così da incantare il più difficile giudice. Ma la regina madre era ancor più difficile, perché non voleva vedere né bontà né dolcezza, non avendone per nulla nel suo cuore, il quale si era tutto riempito di egoismo e di ambizione, che non lasciavano posto ad altro. Nondimeno non poté dire al giovane re:

- Non sposarti! - i ministri stessi glielo avrebbero impedito. Quindi fece buon viso a cattivo giuoco, come suole dirsi, e si mostrò tutta zucchero e miele con la nuora.

Per le nozze si fecero feste grandissime poi, dopo un anno, nacque un bel bambino. Ma il re era a caccia al momento della nascita, e la vecchia regina prese il bimbo, lo fasciò, e fece finta di metterlo nella bella culla dorata che portava una corona reale al centro della testata. Invece lo ficcò in una cassetta, la chiuse e la gettò nell’acqua del fiume, che scorreva sotto la finestra. Al posto del bambino mise, tutto fasciato per bene, un micetto. Quando il re tornò, si avvicinò tutto felice alla culla e prese l’involtino che vi stava dentro.

- Per la mia Sacra Corona! - esclamò sbalordito - ma questo è un gatto...

- Eh! Proprio così figlio mio, temo che la tua bella sposa sia una strega; solo le streghe hanno mostri per figli... - disse la regina madre.

Il re rimase molto male, ma non gli pareva possibile che la sua cara moglie fosse una fattucchiera. Per cui le disse che il loro bimbo era morto appena nato e cercò di continuare la vita come per il ato, ma aveva una gran pena in cuore. E ò un altro anno, e doveva arrivare un altro figlio. Il re non andava neppure a caccia perché voleva trovarsi presente al momento della nascita, ma disgraziatamente avvenne un incidente di frontiera con un regno vicino, scoppiò una breve guerra, e la bimba, (perché questa volta era una splendida bambina), nacque proprio mentre il suo babbo re era costretto a stare lontano per guidare l’esercito alla vittoria. L’ambiziosa regina madre fece come l’altra volta: la fasciò, finse di metterla nella culla dalla corona d’oro, invece la mise in una cassettina e la gettò nel fiume. E al suo posto mise una gattina. Il giorno stesso tornò il re dalla guerra:

- Figlio mio, la tua sposa è indubbiamente una strega; lo dicono tutti ! Anche la tua seconda figlia non era che una gattina...

Il re rimase afflitto in maniera da non si dire. Disse ancora una volta alla sua cara moglie che la piccola era morta appena nata, e pianse con lei. Ma non poteva credere che essa fosse una strega, e se la tenne accanto benché, nel paese, per opera delle voci messe in giro dalla cattiva regina madre, parecchi lo credessero. Però la vita a corte divenne assai triste, perché una casa senza figli è triste anche se è una reggia, e ormai il giovane re e la giovane regina non avevano più coraggio di invocare le fate perché concedessero loro la gioia di una bella figliolanza, come avevano fatto per il ato. Pure, essi non lo sapevano, le fate buone non li avevano abbandonati come pareva. Fata Smeraldina si era incaricata di far galleggiare sulle acque del fiume le due cassettine che contenevano i bimbi, e di farle arrivare molto in fretta fino al punto in cui, proprio in una casetta a strapiombo sull’acqua, viveva un vecchio pescatore con la moglie e senza figli. Questo brav’uomo aveva sentito un piccolo vagito, debole ma ben sensibile ugualmente, e si era alzato nel cuor della notte domandandosi come mai un piccolino potesse trovarsi vicino a quella sua capannuccia sospesa sul fiume. Ed ecco che, proprio a ridosso del suo muretto, aveva veduto la cassettina che conteneva il piccolo principe. L’aveva ripescata, ed era rimasto a bocca aperta.

- Moglie mia, moglie mia! - aveva gridato tutto felice, senza curarsi che quella stesse dormendo saporitamente. - Le fate ci hanno mandato un bel bambino! Siamo quasi vecchi, ma per una gioia così siamo ancora in tempo. Adottiamo questo trovatello.

Anche la moglie, la quale stava fregandosi gli occhi per il sonno e lo stupore, fu del suo parere.

- Come lo chiameremo, poverino? Un nome dovrà pure averlo.

- Lo chiameremo Ricciolo d’oro. Guarda che bel ricciolino d’oro di zecchino ha dietro quest’orecchio.

- Oh! - La moglie era rimasta a bocca aperta davanti a quella cosa stupefacente.

E lo chiamarono Ricciolo d’oro, presero una capretta per allattarlo, e cominciarono ad allevarlo come se fosse proprio loro figlio. Ed eccoti che, di lì a un anno, il vecchio pescatore si destò un’altra notte udendo un piccolo vagito. Non stette tanto a pensare, questa volta, si specolò giù dalla finestra, vide un’altra cassettina e la ripescò.

- Moglie mia, moglie mia! Le fate ci hanno mandato anche una bambina! E la moglie, fregandosi gli occhi, fu contenta!

- E questa, come la chiameremo?

- Guarda, ha una stella d’argento dietro un orecchio... Le metteremo nome Stellina d’argento.

E Ricciolo d’oro e Stellina d’argento crescevano felici e sani in casa del pescatore, mentre il loro babbo e la loro mamma erano in gran tristezza alla reggia, e la vecchia regina ne approfittava per dettar legge a dritto e a traverso, come se la sola sovrana fosse stata lei. E il tempo ava. Ormai i due bambini del pescatore erano grandicelli, e un giorno andarono a casa e dissero:

- Babbo, mamma, nel villaggio dicono che noi non siamo vostri figli, ma che ci avete ripescati dal fiume dentro due cassettine. E’ vero?

- Sì, bambini cari, e noi non sappiamo neppure per ombra di chi siate veramente figli, pensavamo dirvi queste cose quando avreste avuto vent’anni.

- Siamo ancora molto giovani, ma vogliamo ugualmente andare in cerca dei nostri genitori; potrebbe darsi che fossimo stati rubati e che essi ci piangessero e ci cercassero...

I due vecchi scossero il capo.

- Il regno non è tanto grande, e nessuno mai disse che fossero stati perduti due bambini... Temo che i vostri genitori non vi volessero più. Comunque è giusto che li andiate a cercare. Vi daremo un po’ di danaro e provviste, poco perché poco possediamo, e che le fate vi proteggano! Vi ho insegnato a coltivare il mio giardinetto, forse vi servirà: potrete sempre trovare lavoro.

Così disse il vecchio, e i due ragazzi ringraziarono lui e sua moglie di quanto facevano e avevano fatto per loro.

- Al termine delle nostre ricerche - dissero questi buoni figliuoli - e in qualsiasi modo vadano a finire, torneremo a vivere insieme, perché noi vi ameremo sempre tanto, e se troveremo il nostro vero babbo e la nostra vera mamma, ebbene: vorrà dire che avremo quattro genitori invece di due!

I due vecchi li abbracciarono e li benedicono, diedero loro qualche soldo, pane e cacio, e li seguirono con lo sguardo finché poterono, finché essi voltarono per un’altra strada.

Cammina, cammina, i due ragazzi andarono in città e là chiesero ospitalità al giardiniere del re. Questo, siccome era ormai vecchio ed aveva bisogno di aiuto, li accolse, perché essi assicurarono di sapere coltivare bei fiori. Infatti in poco tempo nel giardino reale si videro fiorire rose stupende di qualità nuove, tulipani di tutti i colori: diventò uno splendore. E i due piccoli giardinieri, intanto, stavano tutt’orecchi per sentire se si parlasse, per caso, di due fanciulli smarriti che qualcuno cercasse. Ma nessuno ne parlava.

Invece avvenne che un giorno la regina madre eggiasse per il giardino:

- Giardiniere, com’è che sapete coltivare così bei fiori ora? - domandò tutta stupita.

- E’ merito dei miei due aiutanti, Maestà, i quali sono veramente bravissimi.

- Oh, guarda un po’! E come si chiamano questi bravi giardinieri, e di dove vengono?

- Vengono da un villaggio in riva al fiume, non molto discosto dalla capitale, e portano due nomi piuttosto curiosi : Ricciolo d’oro e Stellina d’argento. Credo siano fratello e sorella, perché si rassomigliano molto.

La regina rimase senza fiato. Essa ricordava benissimo di avere notato il riccioletto d’oro e la stellina d’argento dietro l’orecchio dei due nipotini, e la coincidenza dei nomi, il fatto che provenissero da un villaggio sul fiume, la misero in grande sospetto.

- Vorrei conoscere questi bravi figlioli disse, cercando di rendere la sua voce quanto più dolce poteva.

Chiamati dal giardiniere, i due ragazzi le vennero davanti senza alcun timore, anzi con molta deferenza ed orgoglio. Caspiterina, la Regina madre in persona voleva congratularsi con loro!

- Siete veramente bravissimi, figli miei - disse questa, che al solo vederli li aveva subito riconosciuti per la somiglianza che avevano con la loro mamma. - I vostri fiori sono straordinari. Peccato solamente che non possiate attaccare ad ognuno un camlino, pensate che musica deliziosa potremmo godere! La nostra corte possiederebbe una meraviglia che nessuno ha avuto fino ad ora!

- Ma dove potremmo trovare questi camlini? - chiese Ricciolo d’oro tutto interessato.

- Sulla montagna di cristallo ce n’è un giardino pieno. Basterebbe poteste raccoglierne uno e portarlo qua, attaccato a un fiore, che il giorno dopo ne nascerebbero su tutte le piante...

Così parlò, e se ne andò facendo frusciare il lungo manto di broccato d’oro. Ricciolo d’oro cominciò subito a fantasticare su questa faccenda dei camlini.

- Fratellino mio, - disse Stellina d’argento - mi hanno detto che salire sulla montagna di cristallo è molto difficile, e chi cade muore. E anche so che una volta arrivati nel giardino, esso è incantato e se ci si trattiene più di un minuto, si è trasformati in alberi...

- Sorellina, voglio tentare. Non posso farne a meno, non so dirti perché, ma non posso.

- Può accaderti qualche disgrazia...

- Dacché la regina mi ha parlato di quel giardino dei camli non ho più pace, bisogna che ci vada.

- Torna presto, fratello mio... Io penserò sempre a te! - disse Stella d’argento. Ricciolo d’oro partì per la sua difficile impresa. Per la strada che conduceva alla montagna di cristallo incontrò una povera leprina che era rimasta presa con una zampina nella tagliola di un cacciatore:

- Salvami, liberami, te ne prego! - disse quando lo vide are. Ricciolo d’oro non era mai andato a caccia, perché non poteva soffrire di far male al più piccolo degli animali, sicché si trovò subito a parteggiare per la lepre anziché per il cacciatore, la liberò e le curò la zampetta ferita. Allora quella, invece di scappare a gambe levate come avrebbe certo fatto qualunque lepre di questo mondo, gli si fermò davanti ai piedi: - So che tu vuoi andare al giardino dei camli, prendimi con te e potrò esserti di aiuto.

- Come vuoi fare ad aiutarmi, poverina?

- Prendimi e vedrai.

Infatti, arrivati che furono a piedi della montagna che luceva al sole in modo da cavare gli occhi, la leprina, che fino ad allora era stata in braccio al ragazzo, gli disse:

- Fammi scendere e aspettami. Le mie zampette non scivolano sul vetro, ed io sono uno degli animali più veloci. Farò tutto per te.

Ricciolo d’oro ormai le voleva bene, ed aveva fiducia in lei. La mise in terra, dopo averle dato un bel bacio sul musetto bigio, e aspettò. Dopo poco eccola di ritorno col camlino in bocca.

- Tieni, caro, e se tu dovessi avere ancora bisogno di me vieni a cercarmi dove mi hai trovata questa volta - gli disse.

La gioia di Stellina d’argento vedendo tornare così presto il fratellino fu immensa. Era sera. Attaccarono il camlino ad un rosaio e andarono a letto. Al mattino furono destati da una soavissima musica... Sopra ogni pianta erano nati a centinaia i camlini fatati! E quel dolce concerto non svegliò solo loro, ma anche la regina madre, che ne provò però gran rabbia invece di gioia. Aveva tanto sperato che il ragazzo non tornasse più, nel suo malvagio cuore duro come sasso per la grande ambizione che ci stava di casa dentro! Scese nel giardino:

- Questa è veramente una meraviglia, figli miei! Però come sarebbe ancora più bello il nostro parco se nel laghetto nuotassero pesci d’oro vero anziché rossi...

- E dove potrebbero trovarsi pesci d’oro vero che nuotino? - domandò Ricciolo d’oro stupefatto.

- Sempre nel giardino incantato sulla montagna... E’ là che stanno tutte le meraviglie del mondo.

- Oh, se è per questo: vado subito a prenderli - le rispose il ragazzo e scappò di corsa; lasciandola lì in mezzo parecchio interdetta.

Andò a cercare la leprina, al crocicchio dei sentieri del bosco dove l’aveva incontrata la prima volta, e la trovò là che lo aspettava.

- Sapevo che saresti venuto. Portami fino alla montagna come l’altro giorno, perché la zampa mi duole ancora, poi al resto penserò io. Infatti così fecero, e la leprina tornò in un batter d’occhio con il pesciolino d’oro in bocca.

- Mettilo nel lago stasera, e domani sarà pieno di tante bestioline eguali - gli disse – ma stai attento che la regina non ti lanci in qualche altra impresa più difficile ancora... Ad ogni modo io sono sempre al medesimo posto, ricordatelo.

Ricciolo d’oro fece come la sua piccola amica aveva detto, e la mattina dopo lui e la sorellina si svegliarono pei una luce tutta d’oro che entrava dalla finestra, benché le grosse imposte di legno fossero ermeticamente chiuse.

- O che è questo? - si domandarono, ma, appena usciti nel parco, capirono subito. Dal lago veniva la meravigliosa luce d’oro, dovuta al guizzare di una moltitudine di pesciolini fatati. E la stupenda luce incantata destò anche la regina madre la quale, per poco, non scoppiò dalla stizza.

- Adesso ti aggiusto io! - disse, e scese in giardino.

- Che meraviglia, ragazzo mio! Ora nel parco del re non manca proprio più che una cosa...

- E sarebbe, Maestà?

- Il fiore che parla e dice sempre la verità...

- Ma dove sta di casa la sua semente?

- Oh, sempre sulla montagna di cristallo! Ma nessuno è mai riuscito a coglierlo...

- Ebbene, io ci riuscirò - rispose fieramente Ricciolo d’oro. E la regina si fregò le mani tutta contenta.

- Questa è un’impresa nella quale non riesci di sicuro, ragazzo mio... - pensava.

Al mattino seguente il piccolo giardiniere si alzò che non era ancora l’alba.

- Dove vai, fratellino? - gli chiese Stellina d’argento.

- Vado a prendere il fiore che dice la verità, sulla montagna incantata.

- Oh, fratellino mio, non andare, ho sognato che eri in pericolo ed ho paura che tu non torni più!

- Lasciami andare, sorellina. Pensa, al fiore potremo domandare chi sono il nostro babbo e la nostra mamma; forse lo saprà.

Stellina d’argento sospirò. Capiva che non sarebbe riuscita a farlo rimanere a casa. Ricciolo d’oro andò al solito crocicchio:

- Figliolo, figliolo, ti sei messo in una impresa molto difficile, ed io non posso aiutarti che in parte! Ti presterò le mie zampette e scalerai in un baleno la montagna ed attraverserai il giardino incantato, ma il fiore che cerchi non è lì, è nell’ultima stanza del grande castello in mezzo al giardino, e tu dovrai attraversare tutte le altre stanze senza fermarti a guardare nulla, se vorrai poterlo portar via... Ricciolo d’oro promise che non si sarebbe fermato davanti a nulla, e insieme andarono. A piè del monte la leprina prestò le sue zampette al ragazzo, che in un baleno fu davanti al castello, stupendo in mezzo al giardino incantato. Entrò di corsa, ma ohimè! Nella prima stanza erano oggetti d’oro e argento stupendi, e tirò diritto benché avesse gran voglia di fermarsi ad ammirare; nella seconda vesti stupefacenti per magnificenza, ed anche qui alla meglio riuscì a

tirare diritto; nella terza dolci profumatissimi, e cominciò a correre più lentamente; nell’ultima giocattoli così belli, ma così belli, ma così belli, che lui, poverino, che non ne aveva mai veduti, si fermò un momento, un momentino solo. Poi un’altra era piena zeppa di gioielli meravigliosi, ed anche lì fece una fermata da nulla ma la fece, e infine arrivò ad una stanzina piccina dove, sotto una campana di vetro, stava il fiore della verità. Ma, come allungò la mano per prenderlo con là campana e tutto, il fiore gridò:

- Non puoi avermi, ami i giochi che danno piacere e le ricchezze che abbagliano l’occhio! - e la campana si ruppe, e anche Ricciolo d’oro cadde in terra, trasformato in un pezzetto di vetro.

A sera, Stellina d’argento non vedendolo tornare, cominciò a stare in gran pensiero e quando, ati tre giorni, ancora non l’ebbe veduto, decise di andare a cercarlo. Cammina, cammina, arrivò ai piedi della montagna e trovò la leprina che stava accovacciata in terra e si lamentava fortemente. Nonostante l’angoscia che le stringeva il cuore per il fratellino, si fermò ad accarezzarla con dolcezza:

- Che hai, poverina? Chi ti ha tagliato le zampette?

- Nessuno me le ha tagliate, io le ho prestate ad un ragazzo che voleva andare a raccogliere il fiore della verità e che non è tornato più indietro dal giardino incantato, come tanti altri...

- Oh, leprina, leprina! Quel ragazzo era certamente Ricciolo d’oro, il mio fratellino!

- Difatti aveva un ricciolo d’oro zecchino dietro un orecchio...

- Oh, leprina leprina! Voglio salvarlo, come posso fare?

- E’ difficile, bella figliola!

- Non importa.

- Ti costerà gran sacrificio...

- Non importa.

- Allora, sia come vuoi. Cercherò di aiutarti per quello che posso. Ma posso poco. Ascoltami. Non ho più da darti le mie zampette per scalare la montagna di cristallo, perché già le ho date a tuo fratello e non me le ha portate indietro, non ho da darti nulla per fasciarti i piedi affinché tu non scivoli, e gli stracci non servono, ci vogliono cose vive. Bisognerebbe tu tagliassi le tue trecce, vicino vicino al capo, e con quelle te li coprissi. Stellina d’argento rimase un attimo, un brevissimo attimo, silenziosa, poi, lesta lesta, prese un coltellino che era proprio per terra accanto alla leprina, si tagliò le lunghe trecce d’oro, e con quelle fasciò i piedini nudi.

- Bene, mia cara, credo tu salirai benissimo e velocemente la montagna, e che codeste tue scarpette ti porteranno in un baleno al castello incantato. Stammi attenta ora: entra e attraversa le varie stanze senza fermarti neppur un secondo a guardare, ad ammirare, le meraviglie che contengono. Pensa che nell’ultima troverai il tuo fratellino, ridotto ad un pezzetto di vetro. In quella stanza vedrai una campana di cristallo con dentro un fiore rosso; prendila, ma prima raccogli

tutti i pezzetti di vetro che vedi per terra, tutti, anche i più minuscoli, ognuno di essi può essere il tuo fratellino! Torna poi a fare di corsa tutta la via fin fuori dal castello, ed allora apri il tuo grembiule e lasciali cadere per terra, ma tieni ben stretta la campana col fiore.

Stellina d’argento la ringraziò moltissimo e s’avviò. Come aveva detto la leprina, fu in un attimo al castello, ed entrò. Intorno a lei le magnifiche cose esposte nelle stanze pareva spandessero luce per colpirla di più... Attraversò la prima di corsa, nella seconda erano i dolci e si turò il naso per non sentirne il profumo, ma in quella delle vesti, dei giocattoli e dei gioielli faceva una terribile fatica ad andare avanti. Tutte quelle splendide cose la chiamavano gridando come persone, con voci così forti, e che sempre più forti diventavano, da farla stare male. Incespicava con i suoi poveri piedini fasciati dalle trecce d’oro, andava ad occhi chiusi quasi a tastoni, con la testa che le girava per il gran rumore. Finalmente arrivò nell’ultima stanza, e il pavimento era seminato di pezzetti di vetro, alcuni grandi, altri piccini, altri piccolissimi. Raccogli, raccogli, raccogli, la schiena le doleva da non poterne più, ma sempre raccoglieva, attenta a non lasciarne neppure uno. Quando ebbe finito, dopo molte ore, afferrò anche la campana di vetro col fiore, che cominciò a strillare da rintronarle le orecchie. Stanca morta, sfinita, riuscì ugualmente a correre fino al portone del castello e uscì nel giardino. Lì, lasciò cadere in terra i pezzetti di vetro che si tramutarono subito in tanti bambini e ragazzi, e fra loro c’era anche Ricciolo d’oro. Tutti insieme, a scivoloni, scesero la montagna incantata. In fondo li aspettava la leprina.

- Fammi dare da tuo fratello le mie zampette - le disse questa buona amica - ed io pure ti restituirò qualche cosa.

Infatti, appena Ricciolo d’oro le ebbe date le sue zampine, le trecce d’oro di Stellina d’argento rispuntarono come per incanto, più belle e più lunghe di prima. Allora, abbracciata e baciata la buona leprina, salutati gli altri ragazzi che se ne andarono verso le loro case dove li avevano certo pianti per morti, i due fratelli tornarono a palazzo reale, e misero la campana di vetro col fiore rosso sopra un bel piedistallo di marmo lavorato, proprio in mezzo al giardino. Dopo

poco il giovane re e la giovane regina vennero a fare una eggiata nel parco, e videro stupiti quel nuovo oggetto e i due giovani giardinieri.

- Che è questo? chi siete voi? - chiese il re.

- Questo, Sacra Maestà, è il fiore della verità che risponde il vero a chi lo interroga, e noi siamo... ecco, veramente non sappiamo chi siamo, e volevamo appunto domandarlo al fiore.

- Uhm - fece il re parecchio stupito - domandate pure, sono curioso di sentire che cosa vi risponde.

- Chi siamo, bel fiore?

- Siete i figli del re e della regina qui presenti - rispose una voce argentata. Re e regina si guardarono a bocca aperta.

- E i gatti, fiore? - chiese il re - Non erano quelli i miei figli?

Ma il fiore raccontò per filo e per segno tutta la storia, e figurarsi la felicità dei due sovrani! La vecchia regina, che aveva sentito dalla sua stanza (perché la voce del fiore della verità risuonava forte), scappò subito in fretta più lontano che poté. Si fecero grandi feste, e vennero a corte anche i due vecchi pescatori, ma chiesero di abitare la casetta del giardiniere e servirgli di aiuto come avevano fatto i ragazzi prima di loro, perché non si sentivano di vivere nelle magnifiche sale del castello e di fare i principi, come avrebbero voluto il re e la regina. Io

non so se sia esatto, ma in Russia dicono che questa storia sia proprio vera, e che da qualche parte si trovi nascosta la famosa campana col fiore rosso dentro, e che il fiore parli ancora se gli -si chiede qualche cosa. Ma dove sia non si sa... Forse per trovarla ci vorrebbero un’altra volta la. leprina e Stellina d’argento. Già, dite voi, e la leprina? La leprina venne a corte il giorno stesso e pregò Ricciolo d’oro di bagnarla nel lago dei pesci fatati e di accarezzarla col fiore. Fatto questo, si trasformò in una bella Fata: Fata Smeraldina, l’avete certo già capito, e prese parte a tutte le feste facendo molti bellissimi doni a tutti.

La lacrima della vita

“Il mago aveva creduto di mettere al sicuro la sua vita: ma una lacrima è facile a cadere...”.

C’era una volta un potentissimo mago che viveva in un castello sulla cima di un monte. Un castello che levava il fiato al solo vederlo, tanto era triste, scuro e tenebroso. Tutto attorno anche la natura sembrava essersi intristita. Le poche piante che riuscivano a nascere fra rupe e rupe, non arrivavano mai a metter le foglie. Facevano tutto il possibile, poverine, per riuscirci, ma venivano bruciate dal sole, o stroncate dalla pioggia e dalla grandine. Non s’era mai visto il colore di un fiore... Gli unici fiori erano cardi, e con certe spine che sembravano lance! E il mago, poi! Era tetro e triste come il suo castello! Si diceva che avesse trovato il modo di vivere eternamente, perché era riuscito a concentrare tutta la sua vita in una lacrima e, finché questa lacrima non fosse stata pianta, non c’era per lui nessun pericolo di morire! La lacrima l’aveva affidata a sua figlia, la bellissima Ljuba, ed era ben sicuro che ella l’avrebbe conservata intatta, perché aveva il cuore anche più crudele di quello del padre e non c’era, quindi, pericolo che potesse piangere per nessuna ragione al mondo. La fama della crudeltà del mago e della bellezza di Ljuba si era sparsa per le terre vicine, così che molti giovani coraggiosi avevano tentato di raggiungere il castello per uccidere il mago, e sposarne la figlia. Arrivavano con magnifiche armi che brillavano come l’argento, e chiamavano a duello il mago. Ma il mago non appariva. Appariva invece davanti a loro Ljuba, con i biondi capelli sciolti e la veste di velo bianco tempestata di gioielli. Era tanto bella che sembrava una dea, e i giovani guerrieri lasciavano cadere le armi e rimanevano lì, come incantati, perché in realtà non avevano mai visto al mondo fanciulla più bella di questa, che sorrideva loro dolcemente tenendo nelle mani, bianche come camelie e affusolate come gigli, una coppa d’oro, ricolma di vino color del rubino. Ammaliati da quel sorriso bevevano, e subito cadevano a terra fulminati. Poco dopo le loro armature erano appese insieme a tante altre sulla palizzata che cingeva il giardino, in cui nascevano soltanto fiori color del sangue. E ormai erano state tante le vittime

della feroce Ljuba, che su ogni palo era attaccata un’armatura. Soltanto un palo rimaneva vuoto: quello che aspettava le armi del figlio dello zar, del principe Igor, il quale non si occupava della bellissima Ljuba, perché amava ardentemente la sua fidanzata Rosa-in-fiore, che presto avrebbe potuto sposare. Ma un giorno, quando il principe Igor arrivò al castello di Rosa-in-fiore, per annunciarle che lo zar aveva finalmente fissato il giorno delle nozze, trovò tutti in lacrime. La principessa era improvvisamente scomparsa e vane erano state tutte le ricerche fatte dai cortigiani e dai suoi fratelli. Sembrava che si fosse volatilizzata, perché erano stati scandagliati e asciugati tutti gli stagni e i laghetti dei dintorni, ma il corpo di Rosa-in-fiore non si era ritrovato. E il povero Igor, dopo avere anche lui per giorni e giorni vagato per le campagne e per le montagne alla ricerca della sua fidanzata, aveva dovuto tornarsene a corte. Lì, decise di andare con una nave per i mari di tutto il mondo chi sa che Rosa-infiore non fosse stata rapita dai briganti, venduta ai mercanti di schiavi, e ora si trovasse in qualche porto dell’Oriente! Ma invece la povera Rosa-in-fiore languiva nella cella di una torre buia, dove non c’erano finestre, e dove un filo di luce e di aria, proprio per non rimanere soffocati, arrivava da un buco del muro, un buco grosso come una nocciola. Sulla sua testa sentiva svolazzare i pipistrelli, mentre di fuori arrivavano i lamenti dei gufi e delle civette che vegliavano a turno sulla torre. Che cos’era successo? Il perfido mago, nella speranza che il principe Igor dimenticasse la fidanzata e venisse finalmente, l’aveva fatta rapire e rinchiudere nella torre. Una sera la principessa era tanto triste e si sentiva così infelice che cominciò a cantare una nenia piena di nostalgia: sognava le chiare sale del suo castello e il bel principe Igor, il suo promesso sposo, che forse... ahimè, non avrebbe rivisto mai più. E il suo canto era così triste ma così soave che anche i gufi e le civette si erano zittiti, e nella cella i pipistrelli non svolazzavano più ma stavano attaccati al soffitto senza muoversi. Tutto ad un tratto, la principessa sentì un cigolio di catenacci e di chiavi. Rimase lì col fiato sospeso perché non si era mai accorta che ci fosse una porta. Il cibo glielo porgevano per una piccola grata dalla quale ava appena un piatto e una bottiglia. E nel vano della porta, che si aprì con uno sferracciar di catene, vide apparire una ombra goffa e deforme che reggeva in mano una lampada d’oro. Era il mago Sempre-vivo :

- Bella Rosa-in-fiore, ti ho sentito cantare e non ho potuto resistere al desiderio di venire a pregarti di cantare ancora per me... Sono tante notti che non riesco a dormire perché Ljuba, la mia cara figliuola, mi ha lasciato per andarsene nel suo

castello incantato, là, sulle rive del mare... E io mi sento così solo... Sono vecchio ormai.

Ma la principessa gli rispose sospirando:

- Come vuoi che possa cantarti qualche cosa che ti renda il sonno e la serenità? Sono così disperata, che soltanto lamenti e singhiozzi escono dal mio canto... Ridammi la libertà, ridammi il mio fidanzato e ti prometto che canterò per te tutte le più belle canzoni, quelle che fanno l’anima serena e il cuore allegro... - e cominciò a singhiozzare così forte che i pipistrelli, impauriti, ricominciarono a svolazzare qua e là.

Lì per lì, il mago aveva quasi voglia di arrabbiarsi, e stava già per alzare il suo bastone, quando la principessa si gettò ai suoi piedi e cominciò di nuovo a pregarlo con una voce che avrebbe fatto intenerire i sassi: - Mago, caro mago, tu sei tanto potente che puoi tutto quello che vuoi. Accontentami... Fammi vedere ancora una volta il mio Igor, e poi mi rassegnerò al mio destino e vedrò di dimenticare il mio dolore per cantarti canzoni liete e serene...

Il mago, che aveva una gran voglia di sentir cantare Rosa-in-fiore, cercò di fare la voce dolce:

- Va bene, ti accontenterò. Ma promettimi che subito dopo mi canterai la più dolce delle ninne nanne, perché stanotte possa finalmente dormire...

Si frugò in tasca e tirò fuori un sacchetto, e da quel sacchetto uno specchio, che pose sotto gli occhi della principessa:

- Guarda!

E Rosa-in-fiore guardò trepidante, ma vide il suo volto scarno e pallido, e tutto rigato di lagrime. Poi, lo specchio si appannò, come se qualcuno vi avesse respirato sopra, si schiarì di nuovo e apparve il volto malinconico del giovane principe. Ma accanto al suo, un altro viso, e questo viso era di donna: una donna bella come poche, con lunghi capelli biondi, gli occhi color dell’acciaio e freddi come la pietra dura. Il mago riconobbe subito sua figlia, e si arrabbiò perché capì che in quel fatto c’era qualche cosa che non andava. Gettò per terra lo specchio che si ruppe in mille pezzi e, rivolto a Rosa-in-fiore, le disse tutto agitato:

- Scendi quella scala, corri nel sotterraneo, attraversa senza voltarti dieci sale, poi con questa chiave - e le porse una grossa chiave d’argento - apri la porta di ferro che ti vedrai davanti, libera il Vento e portalo su da me!

Rosa-in-fiore, felice di poter uscire dalla cella e di vedere finalmente un po’ di luce, scese le scale, si trovò nel sotterraneo, percorse, senza voltarsi indietro, le dieci sale, arrivò alla porta di ferro, l’aprì con la chiave d’argento e si trovò in una caverna, dove tutto era come avvolto da un fruscio leggero di vento.

- Chi sei, bella fanciulla? - disse una voce.

- Caro Vento, sono Rosa-in-fiore. Mi manda il mago Sempre-vivo a dirti che ha bisogno di te - rispose la principessa, che per la verità sentiva la voce ma non riusciva ancora a capire da che parte venisse.

- Mi metto il mantello e vengo...

E Rosa-in-fiore attraverso un ondeggiare confuso vide finalmente il Vento. Dal gran soffiare le guance gli erano rimaste così gonfie che sembrava avesse in bocca una mela, e i capelli svolazzavano qua e là come i nastri di un ventilatore. Però doveva essere molto educato perché si inchinò davanti alla principessa e le disse:

- Bella Rosa-in-fiore, io non so ancora che cosa il mago voglia da me... Ma certamente mi manderà in giro per il mondo... Se tu avessi bisogno di qualche cosa, non fare complimenti...

- Oh, caro Vento, lo vedo che sei buono e gentile, anche se talvolta sradichi piante e sollevi tegole; ma ti prego... se soffiando per il mondo tu vedessi il principe Igor, il mio fidanzato, digli che io sono qui prigioniera del mago Sempre-vivo e che mi venga a liberare!

- Stai tranquilla - rispose il Vento - sarò lieto di farti un favore. E poi... se posso farla un po’ in barba al mago ne sarò contentissimo. Che diritto ha di tenermi chiuso anche per mesi in questa caverna? Il mio mestiere è quello di soffiare!

E così dicendo, uscì con la principessa dal sotterraneo, salì con lei le scale, e arrivò davanti al mago.

- Comando, posso e voglio - tuonò il mago. - Va’ subito oltre le terre, oltre i mari, fino al mare sulle cui rive è il palazzo di mia figlia Ljuba. Chiedile come mai non è ancora tornata qui, e perché non ha fatto quello che doveva fare. Dille anche (capirà lei che cosa intendo dire) che l’albero è spoglio e aspetta il suo

frutto...

Batté contro la parete il bastone d’oro che aveva in mano e subito la parete si aprì, e il vento, con una furia che fece cigolare tutti i mobili della stanza, uscì soffiando e fischiando, non senza prima aver dato, però, uno sguardo d’intesa alla principessa. E il vento scese giù rapidamente per le balze del monte e via di corsa per il mondo! Era un viaggio lungo quello che doveva fare, e così nei momenti di buon umore si divertiva a scherzare con le cime degli alberi, facendo turbinare foglie e rami; ma nei momenti in cui voleva un po’ più affrettarsi ecco che si lasciava dietro rami spezzati, tegole rotte, vortici di aria. E la gente correva in casa, tappava l’uscio e chiudeva le finestre, e si faceva il segno della Croce perché sapeva che di solito il vento precede la tempesta. Ma il vento aveva troppa fretta per fermarsi in un solo luogo, e così seguitava la sua corsa; e quando i marinai lo vedevano arrivare a cavallo delle onde, si raccomandavano al santo protettore dei naviganti perché sapevano che il vento può far delle onde quello che vuole; ma poi respiravano non appena lo vedevano andarsene lontano, oltre l’orizzonte, e l’acqua si rimetteva tranquilla e le reti si riempivano di pesci. Così, a forza di soffiare, di sibilare e di far mulinelli, arrivò al mare sulle cui rive c’era il castello di Ljuba. Oh, era un magnifico castello, questo, e ben diverso da quello del mago Sempre-vivo! Non c’erano qui sterpi brulli, rovi e spini, ma un meraviglioso giardino circondava il castello, un giardino che era sempre, fiorito in qualunque stagione dell’anno e che sembrava, a vederlo dal mare, un’enorme cesta ricca di tutti i più smaglianti colori. Cascate di rose si chinavano fin sull’acqua, mentre tralci di glicini circondavano come collane i salici che avevano le foglie verdi come smeraldi chiari. E le aiuole erano perennemente irrorate da una pioggia di mille gocciole color d’arcobaleno, che scendevano dolcemente da grandi fontane, che mandavano verso il cielo il loro zampillo. E il castello, poi! Tutto di marmo rosa, con grandi colonne di corallo e di turchese, con le finestre che al posto dei vetri avevano diamanti sfaccettati, e sulle torri galletti d’oro tempestati di rubini e di topazi, e che volteggiavano continuamente nella brezza leggera che veniva dal mare. E si sentiva sempre un canto dolcissimo, così dolce che quello delle sirene era niente al confronto, perché nessuno al mondo sapeva cantare così bene come Ljuba per attirare nel suo castello i naviganti che avevano la brutta ventura di are di là. C’era ato anche il principe Igor nel suo viaggio per il mondo alla ricerca della sua Rosa-infiore, e a sentire quel canto che gli ricordava quello soavissimo della fidanzata, aveva dato ordine ai suoi marinai di gettare l’àncora e di mettere in mare il

battello perché egli potesse scendere a terra. Ma, purtroppo, non vide Rosa-infiore, e appena entrato nel giardino gli venne incontro una fanciulla sconosciuta che lo condusse dentro il castello. E in una sala dalle pareti di zaffiri e dal pavimento di smeraldi, un’altra fanciulla bellissima, con una corona regale sul capo, vestita di veli color del sole, lo accolse offrendogli una coppa colma di vino prezioso. Subito dopo il principe Igor sentì la testa farsi pesante e un gran sonno chiudergli gli occhi. Poi, perse la conoscenza. Ma quando Ljuba lo vide sdraiato sul divano sul quale lo avevano adagiato le ancelle, le apparve così bello che non ebbe il cuore di ucciderlo, come sempre aveva fatto con i giovani guerrieri che anche nel castello paterno aveva ammaliati con la sua bellezza, addormentati col suo filtro magico, e poi uccisi. Ora, stava china su di lui tenendo in mano il pugnale col quale avrebbe dovuto colpirlo, ma esitava, anche se sapeva che se si fosse innamorata di un uomo mortale avrebbe perduto tutti i suoi poteri magici. Il Vento la trovò così e non appena vide che non era sola ma c’era accanto a lei il principe Igor, incominciò a soffiare tanto forte che il principe si destò, e si guardò attorno, senza riuscire a capire dov’era e come c’era venuto. E subito il Vento, senza neppure prendere fiato, cominciò a dire:

- Ljuba, il mago tuo padre mi incarica di avvertirti che egli è molto arrabbiato con te perché non sei ancora tornata a casa; mi ha detto di dirti che l’albero è spoglio e aspetta il suo frutto. Tu capirai che cosa ha inteso dire... E quanto a te, principe Igor, la tua Rosa-in-fiore ti supplica di andare a liberarla perché è chiusa già da tanto tempo nella torre del Mago, e se tu non la liberi morirà di dolore...

Ljuba a sentir parlare di Rosa-in-fiore andò su tutte le furie:

- Taci, sciocco Vento! Che cosa vuoi che gliene importi al principe Igor di una semplice fanciulla della terra? Ormai egli è in mio potere e poiché lo amo sarà il mio sposo, anche se per sposarlo perderò i miei magici poteri... - e urlava nella speranza di coprire la voce del Vento.

Ma il principe Igor aveva sentito, e al nome di Rosa-in-fiore era balzato in piedi:

- Amico Vento, caro Vento, portami, te ne supplico, da lei... L’ho cercata per tutto il mondo e se non riuscirò a trovarla morrò io pure di dolore... - e così dicendo saltò svelto sulle ali del Vento, e prima che Ljuba potesse fare un gesto, erano spariti tutti e due alla sua vista.

Ora il Vento rifaceva il cammino già percorso e si sentiva molto lieto perché capiva che stava succedendo qualche cosa di bello e di buono. Igor, mentre volavano veloci su monti e mari, gli chiedeva ansioso della sua Rosa-in-fiore, perché temeva di arrivare troppo tardi, e che il cattivo mago l’avesse già fatta morire di stenti. Ma il Vento lo rassicurava dicendogli che la speranza l’avrebbe tenuta in vita, e intanto volava via sempre più veloce, tanto che sulla terra non si vedevano che turbini e grandi nuvole di foglie e di polvere che rendevano quasi ciechi gli uomini. Finalmente arrivarono al castello del mago Sempre-vivo. La ninna-nanna che gli cantava Rosa-in-fiore aveva avuto il potere di farlo cadere in un sonno tanto profondo che nulla riusciva a risvegliarlo. Così non poté sentire il grido di felicità della principessa quando vide comparirle davanti, a cavalcioni del Vento, il suo Igor. Ed era tanto smarrita dalla felicità e tanto smarrito era anche Igor, che non si ricordarono neppure di ringraziare il Vento che, approfittando del sonno del mago, se ne fuggì via per non correre il rischio di essere di nuovo rinchiuso nel sotterraneo. Ma ora il principe Igor e la principessa Rosa-in-fiore pensarono che era molto meglio scapparsene in fretta prima che il mago potesse risvegliarsi; ma, mentre stavano per incamminarsi, ecco che, turbinosa più del vento stesso, arrivò Ljuba. Aveva un viso color della tempesta, ed era tanto arrabbiata che aveva perso perfino la sua meravigliosa bellezza:

- Dovete fare i conti con me! - gridò. Non sperate di essere liberi... Il mio potere incantato è più forte di quello di mio padre perché io ho in mano la sua vita stessa... Che Rosa-in-fiore se ne vada anche subito non m’importa... Vada pure... da questo momento è libera. Ma ho deciso che il principe Igor sia mio sposo, e mio sposo sarà... Lo porterò con me nel mio palazzo incantato, là sulle rive del mare.

Ma Rosa-in-fiore cominciò a singhiozzare

- Oh, preferisco morire piuttosto che abbandonare il mio amato Igor! Sarebbe stato meglio che fossi morta, anziché rivederlo per perderlo di nuovo e per sempre! - e piangeva in modo tale che avrebbe fatto intenerire una roccia.

- Anch’io - disse - preferisco morire piuttosto che lasciarti, mia dolce Rosa-infiore - e si tolse dal fianco il pugnale facendo l’atto di colpirsi.

Ma, sentendo questo, il mago si destò. E quale fu la sua meraviglia nel vedere che ora Rosa-in-fiore stava inginocchiata davanti a Ljuba, invocando pietà per sé e per Igor! Ma la meraviglia e la sua ira furono tanto più grandi, quando si accorse che dal viso di Ljuba era scomparsa quella espressione di grande crudeltà che le era abituale. Ora Ljuba era combattuta fra il dolore che le procurava il fatto che il principe Igor non si curasse di lei e preferisse morire piuttosto che abbandonare la sua fidanzata, e il desiderio di vendicarsi di Rosain-fiore. Ma, quando Rosa-in-fiore, alzatasi da terra, le prese le mani con le sue morbide e affusolate, e avvicinando il suo volto a quello di lei, la baciò soavemente dicendole: - Non essere così addolorata... Che cosa posso fare per te? Ljuba sentì che qualche cosa si scioglieva in lei, qualche cosa che era sempre stato come imprigionato nel suo petto, e qualche cosa che batteva ora fortemente dandole un senso di angoscia, sì, ma anche di commozione come non aveva mai provato, e che la spingeva verso la principessa nel desiderio di diventare buona come lei, dolce come lei, perché tutti potessero amarla. E poiché le braccia di Rosa-in-fiore erano aperte davanti a lei, vi si gettò dentro vinta dalla commozione. Fu allora che un lacrima le scese giù lenta per la guancia e si perdette sui veli bianchi del suo vestito. In quello stesso momento si sentì un gran rumore, come di tuono, e poi uno schianto; qualche cosa si era spezzato e infranto. Il mago cattivo cascò morto per terra, e subito dopo una fiamma avvolse il suo corpo. Dopo un minuto non c’era più per terra che un mucchietto di cenere nera. Ora, Ljuba era sciolta dall’incantesimo ed era diventata una donna come tutte le altre. Non provava più nessun rancore per Rosa-in-fiore, anche se la vedeva stringersi lieta al suo Igor, e la felicità di sentirsi finalmente

liberata da tutto quel maleficio che l’aveva fatta così crudele, era tanto grande che non pensava più ad altro. E che sorpresa quando, di lì a poco, si affacciò alla finestra che dava sul dirupo, prima così brullo e selvaggio! Improvvisamente era nato un meraviglioso giardino, molto più bello di quello della sua isola incantata: non c’erano più sterpi e spine, ma fasci di rose e di giacinti che spandevano un profumo delizioso. E fra gli alberi ricoperti di foglie verdi, gli usignoli cantavano il loro inno di trilli al cielo azzurro. Ma che cos’era quel corteo che avanzava dal fondo del giardino? Oh, meraviglia! Erano cento, duecento giovani, vestiti delle loro armature d’argento che brillavano come gemme, che la morte del cattivo mago aveva fatto risuscitare, e che ora venivano verso il castello, il quale non appariva più tetro come una volta, ma alzava nel sole le sue torri rosate, e specchiava nei laghetti coperti di ninfee l’azzurro e il candore dei suoi marmi. E il più bello di essi, che aveva in capo la corona di principe, avanzò fino al luogo nel quale si trovava Ljuba, piegò il ginocchio a terra e le disse:

- Bella principessa, siamo tutti tuoi sudditi. Vuoi regnare su di noi?

E Ljuba si accorse che assomigliava al principe Igor, anche se non era bello come lui. E lì vicino a lei, Igor si rallegrava perché nel giovane principe aveva riconosciuto suo fratello Ivan, scomparso qualche anno prima. Insomma, la fine della storia ve la potete ormai immaginare. Il Principe Igor e Rosa-in-fiore tornarono nel loro paese, si sposarono e vissero felici. E altrettanto felici vissero la principessa Ljuba e il principe Ivan, che abitarono nel castello, e il ricordo di quegli anni crudeli venne cancellato dalla bontà e dallo spirito di carità della principessa, che in breve fu adorata da tutto il suo popolo.

Il cavallo del principe Olieg

“Olieg amava molto il suo bel cavallo, fido compagno di tante battaglie: ma, un giorno, un mago...”.

“Retivij”, il cavallo del principe Olieg, era il più bello di tutta la Russia. Nessun altro aveva una criniera altrettanto folta e lunga, e una coda similmente ondeggiante al vento nel galoppo veloce. Né occhio eguale aveva nessuno, occhio che fiammeggiava, intelligente quanto, e più di quello di un uomo.

- Il principe Olieg ama il suo cavallo quasi fosse una persona, gli parla come ad un amico... Che stranezza!

Così dicevano taluni, ed altri rispondevano:

- Non è da stupire, se si pensa in quante battaglie quella bestia gli è stata compagna, come sono stati valorosi insieme, cavallo e cavaliere.

- Dicono appunto che il principe parli col cavallo delle ate prodezze, e che l’animale scuota la testa e nitrisca, come se, non solo lo comprendesse, ma anche volesse rispondergli.

- E’ un cavallo straordinario, quello del principe Olieg.

Questo diceva la gente, e corrispondeva alla pura verità. E il valorosissimo principe era ormai vecchio e stanco, ma ogni giorno usciva a cavallo, si recava nell’aperta campagna e, sotto un albero, rinvangava col suo Retivij le gesta ate.

- Ricordi quella volta contro i Tartari? Eravamo un corpo solo io e tu, davanti al Gran Khan in persona... Ricordi il lampeggiare delle lance e degli scudi? Roteava forte, quel giorno, la mia buona spada fedele. Il Gran Khan si ritirò davanti a noi, l’impeto del tuo galoppo, il fiammeggiare del tuo occhio selvaggio, la forza del mio braccio, lo fecero voltare bandiera...

Retivij nitriva forte, scuotendo la bella criniera.

- Oh, amico mio, mi avesse colto la morte in quell’ora gloriosa! Adesso mi sembra che essa sia nascosta in ogni angolo, in attesa di colpirmi, e ne provo un’immensa angoscia...

Retivij chinava la fulva testa con espressione dolorosa. E tanto era angosciato il povero principe da questo suo pensiero, che pensò di recarsi da un astrologo, ossia da una specie di mago. Montò in groppa al cavallo e, vai e vai per lande e foreste, dopo alcuni giorni di viaggio arrivò al castello dove quello dimorava, perché era un mago piuttosto ricco che si era costruito una superba dimora sopra una rupe scoscesa, a picco sul burrone. Toc, toc. Venne l’astrologo in persona ad aprire, e Retivij, quando lo vide, nitrì solennemente, forse perché impressionato dalla sua immensa vecchiezza. Il mago aveva barba bianca e lunga fino ai piedi, era così curvo da sembrare piccolo piccolo, la sua pelle pareva autentica cartapecora, e il cranio, senza nemmeno un capello, faceva luce tanto era lucido.

- Che vuoi da me, principe Olieg?

Il principe non stupì ch’egli sapesse il suo nome: prima ragione, perché sapeva d’essere, per la sua casata e il suo valore, noto in tutta la Russia, e seconda perché è mestiere proprio dei maghi di sapere le cose senza bisogno di domandarle.

- Tu vuoi ch’io legga per te nel futuro continuò ad indovinare l’astrologo.

- Sì, potente mago, è questo ch’io voglio, ed ho viaggiato sette giorni per venire a chiedertelo.

- Sta bene, entra, principe Olieg.

Lo fece entrare e invitò ad entrare anche Retivij, li fece are per i corridoi e saloni, fino ad una stanza con altissime finestre strette strette, chiuse da vetri rossastri. Qui il mago prese un catino di acqua pura, vi

stese sopra le mani e recitò una curiosa filastrocca parecchio incomprensibile nella quale ricorreva frequentemente la parola “Abracadabra”. L’acqua parve mettersi a bollire benché fuoco non ce ne fosse, e si levò un fumo bianco che saliva nell’aria a spirali. Il mago agitava le mani ossute in mezzo a quei serpentelli e pareva ammattito.

- Tu morirai per il tuo cavallo, principe Olieg - sentenziò infine l’astrologo dopo essersi agitato qualche secondo a quel modo.

- Dovrò separarmi anche da lui? - domandò angosciato il vecchio guerriero.

- Da tutto dobbiamo separarci, principe Olieg - rispose il mago e, senza tanti complimenti, non aprì più bocca, ma li guidò fuori del portone.

Il viaggio di ritorno avvenne in maniera assai triste. Invece di galoppare il principe costrinse il cavallo ad andare al o, per timore di un incidente. Non doveva morire per colpa dell’animale? Era bene avere prudenza. E andando così adagio rimuginava nel suo cervello le parole del mago:

- Possibile ch’io debba credere a questa storia? Io e Retivij siamo stati insieme per anni, egli mi ha tante volte salvato la vita in battaglia... Eppure perché sono andato dal mago se non voglio ascoltarlo? Potrebbe venirmene disgrazia... Dovrò separarmi da te, vecchio amico. Così ragionò per tutta la strada e invece di tornare fino al palazzo sul cavallo, lo lasciò alla sua fattoria di campagna.

- Vostra signoria lascia qui Retivij ? - domandò tutto stupito il fattore, che sapeva quanto il principe tenesse a quell’animale noto in tutta la Russia.

- Sì, debbo lasciarvelo in custodia, ma mi raccomando, abbiate per lui ogni cura.

E in così dire diede una borsa di monete d’oro all’uomo, che lo guardò piuttosto sbalordito.

- Uhm, moglie mia, capricci di signori!

Pianta in campagna un cavallo puro sangue che tutti gli invidiano, e mi dà una somma quasi favolosa perché glielo custodisca. Ci capisci qualche cosa, tu? No, anche la moglie non ci capiva nulla, ma il suono delle monete era confortante lo stesso, e non stettero più a riflettere alla stranezza del caso. Però il principe, arrivato al palazzo, non trovò la pace e la quiete che aveva sperato; la medesima angoscia della morte che lo aspettava nascosta in qualche luogo lo opprimeva. E Retivij ? Non era animale da fattoria... Ed aveva troppo vissuto accanto al padrone, l’amava troppo. Non mangiava più, non correva più, restava immobile nella sua greppia con l’occhio fisso a terra. Arrivò al palazzo del principe un messo:

- Eccellenza, per quanto abbiamo fatto tanto per lui, il vostro cavallo è morto, non voleva nutrirsi, si è lasciato morire.

- Povero amico mio! - esclamò il principe - come sono stato sciocco! Ti ho sacrificato per nulla! Tu sei morto, e io vivo...

- Eh, già Eccellenza - disse allora il suo segretario che sapeva la faccenda della predizione del mago - non è accaduto nulla perché siete corso ai ripari; vi siete separato dalla cagione della vostra morte.

- Sì, ma mi sento colpevole verso Retivij. Io l’ho abbandonato ed egli non ha abbandonato me... Voglio almeno andare a vederlo per l’ultima volta.

E’ benché servi e intendenti lo sconsigliassero, alla sua tarda età, dal fare una cosa del genere, il principe Olieg partì in carrozza per la fattoria. Nella stalla, così come era morto, giaceva il cavallo che il fattore non aveva voluto muovere, in attesa di ordini del padrone.

- Oh, mio coraggioso e fedele compagno, mio buon Retivij, tu sei stato più forte e leale di me... Io avrei potuto are con te i miei ultimi giorni di vita e ti ho abbandonato! Addio, riposa in pace, tu che sei stato il più intelligente, il più bello, il più valoroso dei corsieri! Io sempre ti ricorderò!

E, dicendo queste ultime parole, il principe si chinò per baciare la testa del cavallo. In quel punto un sibilo sinistro fece agghiacciare il sangue nelle vene dei presenti alla scena: Una vipera che stava nascosta sotto la testa dell’animale balzò sul principe e lo morsicò. Chi correva a chiamare un medico, chi apriva la ferita e ne faceva uscire quanto più sangue poteva per cercare di togliere il veleno, chi strofinava le mani già semifredde del principe.

- Amici miei - disse egli allora con un filo di voce - vedo adesso quanto ero sciocco ad agitarmi, a volere conoscere il futuro... Quando suona la nostra ora dobbiamo andare, e rimetterci a Dio perché ne scelga il momento ed il modo. Invece del medico, che non può nulla per me, fatemi venire accanto il prete, vi prego, perché io mi possa riconciliare pienamente col Signore al quale non volli affidarmi con fiducia, senza chiedere di sapere ciò ch’Egli, nella sua infinita saggezza, mi nascondeva. E il sacerdote venne, ed il principe morì in pace vicino al fedele compagno delle sue battaglie ; come raccontano i vecchi russi, accanto al fuoco nelle lunghe serate d’inverno, ai nipotini che ascolta con i grandi occhi tondi, spalancati. che ascoltano con i grandi occhi tondi, spalancati.

I tre schiaffi

“ ... i quali schiaffi furono assai più piacevoli di tre monete d’oro per chi li diede, però, non per chi dovette prenderli”.

In una grossa borgata della Russia viveva un pope (ossia un pastore d’anime di quella terra): il quale, pur essendo uomo danaroso, aveva la malattia dell’avarizia. Un giorno, licenziò una povera donna, che faceva in casa i lavori pesanti, perché si era azzardata a chiedergli mezzo rublo in più del salario, all’anno. Il figlio di questa donna, giovane, svelto e intelligente, volle dare una lezione all’avaraccio: una mattina, gli venne incontro al mercato e gli chiese:

- Illustre signore, ti serve nulla?

- Mi serve un servo! - ringhiò il pope Non un cialtrone che voglia defraudarmi di un paio di Kopechi con la scusa di reggermi la sporta!... Un servo stabile, sgobbone, onestissimo, di poco appetito, di molta robustezza, di poche pretese.

- Signore - gridò l’altro - hai trovato il tuo uomo!... Io sono forte come un leone e sono capace di fare ogni lavoro casalingo.

- Adagio, caro! - disse il pope - Tutto dipende dalla ricompensa che domandi.

- Signore, io sono un uomo originale. Ho sempre desiderato, fin da quando fui in

età di ragione, di prendere a schiaffi un pope senza finire in gattabuia. Ora, ascolta: io ti servirò fedelmente per un anno, ma alla scadenza dovrai lasciarti appioppare tre schiaffoni.

Il pope diventò rosso di rabbia; ma la grande avarizia lo consigliò di accettare l’originale mercato. Che cos’erano, in fondo, tre. schiaffi?... Valevano ben più i rubli sonanti che avrebbe risparmiato! Rispose quindi: “va bene” e assunse da quel momento al proprio servizio il giovane. Fece presto a ringraziare la provvidenza, in quanto che il servitore si dimostrò veramente capace: sapeva cuocere, lavare, scopare, sarchiare le piante e curare le verdure dell’orto, ed era persino pratico di erbe aromatiche e di medicinali. In breve, egli diventò indispensabile: la sorella del pope lo considerava un essere eccezionale, il figlio della figlia della sorella del pope lo chiamava zio. Ma lui, il pope, covava nell’anima sua un’antipatia invincibile per il servitore: il fatto dei tre schiaffoni lo tormentava sempre di più, ad ogni giorno che Dio mandava in terra.

- Che schiaffi saranno? - pensava - Schiaffetti così per dire, di quelli che si chiamano buffetti, o schiaffacci a tutta spinta da far schizzare i denti di bocca?... In tal caso, bell’affare avrei combinato, se poi dovessi spendere dal dentista i rubli risparmiati col servo!

Tremava soltanto all’idea: e il tempo trascorreva veloce, un mese dopo l’altro.

Quando la scadenza era ormai prossima, il pope prese una estrema risoluzione: quella di confidarsi con la sorella, che si era accorta del suo stato d’animo.

- Che faccia di pappa fredda! - gli ripeteva - Che occhi appannati!... Che mani ballonzolanti!

Sperando che la furberia femminile suggerisse la scappatoia atta a salvargli letteralmente la faccia, egli dunque chiamò la sorella nello studio e spiattellò ogni cosa. La donna rifletté a lungo, poi disse:

- Fratello mio, hai una sola maniera di evitare un simile originale pagamento di salario. Comanda al servitore una cosa talmente difficile, che non gli sia possibile di cavarsela. Pur di mantener fede ai patti, egli cercherà di eseguire lo stesso il comando e incapperà in qualche grossa corbelleria. Così, senza disonore, tu potrai licenziarlo prima del termine, rompendo il patto per negligenza sua.

- Donne, donne! - sbottò il pope ammirato - Che astuzia!... Che finezza!... Che diplomazia!

Scartabellò alcuni vecchi libroni, cercò l’idea più originale e alfine esclamò:

- Ci sono!...

Chiamò il servitore e disse:

- Mio fedele, i Diavoli d’acqua, quelli che abitano sotto le onde del mare, tutti gli anni dovrebbero pagarmi una somma in rubli d’oro, perché li lasci in pace e non vada a turbarli con Croci e con funzioni. Ma da troppo tempo il tributo non mi giunge. Ti ordino di andare da quei Diavoli e di ottenermi il denaro con le buone o con le cattive.

Il giovane non batté ciglio. Si inchinò, scese nella rimessa della casa, si impadronì di una frusta e andò sulla riva del mare; e lì, cominciò a dare grandi frustate sulle ondicelle che si sospingevano a vicenda verso terra. Dopo qualche istante, fra una spuma e l’altra, sbucò fuori la testa rossiccia di un Diavolone delle acque.

- Olà! - urlò l’essere infernale con voce roca - Come ti permetti, vile creatura, di disturbare e di offendere la nostra immortale razza?

- E tu - rispose il giovane - come ti permetti di non pagare i debiti?... Se voi altri volete la pace lì sotto, perché non pagate al pope mio padrone il vostro debito?

- Io non so nulla di pope e di debiti! - replicò il Diavolo rosso.

- Davvero?... Ebbene, se non saltano fuori i soldi, io frusterò l’acqua con ben altri mezzi che con una semplice frusta da muli; e tu e i tuoi confratelli e relativa parentela non avrete pace e tranquillità.

- Ohibò! - brontolò l’altro - Mi sembri un pessimo carattere... Senti: ti ripeto che io non so nulla di pope e di debiti, ma ti manderò in mia vece un certo Diavoletto azzurro, che sa tutto e può rispondere a tanti problemi. Stai fermo, e aspetta!

Il Diavolone rosso scomparve sott’acqua; al suo posto, come d’accordo, schizzò fuori un Diavolino piccino piccino, color azzurro carico dalle corna ai piedi.

- Giovanotto! - trillò con una voce sottile da camlino incrinato - Mi hanno

riferito che tu hai delle pretese nei nostri riguardi!

- Certamente! - rispose il giovane - Voglio il tributo annuale che vi siete dimenticati di pagare al pope mio padrone.

- Senti! - insisté il Diavoletto - Io conosco bene il dare e l’avere del nostro conto: noi non abbiamo debiti con nessun pope!

Il giovane non si scompose.

- Piccolo maligno! - gridò - Brutto scimmiotto azzurro!... Come non sapessi, che i diavoli affermano sempre il contrario della verità!... Io non sono il tipo da celiare, capito?... Sborsa i rubli d’oro, o sono pasticci.

Il Diavoletto cambiò tattica:

- Ascolta, uomo: questa volta, la mia verità non ha contrario. Ad ogni modo, un sacchetto di monete d’oro è a disposizione tua e del tuo pope; però, stabiliamo una gara. Lo avrà colui di noi due che percorrerà più in fretta le rive in tondo di tutto questo mare.

L’altro si mise a ridere, a gola spiegata.

- Piccolo diavoletto grullo!... Si vede proprio che i diavoli del mare sono più sciocchi di quelli della terra!... Mi proponi una gara!... Ma mi inviti a nozze!... In

tutto il mondo non esiste persona che ignori le mie qualità di corridore!... Anzi, sono talmente campione che se accettassi la tua sfida, i miei ammiratori mi prenderebbero a gabbo, dicendo: “Bel coraggio!... Misurarsi con un poverino piccolo piccolo!”. No, no, caro ... Se non ti dispiace, ho un fratello minore che si batterà con te in vece mia.

Il diavoletto azzurro rispose che per lui l’uno o l’altro facevano lo stesso.

- Bravo! - approvò il giovane - Vado a prendere mio fratello!

Si spinse in un bosco poco lontano, preparò una trappola e riuscì a catturare due lepri; poi le ficcò dentro un sacco, tornò sulla riva del mare, tolse con garbo una lepre tenendola per le lunghe orecchie e chiamò il Diavoletto azzurro.

- Ecco il fratellino mio! - disse - Egli è ben soddisfatto di misurarsi con te alla corsa!

Il Diavoletto conosceva certamente i pesci del mare, ma non aveva mai veduto una lepre: bevve perciò la fola e replicò:

- Mi sembra che il tuo fratellino sia piuttosto strano, con quel po’ po’ di orecchie!... Ma, siccome è più basso di me, possiamo cominciare!

- Benissimo!... Pronti?... Via!

Il Diavoletto si lanciò a corsa frenetica, tenendosi sull’orlo della riva lambito dalle acque; e la lepre, lasciata libera nel medesimo istante, voltò la groppa e si precipitò come una freccia verso la propria tana. Il giovane, rimasto solo, tolse dal sacco la seconda lepre ; in breve, quel fulmine di Diavoletto apparve dalla parte opposta a quella di partenza.

- Mamma mia! - pensò il giovane - Questi demoni sono palle da schioppo!

- Ouff, ouff! - ansimò il corridore che ce l’aveva messa tutta.

- Amico, sei in ritardo! - gridò l’altro, indicandogli la lepre - Che lumaca!... Mio fratello è giunto ormai da cinque minuti buoni.

- Ouff, ouff! - ansimò l’altro più forte, perché all’affanno s’era aggiunto lo sbalordimento. -Dunque, vuoi essere così cortese da consegnarmi il sacchetto di rubli d’oro?

- Eh, che impazienza! - strillò il Diavoletto quando si fu rimesso in fiato - La parola di un diavolo è sacra: avrai la somma. Però, vorrei prima sfidarti a una prova più adatta. Tieni questo sasso: quello di noi che lo scaglierà più lontano si terrà il sacchetto.

Ancora una volta il giovane giocò d’audacia.

- Tutto qui? Abbi la cortesia d’attendere.

- Attendere?... Perché?

- La vedi, quella nuvoletta rosa sopra l’oceano?... Non appena arriverà sopra le nostre teste, vedrai un colpo eccezionale: le lancerò il sasso nel grembo ed essa se lo condurrà a so per il cielo. Siccome la nuvoletta era ancora distante, lo sgomentato Diavoletto profittò dell’occasione per tuffarsi fino alla grotta sottomarina del decrepito Diavolo nonno.

- Diavolo nonno! - esclamò - Quell’uomo di sopra è un campione che vince qualsiasi gara. Ci batte in forza e in destrezza.

Il vecchio saggio scosse il capo cornuto e disse:

- Mah!... Sarà meglio prenderla persa.

Purché quel furbo se ne vada lontano con la sua maledetta frusta, dagli il sacchetto promesso e pregalo di non venire più a darci fastidio. Il Diavoletto azzurro tornò a galla, riferì la ambasciata e consegnò il sacchetto tintinnante.

- Grazie! - disse il giovane - Parola per parola, non vi disturberò più.

Fischiettando riprese la via di casa: quando fu davanti al pope, gli pose il sacchetto sul tavolo.

- Padrone, ecco il credito che dovevi riscuotere dai Diavoli d’acqua. Ritengo di

averti servito anche stavolta in modo degno.

Il pope stralunò gli occhi.

- Ah, il... il... Già!... Il credito dei Diav... Oh, sì, sì, sì.

La lingua gli si era addirittura appiccicata al palato.

- Padrone - riprese il giovane - ti rammento a mia volta che oggi scade l’anno di servizio. Tu stesso mi conforti affermando che io sono stato un servitore bravo, fedele e disposto a realizzare ogni tuo desiderio. Intendo quindi riscuotere il mio onorario.

- Sicù... sicucù... sicuro! - balbettò il padrone - Tre bei rubli d’oro e...

- Nossignore!... Tre schiaffi. Devi permettermi di suonarti i tre schiaffi concordati. Più modesto di così, non saprei...

Il pope sospirò rassegnato e sporse innanzi il faccione da luna piena. L’altro si rimboccò la manica e mormorando: “Madre, in tuo omaggio!” mollò i tre schiaffoni.

Ragazzi, che sventole!...ll primo schiaffo raddoppiò la guancia del pope; il secondo gli fece sprizzare i denti per la camera; il terzo lo sollevò fino al soffitto, dove dette una zuccata da scrostare l’intonaco.

- Padrone! - gridò il giovane con volto beato - Credimi se ti affermo che ogni fatica è lieve, quando ci si compensa con una soddisfazione simile!... Siamo pari. Addio.

Il ciabattino e l’angelo Michele

“Perfino un angelo può imparare stando in mezzo agli uomini. E l’Angelo Michele apprese tre cose...”.

C’era una volta un ciabattino che aveva una numerosa famiglia e stentava a mantenerla perché la miseria batteva spesso alla porta di casa. L’unica ricchezza era una pelliccia vecchia e sdrucita che serviva a lui e alla moglie quando il freddo imperversava. Era necessario comperarne una nuova e a furia di economie egli era riuscito a raggranellare pochi rubli che, insieme all’incasso di alcune risuolature, avrebbero permesso di acquistare pelli di montone. Ma quando il ciabattino cercò di riscuotere i magri crediti, poté avere solo un saldo di venti kopeki e altre modeste ordinazioni di lavoro. Come fare? Non osava ritornare a casa senza le pelli e pensava al dispiacere della moglie, che desiderava da tanto tempo una pelliccia nuova. Il calzolaio, per consolarsi, si diresse verso un’osteria dove bevve sino all’ultimo sorso i venti kopeki. Quindi ritornò alla sua dimora camminando di lena e cantarellando una canzone dei tempi felici.

Indi pensava:

- Non ho bisogno di pelliccia, io... Ho caldo perché la vodka mi sostiene e mi permette di risparmiare i pochi rubli che avevo destinato alle pelli di montone... Ma... ma che dirà la mia povera moglie?...

Mentre se ne andava alternando le note della gaia canzone alle riflessioni, vide una forma bianca stesa dinanzi alla porta della cappella di S. Michele.

Si avvicinò cautamente e con un certo timore disse fra sé: - Non è uno spettro, ma un uomo... E allora perché non si muove e se ne sta al freddo, proprio vestito di bianco?...

Si chinò sul corpo disteso e poté constatare che si trattava effettivamente di un essere umano immobile e irrigidito. Fu colto da un improvviso senso di paura e scappò a gambe levate. Fatti pochi i, si pentì di essere fuggito e tornò indietro. L’uomo si era sollevato e stava appoggiato alla porta con un’espressione smarrita. Chiedeva forse soccorso? E se fosse un’anima dannata o un ladro? Pieno di incertezza il calzolaio riprese a camminare, ma il suo cuore era affannato. Perché abbandonare una povera creatura sulla via? Era questa la carità cristiana che doveva legare un essere all’altro? Forte di tali considerazioni tornò sui suoi i e si piegò sul poveretto. Fu sorpreso nel vedere che era giovane, vestito di una tunica, con, lo sguardo pieno di luce divina. Allora lo soccorse togliendosi la pelliccia e il berretto e, scuotendolo, disse:

- Metti questa roba, se non vuoi morire di freddo!

L’uomo non si mosse e allora il ciabattino lo aiutò a vestire gli indumenti e a calzare le scarpe di panno. Che fatica! Poi lo spinse innanzi urlando:

- Su, muoviti, per amor di Dio ! Vuoi seguirmi o precedermi?

Nessuna risposta. Solo due immensi occhi lo fissavano con intensa ammirazione... Il calzolaio diede all’uomo il bastone e con dolcezza lo invitò a camminare. Tutti e due s’avviarono lentamente verso casa, mentre lo sconosciuto veniva interrogato.

- Chi sei?

- Non te lo posso dire!

- Hai ricevuto del male?

- No! Dio mi punì perché lo meritavo... Queste misteriose parole non fecero alcuna luce e il ciabattino tacque, pensando che Dio disponeva così. Quando i due entrarono nella casa, videro che la buona massaia aspettava accanto al fuoco, dopo essersi affaccendata a nutrirei bambini e a coricarli. Ella fu sorpresa di notare il marito in compagnia di uno sconosciuto e subito pensò:

- E’ andato all’osteria e ha bevuto l’incassò con questo vagabondo.

Si avvicinò piena d’ira e il calzolaio non parlò, in attesa di un violento rimproverò. Il giovane, intanto, s’era fermato in mezzo alla stanza fiocamente illuminata e osservava la scena. Il marito disse alla moglie:

- Ebbene, cara, vuoi darci qualcosa da mangiare? Io sono digiuno.

La donna finse di non capire e allora il ciabattino s’apprestò alla tavola e invitò l’uomo a sedere. Poi riprese:

- Su, da brava, portaci quello che hai cotto per cena! Lo avesse mai detto! La moglie urlò:

- Darti da mangiare quando spendi i nostri risparmi all’osteria in compagnia di un beone? Io non ho nulla per due sciagurati come voi!

Allora egli non tollerò oltre e disse con fermezza:

- Smettila di gridare e chiedi chi è questo uomo!

- Dove sono i rubli, voglio i rubli! - continuò la forsennata piena di stizza.

- Eccoli!

Li mostrò alla consorte, che continuò ad inveire, ma la fece smettere del tutto, raccontando dove aveva trovato il povero giovane. La donna si meravigliò ed osservò il bel volto emaciato del forestiero. Due lacrime gli rigavano le guance, scendendo lentamente... Il cuore della insensibile consorte si aprì alla pietà ed ella, senza parlare, preparò una modesta cena che i due consumarono con grande appetito. Quando ebbero finito, la donna trasse da un cassetto una camicia e un paio di calzoni rattoppati e porse il tutto allo sconosciuto, dicendo:

- Prendi! E’ roba vecchia, ma non ho altro. Ora sdraiati sulla panca accanto ai miei figliuoli e riposa. Ne hai diritto!

Il giovane la fissò, ma un nodo alla gola gli impedì di parlare. Solo i suoi meravigliosi occhi lucevano divinamente ed esprimevano gioia e gratitudine. Anche la massaia si coricò, ma non poteva dormire perché non c’era più denaro in casa e il giorno dopo sarebbe mancato il pane. Neppure il marito dormiva e si agitava al suo fianco. Sottovoce la moglie disse:

- Che mangeremo, domani? La madia è vuota e c’è un ospite in più... Chi sarà costui?

- Non so - esclamò il marito. - E’ buono ed ho fiducia in lui...

- Dorme accanto ai nostri piccini e non sappiamo da dove venga...

- Non temere, donna mia! La carità non ha volto, né provenienza... Sii tranquilla...

Si addormentarono tutti e due d’un sonno lungo e ristoratore e si svegliarono di buon’ora. La massaia corse a cercar del pane e lo sconosciuto, vestito degli abiti vecchi, ma puliti, che gli avevano prestato, sedette al banco e guardò con tranquillità il ciabattino. Questi chiese:

- Sai un mestiere? E’ necessario lavorare per vivere!

- Non so fare nulla... - Allora? Come vivrai?

- Tutti vivono perché c’è la provvidenza di Dio che li aiuta...

- Come ti chiami?

- Michele!

- Michele - riprese il calzolaio - guarda... - e gli insegnò lentamente il modo di risuolare le scarpe. In brevissimo tempo il giovane sapeva già lavorar di spago e di trincetto ed era una meraviglia osservarlo!

La moglie del calzolaio, di ritorno dal giro di prestiti, rimase a bocca aperta a guardarlo. Nei giorni seguenti Michele lavorò senza sosta e raggiunse in abilità e sveltezza il maestro. Nella casa il benessere si faceva strada e lo sconosciuto sorrideva come un angelo e teneva sempre sulle ginocchia i piccini del ciabattino.

Questi si dedicò con il compagno non più alle riparazioni di calzature, bensì a fare scarpe ed era tanto rinomato che i clienti giungevano da lontano per essere serviti. Un giorno si presentò alla porta di casa una slitta, tirata da focosi cavalli e si vide scendere un ricco signore tutto impellicciato. La donna si affrettò a spalancare l’uscio e il calzolaio ricevette il cliente con umiltà e deferenza. Egli entrò da padrone e disse:

- Chi è il maestro calzolaio?

- Io - rispose il ciabattino.

- Mi occorrono subito, dico subito, due belle scarpe fatte con questo panno che viene dalla Francia. Guai a te se lo sciupi... E’ ottimo e deve durar molto... Intesi?

- Intesi - rispose il calzolaio. - Ma... Michele gli fece cenno di accettare e il ciabattino soggiunse:

- Sta bene! Domani avrete le scarpe e vi dureranno un anno!

- Diversamente ci sarà la prigione! - Il signore si diresse verso l’uscita e non si accorse che la porta era più bassa della sua statura ; dette un forte colpo contro il sopracciglio e si allontanò stropicciandosi la fronte e gridando come un ossesso.

Il calzolaio osservò:

- Che uomo forte! Ha rotto il calcinaccio e neppure una trave lo ucciderebbe.

A queste parole Michele sorrise misteriosamente. Il calzolaio gli affidò la preziosa stoffa per tagliarla e lo sconosciuto, armato di acuminate forbici, tagliò. La moglie del ciabattino fu sorpresa nel vedere che preparava calze anziché scarpe, ma non disse nulla. Michele non poteva sbagliare. Che significava tutto ciò? A mezzogiorno i due uomini smisero di lavorare perché il pranzo era pronto e il calzolaio volle vedere a che punto fossero le scarpe del signore. Gettò un grido:

- Michele, mi hai rovinato! Che hai tu fatto?

Non aveva finito di pronunziare la frase quando la porta si spalancò ed entrò il valletto del signore dicendo:

- Sono già pronte le scarpe del mio padrone?

- No - rispose il ciabattino. - Eravamo d’accordo per domani.

- Non c’è più bisogno - rispose il servitore. - Il signore è morto in slitta e se siete in tempo, fate le calze.

Michele prese le calze, le avvolse in un pacchetto che consegnò al valletto... Come aveva potuto intuire l’accaduto? Il calzolaio e la moglie lo guardarono stupefatti e sentirono una profonda commozione. Michele s’era rimesso al deschetto e sorrideva, come sempre, con espressione angelica. Da quel giorno trascorsero anni ed anni in grande abbondanza e serenità. Il lavoro era sempre soddisfacente e lo sconosciuto aveva portato nella casa il benessere e la gioia. Capitarono una mattina in bottega due belle bambine, condotte per mano da una donna. Una piccina camminava speditamente, l’altra, invece, era storpia ed avanzava con fatica. La donna disse:

- Mi occorrono scarpe per le due piccine.

- Non ne abbiamo mai fatte di così piccola misura, ma il mio lavorante è tanto bravo e saprà accontentarvi. E’ vero, Michele? - chiese il padrone.

- Sì - mormorò il giovane, rapito nella contemplazione delle graziose creature.

- Prendi due misure soltanto - soggiunse la donna sollevando la piccola storpia e facendola sedere sulle ginocchia - quella del piede sano e quella del piede malato. La prima misura servirà anche per l’altra piccina perché le bimbe sono gemelle...

La moglie del calzolaio allora chiese:

- Come mai si storpiò un piede a questa piccina? Cadde?

- No, lo storpiò la mamma nella nascita.

- Non sei tu la mamma? - continuò la massaia.

- No! Né mamma, né parente... Raccolsi le due gemelle rimaste orfane della madre e le allattai, essendomi morto un piccino di pochi mesi. Da allora le allevai come fossero figlie mie e da esse non potei più separarmi. Che avresti fatto, tu, sorella?

La moglie del ciabattino s’asciugò gli occhi e volle che la donna le narrasse tutti i particolari della vita delle piccine. Michele intanto prendeva le misure dei piedini e ascoltava in silenzio. Quando le nuove clienti si allontanarono, la moglie del calzolaio esclamò:

- Iddio è sempre presente!...

Michele alzò lo sguardo al cielo e sorrise con espressione divina. Il suo volto era talmente luminoso che i due coniugi ne rimasero abbagliati e il calzolaio sussurrò:

- Michele, fratello...

Il giovane si scosse, volse il viso verso i due e, togliendosi il grembiule, disse:

- Ora me ne andrò! Il signore mi ha perdonato.

- Va’ pure, fratello, ma desidero sapere tre cose. Tu sorridesti la prima volta, quando mia moglie ti preparò la cena; la seconda, quando tagliasti al ricco signore calze invece di scarpe, la terza osservando le due gemelle. Perché? Parla, palla, parla, fratello...

Michele, allora, raccontò la sua meravigliosa storia:

- Ero un angelo e un giorno il Signore mi mandò sulla terra perché gli portassi l’anima di una povera creatura piena di guai e di sofferenze.

Discesi e trovai un’infelice che languiva in un letto, accanto a due gemelle nate

da pochi giorni. Quando mi vide, ella comprese che mi mandava Dio per ricevere la sua anima, e tutta disperata esclamò:

- Angelo di Dio, mio marito è morto e non c’è più nessuno della famiglia. Se mi porti con te, chi bada alle mie creature? Moriranno in abbandono...

Mi commossi e pensai:

- La poverina ha ragione!

Ripartii verso il cielo per riferire l’accaduto al Signore ed egli non accolse bene le mie parole, anzi disse:

- Va’ e portami l’anima di quella donna. Quindi ritornerai sulla terra e imparerai, vivendo fra gli uomini, le tre verità divine: prima, ciò che essi possono fare; seconda, ciò che non possono fare; terza, ciò che li fa vivere...

Obbedii, discesi lentamente, presi l’anima della donna e la portai a Dio, poi le mie ali si appesantirono e piombai sulla terra, davanti alla cappella, dove tu, ciabattino, mi trovasti in quella cruda notte invernale...

I due coniugi lo ascoltarono con religioso raccoglimento... L’angelo continuò ad esporre gli avvenimenti comuni e da questi brillò la grande luce delle verità divine. Gli uomini possono fare il bene, se vogliono, perché Dio li ha creati della sua stessa Sostanza. Non possono disporre della propria vita perché essa appartiene al Signore. Debbono avere fede nella Provvidenza che non manca mai

e appare quando è il momento, in tutta la sua grandezza. Per le creature della terra c’è l’assistenza divina che le unisce in un palpito d’amore e di speranza. Questo compresero i due buoni sposi e si inginocchiarono pregando, mentre la stanza si riempiva di luce... L’Angelo Michele era scomparso e la luce si affievoliva a poco a poco... Si udiva soltanto il lieve respiro dei piccini, addormentati sulla panca, alla fioca luce d’una lampada. Il calzolaio e la moglie si avvicinarono alle loro creature, le accarezzarono dolcemente e sentirono accanto la presenza di Dio.

Il giudice saggio

“Perfino il re parti per andare a conoscere il giudice saggio: e ne sperimentò personalmente la saggezza”

Un re aveva sentito dire che in una città del suo vastissimo regno c’era un giudice a cui i ricorrenti non erano mai riusciti a farla, perché aveva sempre scoperto la verità.

- Possibile? - domandò.

- Dicono questo, Maestà.

Si decise ad andare a vedere di persona per il piacere, se fosse stato vero, di conoscere un saggio.

Si travestì da mercante, non volle nessuna scorta e col suo cavallo preferito si diresse dove viveva il giudice. Vi giunse di mattina.

- Bella, questa mia città, viaggio troppo poco nei miei possedimenti - stava dicendo fra sé, quando un malato gli si avvicinò e gli tirò il mantello.

- Che vuoi?

- Signore, fatemi un poco di carità, vedete come sono ridotto?

Gli diede qualche cosa, ma l’infermo lo tirò ancora per il mantello.

- Adesso che cosa vuoi? Non te l’ho già fatta l’elemosina?

- E’ vero, mio signore. Vorrei che mi faceste il piacere di condurmi fino alla piazza. Sono così debole che non mi reggo più.

- Monta - gli fece il finto mercante; e lo aiutò.

Arrivati in piazza, il re discese dal cavallo; il mendicante, invece, si accomodò meglio nella sella e infilò bene i piedi nelle staffe.

- Perché non scendi?

- E perché dovrei scendere? Il cavallo è mio.

- Tuo? - allibì il sovrano a quella sfrontatezza. - Tuo il cavallo? Ma cosa dici? E lì cominciarono a leticare.

- Se non sei persuaso, vieni dal giudice.

- Sì, sì, andate dal giudice - consigliarono i presenti. - Se c’è lui, la verità salta fuori di sicuro.

E così fecero.

Che folla c’era in tribunale! Però c’era ordine e silenzio e in tutti un comportamento rispettoso che faceva impressione. Eccolo là il giudice, calmo e serio. Non faceva dello spirito, né dell’ironia, profittando della sua posizione di privilegio sui litiganti; amministrava la giustizia con grande dignità e benevolenza e non badava ad altro. Teneva in mano una lista e secondo quella chiamava. Davanti a lui c’erano già tre persone : un sapiente, un contadino e una donna. Il sapiente diceva:

- Questa donna, signore, è mia moglie.

- Menzogna - ribatteva il contadino - sono io il marito di questa donna. Ma guarda che coraggio! Sostiene che è la sua - e si voltava in giro per raccogliere consensi.

Il giudice stette alquanto pensieroso, poi disse:

- Lasciate questa donna da me. Ritornerete domani per la sentenza.

Subito dopo, furono chiamati un mercante di olio e un macellaio, il primo tutto unto, il secondo tutto insanguinato. Il macellaio teneva strette in pugno delle monete ; l’altro lo stringeva al polso.

- Cosa c’è? - domandò il giudice.

- C’è - disse il macellaio - che io ho comperato dell’olio da questo qui. Stavo tirando fuori il denaro dal mio borsellino, quando mi ha preso la mano per rubarlo. I soldi sono i miei.

- Neanche per sogno - saltò su il mercante d’olio - Quando gli ebbi riempita la mezza, mi chiese di cambiargli un pezzo d’oro.

- Sì - dissi - credo proprio d’averne per cambiare.

Misi sul banco le monete, lui le prese e stava per fuggire, ma io l’ho agguantato e l’ho condotto qui. Anche questa volta il giudice tacque a lungo.

- Lasciate il denaro - ordinò. - Tornerete domani.

Finalmente venne il turno del re e del mendicante per via del cavallo. Il re raccontò il fatto, l’infermo lo negò:

- Ma che scherzavamo? - fece indignato. L’ho condotto dove voleva lui e poi per gratitudine si vorrebbe impadronire della mia cavalcatura? Come potrei farne senza, debole come sono?

- Lasciate il cavallo da me e venite domani.

Ora queste tre cause avevano interessato moltissimo. Erano tutti curiosi di vedere come se la sarebbe cavata il giudice; sicché l’indomani si era radunata in tribunale una folla grandissima. Il sapiente e il contadino furono chiamati per primi.

- La donna è tua - disse il giudice al sapiente. - Siano date cinquanta bastonate al contadino che voleva ingannare.

E gliele diedero lì per lì davanti a tutti. Aveva voglia, quello, di strillare; finché non furono cinquanta non smisero. Fu la volta del macellaio e del mercante di olio. Al primo furono restituiti i denari, al secondo furono dati e contati altri cinquanta colpi di bastone.

- Tocca a voi, fatevi avanti - disse il giudice al re e all’infermo. - Sapreste riconoscere in mezzo ad altri venti il vostro cavallo?

- Io sì - affermò il re.

- Anch’io - rispose il mendicante.

- Seguimi - ingiunse il giudice al sovrano travestito - e lo condusse in una scuderia dove erano venti cavalli.

Senza esitare il re riconobbe il cavallo e gli si apprestò a carezzarlo.

- Vieni tu - disse il giudice al mendicante.

Questi entrò nella scuderia, riconoscendo subito il cavallo che andò a toccare.

Tornarono al tribunale; la folla era in ansia per la sentenza. Il giudice si levò e, rivoltosi al re, sentenziò:

- Il cavallo è tuo, puoi ritirarlo. Siano date cinquanta bastonate al bugiardo che voleva sottrartelo.

Questo a, il giudice era già uscito dal tribunale diretto a casa sua, quando si accorse di essere seguito. Si voltò seccato:

- Che vuoi? - chiese al re - Non sei soddisfatto del mio giudizio? Hai pure ottenuto il tuo cavallo.

- L’ho ottenuto e sono soddisfatto. Anzi ti ammiro moltissimo. Però vorrei che tu mi dicessi come hai fatto a sapere che la donna era moglie del sapiente, il denaro di proprietà del macellaio, il cavallo mio.

- Beh, - rispose - per la donna è stata una cosa da niente. Questa mattina le ho detto: “Riempimi il calamaio”. Lo ha riempito subito con grande sicurezza. Si vede che era abituata a quella faccenda. La moglie di un contadino non avrebbe saputo da che parte cominciare.

- E gli altri due?

- Non hai visto com’era unto il mercante d’olio nel vestito e nelle mani?

-Sì, l’ho notato.

- Ebbene, io ho messo le monete nell’acqua. Se fossero state davvero del mercante d’olio, ne sarebbe venuta a galla qualche gocciolina. Invece niente. Allora ho concluso che erano del macellaio.

- E per me come hai fatto?

- La cosa per te è stata più difficile. Sapevo che tutti e due avreste riconosciuto il cavallo, ma io non ho badato a questo, sono stato attento a come si sarebbe comportata la bestia quando voi vi avvicinavate. Il cavallo ha riconosciuto te, perché si è voltato dalla tua parte e ti ha fatto festa, mentre quando gli si è accostato l’infermo ha abbassato un’orecchia e tirando la cavezza ha cercato di scartarlo.

- Sei davvero molto saggio, proprio come mi avevano detto che eri. Io non sono

un mercante, sono il tuo re. Chiedimi quello che vuoi e sarai accontentato.

- Maestà, i vostri elogi mi hanno ricompensato lautamente. Non chiedo altro rispose il giudice.